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Pubbl. Gio, 28 Gen 2016

Cessione di ramo di azienda: qual è la sorte dei debiti nell’ipotesi di cessione di parte dell’azienda?

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Paola Gennaro


Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 13319 del 30 giugno 2015, sono intervenute a risolvere una questione particolarmente rilevante, in ordine alla sorte dei debiti relativi all´azienda ceduta in ipotesi di trasferimento di un ramo di azienda.


1) Il caso concreto.

Una persona fisica, titolare di un supermercato (ditta individuale), aveva ceduto un ramo di azienda, costituito dal supermercato stesso, a una s.r.l. ad eccezione del reparto macelleria, di cui aveva mantenuto la titolarità.

Un fornitore (società in nome collettivo) presentava, successivamente, domanda nei confronti della s.r.l., al fine di ottenere il pagamento di una somma di denaro, riguardante una fornitura di carne, ancora non pagata ed effettuata in favore del titolare di un supermercato, sul rilievo che la s.r.l. era responsabile in solido a seguito dell’acquisto.

La s.r.l. (cessionaria di un ramo di azienda) veniva condannata al pagamento di tutti i debiti aziendali, data la sussistenza di un’unica contabilità.

2) La questione giuridica sottesa al vaglio delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione e cenni sulla disciplina dell’azienda in generale.

Per un’adeguata comprensione della questione giuridica principale affrontata dalla Suprema Corte, consistente nell’individuazione della sorte dei debiti nell’ipotesi di cessione di parte dell’azienda (o ramo di azienda), pare preliminarmente opportuno rilevare che fino al codice civile del 1942 mancava all’interno del nostro ordinamento giuridico una disciplina relativa all’azienda e alla sua circolazione; ed infatti, in precedenza era stato compito della dottrina e della giurisprudenza sopperire all’assenza di norme relative all’azienda e al suo trasferimento.  

Con il codice del 1942 tale vuoto normativo veniva, in parte, superato grazie all’espressa regolamentazione dei momenti più importanti della vita dell’azienda (trasferimento dell’azienda per contratto e diritti di godimento della stessa); inoltre, il suddetto codice, con l’art. 2555 c.c., forniva la definizione di azienda, individuandola come il complesso di beni organizzato dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. Tale disposizione costituisce, dunque, la fonte prima della qualificazione dell’azienda come oggetto di diritti, in quanto universalità di beni.

Nella nozione di azienda l’accento va posto sul dato dell’organizzazione. L’azienda è, infatti, insieme di beni eterogenei (mobili e immobili, materiali e immateriali, fungibili e infungibili), che subisce modificazioni qualitative e quantitative anche radicali nel corso dell’attività. È e resta però un complesso caratterizzato da unità di tipo funzionale, per il coordinamento e il rapporto di complementarietà tra i diversi elementi costitutivi instaurato dall’imprenditore e soprattutto per l’unitaria destinazione ad uno specifico fine produttivo.

Organizzazione e destinazione ad un unico fine produttivo sono dati fattuali che attribuiscono ai beni costituiti in azienda e all’azienda nel suo complesso specifico e particolare rilievo economico, prima ancora che giuridico.

Elementi costitutivi dell’azienda sono tutti i beni, di qualsiasi natura “organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. Per qualificare un dato bene come bene aziendale rilevante è perciò solo la destinazione funzionale impressagli dall’imprenditore. Irrilevante è invece il titolo giuridico (reale o obbligatorio) che legittima l’imprenditore ad utilizzare un dato bene nel processo produttivo. Non possono essere, dunque, considerati beni aziendali i beni di proprietà dell’imprenditore che non siano da questi effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività d’impresa. Viceversa, la qualifica di bene aziendale compete anche ai beni di proprietà di terzi di cui l’imprenditore può disporre in base ad un valido titolo giuridico, purchè attualmente impiegati nell’attività di impresa. [1]

Molto si è discusso sulla “natura giuridica” dell’azienda e vivo è stato, soprattutto in passato, il contrasto fra teorie unitarie e teorie atomistiche. Le teorie unitarie considerano l’azienda come bene unitario; un bene nuovo e distinto rispetto ai singoli beni che la compongono. Si è così affermato che l’azienda è un bene immateriale, rappresentato dall’organizzazione stessa. E sempre nella stessa prospettiva l’azienda è stata qualificata come universalità di beni.[2] Si ritiene, dunque, che il titolare dell’azienda abbia sulla stessa un vero e proprio diritto di proprietà unitario, destinato a coesistere con i diritti (reali o obbligatori) che vanta sui singoli beni.

La teoria atomistica concepisce, invece, l’azienda come una semplice pluralità di beni tra loro funzionalmente collegati e sui quali l’imprenditore può vantare diritti diversi[3].

Inoltre, l’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. È importante stabilire in concreto se un determinato atto di diposizione dell’imprenditore sia da qualificare come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali, dato che solo nel primo caso potrà trovare applicazione la disciplina ricollegata alla circolazione di un complesso aziendale.

Orbene, è principio consolidato che la qualificazione di una data vicenda circolatoria come trasferimento di azienda (complesso di beni organizzati) o come trasferimento di singoli beni aziendali deve essere operata secondo criteri oggettivi: guardando, cioè, al risultato realmente perseguito e realizzato e non al nomen dato al contratto dalle parti o alla loro intenzione soggettiva. E ciò perché il trasferimento di azienda produce effetti che incidono anche sulla posizione dei terzi. Se ciò è pacifico, è altrettanto pacifico che, per aversi trasferimento di azienda, non è necessario che l’atto di disposizione comprenda l’intero complesso aziendale; tutti i beni attualmente utilizzati dal trasferente nella propria azienda. E nell’ambito della disciplina del trasferimento d’azienda si resta anche quando l’imprenditore trasferisca un ramo particolare della sua azienda, purchè dotato di organicità operativa[4]. Sul punto occorre specificare che per parte di azienda deve intendersi, secondo quanto previsto dall’art. 2112 c.c., l’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, preesistente come tale al trasferimento, e che conserva nel trasferimento la propria identità.

A questo punto della trattazione, occorre rilevare che le norme sulla circolazione dell’azienda evidenziano l’intento del legislatore di conservare nel trasferimento l’unitarietà del complesso e la sua funzionalità, ponendo al centro della disciplina il valore impresso all’azienda dall’organizzazione dei beni che la compongono.

La norma che più chiaramente esprime questa ratio sulla circolazione dell’azienda è l’art. 2558 c.c., in quanto prevedendo il trasferimento sia dei contratti volti all’acquisizione di beni e servizi per l’esercizio dell’azienda (contratti di azienda), sia dei contratti relativi ai rapporti in corso con la clientela (contratti di impresa), permette all’acquirente di poter acquisire immediatamente beni o servizi funzionali all’esercizio dell’azienda e contemporaneamente entrare in contatto con la clientela stessa.

Tale disposizione tutela l’interesse dell’acquirente a potere immediatamente proseguire l’attività dell’impresa e quello dell’alienante, che non avrebbe interesse alla conservazione di tali contratti una volta ceduta l’azienda.

Inoltre, è una disposizione eccezionale rispetto alla tutela prevista dal diritto comune per il terzo contraente. Ed invero, per diritto comune la cessione del contratto non può avvenire senza il consenso del contraente ceduto (art. 1406), sicchè l’interesse di ciascuna parte a non subire la sostituzione della controparte contrattuale trova piena tutela.

La situazione muta, invece, radicalmente quando il contratto è stipulato con un imprenditore ed ha per oggetto prestazioni (non personali) inerenti all’esercizio dell’impresa. Il consenso del terzo contraente non è più necessario per il trasferimento del contratto e l’effetto successorio si produce dal momento stesso in cui diventa efficace il trasferimento dell’azienda.

Questa deroga viene giustificata solitamente dalla considerazione che il terzo è garantito, in relazione alla esecuzione del contratto, dal trasferimento dell’intero complesso aziendale.

Occorre specificare che il terzo non rimane privo di tutela, ma la protezione legislativamente offertagli è molto limitata. È vero, infatti, che può recedere dal contratto e, quindi, sciogliersi dal vincolo contrattuale con l’acquirente. Però, il recesso potrà essere validamente esercitato solo se sussiste una giusta causa e spetterà quindi al terzo contraente provare che l’acquirente dell’azienda si trova in una situazione oggettiva, tale da non fare affidamento sulla regolare esecuzione del contratto.

Passando adesso all’analisi degli artt. 2259 e 2560 c.c., bisogna rilevare che anch’essi introducono deroghe ai principi di diritto comune in tema di cessione dei crediti e di successione nei debiti, anche se di diversa ampiezza.

L’art. 2559 c.c., comma 1, disciplina gli effetti della cessione dell’azienda sui crediti aziendali, vale a dire quei crediti di cui l’imprenditore cedente risulta titolare al momento della cessione a seguito dell’esercizio dell’attività di impresa e stabilisce per rendere opponibile la cessione dei crediti ai terzi, che la notifica al debitore ceduto o la accettazione da parte di questi, richiesta dalla disciplina di diritto comune (artt. 1265 e 2914, n.2), è sostituita da una sorta di notifica collettiva: l’iscrizione del trasferimento dell’azienda nel registro delle imprese.

Da tale momento la cessione dei crediti relativi all’azienda ceduta ha effetto nei confronti dei terzi, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione. Tuttavia il debitore ceduto è liberato se paga in buona fede all’alienante.

Inoltre dall’esame dell’art. 2559 c.c., deriva che il legislatore non ha disposto nulla in relazione alla sorte dei crediti aziendali nei rapporti tra le parti nel contratto di cessione di azienda; vi è contrasto sulla circostanza che la cessione di azienda trasferisca o meno ipso iure anche i crediti aziendali, oppure se sia richiesta una espressa pattuizione tra le parti, una clausola inserita nel contratto di cessione che regoli il trasferimento o meno dei crediti aziendali. In ordine a tale profilo la giurisprudenza, in contrasto con le teorie che affermano il trasferimento dei crediti al cessionario di azienda, solo in presenza di espressa pattuizione, ritiene che con la cessione di azienda si determini il trasferimento automatico del credito aziendale insieme a qualsiasi altro elemento della universalità. Presupposto della cessione del credito, in tale caso, è la sua inerenza alla gestione dell’azienda, mentre ricorrendo tale presupposto, un ostacolo estrinseco al trasferimento può derivare esclusivamente dalla volontà contraria delle parti del contratto di cessione d’azienda.

Più vistosa è invece la deviazione dai principi di diritto comune per quanto riguarda i debiti inerenti all’azienda ceduta sorti prima del trasferimento, con la precisazione che anche in questo caso la norma non si occupa dei rapporti tra cedente e cessionario.

Nel delineare la ratio dell’art. 2560 c.c. occorre rilevare innanzitutto l’esigenza di tutelare i terzi creditori, i quali avendo fatto affidamento sull’azienda per la realizzazione dei loro crediti, nel caso di trasferimento della stessa, potrebbero vedere diminuita la loro garanzia con la sostituzione di un importante bene del patrimonio del debitore con una somma di denaro, la cui nota volatilità metterebbe in pericolo la realizzazione dei crediti; una seconda esigenza è quella di tutelare l’interesse economico collettivo alla facilità della circolazione dell’azienda; interesse collettivo che si garantisce: consentendo al cessionario dell’azienda di potersi rappresentare con chiarezza qual è la situazione debitoria del cedente.

Infatti, secondo giurisprudenza costante la disciplina prevista dall’art, 2560, comma 2, secondo cui l’acquirente risponde dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta soltanto se essi risultano dai libri contabili, è dettata non solo dall’esigenza di tutelare i terzi creditori, già contraenti con l’impresa e peraltro sufficientemente garantiti pure dalla norma di cui al medesimo art. 2560, comma 1 c.c., ma anche da quella di consentire al cessionario di acquisire adeguate e specifica cognizione dei debiti assunti, specificità che va esclusa nell’ipotesi in cui i dati riportati nelle scritture contabili siano parziali e carenti nell’indicazione del soggetto titolare del credito, non potendosi in alcun modi integrare una annotazione generica delle operazioni mediante ricorso ed elementi esterni di riscontro. [5]

In caso di cessione di azienda l’iscrizione dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta, nei libri contabili obbligatori è elemento costitutivo della responsabilità dell’acquirente dell’azienda e, data la natura eccezionale e il carattere imperativo della norma (art. 2560 c.c.) che prevede tale responsabilità, non può essere surrogata dalla prova che l’esistenza dei debiti era comunque conosciuta da parte dell’acquirente medesimo.

È mantenuto fermo il principio generale per cui non è ammesso il mutamento del debitore senza il consenso del creditore, ed infatti, l’alienante non è liberato da tali debiti se non risulta che i creditori vi hanno consentito. Si discute se il consenso debba riguardare genericamente la cessione di azienda o debba riguardare il singolo debito.

La dottrina dominante ritiene necessario che per la liberazione del debitore alienante sia necessario uno specifico consenso dei creditori che riguardi il trasferimento dei singoli debiti e non il generico consenso al trasferimento dell’azienda. La regola generale prevede, quindi, che nel trasferimento dell’azienda i creditori aziendali possono contare sulla responsabilità sia dell’alienante che dell’acquirente, entrambi obbligati in solido. La previsione della solidarietà dell’acquirente dell’azienda nella obbligazione relativa al pagamento dei debiti dell’azienda ceduta è posta a tutela dei creditori, e non dell’alienante: sicchè, essa non determina alcun trasferimento della posizione debitoria sostanziale, nel senso che il debitore effettivo rimane pur sempre colui cui è imputabile il fatto costitutivo del debito, e cioè il cedente, nei cui confronti può rivalersi in via di regresso l’acquirente che abbia pagato, quale coobbligato in solido, un debito pregresso dell’azienda, mentre il cedente che abbia pagato il debito non può rivalersi nei confronti dell’eventuale coobbligato in solido.

Per la giurisprudenza si sarebbe in presenza di un accollo cumulativo ex lege, più precisamente si sarebbe in presenza per l’acquirente di una responsabilità senza debito, di una solidarietà sui generis, rimanendo il debito sempre nella responsabilità dell’alienante.

Sul punto si è sviluppata anche una tesi in senso opposto per cui sia nel trasferimento d’azienda come in quello di ramo di azienda la titolarità dei debiti inerenti la cessione transita in capo al cessionario, avendo l’obbligazione solidale del cedente unicamente funzione di garanzia.

Delineata in tal modo la disciplina generale in relazione ai debiti nel trasferimento dell’azienda, deve osservarsi che rimane priva di espressa disciplina la sorte dei debiti aziendali in ipotesi di cessione di un ramo di azienda.

In ordine a tale problematica, i giudici della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13319 del 30 giugno 2015 hanno affermato il seguente principio: alla cessione di ramo di azienda è applicabile l’art.  2560 c.c. e l’acquirente del ramo di azienda dovrà rispondere dei debiti pregressi risultanti da libri contabili obbligatori inerenti alla gestione del ramo di azienda ceduto[6].

Anche la sola porzione va, infatti, considerata un complesso produttivo con quell’autonoma capacità d’impresa che nel suo insieme rappresenta proprio quell’elemento patrimoniale sul quale i creditori “sperano” per avere soddisfazione.

3) La soluzione adottata dalle Sezioni Unite.

Con la citata sentenza n. 13319 del 30 giugno 2015, la Corte di Cassazione ha affermato che il cessionario di un singolo ramo d'azienda non paga i debiti dell'intera società cedutagli, anche se la contabilità della stessa era unificata, ma solo quelli corrispondenti al ramo ceduto.

Per la Cassazione, una opposta soluzione si scontrerebbe con la ratio dell’art. 2560 c.c. che effettua un bilanciamento tra l’interesse dei creditori a mantenere intatta la garanzia del loro credito e l’interesse economico alla facile circolazione dell’azienda, garantito dalla previsione, per l’acquirente, di conoscere esattamente i debiti di cui dovrà rispondere, ovvero quelli risultanti dalle scritture contabili obbligatorie.

Deve, pertanto, affermarsi che nella cessione di ramo di azienda il bilanciamento d’interessi previsti dalla suddetta disposizione si realizza solo ritenendo che l’acquirente di un ramo di azienda risponderà dei debiti che dalle scritture contabili risulteranno riferirsi alla parte di azienda a lui trasferita.

In altri termini, il cessionario del ramo di azienda risponde dei debiti, pregressi al trasferimento, del cedente solamente quando essi attengano (e cioè siano inerenti) al ramo di azienda ceduto, con la precisazione che tale inerenza si ricava dalle scritture contabili obbligatorie.

Egli, invece, non risponderà né per i debiti che dalle scritture contabili non risultino relativi alla parte dell’azienda da lui acquistata, né pro quota per i debiti relativi alla gestione complessiva dell’impresa alienante.

Quindi, pur in presenza di una contabilità unitaria, l’acquirente di un ramo di azienda, è messo in grado di conoscere i debiti pregressi di cui dovrà rispondere con la consultazione dei libri contabili, individuando i debiti inerenti al ramo di azienda acquistato in vista della sua autonomia economica e funzionale.

Ne deriva, quindi, che l’acquirente di un ramo d’azienda paga solo i debiti pregressi che risultano dai libri contabili obbligatori riferibili alla parte acquistata.[7]

 



[1] Cass., n. 7626/2010, in www.italgiure.it.

[2] TOMMASINI, Contributo alla teoria dell’azienda, 192 s.s.; MINERVINI, L’imprenditore, 125.

[3] COLOMBO, L’azienda, 4 ss.

[4] COLOMBO, L’azienda, 31 ss.

[5] Cass. n. 23828/2012 in www.italgiure.it.

[6] CASS. n. 13319/2015 in www.italgiure.it.

[7] CASS. n. 13319/2015 in www.italgiure.it.