Pubbl. Ven, 29 Gen 2016
L’osservanza delle decisioni della Corte Europea Dei Diritti dell´Uomo e delle Libertà Fondamentali
Modifica paginaLo stato italiano, in ragione della cospicua produzione giurisprudenziale da parte della Corte e.d.u., prendendo atto di ciò, deve rendersi parte diligente nella tutela dei diritti fondamentali tutelati dalla stessa Corte. Quest´ultima, in particolare, si è essa stessa definita vittima del suo stesso successo e tali contingenze non possono essere sottovalutate dagli Stati membri.
Sommario: Premessa. - 1. La natura dell’obbligo convenzionale. – 2. Il contenuto dell’obbligo convenzionale. – 3. Le precisazioni contenute nella Convenzione sul contenuto dell’obbligo volto all’esecuzione della sentenza. – 4. Il carattere imprevedibile della Corte in merito alla determinazione del contenuto dell’obbligo e le “sentenze pilota”. – 5. L’intervento del Comitato in materia di “adempimento” delle sentenze.
Premessa
Negli ultimi anni, si è assistito ad una notevole crescita, della tutela dei diritti umani.
Tale tutela divenuta ormai presupposto imprescindibile della nuova società occidentale, vede coinvolti tre ordinamenti: quello nazionale, comunitario ed internazionale, i quali confrontandosi reciprocamente, da un lato, esprimono sempre più la necessità di sostenersi l’un con gli altri in relazione alla fondamentale caratteristica di cui sono portatori (rappresentata proprio dai diritti fondamentali), dall’altro, mirano alla creazione di un limite per la violazione degli stessi diritti, da parte degli Stati, e cercano di far confluire all’interno degli ordinamenti nazionali, quel patrimonio di valori condivisi dei quali i diritti dell’uomo costituiscono, appunto, l’essenza.
All’interno di tale contesto si inserisce, come imponente protagonista la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (detta comunemente CEDU), la quale trova le sue radici nella dichiarazione dei diritti umani del 1984.
La CEDU è un patto per molti aspetti differente rispetto ad un normale trattato internazionale, paragonabile ad una sorta di “terzo livello di legalità” per i 47 Paesi del Consiglio d’Europa, in quanto strumento capace di creare uno spazio giuridico comune europeo, in cui i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali garantite dalla stessa occupano il primo posto e, dove gli Stati valgono come soggetti responsabili dinnanzi alla comunità internazionale. Una tra le più importanti conquiste della Convenzione è l’aver introdotto un organo internazionale “super partes” con funzioni giurisdizionali predisposto alla tutela dei diritti garantiti nella stessa Convenzione: la Corte europea.
Ed infatti, tutti gli Stati firmatari della Convenzione europea hanno, da un lato, riconosciuto all’interno del proprio ordinamento i diritti ivi prescritti, dall’altro, hanno ammesso la soggezione alla Corte di Strasburgo rinunciando, dunque, alla loro sovranità.
La rilevanza che la Corte assume nel “Sistema europeo”, permette che i diritti affermati dalla CEDU siano garantiti in ogni singolo ordinamento ad essa aderente, non soltanto secondo il dato letterale, ma anche secondo la lettura che ne è data dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il dato certo che emerge, dunque, induce a pensare ad un modello in continuo divenire e proiettato verso la celebrazione effettiva di un processo giusto.
Il “giusto” o “equo” processo, garantito dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 Cedu, è un principio al cui interno è possibile intravedere diversi ideali, che proprio in relazione alla terminologia utilizzata, si identificano come un punto di arrivo, anche per il continuo divenire di modelli processuali, mai al passo con i tempi, prassi ed esigenze concrete che spesso si scontrano con il modello di riferimento. Per tale motivo, in ogni Stato membro, si tende a realizzare un modello processuale, conforme alle norme e alla giurisprudenza sovranazionale.
1. La natura dell’obbligo convenzionale.
È noto che il contributo più rilevante dato dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, alla promozione dello sviluppo dei diritti umani, è rappresentato dalla possibilità che tali diritti ricevano tutela giudiziaria a livello europeo. [1] In proposito va ricordato che il sistema previsto antecedentemente dalla Convenzione europea, attribuiva il compito che gli Stati parti rispettassero i diritti ivi riconosciuti, a due organi indipendenti, la Commissione europea dei diritti dell’uomo e la Corte europea dei diritti dell’uomo, e a un organo intergovernativo di natura politica, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Inoltre, la partecipazione di uno Stato alla Convenzione non determinava per ciò stesso la possibilità di presentare un ricorso contro di lui a livello europeo, in caso di violazione di un diritto contemplato dalla Convenzione. La possibilità che un individuo, che si ritenesse vittima di una violazione, adisse la Commissione e che quest’ultima o uno stato parte sottoponesse un ricorso alla Corte europea erano subordinate, infatti, all’accettazione da parte dello Stato convenuto della competenza rispettivamente della Commissione e della Corte. [2] La competenza di tali organi era quindi “facoltativa” e “clausole facoltative” erano denominate le disposizioni della Convenzione che prevedevano tale competenza.
Il sistema di tutela dei diritti umani fu, successivamente, modificato dal protocollo n.11, il quale abolì la Commissione, limitò il ruolo del Comitato dei Ministri soprattutto alla sorveglianza sulla esecuzione delle sentenze della Corte e rese obbligatoria la competenza di quest’ultima.[3] La Corte rimane, pertanto, l’unico organo giudiziario della Convenzione dotata espressamente della cosiddetta “competenza della competenza”. Infatti, in caso di contestazione sulla competenza della Corte è la stessa che decide. La Convenzione stabilisce sotto diversi profili il proprio ambito di applicazione, vincolando ogni Stato membro solo a partire dal momento del deposito dello strumento di ratifica; ciò implica che se un comportamento anteriore allo Stato, contrario agli obblighi nascenti dalla Convenzione continua dopo la ratifica, lo Stato ne risponde e può essere sottoposto al giudizio della Corte. [4]
Essendo la Convenzione applicabile solo nei confronti degli Stati parti, solo questi ultimi hanno la legittimazione attiva, oltre agli individui, a presentare un ricorso alla Corte, e per converso la legittimazione passiva ad essere convenuti dinnanzi ad essa.
In ordine all’ambito di applicazione della Convenzione, si fa discendere dalla norma contenuta nell’art. 1, l’obbligo per lo Stato di riconoscere a chiunque sia soggetto alla giurisdizione di una parte contraente, i diritti e le libertà in essa definiti. Non vi è dubbio, quindi, che ogni Stato sia tenuto a rispettare i diritti umani nel proprio territorio e che di conseguenza la competenza della Corte comprenda tutte le eventuali violazioni ivi commesse.
Come si evince chiaramente da ciò, l’obbligo per lo Stato di adempiere alle norme convenzionali, si inserisce in un contesto istituzionale dal quale emerge un ordine giuridico autonomo da quello dei singoli Stati, ma non per questo diviso da essi, poiché collegato al principio di sussidiarietà fra l’ordinamento giuridico nazionale e quello sovranazionale.[5]
Il sistema di tutela europeo appare connesso con quello interno nella misura in cui sussiste dunque, per quest’ultimo, l’obbligo di contemplare in concreto misure volte ad eseguire le sentenze della Corte.[6]
2. Il contenuto dell’obbligo convenzionale.
Per una migliore comprensione sul contenuto dell’obbligo specifico, occorre prendere le mosse dal ruolo affidato dalla Convenzione, alla Corte ed al Comitato.
La Convenzione, infatti, attribuisce alla Corte una competenza che si espande a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione stessa. Appare opportuno sottolineare che tale competenza si riferisce soltanto alle questioni previste espressamente dagli artt. 33 e 34.
Ai sensi dell’art. 33 uno Stato parte può deferire alla Corte, qualunque inosservanza delle disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli che ritenga possa essere imputata ad un altro Stato parte, anche se la violazione non lo pregiudichi in alcun modo né riguardi un suo cittadino. In altri termini, gli Stati si mostrano contrari ad assumere l’iniziativa di citare un altro Stato dinnanzi alla Corte.
Al contrario, ai sensi dell’art. 34, l’individuo (inteso come persona fisica, organizzazione non governativa o un gruppo di privati) è legittimato a ricorrere alla Corte solo se ritenga di essere vittima di una violazione ad opera di uno Stato parte. Il diritto al ricorso individuale è garantito dall’obbligo degli Stati, di non impedirne l’effettivo esercizio. La qualità di “vittima” richiede, dunque, che il ricorrente dichiari di essere colpito, in maniera diretta dalla violazione di un diritto dal quale egli sia titolare. [7]
Per quanto riguarda l’ambito di operatività sul quale la Corte è chiamata a vigilare, occorre prendere in considerazione le caratteristiche del contenzioso instaurato davanti alla Corte stessa. Difatti, quest’ultima non deve valutare la compatibilità della legge con le disposizioni della Convenzione, bensì esaminare le modalità di applicazione di tale legge nel caso di specie a lei sottoposto e quando questa abbia originato un pregiudizio ricorrente.[8]
Inoltre, le sentenze della Corte servono non solo a decidere il caso di cui essa è investita, ma anche a spiegare, proteggere e approfondire le norme della Convenzione e contribuire in tal modo al rispetto da parte degli Stati, degli impegni da loro assunti in qualità di parti contraenti.
Emerge, dunque che lo scopo principale del sistema di tutela penale europea è sì di proporre all’individuo la possibilità di ricorrere all’organo giudiziario previsto dalla Convenzione, ma anche di far decidere nell’interesse generale questioni che riguardano l’ordine pubblico, elevando le norme di tutela dei diritti dell’uomo ed estendendo la giurisprudenza in questo ambito all’insieme della comunità degli Stati parti della Convenzione.
3. Le precisazioni contenute nella Convenzione sul contenuto dell’obbligo volto all’esecuzione della sentenza.
L’attività di decisione dei ricorsi individuali è da sempre considerata di natura dichiarativa, in quanto la Corte procede ad una statuizione sull’esistenza o meno della reclamata violazione della Convenzione. La Corte è, infatti, chiamata a valutare il rispetto da parte dello Stato convenuto dei diritti e delle libertà salvaguardati dalla Cedu e dai suoi Protocolli, nell’ambito della situazione portata a sua conoscenza, ma non ha il potere di abrogare le norme contestate, di annullare le sentenze giurisdizionali nazionali o di annullare gli atti amministrativi interni.[9] Tuttavia, può ravvisarsi la possibilità che la Corte adotti in seno alla medesima sentenza di accertamento un provvedimento di condanna.
L’art. 41 Cedu riconosce, infatti, alla Corte il potere di accordare un’equa soddisfazione alla parte lesa, sul presupposto che sia stata riscontrata una violazione del testo convenzionale e che il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permetta, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze della violazione (restitutio in integrum). La disposizione dell’equa soddisfazione a favore della vittima, pone il problema del rapporto con le altre misure di esecuzione della sentenza che gli Stati membri devono adottare ai sensi dell’art. 46 della Convenzione europea. Il riconoscimento della somma di denaro è volto a sostituire l’eliminazione di quelle conseguenze della violazione che non siano perfettamente rimovibili; tale impossibilità può essere di natura materiale, ovvero dovuta alla tipologia di lesione occorsa, oppure di natura giuridica cioè connessa ad ostacoli presenti nel sistema giuridico nazionale.[10]
4. Il carattere imprevedibile della Corte in merito alla determinazione del contenuto dell’obbligo e le “sentenze pilota”.
La giurisprudenza della Corte in materia di esecuzione delle sentenze non ha quasi mai posto al centro della sua attenzione l’argomento della restitutio in integrum.
Tale atteggiamento lo si è notato nei confronti di tutte quelle disposizioni della Convenzione che si assumono violate in una data fattispecie, con l’eccezione della norma che tutela il diritto di proprietà, per la quale la Corte nel caso in cui non restituisca il bene illegittimamente sottratto al ricorrente, stabilisce soluzioni che consentono una riflessione sulla natura e l’ammontare preciso del pregiudizio subito.
Dopo aver sostenuto che la sentenza ha un valore puramente “declaratorio”, nel senso di riservare al Comitato la facoltà di poter individuare il preciso contenuto dell’obbligo a carico dello Stato, la Corte non si è sottratta a formulazioni di più ampio respiro, tentando di delimitare il tema delle conseguenze derivanti da una sentenza di condanna.
Ed invero, nel caso Scozzari e Giunta c. Italia la Corte ha precisato che lo Stato convenuto è chiamato non solo a versare agli interessati le somme indicate a titolo di equa soddisfazione, ma anche a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei ministri, le misure generali e se del caso individuali da adottare al suo ordine giuridico interno allo scopo di porre fine alla violazione contestata dalla Corte e di rimuoverne, per quanto possibile, le conseguenze. In virtù dell’art. 41 Cedu, pertanto, lo scopo delle somme accordate a titolo di equa soddisfazione è unicamente quello di provvedere ad una riparazione dei danni subiti dagli interessati, nella misura in cui questi costituiscono una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere rimossa.[11]
E’ evidente che la Corte appare timorosa di individuare il contenuto di un obbligo specifico in capo allo Stato, volto a stabilire lo “status quo ante”. Discende da ciò la considerazione che la Corte con la sentenza non determina quale tipo di misura individuale sia più adatta ad eliminare le conseguenze della violazione, per mettere il ricorrente nella posizione nella quale si sarebbe trovato se non vi fosse stata quella determinata violazione.
Bisogna rilevare che nella giurisprudenza della Corte sembra delinearsi un processo destinato a precisare, per alcune violazioni, l’ambito entro il quale le autorità nazionali dovrebbero operare al fine di riparare il pregiudizio subito dal ricorrente, che l’equa soddisfazione eventualmente accordata, non riesce a coprire integralmente. Si tratta dei casi che riguardano aspetti processual-penalistici in ordine all’osservanza del “giusto processo” (art. 6 Cedu).[12]
Sul tema specifico, dell’imparzialità del Tribunale, in merito alla quale sia stata appurata una violazione dei principi del giusto processo, la Corte ha precisato che il miglior modo di dare attuazione alla sentenza sarebbe quello di prevedere il rinnovamento della stessa procedura, e quindi un nuovo processo, su richiesta dell’interessato, secondo le linee individuate dalla sentenza.[13]
Per quanto riguarda, poi, il contenuto e l’esecuzione delle sentenze della Corte europea, occorre precisare che, grazie anche ad esplicite sollecitazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, negli anni recenti si è verificata una profonda evoluzione. La Corte mette chiaramente in luce l’esistenza delle violazioni sistemiche o strutturali della Convenzione, quelle cioè insite nella legislazione dello Stato o nella prassi giudiziaria o amministrativa, tali da condurre inevitabilmente a violazioni di disposizioni della Convenzione ogni qual volta la legge (o la prassi) in questione venga applicata.[14] Tali situazioni comportano, in primo luogo, una mera moltiplicazione delle violazioni pregiudicando, quindi, l’efficacia della Convenzione nell’ordinamento dello Stato in questione; in secondo luogo, generano una notevole quantità di ricorsi alla Corte, da parte di coloro che si trovano nella medesima situazione del ricorrente che abbia vinto la causa dinnanzi alla Corte.
Riguardo alle violazioni della Convenzione europea di siffatta natura, la Corte ha elaborato una procedura detta: “sentenza pilota”. Con essa la Corte EDU individua nella sentenza il problema strutturale o sistemico di violazione della Convenzione esistente in un dato Stato e sollevato dal ricorso e stabilisce le misure che lo Stato deve adottare per annullare il problema, assegnandogli un termine per prendere provvedimenti. Nel contempo sospende l’esame dei ricorsi analoghi, salvo a riassumerli, qualora lo Stato non prenda in considerazione le misure previste nel termine assegnato dalla Corte. [15] Per tale via si cerca di rimuovere il problema strutturale, prevedendo violazioni future e si tende a limitare l’esame della Corte al solo caso pilota, con una sentenza in grado di soddisfare i diritti degli altri ricorrenti attraverso l’adozione delle misure richieste allo Stato convenuto.[16]
5. L’intervento del Comitato in materia di “adempimento” delle sentenze.
E’ pacifica l’idea che il ruolo di controllo che compete al Comitato è condizionato dall’attività giudiziaria della Corte. Compete, infatti, a quest’ultima non solo interpretare in modo autentico le norme della Convenzione, ma anche di applicarle alla fattispecie di cui essa è investita nell’ambito del contenzioso. Occorre, poi, precisare che la Corte non si spinge fino alle ultime conseguenze del proprio ruolo essa, invero, si ritrae come per sottolineare che, in ambito sovranazionale, l’azione del “giudicante” deve necessariamente coinvolgere la comunità degli Stati che ha posto in essere il sistema di tutela. Da ciò discende una ripartizione di compiti all’interno della quale il Comitato, che rappresenta appunto tale comunità di Stati, esplica il proprio ruolo restringendo in tal modo l’eccessivo “judicil self-restraint” della Corte nella determinazione del contenuto degli obblighi.
Il Comitato, quindi, può giovarsi dei suoi poteri per indurre lo Stato interessato a rimediare all’alterazione che caratterizza la violazione accertata.
Ne consegue che il sistema di controllo europeo creato dalla Cedu nel suo insieme, sia in relazione alla fase giudiziaria sia per quella politico-giurisdizionale dell’esecuzione, non può prescindere dall’accettazione continuativa da parte degli Stati di una disciplina che può apparire eccessivamente invasiva del loro dominio. Da ciò deriva non solo la durata importante della fase dell’esecuzione, ma anche i disagi del Comitato di indicare le misure individuali e generali (ottenibili dalla decisione della Corte), che possono contemporaneamente essere ricavate dall’attività giudiziaria della Corte e che possono essere realmente accettate dalla Stato e in modo particolare dai suoi organi giurisdizionali, come obblighi giuridici cogenti derivanti dalla Convenzione europea.
[1] U. VILLANI, La tutela giudiziaria, cit., 17.
[2] M. DE SALVIA, Il diritto di ricorso individuale alla Commissione, in Aa. Vv., La tutela dei diritti del cittadino davanti alla Corte europea si Strasburgo. Normativa e giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1989, p. 311 ss.
[3] G. RAIMONDI, Il protocollo n. 11 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: una Corte unica per la protezione dei diritti in Europa, in Riv. intern. dir. uomo, 1994, p. 61 ss.
[4] V. MANES, Introduzione, in V. Manes – V. Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento penale italiano, Giuffrè, Milano, 2011, p. 21.
[5] M. DE SALVIA, Sistema europeo e sistemi nazionali di protezione dei diritti dell’uomo: subordinazione, sussidiarietà?, in Riv. intrern. dir. uomo, 1994, p. 24 ss.
[6] B. RANDAZZO, L’adeguamento dell’Italia alla giurisprudenza di Strasburgo, cit., 330.
[7] F. VIGANO’, Obblighi convenzionali di tutela penale?, cit., p. 253.
[8] A. GAITO, Procedura penale e garanzie europee, Utet, Torino, 2006, p. 23.
[9] I. CABRAL BARRETO, L’impatto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della giurisprudenza della Corte europea sulla giurisprudenza nazionale, in Riv. intern. dir. uomo, 2001, p. 99.
[10] F. CRISAFULLI, “Il pagamento dell’equa soddisfazione”, in Aa. V.v., La Corte europea dei diritti umani e l’esecuzione delle sue sentenze, Editoriale scientifica, Napoli, 2003, p. 87 ss.
[11] Corte eur., Scozzari e Giuta c. Italia, 13 luglio 2000, par. 249.
[12] M. DE SALVIA, Il ruolo sfuggente ed imprevedibile della Corte., cit., 74.
[13] Corte eur., Gencel, 23 ottobre 2003, par. 27.
[14] U. VILLANI, La tutela giudiziaria, cit., 30.
[15] M. CAIANIELLO, Un fenomeno nuovo, cit., 549.
[16] V. SCIARABBA, Diritti e principi fondamentali in Europa: profili costituzionali e comparati, Cedam, Padova, 2008, p. 312.