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Pubbl. Lun, 10 Feb 2025

La qualificazione giuridica dell’attività di BancoPosta: una riflessione sull´ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di cassazione

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Roberta Cavallaro
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



L’ordinanza n. 31065/2024 della Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione solleva una questione giuridica di grande rilievo: la qualificazione dei dipendenti di Poste Italiane nelle attività di bancoposta ai fini della configurabilità del reato di peculato ex art. 314 c.p. Il tema è oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale, diviso tra chi riconosce la natura pubblicistica del risparmio postale e chi, invece, la assimila all’attività bancaria privata. La trasformazione di Poste Italiane in società per azioni ha reso ancora più complessa l’attività ermeneutica riguardo la sua natura e la funzione accordatale. Attraverso l’analisi dell’ordinanza di rimessione, l’articolo esamina le conseguenze teoriche e pratiche della pronuncia attesa dalle Sezioni Unite.


Sommario: 1. Introduzione; 2. La quaestio iuris; 3. Conclusioni.

1. Introduzione

L’ordinanza n. 31065/2024 della Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione, oggetto di recente dibattito, rappresenta un punto di svolta nel panorama giurisprudenziale italiano.

Al centro della decisione si colloca il quesito relativo alla qualificazione soggettiva del dipendente di Poste Italiane, ossia: «se, nell’ambito delle attività di “bancoposta” svolte da Poste Italiane S.p.a. ai sensi del d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la “raccolta del risparmio postale” (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata da Poste per conto della Cassa depositi e prestiti – art. 2, comma 1, lett. b) reg. cit. e art. 2, comma 1, lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999, n. 284) – abbia natura pubblicistica e, nel caso positivo, se l’operatore di Poste Italiane S.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen.».

Questo contributo si propone di analizzare il ragionamento della Corte, inserendo la decisione nel contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, con l’obiettivo di chiarire il delicato equilibrio tra le funzioni di natura pubblica tradizionalmente associate a Poste Italiane e il regime privatistico che ne caratterizza molteplici aspetti operativi.

La controversia giurisprudenziale, che ha richiesto l’intervento dirimente delle Sezioni Unite, verte su un quesito fondamentale: il risparmio postale, in quanto connesso alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e garantito dallo Stato, rappresenta un servizio di interesse pubblico o deve essere ricondotto a un’attività di natura privatistica e, pertanto, regolata dal diritto civile?

La questione ha un impatto rilevante non solo sul caso specifico, ma anche sul regime di responsabilità penale applicabile ai dipendenti di società partecipate dallo Stato che operano in contesti analoghi.

2. La quaestio iuris

L’ordinanza n. 31065/2024 della Sesta Sezione Penale della Corte di cassazione, oggetto di recente dibattito, rappresenta un punto di svolta nel panorama giurisprudenziale italiano.

Al centro della decisione si colloca il quesito relativo alla qualificazione soggettiva del dipendente di Poste Italiane, ossia: «se, nell’ambito delle attività di “bancoposta” svolte da Poste Italiane S.p.a. ai sensi del d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, la “raccolta del risparmio postale” (raccolta di fondi attraverso libretti di risparmio postale e buoni postali fruttiferi effettuata da Poste per conto della Cassa depositi e prestiti – art. 2, comma 1, lett. b) reg. cit. e art. 2, comma 1, lett. b) d. lgs. 30 luglio 1999, n. 284) – abbia natura pubblicistica e, nel caso positivo, se l’operatore di Poste Italiane S.p.a. addetto alla vendita e gestione di tali prodotti rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen.».

Questo contributo si propone di analizzare il ragionamento della Corte, inserendo la decisione nel contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento, con l’obiettivo di chiarire il delicato equilibrio tra le funzioni di natura pubblica tradizionalmente associate a Poste Italiane e il regime privatistico che ne caratterizza molteplici aspetti operativi.

La controversia giurisprudenziale, che ha richiesto l’intervento dirimente delle Sezioni Unite, verte su un quesito fondamentale: il risparmio postale, in quanto connesso alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e garantito dallo Stato, rappresenta un servizio di interesse pubblico o deve essere ricondotto a un’attività di natura privatistica e, pertanto, regolata dal diritto civile?

La questione ha un impatto rilevante non solo sul caso specifico, ma anche sul regime di responsabilità penale applicabile ai dipendenti di società partecipate dallo Stato che operano in contesti analoghi.

C. P., dipendente di Poste Italiane e responsabile della sala consulenze di un ufficio postale, è stato ritenuto colpevole di essersi appropriato di somme di denaro derivanti dal riscatto di buoni fruttiferi postali. Le somme, destinate al reinvestimento in altri strumenti finanziari, sono state trasferite su conti correnti personali dell’imputato tramite la falsificazione di moduli di investimento. La Corte di Appello di Lecce ha confermato le statuizioni di primo grado, le quali avevano qualificato i fatti oggetto di causa delitto di peculato.

La difesa ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi principali, tra cui, in particolare, l’erronea qualificazione giuridica del fatto come peculato, sostenendo che l’imputato non rivesta la qualifica di incaricato di pubblico servizio, nonché la derubricazione del reato in truffa o appropriazione indebita, in quanto il possesso delle somme sarebbe stato ottenuto fraudolentemente.

A seguito del ricorso proposto dalla difesa, la Sesta Sezione ha ritenuto necessario rimettere alle Sezioni Unite la questione di diritto sottesa alla qualifica soggettiva dei dipendenti di Poste Italiane nelle attività di “bancoposta”.

La configurabilità del reato di peculato presuppone che il soggetto attivo rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ai sensi degli artt. 357 e 358 c.p. In particolare, la qualifica di incaricato di pubblico servizio si fonda sul criterio oggettivo-funzionale, che privilegia l’attività concretamente svolta rispetto alla natura dell’ente di appartenenza[1]. Di conseguenza, va operato un approccio di tipo casistico ai fini dell’applicabilità del c.d. statuto penale della pubblica amministrazione.

La questione è complicata dalla trasformazione dell’ente, originariamente di natura pubblico-economico, in società per azioni avvenuta nel 1997[2].

In tale contesto, la giurisprudenza ha sviluppato due orientamenti contrapposti, pur se la tesi maggioritaria inquadra i dipendenti di Poste Italiane che svolgono attività di bancoposta, e più specificamente di raccolta del risparmio postale, come incaricati di pubblico servizio. Sarebbe previsto, difatti, ex lege[3] il perseguimento di primari interessi pubblici, attribuendo a tale attività una connotazione pubblicistica[4].

Secondo questo primo orientamento la trasformazione in S.p.a. non avrebbe inciso sulla natura pubblicistica, non solo relativamente ai servizi inerenti all’attività di corrispondenza postale, ma anche a quelli relativi alla raccolta di risparmio attraverso i libretti di risparmio postale e i buoni fruttiferi postali[5]. A ciò vi è da aggiungere che l’attività di bancoposta – disciplinata dal d.P.R. n. 144/2001 (Regolamento dei servizi di  bancoposta) – è considerata una categoria non unitaria, comprendente attività di natura c.d. mista, quali ad esempio la raccolta di risparmio tra il pubblico[6], del tutto assimilata agli ordinari servizi bancari e finanziari e, pertanto, regolata dalle relative disposizioni del T.U.B e del T.U.F., ma anche la raccolta di risparmio postale, slegata e distinta dalla precedente, una sorta di ‘segmento autonomo’ delle attività di bancoposta, regolata dalle disposizioni del T.U.B. “ove applicabili” e del T.U.F. “in quanto compatibili[7].

A sostegno della perdurante natura pubblicistica del risparmio postale, l’orientamento maggioritario pone il disposto dell’art. 12 d.P.R. 156/1973[8] (Codice postale e delle telecomunicazioni), che considera pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio gli addetti ai servizi postali e di bancoposta. A nulla è valsa la modifica legislativa, intervenuta successivamente alla trasformazione di Poste in S.p.a., la quale sopprimeva il riferimento ai soli servizi delle “telecomunicazioni”, poiché – secondo tale indirizzo giurisprudenziale – è valsa unicamente a suffragare tale tesi. Ulteriormente, si pongono a riprova della natura pubblicistica altri indicatori, quali la garanzia statale sui buoni fruttiferi postali e sui libretti di risparmio postale – che distingue il risparmio postale dalle attività bancarie ordinarie – per cui sono contemplati, inoltre, forme di tassazione agevolata ed esenzione da alcuni oneri fiscali, o la strumentalità rispetto a finalità pubblicistiche, essendo le somme raccolte destinate alla Cassa Depositi e Prestiti S.p.a. (CDP)[9], finalizzate al finanziamento di enti pubblici e infrastrutture di interesse generale.

L’ordinanza segnala – in senso conforme – la recente sentenza Faso (Cass. Sez. VI, n. 22280 del 7/03/2024), la quale ribadisce l’attinenza dell’attività di “bancoposta”, nello specifico di raccolta e gestione del risparmio postale e buoni postali fruttiferi, a bisogni di pubblico interesse «il cui soddisfacimento è perseguito istituzionalmente con capitali pubblici e secondo modalità e forme determinate da regolamentazione di natura pubblicistica, così da rientrare nell’alveo della prestazione di pubblico servizio, quale definita dall’art. 358 cod. pen.».

In netta contrapposizione si colloca l’orientamento minoritario, il quale considera le attività di bancoposta di natura privatistica, equiparabili a quelle bancarie ordinarie, con la conseguenza che la fattispecie del caso concreto configurerebbe il delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 c.p. e non quello di peculato.

Invero, l’identicità della natura dell’attività svolta a cui, tuttavia, consegue un diverso trattamento sanzionatorio, per i dipendenti di Poste Italiane S.p.a. ed i dipendenti degli istituti di credito, integrerebbe – ad avviso del Collegio – una palese violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.

Già con la sentenza De Vito[10], contestando i precedenti orientamenti giurisprudenziali di segno opposto, la Sezione rimettente ha evidenziato come gli stessi si fondassero su disposizioni inerenti al nucleo originario dei compiti istituzionali di Poste, legati principalmente alla gestione della corrispondenza, contrariamente alle attività di bancoposta regolate da una normativa di settore distinta e specifica.

Come esaustivamente chiarito nella sentenza, l’art. 12 del d.P.R. n. 156/1973, che attribuiva una qualifica pubblicistica agli esercenti i servizi di bancoposta, è antecedente alle riforme dei settori postale e bancario; successivamente, il d.lgs. n. 259/2003 – in parziale modifica di tale disposizione – ha espunto il riferimento unicamente ai servizi di “telecomunicazioni”, lasciando inalterato quello inerente agli esercenti i servizi di “bancoposta”. Tuttavia, questo non implica una volontà legislativa in tal senso, poiché il decreto legislativo sulle telecomunicazioni ha riformato esclusivamente quanto di sua competenza. L’attività di “bancoposta”, infatti, deve essere valutata alla luce dell’evoluzione normativa successiva al 1973 e della privatizzazione dell’attività bancaria, anche alla luce del d.lgs. n. 261/1999, attuativo della direttiva 97/67/CE sui servizi postali, il quale riconosce la qualifica di incaricati di pubblico servizio solo agli addetti ai servizi postali. A riprova di ciò, il contratto di programma tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Poste Italiane, richiamato da precedenti sentenze[11], si riferisce solo ai servizi postali.

Secondo tale indirizzo ermeneutico, invero, l’attività di “bancoposta” sarebbe del tutto assimilabile a quella bancaria di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, definita, a seguito di una notevole evoluzione giurisprudenziale, avente natura privatistica, sebbene non priva di aspetti di pubblico interesse. È proprio l’interesse pubblico il fil rouge di tale evoluzione, partendo dall’art. 47 Cost. alle numerose decisioni e raccomandazioni della Commissione Europea, per cui i servizi bancari potevano essere considerati “servizio economico di interesse generale”[12]. Se in un primo momento[13], infatti, l’interesse pubblico era considerato in senso oggettivo e, pertanto, immanente all’attività stessa, sono state le Sezioni Unite, con la sentenza Tuzet nel 1987[14], a segnare un punto di svolta in materia, rilevando, da un lato, i sempre minori controlli sull’attività bancaria e, dall’altro, una sorta di equiparazione degli enti bancari alle altre attività di tipo imprenditoriali presenti sul mercato.

L’overruling ebbe inizio con l’entrata in vigore del d.P.R. n. 350 del 27 giugno 1985, che recepiva la direttiva n. 77/780/CEE e sanciva un principio fondamentale: «L’attività di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere di impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano» (art. 1). Di conseguenza, non assumevano rilievo né l’obbligo di autorizzazione da parte della Banca d’Italia, finalizzato alla verifica dei requisiti patrimoniali e professionali previsti dalla legge, né la presenza di controlli pubblici volti a garantire la stabilità e l’efficienza del sistema creditizio.

Alla luce di ciò, il fatto che Poste operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti risulterebbe irrilevante, in quanto quest’ultima è equiparabile ad un semplice azionista che non interviene direttamente nei rapporti con la clientela, regolati unicamente dal diritto civile[15].

Particolare rilevanza assume l’art. 2 del d.P.R. n. 144/2001, il quale opera un’equiparazione dell’attività di “bancoposta” a quella bancaria ai fini dell’applicazione del T.U.B e del T.U.F., «non prevedendo che Poste abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento di attività di tipo bancario»[16], disponendo, inoltre, che CDP può anche avvalersi di istituti bancari o intermediari finanziari per la raccolta di risparmio.

Il Collegio rimettente ritiene di aderire a tale minoritario indirizzo. Pertanto – posto tale assunto – sostenere che la raccolta del risparmio postale, tramite buoni postali e libretti di risparmio emessi per conto di CDP, possa essere collocata su un piano distinto e di natura pubblicistica rispetto alle altre attività di Bancoposta risulta, a giudizio della Sesta Sezione, concettualmente errato.

Bisogna, infatti, scindere l’attività di emissione di titoli di debito pubblico[17], che costituisce un’espressione di potestà pubblica, da quella di negoziazione e gestione degli strumenti finanziari, delegata a Poste Italiane S.p.a., partecipata pubblica per il 65% da MEF e CDP, ma in ogni caso regolata dal diritto civile. Parimenti disciplinati da norme privatistiche ed in particolare dal regolamento bancoposta (d.P.R. n. 144/2001), i rapporti generati dal collocamento dei titoli e con il cliente, si pongono in un regime di specialità con le regole generali del codice civile[18]. Ebbene, se tali rapporti hanno natura privatistica, non vi è ragione per cui l’attività di negoziazione dei titoli debba, invece, essere considerata diversamente.

Come si è detto, secondo l’orientamento maggioritario, l’attività di risparmio postale assumerebbe i caratteri del pubblico servizio, locuzione di cui, però, non si è data un’interpretazione univoca. Da un lato, è stato affermato che la raccolta e gestione del risparmio abbia come scopo il perseguimento di finalità pubbliche, quali, ad esempio, il finanziamento di enti locali, regioni e Stato ovvero ogni operazione di interesse pubblico contemplata dallo statuto di CDP; dall’altro, si rammenta che l’art. 2 del d.lgs. n. 284/1999 prevede che CDP possa avvalersi, per la gestione dei titoli, anche di banche ed intermediari finanziari.

Analogamente, il pubblico servizio[19] non può rinvenirsi nella garanzia statuale sui prodotti finanziari postali – elemento di indubbia riconoscibilità e con una chiara funzione incentivante – in quanto tale forma di risparmio a rischio contenuto non è esclusiva del risparmio postale[20], difatti forme di investimento a basso rischio sono offerte anche da istituti bancari attraverso libretti di risparmio tradizionali[21]. Non vi sarebbe ragione, dunque, per non attribuire la qualifica di incaricati di pubblico servizio anche ai c.d. piazzisti di Btp e Bot, al pari del dipendente postale, nella sua attività di vendita di strumenti finanziari.

Sono poi stati elencati una serie di indicatori a riprova del carattere c.d. pubblicistico del risparmio postale, che tuttavia non convincono il Collegio rimettente. In primis il controllo di Poste e CDP da parte della Corte dei conti, previsto dall’art. 100 Cost. sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, che realizza un controllo non sull’ente, ma sulla gestione economica dello stesso, prescindendo dal tipo di attività svolta. In secondo luogo, si è fatto leva sulle forme di tassazione agevolata e di esenzione da alcuni oneri fiscali (come quello di successione). Nondimeno, anche in tal caso, vi sono delle inesattezze. Il trattamento agevolato assolve una funzione unicamente incentivante alla vendita, per cui di tipo “economicistico”, e riguarda anche altri titoli analoghi non italiani; ugualmente l’esenzione accordata non costituisce una prerogativa dei titoli di risparmio postale, il T.U. sulle successioni e donazioni[22], all’art. 12 esclude dall’attivo ereditario una serie di titoli, non solo propri, ma anche del debito pubblico di paesi europei e convenzionati[23]. Infine, il ragionamento per cui CDP venda i libretti e i buoni postali tramite la controllata Poste in una sorta di regime di monopolio, non corrisponde alla realtà del mercato dei prodotti finanziari e non vi è alcuna previsione legislativa in merito; una limitazione, in tal senso, del principio della libera concorrenza non si verifica neppure per il servizio postale c.d. universale[24].

Anche qualora si volesse attribuire la qualifica di “organismo di diritto pubblico” a Poste Italiane S.p.a. – appurata in relazione allo svolgimento del servizio di posta universale –, in base alle direttive europee n. 89/440 e n. 93/37, tale nozione è stata elaborata in riferimento alle amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito dei contratti pubblici.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite civili è più volte intervenuta sull’argomento[25], statuendo, in primo luogo, che non può definirsi organismo di diritto pubblico l’ente la cui attività sia svolta in regime di concorrenza e sia ispirata a criteri di economicità.[26] In senso conforme l’ordinanza n. 8511/2012[27], la quale afferma che, operando Poste S.p.a. nel mercato concorrenziale ed essendo i relativi rischi a carico dell’ente, non troverebbe applicazione la disciplina relativa agli organismi pubblici. In ossequio a tale principio, Poste Italiane S.p.a. non avrebbe natura di organismo di diritto pubblico relativamente alle attività di bancoposta nel libero mercato concorrenziale.

Alla luce delle considerazioni formulate, ad avviso della Sezione rimettente l’attività di “bancoposta” non rientrerebbe nell’alveo di quelle contemplate dagli art. 357 e 358 c.p., ossia svolte da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Il criterio discretivo tra le due qualifiche – accomunate dalla funzione pubblica – si rinviene nella mancanza dei poteri deliberativi, autoritativi o certificativi, insiti nell’attività del p.u., espletata da parte di chi «eserciti una pubblica funzione legislativa o giudiziaria, o una funzione amministrativa disciplinata da normative pubbliche e da atti autoritativi e caratterizzata dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dall’esercizio di poteri autoritativi o certificativi»[28].

Diversamente, la figura dell’incaricato di pubblico servizio è delineata in via residuale e comprende coloro che svolgono un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico, senza tuttavia disporre dei poteri tipici del pubblico ufficiale. La scelta lessicale adottata, attraverso l’uso dei termini «semplici» e «meramente», esprime chiaramente una volontà legislativa volta ad includere nella nozione di incaricato di pubblico servizio qualsiasi mansione che richieda competenze tecniche ed esperienza, e che implichi un livello di responsabilità superiore rispetto a quello necessario per lo svolgimento di mere attività materiali o di ordine[29].

Nel caso specifico, l’attività svolta dal ricorrente – di consulenza, liquidazione titoli ed attuazione di pagamenti – si configurerebbe come meramente esecutiva, non richiedendo specifiche competenze o particolari spazi di discrezionalità[30], né prevedendo l’esercizio di poteri propri del p.u. Difatti, il rilascio di ricevute o annotazioni nell’ambito di ogni tipo di rapporto privatistico, non dev’essere posto sullo stesso piano del rilascio di documenti o annotazioni simili, ma aventi valore di prova legale nell’ordinamento civile, essendo – a tal uopo – necessaria una norma che attribuisca il potere certificativo[31].

La posizione ricoperta dal C.P. risulterebbe del tutto analoga a quella degli operatori addetti ai servizi bancari nell’espletamento di compiti relativi alla riscossione per conto di enti impositori e di previdenza obbligatoria, i quali, secondo opinione giurisprudenziale risalente, nell’atto di emissione della relativa ricevuta di pagamento assumevano una qualifica pubblica.

La recente sentenza della Sezione VI, n. 22275 del 31 gennaio 2024[32], ha evidenziato come la pretesa funzione fidefacente ex art. 2700 c.c.[33] sia ormai venuta meno, in quanto la “stampata” dell’operazione non ha più valore probatorio. In particolare, si è sottolineato che la ricevuta, essendo generata direttamente dagli strumenti telematici, è riconducibile a Poste Italiane S.p.A. come ente e non al singolo operatore di sportello, che non agisce come attestatore in senso proprio. A riprova di ciò, si è rilevata l’assenza di una firma sui relativi moduli. Inoltre, nel caso specifico[34], si è confermato che l’imputata svolgeva esclusivamente mansioni di carattere esecutivo, senza esercitare poteri certificativi o discrezionali, né gestire protocolli, registri o altra documentazione destinata alla registrazione o alla tracciatura della corrispondenza; allo stesso modo, non le erano stati assegnati compiti di collaborazione direttamente riconducibili a funzioni di livello superiore.

Tali considerazioni si pongono anche relativamente al c.d. libretto postale, tradizionalmente caratterizzato da annotazioni dell’operatore con funzione probatoria del rapporto.

In passato, il Testo Unico del 1973[35] non attribuiva espressamente ai funzionari postali un potere certificativo, successivamente con il regolamento postale del 2001 è stata confermata l’applicabilità delle norme del codice civile. Ciò ha reso chiaro che i libretti di risparmio postale rientrano nel regime probatorio dell’art. 1835 c.c.[36], secondo cui le annotazioni firmate dall’impiegato bancario fanno piena prova nei rapporti tra banca e depositante. Tuttavia, il libretto non è considerato un atto pubblico con efficacia probatoria privilegiata ex art. 2700 c.c., ma gode di una tutela rafforzata del diritto alla prova per il depositante. 

In seguito, il d.m. MEF del 6 ottobre 2004 ha ribadito l’applicabilità delle disposizioni del codice civile ai libretti di risparmio postale. Con il d.m. del 29 febbraio 2016, la disciplina è stata adattata ai libretti c.d. dematerializzati, introducendo un riferimento al valore delle annotazioni “fino a querela di falso”, ma senza conferire loro reale efficacia probatoria, non potendo il regolamento derogare alle disposizioni di legge. Infine, il d.m. Mef del 5 ottobre 2020 ha stabilito che, in caso di discrepanza tra le registrazioni contabili e le annotazioni cartacee, prevalgono le scritture contabili, eliminando definitivamente la rilevanza delle annotazioni scritte.

In definitiva, la digitalizzazione ha reso i documenti cartacei mere stampe di ricognizione dei dati informatici, privando le ricevute e le annotazioni degli addetti allo sportello di valore probatorio autonomo.

3. Conclusioni

L’ordinanza della Corte di Cassazione rappresenta un punto di svolta nella giurisprudenza in materia di qualificazione soggettiva dei dipendenti di Poste Italiane nell’ambito delle attività di "bancoposta".

La questione, lungi dall’essere meramente tecnica, coinvolge principi fondamentali del diritto penale e amministrativo, mettendo in luce la complessità del tema e la necessità di un intervento chiarificatore che ne delinei con precisione il quadro normativo, al fine di garantire certezza del diritto e uniformità applicativa.

Le implicazioni della decisione travalicano il caso concreto, toccando aspetti cruciali come la tutela del risparmio postale, la regolamentazione delle società a partecipazione pubblica e la stessa definizione di organismo pubblico, sempre più sfumata in un contesto di crescente privatizzazione dei servizi pubblici.

La pronuncia delle Sezioni Unite non si limiterebbe a risolvere un contrasto interpretativo, ma contribuirebbe a ridefinire il confine tra pubblico e privato nel diritto penale della pubblica amministrazione, con rilevanti ricadute sia sul piano normativo che sul terreno applicativo, offrendo un orientamento univoco sulla natura giuridica delle attività di bancoposta e sulla responsabilità dei suoi operatori

La questione, la cui decisione era attesa in data 30 gennaio dopo un primo rinvio, risulta tuttora pendente.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr. Cass. SS.UU., n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190; Cass. Sez. VI, n. 44667 del 8/10/2019, Cristini, Rv. 278191.

[2] Art. 2, L. 23 dicembre 1996 n. 662; delibera CIPE del 18/12/1997.

[3] Art. 2, comma 1, lett. b), d.P.R. 14 marzo 2001, n. 144.

[4] V. Sez. VI, n. 10875 del 23/11/2016, dep. 2017, Carloni, Rv. 272079-01; cfr., inoltre, Sez. VI, n. 14227 del 13/01/2017, Spataro, Rv. 269481-01; Sez. VI, n. 993 del 20/11/2018, dep. 2019, Consiglio, Rv. 274938-0.

[5] Sez. V, n. 31660 del 13/02/2015, Barone, Rv. 265290-01; Sez. VI, n. 33610 del 21/06/2010, Serva, Rv. 248271-01; Sez. VI, n. 36007 del 15/06/2004, Perrone, Rv. 229758-01; Sez. VI, n. 20118 del 8/03/2001, Di Bartolo, Rv. 218903-01.

[6] Art. 11, comma 1, T.U.B., “Raccolta del risparmio”.

[7] T.U.B. art. 2, comma 6, d.P.R. n. 144/2001.

[8] Art. 12 del d.P.R. 156/1973 «Le persone addette ai servizi postali, di bancoposta […], anche se dati in concessione ad uso pubblico, sono considerate pubblici ufficiali od incaricati di pubblico servizio, secondo la natura delle funzioni loro affidate, in conformità degli articoli 357 e 358 del codice penale».

[9] Art. 1 d.lgs. 30 luglio 1999, n. 284; art. 5, comma 7, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con l. n. 326/2003.

[10] Sez. VI, n. 18457 del 21/10/2014, dep. 2015, De Vito, Rv. 263359.

[11] Sez. VI, n. 33610 del 21/06/2010, Serva, Rv. 248271-01.

[12] Procedura Commissione Aiuto di stato n. C 49/2006, la quale ha condotto, in riferimento a Poste Italiane S.p.A., la valutazione del risparmio postale, esaminando se l’integrazione del rapporto con CDP costituisca un caso di “aiuto di Stato”.

[13] Cass., SS.UU., n. 10467 del 10/10/1981, Carfi, Rv, 151057.

[14] Cass., SS.UU., n. 8342 del 23/05/1987, Tuzet, Rv. 176405.

[15] Sez. VI, n. 18457 del 21/10/2014, dep. 2015, De Vito, Rv. 263359; Sez. VI, n. 18457 del 30/12/2014, dep. 2015, Romano, Rv. 263359; cfr., inoltre, Sez. VI, n. 42657 del 31/05/2018, Paolacci, Rv. 274289-01.

[16] Sez. VI, n. 18457 del 21/10/2014, dep. 2015, De Vito, Rv. 263359.

[17] V. Titoli di Stato come BTP e BOT; buoni postali ed altri titoli emessi da CDP; titoli degli enti territoriali.

[18] Art. 3 del d.P.R. n. 144/2001, comma 1 «Per quanto non diversamente previsto nel presente decreto, i rapporti con la clientela ed il conto corrente postale sono disciplinati in via contrattuale nel rispetto delle norme del codice civile e delle leggi speciali».

[19] Sul punto v. F. Lombardi, “La sospensione dall’esercizio della funzione tramite l’intervento cautelare”, in A. Scalfati (a cura di), “Il processo penale per i delitti contro la pubblica amministrazione”, Cacucci, Bari, 2024, pp. 82 ss.

[20] Cfr. D.M. Mef del 5 ottobre 2020, art. 2, “Altre operazioni assistite dalla garanzia dello Stato”.

[21] D.M. Mef del 5 ottobre 2020, art. 7, “Libretti di risparmio postale”, comma 7 «Ai libretti di risparmio postale sono applicabili le disposizioni recate dal codice civile in materia di libretti di deposito a risparmio».

[22] D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, “Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni”.

[23] Tale estensione dell’ambito di applicazione è avvenuta a seguito della procedura di infrazione n. 2012/2157 del 21 febbraio 2013, ai sensi dell'articolo 258 del Trattato, per violazione del diritto dell’Unione europea in relazione alla disciplina in materia di imposta di successione, con riferimento al regime dei titoli di Stato ed al principio di libera circolazione dei capitali.

[24] Con l’abrogazione dell’art. 4 del d.lgs. 22 luglio 1999, n. 261, disposta dall’art. 1 comma 57, lett. b), L. 4 agosto 2017, n. 124, con decorrenza dal 10 settembre 2017, si è operata la soppressione dell’attribuzione esclusiva a Poste Italiane S.p.a. quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi riguardanti la notificazione e comunicazione di atti giudiziari e le violazioni del codice della strada.

[25] Cfr. Cass, civ., SS.UU., n. 8673 del 28/03/2019, Rv. 653558-01; Corte dei conti, sent. n. 283 dell’11/10/2021.

[26] Cass. civ., SS.UU., sent. n. 1482 del 18/01/2022, Rv. 663720- 01.

[27] Cass. civ., SS.UU. ord. n. 8511 del 29/05/2012.

[28] F. Lombardi, “La sospensione dall’esercizio della funzione tramite l’intervento cautelare”, cit., p. 80.

[29] F. Lombardi, “La sospensione dall’esercizio della funzione tramite l’intervento cautelare”, cit., p. 82.

[30] Vedi Cass., Sez. VI, n. 22275 del 31/01/1974, Puglisi.

[31] Art. 2699 c.c. «L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato». Cfr. Cass. civ., SS.UU., sent. n. 215 del 09/04/1999, Rv. 525078-01.

[32] Cass., Sez. VI, n. 22275 del 31 gennaio 2024, in C.E.D. Cass., n. 286613.

[33] Art. 2700 c.c. «L’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti».

[34] Vedi nota 32.

[35] D.P.R. del 29 marzo 1973, n. 156, “Testo unico delle disposizioni legislative in materia postale, di bancoposta e di telecomunicazioni”.

[36] Art. 1835 c.c. «Se la banca rilascia un libretto di deposito a risparmio, i versamenti e i prelevamenti si devono annotare sul libretto. Le annotazioni sul libretto, firmate dall'impiegato della banca che appare addetto al servizio, fanno piena prova nei rapporti tra banca e depositante. È nullo ogni patto contrario».