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Pubbl. Gio, 28 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Revirement della Cassazione: il falso valutativo integra (ancora) il reato di false comunicazioni sociali

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Fabio Zambuto


A seguito della novella dell´art. 2621 c.c., ad opera della l. n. 69 del 2015, il falso c.d. valutativo o qualitativo rientra ancora nella sfera di punibilità delle false comunicazioni sociali? Secondo una precedente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Sentenza Crespi) la risposta è negativa. Al contrario, un recente arresto propende per una differente soluzione.


Sommario: 1. Premessa: Gli elementi di novità delle “false comunicazioni sociali” – 2. La tesi dell’esclusione del falso valutativo dall’area del penalmente rilevante – 2.1. Argomento di natura letterale – 2.2. Argomento teleologico comparatistico – 3. Il revirement della Suprema Corte: il falso valutativo integra il reato di false comunicazioni sociali – 3.1. Argomento letterale: la natura “concessiva” del sintagma – 3.2. Argomento logico-sistematico: le distinte nozioni di “fatti” - “materiali” - “rilevanti” – 3.3. Il nodo della questione: la falsa rappresentazione del fatto oggetto di valutazione – 3.4. La ratio riformatrice quale argomento fondante l’iter motivazionale – 3.5. Il principio di diritto – 4. Conclusioni

1. Premessa: gli elementi di novità delle “false comunicazioni sociali”

Con la Legge 27 maggio 2015, n. 69, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 maggio 2015 n. 124, sono state introdotte rilevanti modifiche alle “Disposizioni penali in materia di società e consorzi” contenute nel Codice Civile[1].

Fine precipuo della riforma menzionata è quello di prevedere una legislazione in grado di regolare ed eventualmente sanzionare in modo diretto ed efficace la cd. “criminalità d’impresa”, e, nello specifico, le condotte riconducibili alle fattispecie di falsità.

Con la l. n. 69, il legislatore ha inteso semplificare il quadro normativo di riferimento in materia di “false comunicazioni sociali” (comunemente chiamato “falso in bilancio”), contenuto negli articoli 2621-2622 del Codice Civile[2], ed ha altresì affrontato numerose criticità sollevate nel corso degli anni dalla dottrina[3] e dalla giurisprudenza.

La riforma ha inciso fortemente nella modifica delle fattispecie penali incriminatrici, sia in termini di cornice edittale delle pene previste, sia in ordine a molti degli elementi tipici delle fattispecie.

L’attuale articolo 2621 c.c., già oggetto di precedenti interventi[4], mira a sanzionare il comportamento di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori che “espongono consapevolmente fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti” nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, a condizione che tali comunicazioni siano imposte dalla legge.

 Come è chiaro, la norma tende ad impedire che i sopra menzionati soggetti traggano un ingiusto profitto da una “falsa” (lato sensu, anche incompleta o parziale) descrizione della situazione patrimoniale, economica, o finanziaria della società.

Requisito fondamentale è che tale falsa rappresentazione sia “concretamente” idonea a indurre in errore i destinatari della comunicazione falsificata.

La "novella" ha profondamento inciso sulla precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali[5], prima articolata - in una sorta di progressione criminosa - in due distinte ipotesi (la prima, prevista dall'originario art. 2621 c.c., in termini di reato contravvenzionale; la seconda come reato di danno)[6]. Sono, ora, previste due distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di società non quotate (odierno art. 2621 cod. civ.) o quotate (nuovo art. 2622 cod. civ.), entrambe concepite come delitti di pericolo, punibili di ufficio.

Dal punto di vista degli elementi tipici della fattispecie, è stato modificato anche l’elemento psicologico richiesto per l’integrazione della condotta.

Difatti, è stato eliminato l’inciso “con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico” sicché il dolo che la legge richiede sia verificato, pur restando specifico, non è più caratterizzato da alcun elemento di intenzionalità ingannatrice.

In ordine alle modifiche apportate alla condotta tipica, da un lato è stata arricchita la locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero” dell’aggettivo “rilevanti” (per quanto riguarda la condotta attiva di esposizione di tali fatti), dall’altro, è stata volutamente utilizzata la medesima formulazione in relazione alla condotta omissiva che prima faceva riferimento al termine “informazioni”.

Sono state eliminate le soglie quantitative di rilevanza penale della condotta (già ricondotte dalla giurisprudenza costituzionale a elementi costitutivi del fatto), mediante la reviviscenza del cosiddetto “falso qualitativo” (che prescinde da una specifica incidenza sulla situazione economica della società)[7].

E’ importante poi sottolineare, per i fini che si vedranno, come la Legge 69/2015 abbia altresì eliminato ogni riferimento alle “valutazioni” di bilancio, non avendo riportato nei testi normativi sostituiti ai precedenti l’inciso “ancorché oggetto di valutazione”.

La formulazione ante riforma faceva rientrare nell’area del penalmente rilevante tutti i “fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazione”; al contrario, il novellato testo normativo fa esclusivo riferimento ai “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, con ciò causando non pochi problemi pratici e interpretativi.

Pare fondato ritenere che in posizione centrale delle condotte tipiche vi sia ancora il concetto di “fatti materiali”, ma, a differenza della previgente formulazione è venuto meno l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”[8].

I “fatti materiali” – oggetto nei tre veicoli (bilanci, relazioni, comunicazioni sociali) della falsità commissiva/omissiva – devono essere connotati altresì sul piano oggettivo della tipicità dal requisito della “idoneità a indurre in errore” terzi[9], e sul piano soggettivo della tipicità, dal requisito della “consapevolezza” e dalla finalità di conseguire un “ingiusto profitto”[10].

Altro elemento di novità della l. 69/2015 consiste nell’introduzione di due nuove disposizioni tese a garantire un’effettiva progressione sanzionatoria.

 L’articolo 2621-bis c.c. pare così composto da due differenti previsioni normative.

Al comma uno è stata introdotta un’autonoma fattispecie di reato che guarda, in ossequio al trend degli ultimi anni, ai “fatti di lieve entità”, da valutarsi “tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta”.

La seconda previsione, contenuta nel comma 2, dispone la presenza di un’ulteriore autonoma fattispecie di reato, i cui destinatari sono i piccoli imprenditori; in questo caso si applicano le medesime sanzioni previste in caso di “fatti di lieve entità”[11].

Alle condotte integranti le fattispecie di cui agli articoli 2621 e 2621-biss, sarà poi possibile applicare la causa di non punibilità per “particolare tenuità del fatto” (rectius: dell’offesa) contenuta nell’articolo131-bis c.p.

Come sopra accennato, la Legge 69/2015 ha eliminato l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, precedentemente riferito ai fatti materiali, oggi “rilevanti”, non rispondenti al vero o omessi, oggetto della falsa comunicazione.

Tale assenza, in meno di un anno dall’entrata in vigore della legge, ha già fatto registrare un contrasto tra le Sezioni della Suprema Corte di Cassazione. La questione, più nello specifico, risulta essere questa: se, a seguito della novella dell'art. 2621 c.c., ad opera della l. n. 69 del 2015, il falso c.d. valutativo o "qualitativo" rientri, tuttora, nella sfera di punibilità delle false comunicazioni sociali.

2. La tesi dell’esclusione del falso valutativo dall’area del penalmente rilevante

Punto di partenza è la sentenza del 30 luglio 2015 (udienza 16 giugno 2015), n. 33774 con la quale la Corte ha puntualmente analizzato la questione relativa alla scomparsa dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni” dagli articoli 2621 e 2622 c.c.

Secondo i Giudici di legittimità, l’espunzione dal testo normativo ha comportato una vera e propria abrogazione della rilevanza penale delle valutazioni estimative. In conseguenza di ciò, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna per bancarotta a carico dell’imputato “perché i fatti non sono più previsti dalla legge come reato” ritenendo, cioè, che a seguito dell’eliminazione dell’inciso menzionato, i segmenti di bancarotta riconducibili ai falsi in bilancio derivanti da valutazioni non debbano essere più ricompresi nella fattispecie.

L’ordine di argomenti utilizzati dalla Cassazione per giungere a tale conclusione è di duplice natura.

2.1. Argomento di natura letterale

Il primo, basato sul dato letterale, ha evidenziato la necessità di interpretare la norma penale in conformità all’articolo 12 delle Disposizioni sulla Legge in Generale, in ragione del quale le valutazioni non possono essere ricomprese o fatte coincidere con i “fatti materiali”, in virtù dell’esigenza di attribuire a ciascuna norma il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole”[12].

La Corte poi ha sottolineato la necessità di garantire il principio di tassatività posto a presidio dei consociati ed a beneficio degli operatori di mercato, così come anche quello di certezza e di chiarezza della condotta costituente la fattispecie penalmente rilevante.

Sui falso in bilancio derivante da valutazioni – osserva la Cassazione – “è del tutto evidente che l’adozione dello stesso riferimento ai fatti materiali non rispondenti al vero, senza alcun richiamo alle valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell’ambito della descrizione della condotta omissiva consente di ritenere ridotto l’ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti falsi valutativi”.

“Tanto più che i testi riformati degli artt. 2621 e 2622 c.c. si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell’art. 2638 c.c. (Ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza), peraltro proprio a precisazione contenutistica della stessa locuzione “fatti materiali non rispondenti al vero”». «Una lettura ancorata al canone interpretativo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, non può trascurare la circostanza dell’inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie con una non giustificata differenziazione dell’estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono appunto quelli degli artt. 2621 e 2622 c.c. da una parte e art. 2638 c.c. dall’altro; norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono destinate a sanzionare la frode nell’adempimento dei doveri informativi”.

2.2. Argomento teleologico comparatistico

Con il secondo argomento, la Suprema Corte ha sostenuto che debba essere data una certa rilevanza alla differente formulazione degli articoli 2621 e 2622 rispetto ad una norma come quella contenuta nell’articolo 2638 c.c. in materia di ostacolo alle funzioni di vigilanza.

In particolare, secondo i giudici di legittimità, il fatto che il Codice attualmente includa un articolo - il 2638 - ove è ancora presente la locuzione “ancorché oggetto di valutazione” induce ragionevolmente a ritenere che, non potendo pensarsi ad un errore del legislatore, possa aversi la rilevanza delle valutazioni contabili solo nel caso in cui esse siano menzionate esplicitamente.

La Suprema Corte, ha dunque evidenziato una riduzione dell’ambito di operatività degli artt. 2621 e 2622 c.c., in forza del mancato mantenimento della locuzione “ancorché oggetto di valutazioni”, che non darebbero più rilevanza alle falsità ottenute per mezzo di “operazioni” sulle valutazioni contabili.

3. Il revirement della Suprema Corte: il falso valutativo integra il reato di false comunicazioni sociali

Se la Sentenza del 30 luglio 2015 n. 33774 inaugurò l’intervento nomofilattico sulla novella legislativa facendo da capostipite alla prassi interpretativa, la Sentenza della V Sezione n. 890 del 12 gennaio 2016 rappresenta il noto e celebre revirement.

Con la Sentenza in commento, infatti, la Suprema Corte si è espressa in modo diametralmente opposto affermando la possibilità per la quale il falso valutativo sia idoneo ad integrare (ancora) il reato di false comunicazioni sociali. Nessuna abrogazione, dunque, ma solo un intervento “ortopedico”, una mera espunzione di “orpelli” ridondanti che non inficiano nella essenza della fattispecie incriminatrice.

Nel caso di specie, all’indagine testuale vengono associati altri due criteri, uno logico-sistematico e l’altro teleologico, al fine di una compiuta focalizzazione dell'impatto della novella sull'assetto normativo preesistente.

3.1. Argomento letterale: la natura “concessiva” del sintagma

Sul primo versante, la Corte, criticando aspramente la tecnica legislativa e la non sempre ineccepibile formulazione della struttura espositiva,  notoriamente frutto non solo di scarso tecnicismo, ma anche della complessità della stessa procedura di elaborazione del testo delle leggi,  ha affermato che nel caso di specie, non sembra revocabile in dubbio che la rimozione dal testo previgente della locuzione "ancorché oggetto di valutazioni" non possa, di per sé, assumere alcuna decisiva rilevanza.

Quella in esame, secondo il Collegio, è una tipica proposizione "concessiva" introdotta dalla congiunzione (ancorché) notoriamente equipollente ad altre tipiche e similari ("sebbene", "benché", "quantunque", "anche se" et similia).  Tali proposizioni hanno finalità meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale.

In ordine alla fattispecie sottesa al caso di specie, il suo precipuo significato si coglie in funzione della precisazione che nei "fatti materiali" oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, sono da intendersi ricompresi anche quelli oggetto di valutazione.

La proposizione concessiva ha, secondo la Corte, dunque, funzione prettamente esegetica e, di certo, non additiva, di talché la sua soppressione nulla può aggiungere o togliere al contesto semantico di riferimento. L'elisione di una proposizione non può, certo, autorizzare la conclusione che si sia voluto immutare l'ambito sostanziale della punibilità del falsi materiali, che, invece, resta impregiudicata, continuando a ricomprendere, come in precedenza, anche i fatti oggetto di mera valutazione.

In sostanza, l'intervento in punta di penna del legislatore ha inteso "alleggerire" il precipitato normativo, espungendo una precisazione reputata superflua, siccome mera superfetazione linguistica.

3.2. Argomento logico-sistematico: le distinte nozioni di “fatti” - “materiali” - “rilevanti”

Dal punto di vista logico sistematico la Corte sostiene che la modifica legislativa sia stata quanto mai ininfluente.

A giudizio della Corte, "materiali e rilevanti" sono termini squisitamente "tecnici" e non comuni, frutto di mera trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane ed ancora di più in ambito comunitario.

Alla luce di ciò, la qualificazione “materiale” si riconnette al concetto tecnico di materialità (o materiality), che, da tempo, gli economisti anglo-americani hanno adottato come criterio fondamentale di redazione dei bilanci di esercizio ed anche della revisione.

Il principio della materialità, continua la Corte, è universalmente riconosciuto come criterio-guida, nella redazione del bilancio, dalle prassi contabili di tutti i paesi più evoluti, secondo le indicazioni di autorevoli organismi internazionali di settore. Pur nella diversità di sfumature in cui è usato, può affermarsi - con apprezzabile margine di approssimazione - che il termine è, sostanzialmente, sinonimo di essenzialità, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono trovare ingresso - ed essere valutati - solo dati informativi "essenziali" ai fini dell'informazione, restandone al di fuori tutti i profili marginali e secondari.

Soltanto le informazioni essenziali sono coerenti con l'idea di una rappresentazione adeguata e realmente efficace, specie in diretta connessione con il suo fine precipuo (che è quello di informare i terzi, utilizzatori del bilancio, sulle reali condizioni economico-finanziarie della società.

Per quanto concerne l’aggettivo “rilevante”, la Corte evidenzia nuovamente la sua derivazione dal lessico della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di “rilevanza” sancito dall'art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE (relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita nel nostro ordinamento con d.lgs. 14/08/2015, n. 136, entrato in vigore il 16/09/2015), che definisce "rilevante" lo stato dell'informazione “quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell'impresa”, con la precisazione che “la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe”.

Stante ciò, secondo la Suprema Corte è stato normativamente introdotto nel nostro sistema un nuovo principio di redazione del bilancio, ossia quello della rilevanza.

“"Materialità" e "rilevanza" dei fatti economici da rappresentare in bilancio costituiscono facce della stessa medaglia ed entrambe sono postulato indefettibile di "corretta" informazione, sicché le aggettivazioni materiali e rilevanti, ben lungi dal costituire ridondante endiade, devono trovare senso compiuto nella loro genesi, finalisticamente connessa - per quanto si è detto - alla funzione precipua del bilancio e delle altre comunicazioni sociali, quali veicoli di informazioni capaci di orientare, correttamente, le scelte operative e le decisioni strategiche dei destinatari.

In ordine al “fatto”, la Corte, in ossequi al quadro tecnico fin qui elaborato, precisa che questo non può essere inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento del mondo fenomenico, quanto piuttosto nell'accezione tecnica, certamente più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare all'esterno.

Consapevole della genericità ed indeterminatezza dei termini comunque adottati dal legislatore, la Corte precisa che spetta al giudice il compito di una specifica determinazione in riferimento alle concrete fattispecie al suo esame, onde accertare se i fatti, di cui si assuma la falsa rappresentazione, siano o meno materiali e rilevanti. Indagine che non può, comunque, ritenersi arbitraria, in quanto, pur se irrefutabilmente discrezionale, attiene pur sempre ad ambito di discrezionalità "tecnica", parametrabile sulla base degli ordinari dettami delle scienze contabili ed aziendalistiche.

3.3. Il nodo della questione: la falsa rappresentazione del fatto oggetto di valutazione

Venendo, ora, al tema specifico del falso, alla stregua delle superiori considerazioni la Corte non ritiene vi siano problemi in ordine alla falsità riguardante gli enunciati descrittivi, ossia le mendaci esposizioni in bilancio, nelle allegate relazioni od in altre obbligatorie comunicazioni, di "fatti di rilievo verificatisi nel corso della gestione o quant'altro di interesse nella logica della corretta informazione[13].

Entrando nell’intima essenza del “falso” la Suprema Corte giunge ad affermare che di falsità non possa parlarsi in riferimento ad un "fatto" (perché il fatto o esiste o non esiste nella realtà), ma solo in relazione alla rappresentazione che di esso viene data. Alla stregua di ciò, l'occultamento ovvero l'esposizione non rispondente al vero di dati "rilevanti" in enunciati descrittivi integra, certamente, l'ipotesi della falsità prevista dall'art. 2621 c.c..

L’intera problematica riguarda invece il falso c.d. valutativo o qualitativo, ossia la falsa rappresentazione del fatto oggetto di valutazione.

Partendo dal presupposto per cui il bilancio quale strumento di informazione  si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi[14], frutto di operazione concettuale consistente nell'assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica, non può, a parere dei Giudici di legittimità,  dubitarsi che nella nozione di rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) non possano non ricomprendersi anche - e soprattutto - le valutazioni.

Se "fatto" lato sensu è il dato informativo e se "materiali e rilevanti" sono soltanto i dati oggetto di informazioni essenziali e significative, capaci di influenzare le opzioni degli utilizzatori, anche le valutazioni, ove non rispondenti al vero, sono in grado di condizionarne, negativamente, le scelte strategiche ed operative. Sicché, sarebbe manifestamente illogico escluderle dal novero concettuale delle rappresentazioni, potenzialmente "false", di fatti essenziali e rilevanti, in funzione di compiuta - e corretta - informazione. Ciò in quanto la rappresentazione valutativa, al pari delle altre, deve parametrarsi a criteri predeterminati, dalla legge ovvero da prassi universamente accettate, onde per cui l'elusione di quei criteri - od anche l'applicazione di metodiche diverse da quelle espressamente dichiarate - costituisce falsità nel senso di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità "convenzionale" conseguibile solo con l'osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltreché di certezza e trasparenza.

Evidenziando poi l’affinità concettuale con la materia del falso ideologico, la Corte ha precisato che anche la valutazione, quando non corrisponda al vero, possa essere "falsa”[15], sicché, nell'ambito di determinati contesti che implichino l'accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione.

Da ciò ne consegue che può dirsi falso l'enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni[16] [17].

Orbene, anche le valutazioni espresse in bilancio non sono frutto di mere congetture od arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi positivamente determinati dalla disciplina civilistica[18] (tra cui il nuovo art. 2426 cod. civ.), dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario (da ultimo, la citata direttiva 2013/34/UE e gli standards internazionali Ias/Ifrs) o da prassi contabili generalmente accettate (es. principi contabili nazionali elaborati dall'Organismo Italiano di Contabilità).

Il mancato rispetto di tali parametri comporta la falsità della rappresentazione valutativa, ancor'oggi punibile ai sensi del nuovo art. 2621 cod. civi., nonostante la soppressione dell'inutile inciso ancorché oggetto di valutazioni.

Ad assumere rilevanza, in tale contesto, non sarebbe tanto la fedele trasposizione della realtà "oggettiva" della società (c.d. verità oggettiva di bilancio), quanto piuttosto la corrispondenza della stima dei dati esposti a quanto stabilito dalle prescrizioni di legge o da standards tecnici universalmente riconosciuti. Sicché, secondo la pronuncia in esame, anche in tema di false comunicazioni sociali vale il principio di diritto secondo cui “lo statuto dell'enunciato valutativo dipende dal contesto della comunicazione; e, nello specifico, l'ambito di riferimento postula l'accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi; e, proprio alla stregua di quei parametri, una valutazione può reputarsi "vera" o "falsa"[19].

3.4. La ratio riformatrice quale argomento fondante l’iter motivazionale

Dal punto di vista della ratio legis poi, la Suprema Corte evidenzia il particolare significato dell'inserimento sistematico delle nuove false comunicazioni sociali in un testo normativo anticorruzione (legge 27 maggio 2015, n. 69, recante disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio), a riprova della presa d'atto, da parte del legislatore, del dato esperienziale che il falso in bilancio è ricorrente segnale di determinati fenomeni corruttivi, spesso in ragione della “creazione” contabile di false fatturazioni intese a costituire fondi in nero.

“Escludere dall'alveo dei falsi punibili quello valutativo significherebbe frustrare le finalità della legge.”

Non tarda poi ad arrivare un’aspra critica al ragionamento seguito dalla Suprema Corte nell’unico precedente giurisprudenziale[20] sopra analizzato.

Sostengono i giudici della quinta sezione che “non è possibile trarre dal mantenimento, nel testo dell'art. 2638 cc.c., del sintagma “ancorché oggetto di valutazioni”, con riferimento ai fatti materiali non rispondenti al vero, oggetto delle comunicazioni di legge alle autorità pubbliche di vigilanza, alla stregua del canone interpretativo "ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit"”.

Invero, il ricorso a criteri logici di comparazione può aspirare ad un obiettivo di ragionevole affidabilità solo in presenza di identità delle fattispecie di riferimento, ove invece quelle in esame (rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2638 cod. civ.) hanno natura ed obiettività giuridiche diverse e perseguono finalità radicalmente differenti.

3.5. Il principio di diritto

In conclusione dell’iter motivazionale sin qui riassunto, la Suprema Corte ha affermato il principio secondo cui “nell'art. 2621 c.c. il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch'essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi”.

4. Conclusioni

Dall’analisi succinta delle questioni evidenziate nel corso dell’elaborato, ciò che a parere dello scrivente la Suprema Corte ha inteso operare con la pronuncia n. 890 del 2016, è un vero e proprio “salvataggio” delle condotte che, la storia insegna, nella prassi comune sono le più ricorrenti.

Sembra proprio che la Corte abbia voluto infatti, in virtù di dell’evidenziata ratio legis della riforma, evitare l’impunità di quelle condotte che maggiormente tendono ad influire sulle false comunicazioni sociali.

Gli argomenti fondanti la decisione appaiono in evidente contrasto poi con quella adottata dalla stessa Corte pochi mesi prima, finanche quelli di natura letterale.

A ben vedere, dai lavori preparatori alla legge n. 69 del 2015 si evince, tuttalpiù, l’intenzione del legislatore volta ad escludere i falsi valutativi, considerati, nelle primissime redazioni, nella norma sia nella loro versione pre-riforma, che con l’utilizzo del più ampio termine di “informazioni” (rispetto a “fatti materiali”), idoneo a ricomprendere ogni tipo di valutazione.

L’eliminazione dei “falsi valutativi”, pertanto, al pari della chiarezza letterale della norma, risulterebbe l’unica interpretazione conciliabile con i principi del nostro ordinamento. A questo punto, però, bisogna chiedersi se sia possibile desumere l’abrogazione di una fattispecie incriminatrice, o parte di essa, in via interpretativa.

Alla luce dell’evidente contrasto non si può far altro che attendere un ordinanza di rimessione dell’intera questione alle Sezioni Unite della Suprema Corte onde scongiurare abnormi interpretazioni.


Note e riferimenti bibliografici
[1] Per un’analisi generale della riforma si veda M. GAMBARDELLA, Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali: tra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, Riv. Cassazione Penale, 5/2015.
[2] A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, il Mulino, Bologna, 2010
[3] Cfr. dopo il caso Parmalat, G.L. APOLLONI, False comunicazioni sociali, Nuova Cultura Editore, 2011.
[4] Cfr. S. GENNAI, A. TRAVERSI, Le False comunicazioni sociali: le nuove ipotesi di reato introdotte dal D. Lgs. 11 aprile 2002, Edizione 61, Sistema Editoriali, 2002.
[5] R. RICCI, Il nuovo reato di false comunicazioni sociali. Commento alla legge 27 maggio 2015, n. 69, Giappichelli, Torino, 2015.
[6] Cfr. C. ZAZA, I reati societari: La riforma delle false comunicazioni sociali, Key Editore, 2015, 10.
[7] M. GAMBARDELLA, Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali, cit., p. 1728.
[8] M. BRUNETTI, Frode fiscale e falso in bilancio: Dalla genesi alle riforme del 2015: evoluzione, criticità e profili applicativi, PM Edizioni, 2016.
[9] Disegno di Legge 15 marzo 2013, S.19, nel quale si chiarisce che “l’intervento riformatore si è poi fatto carico di mettere a punto una formula rispettosa dell’esigenza di mantenere al di fuori dell’ambito di rilevanza penale quelle difformità sostanzialmente irrilevanti, in quanto inidonee a generare nel destinatario della comunicazione un inganno in ordine alla situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società”.
[10] F. MUCCIARELLI, Le “nuove” false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, Diritto Penale Contemporaneo, 2015.
[11] R. RICCI, Il nuovo reato di false comunicazioni sociali., cit., 77.
[12] E. GARAVAGLIA, La tutela penale dell’informazione societaria e gli abusi di mercato. Le false comunicazioni sociali: artt. 2621 e 2622 c.c., in A. ALESSANDRI (a cura di), Reati in materia economica, in F. PALAZZO, C.E. PALIERO (diretto da), Trattato teorico-pratico di diritto penale, Giappichelli, Torino, 2012, 10-11. Critica tale impostazione poiché  l’“amputazione” di una ridondanza non può comportare il venir meno del contenuto normativo. Ciò a maggior ragione se si considera che prima della sua introduzione, nel 2002, gli interpreti (dottrina e giurisprudenza) ritenevano che le valutazioni fossero parte integrante della fattispecie tipica, pur non essendo oggetto di espressa previsione.
[13] Cfr. in dottrina A. PROVASOLI, A. VIGANÒ, Bilancio - Valutazioni, lettura, analisi, Egea, Milano, 2007, 15.
[14] Cfr. G.E. COLOMBO, Il bilancio d’esercizio, in G.E. COLOMBO, G.B. PORTALE, Trattato delle società per azioni, Vol. 7*, UTET, Torino, 1994, 187.
[15] Cass. Pen. Sez. 5, n. 1004 del 30 novembre 1999, dep. 2000, Rv. 215744.
[16] Cass. Pen. Sez. 5, n. 3552 del 09 febbraio 1999, Rv. 213366.
[17] Nella stessa logica interpretativa si sono, poi, poste altre sentenze, tra le altre: Cass. Sez. F, n. 39843 del 04 agosto 2015, Rv. 264364, secondo cui in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; diversamente, se l'atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicché l'atto potrà risultare falso se detto giudizio di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato;
[18] Cfr. Cass. Pen. Sez. I, n. 45373 del 10 giugno 2013, Rv. 257895 per cui è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica, formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, qualora il soggetto agente esprima il proprio giudizio contraddicendo tali parametri, ovvero basandosi su premesse contenenti false attestazioni.
[19] Cfr. Cass. Pen. Sez. 5, n. 234 del 16/12/1994, Rv. 200455, secondo cui in tema di false comunicazioni sociali, art. 2621 cod. civ., la veridicità o falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni "realistiche" con le quali vengono indicate.
[20] Cass. Pen. 30 luglio 2015 n. 33774 sopra analizzata.