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Pubbl. Sab, 30 Gen 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

La sentenza penale di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio

Fabio Zambuto


Analisi ragionata della regola contenuta nell´art. 533 c.p.p. Cosa si intende per ragionevole dubbio? Quando il dubbio è in grado di favorire l´assoluzione di un soggetto?


Sommario: I. Premessa – II. Al di là di ogni ragionevole dubbio – III. Primi incisivi commenti: l’essenza del dubbio – IV. Elaborazioni giurisprudenziali – V. L’assetto probatorio secondo le recenti pronunce della S.C.– VI. Conclusioni

Sommario: I. Premessa – II. Al di là di ogni ragionevole dubbio – III. Primi incisivi commenti: l’essenza del dubbio – IV. Elaborazioni giurisprudenziali – V. L’assetto probatorio secondo le recenti pronunce della S.C.– VI. Conclusioni

I. Premessa

La redazione della sentenza, e della sentenza penale in particolare, è comunemente percepita, nell’ambiente giudiziario, come un’attività da sempre consegnata alla pratica professionale del giudice; una manifestazione del proprio lavoro sedimentatasi nell’esperienza e tramandata in una formazione fortemente caratterizzata dal tirocinio iniziale e dai contatti diretti fra magistrati di diversa anzianità [1].

Non è possibile risalire ad una corretta nozione della sentenza penale se si prescinde dalla dottrina generale dell’atto processuale.

La sentenza, infatti, è tipicamente un atto del processo, anzi l’atto processuale per eccellenza, quello in cui si esprime, nel massimo della pienezza e della solennità, la stessa funzione giurisdizionale. Il codice di rito regolamenta sia l’aspetto procedimentale attraverso il quale il giudice delibera, sia la struttura che deve avere la decisione.

Il legislatore mira ad evidenziare l’aspetto di razionalità cui deve essere informato il momento della decisione, specie se trattasi di una pronuncia tendente a riconoscere la responsabilità penale dell’imputato.

Curiosa, in questi termini, appare la codificazione nel nostro ordinamento di quel principio caratterizzante gli ordinamenti giuridici oltre oceano tendente a riconoscere un soggetto colpevole soltanto qualora sia raggiunta la prova al di là di ogni ragionevole dubbio.

II. Al di là di ogni ragionevole dubbio

La sentenza dibattimentale di condanna, disciplinata dall’art. 533 c.p.p, si caratterizza per il riconoscimento della responsabilità penale dell’imputato e per la conseguente afflizione della pena. La disposizione prevedeva in passato che tale sentenza venisse pronunciata “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli”.

Essendosi abolita la formula assolutoria dell'insufficienza di prove, la legge richiedeva che alla condanna si pervenisse non già quando il soggetto non potesse essere assolto, come in qualche modo avveniva nel codice abrogato, bensì quando l'imputato risultasse colpevole del reato contestatogli: occorreva, cioè, che venissero raggiunte prove tali da poter affermare positivamente che l'imputato era colpevole e si tenesse conto che il riferimento alla colpevolezza valeva ad includere nel giudizio anche gli aspetti relativi all'imputabilità, all'assenza di scriminanti e quant'altro.

Ciò si richiedeva prima dell’intervento della legge n. 46 del 2006 (c.d. legge Pecorella) che ha mutato non di poco l’assetto normativo. 

E’ singolare notare che, prima della novella del 2006, in alcun sistema di civil law, contrassegnato dalla presenza dell’obbligo di motivazione, era riscontrabile tale criterio decisorio, viceversa diffuso e metabolizzato nei sistemi di common law che prevedono l’istituto della giuria emettente verdetto immotivato.

L’attuale disposizione, infatti, prescrive che il giudice pronunci sentenza di condanna quando ritiene che l’imputato sia colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.

Siffatta formulazione, di matrice nordamericana, era già stata recepita dalla giurisprudenza italiana con riferimento a particolari fattispecie di reato, quale parametro giustificativo della sentenza di condanna.

Il paradigma del beyond any reasonable doubt, contraddistinto dall’acronimo Bard, costituisce il più incisivo strumento orientativo delle decisioni delle Corti statunitensi, funzionale all’irrobustimento della presunzione di innocenza [2].

In particolare, In re Winship, 397 U.S. 358 (1970), è una decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti con cui, nel 1970, il massimo organo giurisdizionale statunitense ha stabilito che, quando un minorenne è accusato di una condotta che costituirebbe reato se commessa da un maggiorenne, per potersi addivenire ad una sentenza di condanna ogni elemento del fatto deve essere provato oltre ogni ragionevole dubbio.

Questa sentenza, emessa su ricorso della difesa di Samuel Winship, un dodicenne accusato di aver rubato 112 dollari dal portafogli di una donna, è stata il primo gradino per la creazione del principio più generale secondo cui in ogni processo penale (e quindi anche nel processo a carico di maggiorenni) per poter ritenere l'imputato colpevole ogni elemento essenziale del fatto reato deve essere provato al di là di ogni ragionevole dubbio.

Il principio che lo anima, assiologicamente, è quello che “è più equo assolvere dieci colpevoli che condannare un solo innocente”. 

Si tratta di una scelta di civiltà dell’ordinamento italiano [3], salutata come una rivoluzione copernicana nell’accertamento del fatto [4].

Contrariamente, vi è chi sostiene che questa sia una “verità ovvia”, e ritiene “enfatica” la formula, non potendo essere codificabile il grado di probabilità sufficiente alla condanna né tanto meno riducibile ad entità numeriche, sottolineando altresì come sia velleitaria l’illusione di una regola legale che predetermini ogni passo dell’iter decisorio [5].

L’origine statunitense della formula non deve trasmettere l’idea di una sua sostanziale estraneità alla cultura giuridica italiana. Già in epoca più risalente non erano mancati prestigiosi contributi dottrinali sul tema della protezione dei diritti dell’innocente.

Sicuramente vi è da chiedersi se prima della menzionata riforma, la formula Bard potesse vantare un fondamento normativo nell’ordinamento statale, sia pure implicito.

Si è visto come il precedente art. 533 fosse muto a riguardo, non potendo trarsi da esso nessuna regola né tantomeno indirizzo alla pronuncia del giudice.

Di conseguenza si è puntato ad una lettura sistematica di alcuni principi Costituzionali per affermare che la formula Bard fosse vigente nell’ordinamento ben prima che la legge n. 46 del 2006 la esplicitasse nel quadro del codice di rito [6].

In primo luogo sono stati indicati gli artt. 2 e 3 Cost., poiché se la dignità dell’uomo è fondamentale e l’individuo è riconosciuto titolare di diritti inviolabili, questo fa sì che la macchina processual penalistica non possa considerare l’uomo come un mero strumento utile al conseguimento di obiettivi di deterrenza [7]; ne discende una sorta di obbligo di protezione del cittadino sottoposto a procedimento penale, che, per essere conseguito efficientemente, richiede che i diritti dell’individuo siano compromessi solo al cospetto di un giudizio di responsabilità “certo”, al di là di ogni ragionevole dubbio[8].

In secondo luogo, vengono considerate le disposizioni della Costituzione riferite al sistema della giustizia penale, gli articoli 25 e 27.

Il principio di legalità funzionerebbe come «limite indiscusso al potere statale di punire, come garanzia del singolo e del funzionamento del sistema: limite e garanzia che sarebbero vanificati se l’ordinamento desse per scontata l’accettazione del rischio di condannare [9]».

La stessa presunzione di innocenza, che sembra vantare un vistoso collegamento con la formula Bard, acquista maggiore forza e contenuto se viene accostata alla funzione della pena; inoltre, affermare che “la responsabilità penale è personale”, come recita l’art. 27 comma 1, Cost., significa che la condanna può intervenire solo per ciò che l’uomo fa e quando si è sicuri che ha commesso il fatto: se non vi è certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, il rischio di condanna di un innocente si palesa in tutta la sua consistenza [10].

III. Primi incisivi commenti: l’essenza del dubbio

Diverse e contrastanti  sono state le reazioni all’introduzione della regola Bard nell’ordinamento: c’è chi ritiene trattasi di una dichiarazione di principio e non già di una regola pratica e nuova e distinta rispetto al quadro normativo pregresso [11]; secondo altra dottrina la previsione dell’art. 533, a parte il suo valore simbolico, non aggiunge nulla dal punto di vista prescrittivo a quanto desumibile dall’art. 530 in tema di assoluzione per mancanza, insufficienza e contraddittorietà della prova [12]; altri ancora sottolineano il carattere pleonastico della formula e si ritengono scettici sugli effetti concreti di tale regola, temendone lo svuotamento in sede normativa.

Non ogni dubbio “razionale”, ma solo il dubbio “ragionevole” può fondare una decisione che neghi la responsabilità, la colpevolezza dell’imputato. Da un punto di vista semantico, la regola appare “trasparente”, di immediata comprensione, se non addirittura suggestiva.

Il dubbio è quello che, senza cadere in contraddizione logica, può essere avanzato da una persona razionale, e per questo motivo non è errato sussumere che il thema decidendum del processo è la colpevolezza dell’imputato e non l’innocenza.

Il dubbio rappresenta il criterio negativo che deve infondersi al criterio positivo della colpevolezza; tuttavia, in dottrina si è osservato che lo schema dell’implicazione, “se A allora B”, dove non è possibile affermare A e negare B, senza contraddirsi, è inapplicabile ai rapporti tra prove e contenuto della decisione; se la colpevolezza dovesse discendere deduttivamente dalle prove, così da riuscire inconfutabile per qualsiasi persona razionale, ogni processo si concluderebbe con l’assoluzione [13]. A causa di ciò, il sintagma risulta composto anche dal sostantivo “ragionevole”, seppur vago, che ben delinea il contenuto intrinseco dello stesso.

In altre parole, “ragionevole” sta ad indicare il ragionamento induttivo del giudice, infatti, volutamente non sono stati adottati i sostantivi “razionale” e “logico”, che fanno riferimento invece al criterio deduttivo relazionato alla dimostrazione matematica e non alla prova empirica.

Quando non vi è alcun dubbio in merito all’innocenza dell’imputato, la decisione deve essere ovviamente a favore dello stesso; se, invece, sussiste un dubbio, la legge fornisce le direttive ermeneutico-applicative[14].

«La dialettica del dubbio si attiva solo se il dubbio è ragionevole. In un sistema a verdetto motivato, non solo le sentenze ma tutte le richieste, eccezioni e conclusioni delle parti devono essere motivate. Dunque, il dubbio ragionevole è quello per il quale possono essere date delle ragioni.

Non basta avanzare il dubbio, nudo e crudo: bisogna argomentarlo. La ragionevolezza è il criterio di rilevanza del dubbio. Un dubbio per il quale non possono essere date delle ragioni è un dubbio irrilevante e quindi inammissibile. Un dubbio processualmente inerte. [15]».

IV. Elaborazioni giurisprudenziali

La regola Bard era già stata elaborata, come sopra detto, dalla giurisprudenza, basti citare tra le molte pronunce la nota sentenza Franzese per cui il ragionevole dubbio è l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla costruzione del nesso causale in base all’evidenza disponibile, che comporta la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio [16][17].

E’ del 2002 anche un importante intervento della giurisprudenza di merito, che ha avuto modo di precisare come il principio Bard debba costituire la regola probatoria e di giudizio nel processo penale, indispensabile per assicurare la protezione degli innocenti ed il rispetto dei fondamenti costituzionali, trovando riscontro positivo negli artt. 2, 3 comma 1, 25 comma 2 e 27 Cost., così da costituire diritto vigente nell’ordinamento, di tal che l’organo giudicante deve pronunciare sentenza assolutoria di fronte a prove insufficienti o contraddittorie [18].

La Suprema Corte, ha, peraltro, insistito sul carattere meramente descrittivo e non sostanziale del principio del ragionevole dubbio, in considerazione della pregressa esistenza dello speculare art. 530, comma 2 c.p.p.

Di fatti, la Corte ha spiegato che «la previsione che il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, ha carattere meramente descrittivo, più che sostanziale, dato che anche in precedenza il ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava il proscioglimento [19]».

Oltre alle pronunce giurisprudenziali antecedenti alla legge n.46 del 2006 e ai riferimenti costituzionali citati, è opportuno tenere presente che indiretto riferimento normativo lo si può trarre dall’art. 6 Cedu, che sancisce la presunzione di non colpevolezza: la permanenza di un dubbio ragionevole in ordine alla responsabilità dell’imputato non consentirebbe, infatti, di superare la presunzione di innocenza, concepito dunque, come equipollente del tradizionale principio in dubio pro reo.

La giurisprudenza successiva alla legge n.46 menzionata, ha chiarito l’ambito di applicabilità del nuovo principio ed in particolare la sua importanza nel momento decisionale nella misura in cui nel procedimento penale inevitabilmente si rappresentano prospettazioni di alternative ricostruzioni dei fatti.

In questi casi «devono essere individuati tutti gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile [20]».

Il principio de quo, poi, deve essere in ogni caso applicato a tutte le componenti del giudizio e, pertanto, anche alle circostanze aggravanti, elementi fattuali considerati dal legislatore idonei a determinare un'amplificazione del trattamento sanzionatorio.

Ci si trova dinanzi ad una regola probatoria e di giudizio essenziale per un processo penale costruito in chiave accusatoria, che sancisce l’eguaglianza sostanziale tra le parti e si fonda sul presupposto che è meglio correre il rischio di assolvere un colpevole che condannare un innocente, ed è anche l’assetto Costituzionale a confermare tale assunto. 

Il principio secondo cui la condanna può essere pronunciata solo se l'imputato risulta colpevole al là di ogni ragionevole dubbio implica, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, e su cui é fondata la condanna in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla prospettazione alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile[21].

V. L’assetto probatorio secondo le recenti pronunce della Corte di Cassazione

Quanto all’oggetto della prova al di là di ogni ragionevole dubbio, essa deve riguardare l’accertamento del fatto, delle eventuali circostanze e della responsabilità dell’imputato, realizzato attraverso il metodo popperiano della verificazione-falsificazione dell’ipotesi.

Di conseguenza, in presenza di un incompleto quadro probatorio non è possibile pervenire ad una sentenza di condanna, dovendo la condotta addebitata all’imputato essere provata per intero senza che si possa fondare la pronuncia sull’assunto che i fatti provati consentano di immaginare con sufficiente approssimazione i fatti non provati, poiché in tal caso si impone una sentenza di assoluzione ex art. 530 comma 2 [22].

Appare utile richiamare a questo punto la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sulla vicenda Cogne, per la quale risulta chiaro che il giudice debba orientarsi verso la condanna solo quando l’istruttoria abbia prodotto un corpo probatorio che si posiziona “al di sopra” del Bard, lasciando fuori solo delle eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana [23][24].

Il comma 1 dell’art. 533 individua in positivo il presupposto di tale pronuncia nell’accertamento della colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio; va precisato che il riferimento dell’accertamento della colpevolezza al reato contestato è improprio e non va inteso alla lettera, poiché il giudice potrebbe dare al fatto contestato, nei limiti che gli sono imposti, una diversa definizione giuridica ex art. 521 comma 1 c.p.p.[25] .

Oltre all’accertamento della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, il giudice, nell’emettere sentenza di condanna, deve irrogare la pena. Quanto al contenuto della sentenza di condanna, il comma 1 precisa che il giudice applica la pena ed eventualmente la misura di sicurezza conseguenti all’accertamento della colpevolezza dell’imputato.

In dottrina [26] è stato affermato che la statuizione sulla responsabilità e l’applicazione della pena rappresentano, unitamente alla condanna al pagamento delle spese processuali, il contenuto minimo ed essenziale della sentenza di condanna , mentre tra le disposizioni eventuali rientrano l’applicazione di pene accessorie, di misure di sicurezza e dei benefici di legge di cui al successivo comma 3.

Il condannato viene altresì dichiarato, nei casi previsti dalla legge, delinquente o contravventore abituale, professionale o per tendenza, e tale declaratoria, come è noto, costituisce presupposto eventuale per l’applicazione di eventuali misure di sicurezza.

La regola di giudizio dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio", secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell'imputato, postula che il materiale probatorio posto a fondamento della decisione sia stato acquisito in assenza di circostanze idonee ad inficiarne l'attendibilità, essendo il giudice procedente tenuto ad attivare i propri poteri per dissipare eventuali opacità[27].

In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato nel quale erano state utilizzate dichiarazioni accusatorie, assunte nel corso delle indagini preliminari - senza l'assistenza dell'ausiliario o di un ufficiale di P.G. - da un rappresentante dell'ufficio del pubblico ministero che, dopo la discussione in primo grado, era stato sottoposto alla misura custodiale in carcere per i reati di concussione e corruzione in atti giudiziari, a lui contestati in relazione a particolari rapporti intrattenuti con soggetti potenzialmente coincidenti con i dichiaranti, ma non agevolmente identificabili dalla difesa, perché in sede di rinvio venissero compiuti gli approfondimenti istruttori necessari a verificare tale ipotizzata coincidenza, e, più in generale, la genuinità e l'attendibilità delle predette dichiarazioni[28].

Stante quanto sin qui affermato, curiosa appare una pronuncia della Suprema Corte, quantomeno in termini di rispetto del principio in analisi, per cui non viola la regola del Bard il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza assolutoria di primo grado valutando diversamente il medesimo compendio probatorio, purché delinei con adeguata motivazione le linee portanti del proprio alternativo percorso argomentativo, che metta in evidenza le ragioni di incompletezza o incoerenza del provvedimento riformato[29].

Altrettanto curiosa appare invece una pronuncia del 2015 tendente ad utilizzare la regola del Bard come strumento idoneo ad eliminare qualsivoglia tipologia di disparità di trattamento.

La Suprema Corte infatti ha affermato che viola il principio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" il giudice che, nell'accertare la responsabilità di imputato pregiudicato, adotti modalità diverse da quelle adoperate nei confronti di imputato incensurato, in quanto gli effetti giuridici dei precedenti incidono esclusivamente sul trattamento sanzionatorio, ma non anche sulle caratteristiche dell'accertamento e della correlata motivazione in ordine alla responsabilità per i reati contestati, nel senso di agevolarla ponendo una sorta di presunzione relativa di fondatezza dell'accusa[30].

Ricorre il vizio della motivazione contraddittoria o perplessa allorquando in sentenza si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice - conducenti ad esiti diversi - siano state poste a base del suo convincimento[31].

VI. Conclusioni

Concludendo questa breve ricostruzione, è possibile affermare che la decisione di condanna richiede una ricostruzione tale da smentire ogni altra configurazione del fatto: la regola dell’oltre il ragionevole dubbio impone, per condannare, che lo standard di probabilità si proietti verso l’alto così da rendere fermamente credibile l’ipotesi di accusa.

Il principio in esame non mira a restringere il libero convincimento, né tantomeno a porre argini coercitivi, esso al più rappresenta un coadiuvante, un “promemoria” al giudice di merito, il quale una volta giunto ad una ricostruzione tale da smentire ogni altra configura-zione del fatto, può e deve pronunciarsi sulla condanna dell’imputato.

Da qui l'avallo alla funzione svolta dal nuovo art. 533, il quale non soltanto impone una pronuncia di condanna unicamente a fronte di eventualità remote, ma allo stesso tempo contrasta eventuali pronunce giurisprudenziali che si sono verificate in sede d'accertamento negli ultimi anni, per cui sempre più spesso i giudici interpretavano in maniera “elastica” il criterio del libero convincimento. Il dubbio ragionevole, imponendosi nella motivazione, richiede al giudicante di spiegare le ragioni per cui ritiene attendibili le prove poste a fondamento della propria decisione.

La valutazione complessiva del quadro probatorio deve essere condotta con l’estremo rigore che il criterio di cui all’art. 533 c.p.p. impone, e ancora più prudente dovrà farsi il giudizio di concordanza laddove i singoli indizi manifestino carenze di certezza ma anche di valore dimostrativo.

Alla stregua di ciò, può dirsi che tanto più la convergenza sia stata impiegata come fattore di correzione dei deficit di portata dimostrativa dei singoli indizi, tanto meno vi si potrà fare ricorso per rimediare alla loro incertezza.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] C. ZAZA, La sentenza penale, Giuffrè, Milano, 2011, XIII.
[2] C. PIERGALLINI, La regola dell’oltre ragionevole dubbio al banco di prova di un ordinamento di civil law, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 596.
[3] F. D’ALESSANDO, La certezza del nesso causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di Cassazione sull’“oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. proc. pen, 2002, 743.
[4] C. E. PALIERO, Il “ragionevole dubbio” diventa criterio, in Guida dir., 2006, 10, 73.
[5] F. CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, Milano, 2006, 1001.
[6] Tale prospettiva è stata seguita da F. STELLA, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2003, 116.
[7] F. STELLA, Giustizia e modernità La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2003, 212.
[8] C. ZAZA, La sentenza penale, cit., 29.
[9] F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., 214.
[10] F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., 215.
[11] E. FASSONE, Il giudizio, in E. Fortuna – S. Dragone – E. Fassone – R. Giustozzi , Manuale pratico del processo penale, Cedam, Padova, 2007, 1022.
[12] G. ILLUMINATI, Giudizio, in G. Conso – V. Grevi (a cura di), Compendio di procedura penale, Cedam, Padova, 2003, 762.
[13] P. FERRUA, Il giusto processo, Bologna, 2007, 291.
[14] E. FASSONE, Il giudizio, cit. , 1020.
[15] F. IACOVIELLO, Lo standard probatorio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in Cassazione, in Cass. pen., 2006, 3876.
[16] F. STELLA, Giustizia e modernità, cit., 217.
[17] Cass. pen. sez. un., 10 luglio 2002, Franzese, cit.
[18] Corte Ass. Milano, 11 luglio 2002, Cammarata e altro, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 654.
[19] Cass. pen., sez. II, 21 aprile 2006, n. 19575, in Ced Cass., 233785.
[20] Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2011, n.30862, in Ced Cass., 250903.
[21] Cass. pen. Sez. 4, Sentenza n. 22257 del 25/03/2014 Ud.  (dep. 29/05/2014) Rv. 259204.
[22] Cass. pen., sez. VI, 21 aprile 1997, Angelini, in Cass. pen., 1999, 1904.
[23]Cass. pen., Sez. I, n. 31456 del 21/5/2008 (dep. 29/07/2008).
[24] In tal senso vi sono state anche pronunce successive non dissimili come: Cass. pen., sez. I, 21 aprile 2010, n.19933, in Dir. proc. pen., 2011, 203.
[25] E. FASSONE, Il giudizio, cit. , 1022.
[26] D. SIRACUSANO, Il giudizio, in D. Siracusano – D. Galati – A. Tranchina – G. Zappalà, Diritto processuale penale, I, Giuffrè, Milano, 2004, 379.
[27] Cass. Pen. Sez. 6, Sentenza n. 21314 del 05/03/2015 Ud.  (dep. 21/05/2015) Rv. 263565, in www.italgiure.it
[28] E. FASSONE, Il giudizio, cit. , 1023.
[29] Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 17812 del 09/04/2015 Ud.  (dep. 29/04/2015 ) Rv. 263763, in www.italgiure.it
[30] Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 32328 del 03/06/2015 Ud.  (dep. 23/07/2015 ) Rv. 264198, in www.italgiure.it.
[31] Cass. pen. Sez. 2, Sentenza n. 12329 del 04/03/2010 Ud.  (dep. 29/03/2010 ) Rv. 247229, in www.italgiure.it.
Immagine di copertina: Galileo davanti all’Inquisizione, 1857, Cristiano Banti - Collezione privata