Pubbl. Gio, 11 Feb 2016
Gli interessi finanziari dell’Unione prevalgono sulla disciplina della prescrizione del reato (e sul principio di legalità)
Modifica paginaNell’interpretazione della corte di giustizia, dalla disposizione di cui all’art. 325 1 e 2 TFUE discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p. anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato e per la ragionevole durata del processo. Nota a: Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, Taricco ed altri, 8 settembre 2015, causa C‑105/14.
Sommario: I. Il caso – II. Le conclusioni dell’Avvocato Generale – III. La decisione della Grande Sezione – IV. La questione della violazione del principio di legalità – V. Il principio espresso dalla Grande Sezione.
Con la pronuncia in esame la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che la normativa italiana in tema di prescrizione, impedendo, nei casi di frode grave in materia IVA, l’inflizione effettiva e dissuasiva di sanzioni, a causa di un termine complessivo di prescrizione troppo breve, potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione.
La Corte di Giustizia, con la sentenza in esame, pare avere concesso ampi poteri di disapplicazione di una garanzia fondamentale costituzionalmente rilevante, e pare altresì evidenziare una pericolosa deriva anti-garantistica del diritto dell'UE.
I. Il Caso
Nei confronti di taluni soggetti era pendente innanzi al Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Cuneo un procedimento penale per associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di IVA, attraverso il noto meccanismo delle c.d. "frodi carosello".
Secondo la tesi accusatoria, essi avrebbero in tal modo realizzato, negli esercizi fiscali dal 2005 al 2009, un'evasione dell'IVA in relazione all'importazione di champagne per un importo pari a diversi milioni di euro.
Con ordinanza del 17 gennaio 2014, il g.u.p., rilevato l'intervenuto decorso della prescrizione nei confronti di uno degli imputati, constatava altresì che nei confronti di tutti gli altri imputati la prescrizione sarebbe maturata nel termini di sette anni e mezzo dalla data di cessazione dell'associazione (per ciò che concerne i meri partecipi) o, al massimo, in quello di otto anni e nove mesi (per ciò che concerne i capi).
In ogni caso, tutti i reati, ove non ancora prescritti, lo sarebbero stati entro il febbraio 2018: e la previsione del g.u.p. (tenuto conto della fase processuale nella quale il processo si trovava alla data dell'ordinanza) era che entro tale data sarebbe stato impossibile pervenire ad un accertamento definitivo.
Il giudice sottoponeva allora una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, chiedendo se la disciplina in materia d termine massimo di prescrizione in presenza di atti interruttivi di cui agli artt. 160 e 161 cod. pen. produca effetti compatibili con una serie di norme del TFUE e con una disposizione della direttiva 2006/112/UE in materia di IVA.
II. Le Conclusioni dell’Avvocato Generale
Pur ritenendo irrilevanti le disposizioni di diritto dell'Unione invocate dal giudice del rinvio rispetto all’essenza contenutistica della questione prospettata, l’Avvocato Generale riformulò la questione pregiudiziale sollevata dal giudice nazionale riducendola ai suoi termini essenziali ed individuandone altresì i corretti fondamenti normativi.
La questione pregiudiziale “reale” è “se il diritto dell’Unione imponga ai giudici degli Stati membri di disapplicare determinate disposizioni del loro diritto nazionale relative alla prescrizione dei reati, al fine di garantire una repressione efficace dei reati fiscali”.
Repressione imposta, secondo l’A.G., non solo dall’impianto generale della direttiva 2006/112/UE alla luce del principio di leale cooperazione di cui all’art. 4 par. 3 TUE, ma anche dall’art. 325 TFUE (a tenore del quale gli Stati membri sono pertanto tenuti a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione «con misure dissuasive ed effettive»), nonché dall’art. 2 par. 1 della Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea che impone espressamente agli Stati firmatari la previsione di sanzioni penali, che nei casi di frodi gravi devono altresì includere sanzioni privative della libertà.
- La tesi dell’A.G. è quella per la quale i giudici nazionali sono tenuti a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, in primo luogo mediante l’interpretazione del proprio diritto in maniera conforme al diritto UE; ovvero, laddove tale interpretazione conforme non sia possibile, “disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”[1].
Ciò che però, nel caso di specie, risulta essere una novità[2], è la circostanza per la quale la disposizione della legge interna incompatibile con il diritto UE è atta a garantire un effetto favorevole per l’imputato: la dichiarazione di prescrizione del reato. La sua disapplicazione, in ragione della sua incompatibilità con il diritto UE, comporterebbe invece un effetto sfavorevole per l’imputato, determinandone la possibile dichiarazione di penale responsabilità e la consequenziale inflizione della pena.
Al fine di ovviare al “problema”, lo stesso Avvocato Generale ha sostenuto altresì la tesi per la quale le norme in materia di prescrizione (che si tratterebbe qui di disapplicare) hanno natura processuale, disciplinando semplicemente le condizioni per la perseguibilità di reati compiutamente definiti dalla legge sostanziale nazionale, che continuerebbe a disciplinare in maniera esclusiva la responsabilità degli imputati.
III. La decisione della Grande Sezione
La Corte ha accolto la richiesta dell'Avvocato Generale, concordando anzitutto nel ritenere irrilevanti le norme di diritto UE invocate dal giudice del rinvio, ma focalizzando, per quanto qui di interesse, l'attenzione sulle norme esaminate dall'Avvocato generale.
- Il principio di leale cooperazione
Richiamando il proprio precedente Fransson[3], la Corte osserva che dalla direttiva 2006/112/CE, alla luce del principio di leale cooperazione enucleato all'art. 4 par. 3 TUE, emerge a carico degli Stati membri non solo l'obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma altresì quello di anche lottare contro frodi in materia di IVA.
Il fondamento logico di tal affermazione lo si ricava, in particolare, dall'art. 325 parr. 1 e 2 TFUE, che impegna gli Stati membri a "lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell'Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell'unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari”.
Richiamando quanto affermato in precedenza nella sentenza Fransson, tra i primigeni interessi finanziari dell'Unione rientra anche l'interesse alla riscossione delle aliquote agli imponibili IVA determinati secondo le regole dell'Unione stessa.
La nozione di «frode» è definita all’articolo 1 della Convenzione PIF come «qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa (...) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale [dell’Unione] o dei bilanci gestiti [dall’Unione] o per conto di ess[a]». Tale nozione include, di conseguenza, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Questa conclusione non può essere infirmata dal fatto che l’IVA non sarebbe riscossa direttamente per conto dell’Unione, poiché l’articolo 1 della Convenzione PIF non prevede affatto un presupposto del genere, che sarebbe contrario all’obiettivo di tale Convenzione di combattere con la massima determinazione le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
In ordine a ciò, in tutti i quei casi in cui lo Stato fallisce nella riscossione dell'IVA crea un pregiudizio non indifferente per le finanze dell'Unione.
Ciò posto, la Grande Sezione rileva che nel caso di specie il procedimento penale riguarda proprio una frode in materia di IVA, peraltro dell'importo di vari milioni di euro, lesiva come tale anche degli interessi finanziari dell'Unione.
- L’esistenza della deroga all’art. 161 c.p. nel diritto interno
Rileva altresì come lo stesso giudice del rinvio ha sollevato la preoccupazione che tale frode potesse restare impunita per effetto della vigente disciplina della prescrizione, e in particolare per effetto del meccanismo di diritto interno secondo cui, anche in caso di atti interruttivi, il termine prescrizionale non può essere aumentato più di un quarto della sua durata iniziale.
Ecco che la Grande Sezione ritiene lapidariamente che una simile situazione determinerebbe l'assenza di conseguenze sanzionatorie nel caso concreto, in frontale violazione degli obblighi UE appena menzionati.
Ciò anche in virtù del fatto che lo stesso ordinamento nostrano non assicura, a parere della Corte, eguale trattamento alle frodi poste in essere contro imposte meramente nazionali rispetto a quelle (anche) di pertinenza dell'Unione (come l'IVA).
Tale assunto si fonda sulla circostanza per la quale il termine massimo complessivo della prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p. non opera nel caso di associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi di cui all'art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, mentre opera per le associazioni finalizzate alle frodi in materia di IVA. Tale discrasia, sarebbe peraltro espressamente vietata dal par. 2 dell'art. 325 TFUE, a tenore del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare "per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari". - Il compito del giudice del rinvio
Il problema certamente più delicato (alla luce delle premesse storiche) affrontato dalla Grande Sezione concerne le conseguenze che il giudice del rinvio, e in generale ogni giudice nella sua stessa posizione, è chiamato a trarre dalla verifica di tali profili di violazione del diritto UE.
La Corte U.E. si focalizza, com’è chiaro, esclusivamente sull'art. 325 TFUE, trattandosi di norma di diritto primario che pone "a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione".
L'effetto diretto dei primi due paragrafi dell'art. 325 TFUE, dotati di primazia rispetto al diritto nazionale, comporta qui la conseguenza “di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente", nel caso di specie rappresentata dalle citate norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p..
In ogni caso, la Grande Sezione non pretende la disapplicazione dei termini di prescrizione previsti dall'art. 157 cod. pen., che in quanto tali vengono giudicati del tutto compatibili con gli obblighi UE; né tantomeno la disapplicazione dell'art. 160 c.p. nella parte in cui disciplina, in linea generale, gli atti interruttivi ed i loro effetti (disponendo in particolare che, dopo ogni atto interruttivo, la prescrizione comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione).
A dover essere disapplicata, chiariscono i giudici eurocomunitari, è soltanto l'ultima proposizione dell'ultimo comma, successiva al punto e virgola,
Ove si dispone che "in nessun caso i termini stabiliti nell'articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all'articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale".
Rebus sic stantibus, il termine ordinario di prescrizione ricomincerà da capo a decorrere dopo ogni atto interruttivo, anche al di fuori del procedimenti attribuiti alla competenza della procura distrettuale dove già vige questa regola, senza essere vincolato dai limiti massimi stabiliti dal successivo art, 161 cod. pen. in maniera differenziata per delinquenti primari o recidivi.
- La gravità della Frode
Ad ogni modo, desta comunque perplessità il fatto che la frode di cui si controverte e che legittima (rectius: obbliga) la disapplicazione sia "grave", cosi come quella oggetto del giudizio di rinvio, che riguardava l'evasione di milioni di euro.
La Grande Sezione, al riguardo, non si preoccupa di fornire alcuna indicazione quantitativa circa la soglia minima di gravità in presenza della quale per il giudice sussiste un "obbligo di disapplicare le citate norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p..
Spetterà quindi al giudice penale italiano il compito di delimitare l'ambito di applicazione della norma europea; dopo tutto, è precipuo compito della giurisprudenza sciogliere tali nodi esegetici per determinare in quali casi è necessario operare la disapplicazione richiesta dalla Corte europea secondo i criteri enunciati della sentenza.
Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale
IV. La questione della violazione del principio di legalità
Come anticipato dall’Avvocato Generale, la disposizione della legge interna incompatibile con il diritto UE è atta a garantire un effetto favorevole per l’imputato: la dichiarazione di prescrizione del reato. La sua disapplicazione, in ragione della sua incompatibilità con il diritto UE, comporterebbe invece un effetto sfavorevole per l’imputato, determinandone la possibile dichiarazione di penale responsabilità e la consequenziale inflizione della pena.
La Corte, quindi, ha affrontato il problema se la disapplicazione di una norma del codice penale in materia di prescrizione contraria al diritto UE, con effetti sfavorevoli per l'imputato, violi il principio di legalità in materia penale, secondo cui nessuna responsabilità penale può sussistere se non in forza della legge (legge costituita dal combinato disposto degli artt. 160 e 161 c.p., di cui la Corte U.E. richiede la disapplicazione).
Orbene, la Corte perviene alla stessa conclusione negativa dell’Avvocato Generale: il principio di legalità non è in alcun modo vulnerato.
Punto di partenza è l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione (CDFUE), che in forza dell'art. 52 CDFUE recepisce il nullum crimen nell'estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU.
Secondo tale giurisprudenza[4] la materia della prescrizione del reato attiene in realtà alle condizioni di procedibilità del reato, e non è pertanto coperta dalla garanzia del nullum crimen, tanto che persino l'applicazione a fatti già commessi ma non ancora giudicati in via definitiva del termine di prescrizione ad opera del legislatore deve ritenersi compatibile con l'art. 7, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un fatto e con una pena previsti dalla legge come reato al momento della sua commissione.
La disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana.
Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’articolo 49 della Carta.
Infatti, non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale, né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto.
Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste.
La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’articolo 49 della Carta, avvalora tale conclusione. Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti[5].
V. Il Principio espresso dalla Grande Sezione
La Corte di Giustizia dell'unione europea ritiene illegittima dal punto di vista euro-unitario lo specifico combinato disposto degli artt. 160 e 161 Cod. pen.
Ad ogni modo, la CGUE, come anticipato, non censura l'intero assetto normativo della prescrizione ma si limita a delegittimare la previsione di un termine massimo pur in presenza di atti interruttivi.
La conclusione, per il giudice europeo, è quella di disapplicare tale normativa contrastante con le norme del Trattato di Lisbona.
Dopo il caso Niselli (in cui la CGUE aveva suggerito al giudice nazionale di disapplicare l'interpretazione autentica di rifiuto e condannare l'imputato applicando la nozione di rifiuto vigente al momento dei fatti: Corte di Giustizia, 11 novembre 2004, C-457/02), questa sentenza è la seconda che prevede, almeno così apertamente, risvolti contra reum.
Nel caso Niselli, il principio di legalità non era violato, perché, al momento del fatto, era vigente la disciplina penale più sfavorevole, poi modificata in mitius (ma illegittima per il diritto europeo).
Nel caso oggetto del presente giudizio, la legalità penale non è violata in quanto la disciplina della prescrizione (o almeno la disciplina della interruzione della prescrizione) ha, per la CGUE, natura processuale. La legalità penale riguarderebbe insomma l'incriminazione e la garanzia di libere scelte di azione da parte del cittadino, ma non avrebbe tale copertura l'affidamento del cittadino «che le norme applicabili sulla durata, il decorso e l'interruzione della prescrizione debbano necessariamente orientarsi sempre alle disposizioni di legge in vigore al momento della commissione del reato».
Alla luce di quanto sin qui esposto, la Corte ha dichiarato che "una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi (…) è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell'Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall'articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE".
Note e riferimenti bibliografici
[1] Il principio enunciato dall’Avvocato Generale è ampiamente consolidato nella giurisprudenza della Corte, come dimostrano le sentenze citate dall’Avvocato generale, a partire dalla storica Simmenthal, Sentenza 9 marzo 1978, causa C 106/77, passando per la più recente Kücükdeveci, C-555/07.
[2] Corte di Giustizia, 11 novembre 2004, Niselli, C-457/02;
[3] Corte di Giustizia, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, , Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, C-617/10;
[4] Di particolare rilievo in questo senso la sentenza della Corte E.D.U., nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, S 149;
[5] Vedasi in tal senso, Corte E. D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149, CEDU 2000‑VII; Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570;