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Pubbl. Mer, 31 Lug 2024
Sottoposto a PEER REVIEW

Enforcement antitrust: strumenti, strategie e casi di studio italiani

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Ida Virtuoso
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Salerno



L´articolo esamina il quadro normativo e giurisprudenziale in materia di nullità antitrust in Italia. Partendo dall´analisi della normativa costituzionale e sovranazionale, viene trattato il sistema delle tutele antitrust, distinguendo tra enforcement pubblico e privato. Si approfondiscono, inoltre, gli orientamenti giurisprudenziali riguardanti la nullità delle intese anticoncorrenziali, con particolare attenzione alla legittimazione dei privati ad agire e alle tutele risarcitorie e reali disponibili. L'analisi involge anche le recenti pronunce in tema di “clausole Euribor”, ponendole in comparazione con il sistema delineato in tema di fideiussioni “omnibus” dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite.


ENG

Antitrust enforcement: tools, strategies and cases law in Italy

The article examines the regulatory and jurisprudential framework regarding antitrust nullity in Italy. Starting from the analysis of constitutional and supranational regulations, it addresses the antitrust protection system, distinguishing between public and private enforcement. It further delves into jurisprudential orientations concerning the nullity of anti-competitive agreements, with particular focus on the legitimacy of private actions and the available compensatory and real protections. The analysis also involves recent rulings on ”Euribor clauses,” comparing them with the system outlined by the United Sections of the Supreme Court of Cassation on "omnibus" guarantees.

Sommario: 1. Il sostrato costituzionale e sovranazionale in tema di normativa antitrust - 2. Il sistema delle tutele (cenni) – 3. Disciplina antitrust e settore bancario – 4. Tutela del privato e «nullità antitrust». Ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia – 5. La tutela «obbligatoria» da illecito anticoncorrenziale. I rapporti con la «tutela reale» – 5.1. Cenni sul perimetro applicativo dell’art. 33, l. 287/1990 – 6. Analogie e differenze con la querelle delle “clausole Euribor”.

1. Il sostrato costituzionale e sovranazionale in tema di normativa antitrust

Sulla scorta di quanto contemplato dalla previsione costituzionale di cui all’art. 41[1], la «concorrenza» tra imprese si connota come una situazione di mercato che postula una grande libertà di accesso all’attività economica da parte degli imprenditori, ma altresì una altrettanto ampia possibilità di libera scelta per gli acquirenti e, in generale, la possibilità per ciascuno di cogliere le migliori opportunità disponibili sul mercato, o proporre nuove opportunità, senza imposizioni da parte dello Stato o vincoli predeterminati da coalizioni d’imprese[2].

Di qui l’introduzione, in pressoché tutti i Paesi occidentali[3], della disciplina antitrust, che regola i rapporti tra imprenditori e consente un corretto svolgimento dei rapporti concorrenziali[4]. Al bilanciamento tra le giustapposte esigenze di garanzia della libera esplicazione della iniziativa economica privata e della tutela dei consumatori – quali soggetti del mercato al pari degli imprenditori – ha provveduto, quindi, in Italia, la legge antitrust 10 ottobre 1990 n. 287, il cui art. 2 considera – come  si è visto – vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare – in qualsiasi forma e in maniera sostanziale – il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante[5]. Tale articolato normativo segna indubbiamente un punto di svolta della politica economica e legislativa italiana[6]. Per la prima volta l’art. 41 Cost. assurge ad architrave del sistema concorrenziale, fondato sul riconoscimento della libertà d’iniziativa d’impresa (art. 1), cui possono essere posti tendenzialmente solo i limiti generali stabiliti dalla medesima legge. Il divieto di intese restrittive (art. 2), di abuso di posizione dominante (art. 3) e di concentrazione anticoncorrenziale (art. 6) integrano le regole fondamentali che presiedono al funzionamento del mercato, che assume una rinnovata centralità nell’assetto costituzionale. La legge antitrust diviene lo strumento per decodificare sotto una nuova luce l’art. 41 Cost., sicché il modello economico di riferimento è quello concorrenziale[7].

Siffatta impostazione presuppone sia la libertà d’impresa, sia la presenza di peculiari forme di verifica amministrativa, in particolare quelle dirette a mantenere le condizioni che consentono lo svolgimento costante del gioco della concorrenza tra le imprese.

All’amministrazione non spetta più incidere in via diretta sugli assetti della produzione e dello scambio, ma solo garantire che i protagonisti di esso – le imprese e i consumatori – possano operare secondo scelte autonome e non falsate dalla presenza di accordi collusivi o dall’esercizio unilaterale del potere di mercato[8]. La presa di coscienza circa la necessità per lo Stato di rivestire un ruolo diverso imponeva l’elaborazione di schemi eccentrici rispetto alla tradizione amministrativa dell’ordinamento italiano. Inoltre, la vis actractiva esercitata dal sistema europeo di applicazione delle regole in materia, che vede protagonista la Commissione, influenzò il dibattito parlamentare circa le funzioni da assegnare all’Autorità di concorrenza[9].

Prevalse l’opzione che promuoveva l’istituzione di una peculiare amministrazione, non soggetta ai poteri di indiritto del Governo e dotata di precise garanzie di indipendenza e stabilità, che avesse non solo compiti di natura istruttoria, ma anche funzioni decisoria. Le ragioni di tale scelta muovevano da esigenze pratiche, connesse con il non efficiente funzionamento della giustizia e, quindi, con il timore che il nuovo istituto risultasse poco incisivo ed efficace[10].  

In Europa, nel periodo postbellico si fece strada, in maniera sempre più marcata, l’esigenza di riequilibrare le forze in campo, al fine di impedire il ripetersi delle situazioni di eccessiva concentrazione economica e di collusione economico-politica degli anni Trenta del Novecento. Gli artt. 65 e 66 del Trattato CECA, siglato nel 1951 tra Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda, vietavano espressamente i cartelli e gli accordi restrittivi della concorrenza, le condotte abusive di una posizione dominante, nonché le concentrazioni tali da creare una posizione di dominio nel mercato comune o da falsare la concorrenza tra gli Stati membri[11]. Successivamente, nel corso del processo di integrazione europea[12], il Trattato istitutivo della Comunità Europea (Trattato CEE) formulava esplicitamente l’obiettivo di tutela della concorrenza, all’art. 3, lett. g)[13].

Il Trattato CEE si occupava della materia antitrust agli artt. 85 e 86. Il primo vietava gli accordi, le decisioni di associazioni e le pratiche concertate aventi quale oggetto o effetto una restrizione della concorrenza, salva la possibilità di esenzione dal divieto in presenza di alcune condizioni. La seconda disposizione contemplava il divieto di abuso di posizione dominante da parte di una o più imprese. Il Regolamento (CE) n. 4064, emanato nel 1989, completava il quadro normativo introducendo un corpus di disposizioni sul controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese. Il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, ha – in parte – modificato il quadro appena descritto[14]. Nessuna modifica, invece, hanno subìto le norme concernenti i divieti di intesa e di abuso di posizione dominante, le quali sono state solo ricollocate all’interno del TFUE con una differente numerazione (cfr. artt. 101 e 102). 

In ambito sovranazionale, le politiche di concorrenza comunitarie sono state influenzate dall’obiettivo dell’integrazione delle varie realtà nazionali in un unico mercato “comune”, nella costante ricerca di un equilibrio che tenga in considerazione anche la salvaguardia del benessere del consumatore, seppur nella tradizionale accezione economica della nozione. Tuttavia, è possibile osservare come, nel corso del tempo, sia stato codificato il modo in cui tenere conto anche di obbiettivi ulteriori, come la materia dello sviluppo sostenibile[15].

Nel complesso iter di «modernizzazione» del diritto antitrust europeo[16], la Commissione – sebbene si sia affrancata da visioni più formalistiche – non ha mai obliterato l’approccio economico alla valutazione delle singole fattispecie anticoncorrenziali, pur sottolineando come le politiche antitrust debbano mirare a tutelare il buon funzionamento del mercato anche sotto il profilo della cd. fairness. La Commissione ritiene che una rigorosa applicazione delle norme a tutela della concorrenza rappresenti il mezzo migliore per il benessere dei consumatori e della collettività e, al medesimo tempo, per garantire una equa ripartizione della ricchezza. Le prime indicazioni relative alle nuove linee guida in materia di abusi escludenti che la Commissione ha annunciato per il 2025 confermano che saranno apportati alcuni affinamenti nell’analisi, ma sempre comunque nell’alveo dell’«effect based approach» finora adottato[17].

 2. Il sistema delle tutele (cenni)

La disciplina antitrust segue un doppio binario, l’uno di public antitrust enforcement, teleologicamente orientato alla tutela dell’interesse pubblico alla concorrenza del mercato e affidato alle Autorità pubbliche di concorrenza (in Europa, Commissione Europea e Autorità nazionali di concorrenza)[18], l’altro di private antitrust enforcement, destinato alla tutela degli interessi privati dei soggetti lesi dalle condotte anticoncorrenziali ed affidato, di regola, alle Autorità giudiziarie ordinarie[19]. In altre parole, mentre la Commissione europea e le autorità di concorrenza vigilano sul rispetto degli artt. 101 e 102 TFUE e sono dotate, nell’interesse pubblico, del potere di constatare l’esistenza di infrazioni, anche già cessate, ordinarne la cessazione ed imporre sanzioni alle imprese responsabili, i giudici nazionali tutelano i diritti delle controversie fra privati[20]. A completamento del quadro fin qui delineato, si aggiunge quanto disciplinato dalla Direttiva 2014/104/UE, il cui obiettivo è proprio quello di «garantire un’efficace applicazione a livello privatistico a norma del diritto civile e un’efficace applicazione a livello pubblicistico da parte delle autorità garanti della concorrenza» degli artt. 101 e 102 TFUE[21], regolamentando le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’ Unione europea.

Prima di tale intervento legislativo sovranazionale, in Italia, il privato poteva invocare dinanzi al giudice competente sia la violazione delle norme nazionali ex art. 33, l. 287/1990, sia la violazione delle regole del Trattato, esperendo due tipologie di azioni cd. di “follow-on” o di “stand alone”, ma il diritto al risarcimento del danno antitrust, in assenza di una disciplina uniforme in materia sia a livello nazionale che a livello europeo, non conosceva ancora un’adeguata tutela, soprattutto in relazione alle difficoltà per la vittima di siffatto danno di fornire la prova rigorosa del danno subìto[22].

Sempre in tema di private enforcement, occorre precisare che, a livello sovranazionale, il legislatore è intervenuto solo negli anni più recenti. Egli si è a lungo astenuto dal dettare una normativa in materia in considerazione del fatto che essa esula dalle competenze esclusive dell’Unione europea, rientrando piuttosto tra quelle concorrenti, governate dal principio di sussidiarietà.

Può dirsi, quindi, che il private enforcement sia nato e si sia sviluppato in via pretoria, grazie all’impulso della Corte di giustizia, la quale si è espressa a riguardo in svariate pronunce che hanno dato vita ad un significativo formante, si pensi alla sentenza Courage del 20 settembre 2001 o alla sentenza Manfredi del 13 luglio 2006[23].

Punto di svolta è rappresentato dalla Direttiva UE 2014/104, che ha rimosso gli ostacoli esistenti per l’integrale risarcimento del danno, garantendo così un livello uniforme di tutela per i cittadini e le imprese di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. In Italia, suddetta Direttiva è stata recepita con il decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 3, il quale ha attuato i principi espressi nella Direttiva, riconoscendo un ruolo decisivo al diritto di accesso alla prova, onde far fronte alla grave asimmetria informativa che contraddistingue il contenzioso di settore e garantendo, al contempo, che le informazioni riservate siano adeguatamente protette; disciplinando la divulgazione delle prove incluse nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza e l’efficacia della violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’AGCM passata “in giudicato”, da considerarsi definitivamente accertata nei confronti dell’autore e della constatazione di una violazione degli artt. 101 o 102 TFUE adottata in altro Stato Membro.

Sono specificati, altresì, i criteri di quantificazione del danno, escludendo espressamente ogni forma di “sovra-compensazione”; nel caso di danno derivante da un accordo di cartello o l’onere della prova sul danno è invertita; infine, il decreto legislativo introduce misure per favorire la risoluzione consensuale delle controversie e stabilisce la prescrizione dell’azione in cinque anni[24].

3. Disciplina antitrust e settore bancario

Per lungo tempo, si è ritenuto che il settore bancario fosse refrattario alle istanze provenienti dalla legislazione antitrust[25]. Tale opzione ermeneutica si fondava sull’esclusività dei poteri di controllo affidati alla Banca d’Italia in tema di concorrenza, nonché sul presunto carattere cd. sezionale dell’ordinamento bancario[26]. Il dato normativo confortava – in passato – siffatta ricostruzione. Infatti, la legge 10 ottobre 1990, n. 287 (cd. legge antitrust) attribuiva la competenza ad applicare le disposizioni antitrust all’organo di governo del settore bancario, anziché all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). In questo contesto, l’intervento della Banca d’Italia avrebbe potuto privilegiare la stabilità nell’applicazione delle norme antitrust, per esempio autorizzando una concentrazione tra banche pur se restrittiva della concorrenza per far fronte ad una crisi degli operatori bancari[27].

Tuttavia, l’affermarsi del principio di uguaglianza antitrust[28] come corollario della disciplina concorrenziale comunitaria[29] ed interna, presuppone l’inclusione – a tutti gli effetti – delle aziende bancarie nel concetto di impresa fatto proprio dal diritto antitrust. Siffatta ricostruzione ritiene irrilevante la proprietà pubblica degli istituti di credito, stante la portata dell’art. 8, l. 287/1990, che dispone una parità di «trattamento antitrust» tra imprese pubbliche e private; anche perché, inoltre, la deroga alle norme antitrust prevista da summenzionato articolo richiede l’affidamento (di solito a mezzo concessione) di un servizio di interesse generale, mentre le banche esercitano la loro attività in regime di autorizzazione[30].

L’orientamento consolidato ribadisce, dunque, l’estensibilità della disciplina antimonopolistica anche alle intese bancarie, con riferimento al divieto sia di intese volte a fissare in modo uniforme e vincolante i prezzi dei servizi resi dalle banche alla clientela, sia di intese bancarie che abbiano ad oggetto accordi sui tassi di interesse creditori riconosciuti dalle banche alla loro clientela[31]. Pertanto, sul fronte della concorrenza bancaria il quadro odierno appare estremamente composito e variegato in termini di organi e competenze. In primo luogo, è necessario porre come spartiacque l’entrata in vigore della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (cd. legge sul risparmio)[32].

Originariamente, la l. 287/1990 non riconosceva all’AGCM la competenza antitrust nei confronti delle banche, attribuendo la stessa alla Banca d’Italia, quale autorità di vigilanza del settore (cfr. art. 20, co. 2). Tale riparto di competenza, in passato, ha reso possibile la salvezza di intese anticoncorrenziali esentate dalla Banca d’Italia per esigenze di stabilità economica (cfr. art. 4)[33]. Tali intese seguivano un regime “speciale”. Infatti, l’art. 20, co. 5, l. 287/1990 abilitava la Banca d’Italia ad autorizzare per un periodo di tempo limitato un’intesa restrittiva della concorrenza vietata ai sensi dell’art. 2 per ragioni di «stabilità del sistema monetario»; l’autorizzazione doveva essere accordata «d’intesa con» l’AGCM. Secondo parte della dottrina, la Banca d’Italia aveva rintracciato, all’interno dell’articolato normativo della disciplina generale antitrust, gli strumenti per esentare in via “ordinaria” gli accordi ritenuti utili o, comunque, indispensabili al settore[34].

Il meccanismo di coordinamento tra la Banca d’Italia e l’AGCM obbligava la prima a richiedere un parere a quest’ultima prima dell’adozione di una determinazione in materia concorrenziale. L’AGCM era tenuta a pronunciarsi «entro 30 giorni dal ricevimento della documentazione posta a fondamento del provvedimento», spirati inutilmente i quali la Banca d’Italia poteva comunque adottare il provvedimento di sua competenza (cfr. art. 20., co. 3)[35]. L’armonizzazione delle attività delle due autorità era, inoltre, garantito dal co. 6 dell’art. 20, che attribuiva all’AGCM il potere di segnalare alla Banca d’Italia eventuali condotte anticoncorrenziali sulle quali intervenire. Anche il provvedimento già menzionato, con il quale la Banca d’Italia poteva autorizzare intese anticoncorrenziali per esigenze di «stabilità del sistema monetario» (cfr. art. 20, co. 5) doveva essere adottato d’intesa con l’AGCM, a cui spettava valutare se l’intesa potesse comportare l’«l’eliminazione della concorrenza»[36].

L’entrata in vigore della legge sul risparmio (l. 262/2005) e del relativo correttivo (d.lgs. 303/2006) ha comportato la traslazione della competenza ad applicare le norme antitrust dalla Banca d’Italia all’AGCM. Attualmente, dunque, la tutela del mercato bancario è affidata a due autorità distinte, con conseguente assunzione separata di responsabilità, ratione materiae, e con una rinuncia implicita al bagaglio di know how tesaurizzato dalla Banca d’Italia[37]. Con precipuo riguardo all’esenzione “speciale”, la vecchia disciplina dell’autorizzazione temporanea di intese per ragioni di “stabilità del sistema monetario” (art. 20, co. 5) è venuta meno per effetto dell’art. 19, l. n. 262/2005, il quale ha preso atto dell’avvenuto trasferimento delle competenze in materia di politica monetaria dalla Banca d’Italia alla Banca Centrale Europea. Essa è stata dunque sostituita dal comma 5-bis, lett. a) dell’art. art. 20 tramite una deroga eccezionale al divieto di intese per ragioni di «funzionalità del sistema dei pagamenti». Ad oggi, l’AGCM può – su richiesta della Banca d’Italia – autorizzare un’intesa vietata per tutelare i sistemi di pagamento, avendo quale parametro le condizioni di cui all’art. 4.

La differenza rispetto al passato risiede nella circostanza che, mentre nel sistema previgente si richiedeva che la Banca d’Italia e l’AGCM adottassero d’intesa il provvedimento di esenzione, ora ciò non è più richiesto, essendo sufficiente la mera richiesta da parte della Banca d’Italia. In continuità con la disciplina precedente, tuttavia, si richiede comunque che l’AGCM, nel concedere tale autorizzazione, debba tenere conto dei criteri generali previsti dall’art. 4, precisando che l’autorizzazione non può consentire restrizioni «non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità indicate», obliterando il riferimento concernente la valutazione circa l’eliminazione della concorrenza (cfr. co. 5-ter). Infine, il nuovo art. 20 non contempla più l’obbligo di acquisizione di un parere della Banca d’Italia nei procedimenti bancari antitrust gestiti dall’AGCM[38].

4. Tutela del privato e «nullità antitrust». Ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali in materia

Il formante giurisprudenziale in materia è variegato ed articolato, e non offre soluzioni univoche. Una prima decisione sul tema ha effettuato talune importanti precisazioni, interpretando in senso più ampio il riferimento alle «intese» fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, di cui all'art. 2 della legge n. 287 del 1990, assumendo che il legislatore, con la suddetta disposizione normativa, abbia inteso in realtà proibire il fatto della distorsione della concorrenza in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche. Tale distorsione, pertanto, ben può essere il frutto anche di comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali».

Diviene così rilevante qualsiasi tipo di condotta di mercato (anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale), purché con la consapevole partecipazione di almeno due imprese, nonché anche le fattispecie in cui il meccanismo di «intesa» rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente «unilaterali»[39] (cfr. Cass., 827/1999).

Una successiva decisione in materia ha affrontato lo specifico tema delle tutele azionabili dal privato, cliente della banca, che abbia stipulato un contratto di fideiussione che riproduca, in tutto o in parte il contenuto di un’intesa conclusa in violazione della succitata normativa antitrust, escludendo in radice la legittimazione del consumatore finale a proporre una qualsiasi forma di azione, spettando tale legittimazione solo alle imprese danneggiate dall’intesa (cfr. Cass. 17475/2002). Una terza pronuncia, pur estendendo la legittimazione a far valere la nullità dell’intesa anche ai privati non imprenditori, che abbiano stipulato contratti a valle, ha, tuttavia, ristretto la tutela alla proponibilità della sola azione risarcitoria, escludendo in radice la tutela reale (cfr. Cass. 9384/2003).

La svolta decisiva è segnata in materia – in termini di maggiore tutela dei privati – da una sentenza delle Sezioni Unite[40], secondo la quale la legge antitrust  detta norme (cfr. art. 2) a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse processualmente rilevante alla conservazione del suo carattere competitivo, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un'intesa vietata. Al riguardo va tenuto conto, da un lato, che di fronte ad un'intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore - acquirente finale del prodotto offerto dal mercato - vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall'altro, che il cosiddetto contratto «a valle» costituisce lo sbocco dell'intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti.

Da ciò se ne inferisce che, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ., il consumatore finale che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione «a monte», ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l'azione di accertamento della nullità dell'intesa e di risarcimento del danno di cui all'art. 33 della legge n. 287/1990[41].

In obiter dictum, la Corte ha operato un importante riferimento alla problematica concernente il contratto stipulato a valle dell’intesa vietata. In particolare, la decisione in esame ha affermato che «il consumatore, che è l'acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto, la funzione illecita di una intesa si realizza, per l'appunto, con la “sostituzione” del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta “apparente”. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito.

A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anti-competitiva a monte lo rende, rispetto ad essa, non scindibile». In termini diversi, stante il «collegamento funzionale» con la volontà anti-competitiva a monte, ai contratti a valle non può attribuirsi un rilievo giuridico diverso rispetto all’intesa che li precede: nulla essendo quest’ultima, la nullità non può che inficiare anche l’atto conseguenziale.

Fattispecie diversa è quella relativa ad un contratto, stipulato da un’impresa (bancaria o assicurativa), che recepisce, in tutto o in parte, il contenuto dell’intesa poi dichiarata nulla dall’Autorità di vigilanza. Al problema la più recente giurisprudenza di legittimità non ha fornito risposte univoche, sebbene l’indirizzo prevalente sia senz’altro orientato ad ammettere la «tutela reale», a fianco di quella risarcitoria. Particolare importanza riveste, sotto questo profilo, una decisione con la quale la Corte di Cassazione ha richiamato, e fatto proprio un orientamento più risalente (cfr. Cass. n. 827/1999), laddove ha affermato che la distorsione della concorrenza ben può essere realizzata anche mediante comportamenti «non contrattuali» o «non negoziali».

A tal proposito, il giudice di legittimità osserva che allorché l'articolo 2, co.3, l. antitrust stabilisce la nullità delle «intese», non abbia inteso dar rilevanza esclusivamente all'eventuale negozio giuridico originario postosi all'origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza. È evidente, pertanto, che la pronuncia in esame si pone nell’ottica della nullità complessiva e totale, sia della intesa a monte (peraltro già dichiarata dall’Autorità garante), sia del successivo atto a valle (nel caso di specie, una fideiussione, cfr. Cass., 29810/2017; conf. Cass. 6523/2021).

Altre pronunce si pongono, invece, nell’ottica della nullità parziale, ex art. 1419 c.c., della fideiussione a valle dell’intesa vietata, limitatamente, cioè, alle clausole che riproducono le clausole nn. 2, 6 e 8 dell’intesa ABI vietata a monte.

La nullità integrale del contratto in conseguenza della nullità di singole clausole si determina solo se risulta che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in mancanza di quelle clausole; il che sarebbe logicamente da escludere, trattandosi di clausole a favore della banca (cfr. Cass. 24044/2019; Cass. 3556/2020).

Da ultimo, le Sezioni Unite si sono orientate, tra le varie opzioni di tutela riconoscibili al cliente-fideiussore, per la tesi della nullità parziale[42]. In particolare, rintracciando nella normativa antitrust la ratio diretta a garantire un bilanciamento tra libertà di concorrenza e tutela delle situazioni giuridiche facenti capo a soggetti diversi dagli imprenditori, precisa che la legge antitrust «detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari, non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato» (i.e. i consumatori), tenuto conto che il «contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale e realizzarne e ad attuarne gli effetti». In tale prospettiva, dunque il destinatario è legittimato ad esperire sia la tutela reale che quella risarcitoria. Sotto l’egida della medesima ratio, inoltre, il tenore letterale dell’art. 2, comma 3, della l. n. 287/1990, poi, è a sua volta inequivoco nello stabilire che «le intese vietate sono nulle ad ogni effetto».

È evidente, infatti, che siffatta previsione – ed in particolare la locuzione «ad ogni effetto», riproduttiva, nella materia de quo, del principio generale secondo cui quod nullum est nullum producit effectum – legittima la conclusione dell’invalidità anche dei contratti che realizzano l’intesa vietata.

Con specifico riferimento alla questione relativa all’insufficienza della tutela risarcitoria[43] – qualora riconosciuta da sola, senza la tutela reale – le Sezioni Unite hanno osservato che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto.  Ed invero l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno.

Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si può rivelare un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento del sistema antitrust nel suo complesso (v. infra).

Ad ulteriore corredo del quadro appena delineato, si pongono una serie di conseguenze sul piano sia sostanziale che processuale, scaturenti dalla ritenuta nullità parziale del contratto di fideiussione a valle dell’intesa vietata. Da siffatta opzione interpretativa deriva, in primis, che le fideiussioni restano pienamente valide ed efficaci, sebbene depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle dalla Banca d’Italia, in quanto anticoncorrenziali, coerentemente a quanto sancito dall’art. 1419 c.c. Ne discende, inoltre, la rilevabilità d’ufficio di tale nullità da parte dell’organo giudicante, nei limiti stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità a presidio del principio processuale della domanda (artt. 99 e 112 cod. proc. civ.)[44]. Infine, alla qualificazione di nullità parziale della fideiussione consegue, altresì, l’imprescrittibilità dell’azione di nullità (cfr. Cass. 15 novembre 2010, n. 23057) e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c., ricorrendone i relativi presupposti, nonché dell’azione di risarcimento dei danni.

In conclusione, è d’uopo dare atto di una opzione ermeneutica in antitesi con la ricostruzione offerta dalla pronuncia delle Sezioni Unite. Secondo tale diversa corrente interpretativa, in particolare, la nullità delle intese anticoncorrenziali, alla stregua dell’art. 2, comma 2, lett a) e comma 3 della legge antitrust, comporterebbe la totale nullità delle fideiussioni, riproducenti le clausole nn. 2, 6 e 8 dello «schema ABI», in conseguenza del rapporto strumentale esistente tra la garanzia a valle e l’intesa a monte. Una simile interpretazione si fonda sul rilievo per cui il collegamento «funzionale» tra intesa “a monte” e fideiussione “a valle” sarebbe sussumibile in un vero e proprio «collegamento negoziale», rendendosi pertanto necessaria una valutazione unitaria della fattispecie e l’applicazione del principio simul stabunt simul cadent. I due accordi costituirebbero, in altri termini, una pratica «complessivamente illecita», sicché la nullità prevista per l’intesa si trasmetterebbe tout court anche ai contratti che a questa danno attuazione[45].

Nell’ambito del medesimo indirizzo ermeneutico, poi, altri interpreti hanno sostenuto l’illiceità della causa delle fideiussioni (cfr. art. 1343 c.c.), inferendone la nullità delle stesse ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, c.c., giacché tali negozi realizzerebbero una funzione illecita, siccome contrari alle norme imperative sulle intese anticoncorrenziali; altri ancora  hanno paventato l’ illiceità dell’oggetto, in quanto il contratto a valle «assorbe» le statuizioni illecite della concertazione a monte o dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali, quali gli artt. 41 Cost., 101 TFUE e 2 l. 287/90[46]. Un altro orientamento – sempre nell’ambito della tesi della nullità assoluta – ritiene che quest’ultima sarebbe non testuale, ma virtuale, derivando dalla violazione diretta delle norme imperative anticoncorrenziali.

Si afferma, al riguardo, che le previsioni degli artt. 1941, 1939 e 1957 c.c. sarebbero singolarmente derogabili, nondimeno la loro deroga cumulativa – in quanto si tradurrebbe in un effetto distorsivo della competizione di mercato – entrerebbe in contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 2, comma 2, lett. a), dando luogo all’integrale nullità del contratto[47].

5. La tutela «obbligatoria» da illecito anticoncorrenziale. I rapporti con la «tutela reale»

La recente pronuncia delle Sezioni Unite intesse una serie di argomentazioni a sostegno dell’ammissibilità, accanto alla tutela risarcitoria, anche di quella «reale».

Alla stregua del principio di effettività, per cui è necessario eliminare ogni incentivo per le imprese (nel caso di specie, per le Banche) a formare cartelli, privandole di ogni possibile vantaggio connesso alle operazioni realizzate in esecuzione delle intese anticoncorrenziali, la tesi della nullità dei contratti di fideiussione “a valle” dell’intesa antitrust sarebbe preferibile rispetto a quella che ammette la sola tutela risarcitoria, poiché la dichiarazione della nullità del contratto “a valle” ne determinerebbe la totale caducazione e quindi l’eliminazione ex tunc di tutti i suoi effetti (con relativi obblighi di restituzione), facendo così venir meno ogni possibile effetto vantaggioso per l’impresa che dallo stesso contratto potrebbe derivare[48].

Al contrario, il solo rimedio risarcitorio, deputato a proteggere il singolo consumatore che abbia in concreto subito un danno, sarebbe inidoneo a garantire la piena realizzazione della ratio legis, giacché non tutti i soggetti danneggiati agiscono in giudizio (e comunque non tutti coloro che agiscono in giudizio riescono ad ottenere l’accoglimento della pretesa risarcitoria) e quindi l’obbligo di risarcire i danni subiti dal singolo consumatore non potrebbe avere una effettiva efficacia deterrente per le imprese che hanno recepito le clausole illecite nelle fideiussioni “a valle”. Infatti, nell’ottica del giudice di legittimità, l’invalidità sarebbe operativa sul piano assiologico, realizzando una funzione ulteriore rispetto all’interesse (di protezione) delle parti o all’interesse pubblico alla rimozione degli effetti del singolo contratto. Inoltre, presenterebbe altresì una funzione «costruttiva» del mercato concorrenziale; infatti non solo elimina l’atto contrario alla creazione del valore economico protetto o alla scelta politica che seleziona l’interesse pubblico prevalente, ma, in quanto inerente alla regola di comportamento che genera il valore protetto, dissuade altresì «chiunque» dal realizzare le condizioni di illiceità dell’intesa[49].

Tuttavia, voci contrarie osservano come, incidendo l’intesa anticoncorrenziale “a monte” sull’interesse generale al corretto funzionamento del mercato interno – nel senso che erode la libertà negoziale dei contraenti, impedendo loro di cercare alternative diverse e, quindi, di sottrarsi al tentativo delle Banche di sfruttare a proprio vantaggio il potere di definire unilateralmente le condizioni contrattuali – il cortocircuito interesserebbe l’alveo del sinallagma e, dunque, la soluzione al problema sarebbe da individuare non nell’applicazione di rimedi caducatori, bensì in azioni aventi una funzione di riequilibrio contrattuale[50].

5.1 Cenni sul perimetro applicativo dell’art. 33, l. 287/1990

Ragioni di completezza nella trattazione dell’argomento suggeriscono una breve riflessione in merito al perimetro applicativo dell’art. 33 della l. n. 287/1990[51], giacché nei giudizi in cui è eccepita la nullità della fideiussione per la violazione della normativa antitrust, il profilo della competenza del giudice adito assume rilievo primario. In questo senso, il nesso cd. «funzionale» intercorrente tra l’intesa “a monte” e la fideiussione “a valle” si riverbera anche in punto di determinazione della competenza, poiché presuppone che la violazione della normativa in materia di antitrust assuma la veste di fatto costitutivo della nullità del contratto. In altre parole, la nullità predicata dal singolo contraente deriva dalla invalidità dell’intesa “a monte” della stipula della fideiussione, per contrarietà al diritto della concorrenza; pertanto, non può sostenersi che la qualità della specifica controversia, come attinente alla legge n. 287/1990, art. 33, venga poi meno.

La necessità di valutare la coincidenza tra la fideiussione oggetto di causa e il testo frutto dell’intesa restrittiva della concorrenza richiede di estendere l’accertamento alla sorte dell’intesa restrittiva, che, dunque, finisce per rientrare nell’oggetto del processo[52].

Pertanto, in queste ipotesi, la competenza sarebbe proprio quella funzionale e inderogabile fissata dall’art. 33 in capo alle Sezioni Specializzate, così come determinate in forza del richiamo agli artt. 3, co. 1, e 4, co. 1-ter, del decreto legislativo 168/2003[53], che devono essere letti in combinato disposto ed alla luce delle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 3/2017.

Sotto il profilo squisitamente applicativo, quanto appena descritto implica che, a fronte di un giudizio vòlto a far valere la presunta nullità delle fideiussioni per violazione della normativa antitrust (sia che si tratti di un’azione autonoma incardinata dall’Autorità garante, sia che si tratti di un’opposizione a decreto ingiuntivo), il creditore dovrà previamente verificare la corretta competenza del tribunale adito avendo cura, in caso di erronea individuazione da parte dell’attore/opponente del foro competente, di sollevare relativa eccezione di incompetenza, rilevabile anche d’ufficio entro e non oltre la prima udienza (cfr. art. 38 c.p.c.). Se ciò è vero nelle ipotesi in cui la declaratoria di nullità costituisce oggetto di una specifica azione, più problematica è la questione che si profila qualora la nullità venga proposta in via di eccezione, anche riconvenzionale. In tal caso, si potrebbe infatti ritenere che, rimanendo siffatta domanda nell’alveo delle eccezioni di nullità in senso lato, e, pertanto, meramente diretta alla paralisi della pretesa avversaria e non all’accertamento in via principale della nullità con efficacia di giudicato, la competenza a decidere su tale eccezione potrebbe permanere in capo al giudice non specializzato.

6. Analogie e differenze con la querelle delle “clausole Euribor

Nel quadro relativo al dibattito giurisprudenziale circa i rimedi esperibili in caso di accordi ritenuti astrattamente esecutivi di intese anticoncorrenziali, si colloca altresì la questione relativa alla potenziale nullità di clausole di fissazione del tasso di interesse nei rapporti di finanziamento ancorate ad un indice manipolato, per violazione della normativa a tutela della concorrenza.

Tuttavia, rispetto al caso delle cd. fideiussioni omnibus (v. supra), la vicenda concernente le clausole cd. «Euribor» si pone in maniera più eccentrica, giacché queste ultime non sono, di per sé, oggetto diretto dell’intesa limitativa della concorrenza, né si realizza un cartello di prezzi finalizzato al coordinamento delle condizioni economiche applicabili ai prodotti bancari. La questione de quo, infatti, coinvolge l’impiego, all’interno dei contratti bancari, di un valore esterno – richiamato per relationem – ai fini della determinazione dell’oggetto della prestazione. Il riferimento di cui si discute è un indice su tassi di interesse, ed il ricorso al medesimo è funzionale a determinare la prestazione di interessi, tra gli altri, nei contratti di finanziamento a tasso variabile. L’indice può essere definito come una misura calcolata secondo una metodologia predeterminata, sulla base di un set di dati.

Nel caso in cui tale indice sia impiegato come parametro di riferimento per altri strumenti o contratti finanziari, lo stesso prende il nome di benchmark, ovvero indice di riferimento[54]. I cd. indici sui tassi di interesse vengono normalmente espressi in forma percentuale e con riferimento a una durata temporale; esprimono un valore di apprezzamento e di scambio basato su quotazioni o operazioni effettive aventi ad oggetto la valuta rappresentata dall’indice[55].

L’ «Euribor» (acronimo di Euro Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in euro) indica una famiglia di tassi di riferimento[56], calcolati a cadenza giornaliera[57], che rappresentano il tasso di interesse medio al quale, all’interno del sistema interbancario, vengono condotte operazioni bancarie a breve termine all’interno dell’Unione Monetaria Europea[58]. In altre parole, l’indice rappresenta un indicatore medio di costo della provvista, cioè la potenziale fonte di approvvigionamento di denaro per la banca finanziatrice, alternativa all’impiego dei depositi versati dai clienti, o di impiego di liquidità sul mercato interbancario[59]. L’impiego di indici sui tassi di interesse, alla stregua dell’Euribor, reca con sé il vantaggio pratico di ridurre i costi di transazione e di migliorare la liquidità, fissando i prezzi e rendendoli più intellegibili attraverso un procedimento di standardizzazione[60].

In Italia, il tasso Euribor è utilizzato (anche) per determinare il valore di tasso di interesse variabile applicabile ad un’operazione di finanziamento (i.e. mutui alle imprese e consumatori, credito ai consumatori, leasing, etc.): in altre parole, il «tasso finito» è dato dalla somma dell’indice Euribor e di un cd. “margine”, che sintetizza alcuni elementi di profitto per il finanziatore, tra cui la valutazione di rischiosità del prestito effettuato.

In epoca recente, gli indicatori in questione hanno suscitato l’attenzione dei regolatori internazionali a seguito di alcuni scandali di particolare gravità, relativi alle manipolazioni degli indici di riferimento su tassi di interesse da parte di primarie banche internazionali, mettendo in dubbio l’attendibilità delle quotazioni ad opera dei soggetti coinvolti nella fornitura delle submission a causa di una rilevante posizione di conflitto di interessi, a tutt’oggi sussistente, in capo alle stesse banche segnalanti, che da una parte contribuiscono alla formazione dell’indice ma, dall’altro, impiegano il medesimo indice nelle proprie contrattazioni[61].

In questo contesto, è d’uopo menzionare la decisione della Commissione europea del 4 dicembre 2013 in tema di manipolazione del tasso Euribor che ha, da un lato, dato avvio ad una fase di profondo ripensamento della materia da parte dei principali organismi internazionali e, dall’altro, ha condotto all’emanazione del Regolamento 1011/2016(UE) sugli indici di riferimento (cd. Regolamento Benchmark, abbreviato in “BMR”) ed alla determinazione delle fattispecie di illecito relative alla manipolazione degli indici[62]. In particolare, le condotte rilevanti riguardano talune attività collusive (scambi di informazioni riservate tra traders, consultazioni, contratti tra membri del trading floor e funzionari delle banche incaricati di determinare e comunicare le quotazioni relative all’Euribor), avvenute nel periodo compreso tra il 31 marzo 2005 e il 30 maggio 2008.

L’obbiettivo dell’intesa era quello di influenzare l’oscillazione dell’Euribor e trarne, quindi, vantaggio nel contesto dell’esecuzione di tali contratti derivati. I soggetti coinvolti nell’infrazione sono esclusivamente le banche dell’intesa (non operanti sul mercato dei prestiti retail in Italia). La Commissione europea, pertanto, ha rilevato una violazione dell’articolo 101 TFUE in materia di intese concorrenziali e ha comminato sanzioni alle banche coinvolte.

In Italia, il dibattito in materia è detonato a seguito di una pronuncia di legittimità[63] con la quale è stata dichiarata la nullità dei tassi manipolati, con conseguente rideterminazione degli interessi nel periodo coinvolto dalla manipolazione, a prescindere dal fatto che all’intesa illecita avesse o meno partecipato la banca convenuta in giudizio, in virtù di una interpretazione estensiva dell’art. 2, l. 287/1990, che coinvolgerebbe qualunque contratto o negozio «a valle» che costituisca applicazione delle intese illecite concluse «a monte», giacché il primo «costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti»[64].

A questo punto, occorre domandarsi se lo schema delineato dalle Sezioni Unite (v. supra) in tema di fideiussioni omnibus, con la relativa estensione del rimedio della nullità (parziale o totale è da vedere) sia traslabile in toto anche all’ipotesi de quo. La risposta non è automatica ed impone necessariamente una serie di precisazioni e distinguo, esemplificabili secondo un duplice profilo, soggettivo e oggettivo. Sotto il primo aspetto, si osserva che, nel caso delle fideiussioni omnibus, la discesa della nullità da “monte” a “valle” muove dalla circostanza che gli enti i cui rapporti sono destinatari della sanzione della nullità fanno parte della medesima associazione di categoria (l’ABI), cui era diretto il provvedimento sanzionatorio “a monte”. La presenza, nei termini poc’anzi delineati, di un «legame» soggettivo tra l’intesa ed il contratto nel quale siano state impiegate le clausole concordate in violazione dei divieti di concorrenza rappresenta uno dei presupposti perché la sanzione della nullità possa raggiungere tutte tali banche. Diversamente, nel caso “Euribor” nessuna delle primarie banche che ha attuato la condotta manipolatoria opera sul mercato dei prestiti retail in Italia.

Sotto il profilo oggettivo, nel caso delle fideiussioni, il recepimento da parte dei contratti a valle dell’intesa a monte restrittiva della concorrenza si traduce nell’inserzione, all’interno delle singole fideiussioni, di clausole contrattuali che, lungi dal costituire – di per sé sole – elementi essenziali del contratto, vanno ad incidere sull’equilibrio sinallagmatico dei diritti e degli obblighi facenti capo alle parti; l’essenzialità o meno delle anzidette clausole nell’economia complessiva dell’autoregolamento (e, dunque, la loro idoneità a determinare la caducazione dell’intero accordo) è questione fattuale, da verificarsi caso per caso.

Viceversa, il l tasso Euribor manipolato all’ambito dei singoli contratti di finanziamento “a valle” concorre alla determinazione dell’oggetto del contratto e, dunque, assurge al rango di essentialia negotii[65], con tutte le conseguenze che ne derivano anche ai sensi della disciplina codicistica. Ciò posto in termini di differenze, in entrambe le fattispecie il trait d’union risiede nel necessario riscontro di un nesso funzionale tra l’intesa a monte ed il contratto a valle, nesso che si traduce nella riproduzione, da parte del singolo contratto, di quel meccanismo distorsivo della concorrenza sanzionato dall’Autorità di vigilanza – nel caso delle fideiussioni – o dalla Commissione europea – nel caso del tasso Euribor. Ciò in quanto la nullità comminata dall’art. 2, l. 287/90 è posta a presidio di un interesse pubblico economico superindividuale e non “atomistico”, essendo vòlta a disinnescare condotte lesive della concorrenza.

Pertanto, affinché sia utilmente invocabile l’anzidetta nullità, con conseguenze che variano dalla caducazione dell’intero regolamento negoziale al venir meno di singole clausole, è imprescindibile che ogni contratto riproduttivo dello schema vietato attui in concreto la medesima restrizione concorrenziale di cui all’intesa “a monte” e che tale circostanza sia dimostrata in giudizio da colui il quale intenda conseguire la caducazione del contratto[66].

Infine, quanto alla tipologia di nullità che affliggerebbe la clausola Euribor, la giurisprudenza di legittimità più recente[67] opta per la configurabilità di un’ipotesi di nullità parziale, originaria o sopravvenuta a seconda dei casi (ferme, ricorrendone tutti i presupposti, le eventuali azioni risarcitorie nei confronti dei responsabili del danno, da parte del contraente in concreto danneggiato).

In particolare, laddove sia accertato che il parametro richiamato sia stato alterato da un’attività illecita posta in essere da terzi (i.e. le primarie banche), viene meno il risultato, almeno parzialmente prevedibile, del meccanismo costituente il presupposto del riferimento al parametro esterno divisato dalle parti: esso, dunque, diventerebbe inidoneo ad esprimere l’effettiva volontà delle parti stesse, almeno con riferimento alla specifica clausola che prevede il richiamo al parametro in questione, per tutto il periodo in cui l’alterazione del meccanismo esterno di determinazione del corrispettivo dell’operazione ha prodotto i suoi effetti. Il rimedio esperibile potrebbe, dunque, essere quello della sostituzione del parametro richiamato dalla clausola contrattuale con un altro valore, alla stregua dei principi generali di cui agli artt. 1339 e 1419 c.c. Nel caso in cui siffatta operazione non fosse più possibile, si dovrebbe optare per l’inefficacia della clausola a causa della sua parziale nullità sopravvenuta, per l’impossibilità di determinazione del relativo oggetto.

Questa ricostruzione circa i rimedi sarebbe estensibile anche all’ipotesi in cui il parametro esterno richiamato nel contratto, benché non venga oggettivamente meno, poiché in radice non più esistente, divenga sostanzialmente inidoneo a costituire l’espressione della volontà negoziale delle parti (anche solo per un determinato periodo), in quanto alterato nella sua sostanza, a causa di condotte illecite poste in essere da terzi, che siano tali da privarlo in radice delle caratteristiche per le quali le parti lo avevano richiamato nel contratto, quale presupposto del loro autoregolamento impegnativo (cfr. Cort. Cass., sent. n. 12007 del 3 maggio 2024).


Note e riferimenti bibliografici

[1] Art. 41 Cost.: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».

[2] A. Argentati, Mercato e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 45 ss.

[3] Introdotte per la prima volta nel 1889 in Canada, trovarono la loro prima applicazione negli Stati Uniti durante gli anni 1910-20, prima con la compagnia petrolifera dei Rockefeller, la Standard Oil, che aveva posto dei fiduciari a capo delle altre compagnie petrolifere americane, dando vita ad una rete commerciale collusa che possedeva il 90% del mercato; e successivamente con l’American Tobacco Company, che aveva assorbito più di 250 società produttrici di sigarette nel mondo. Entrambe le compagnie vennero chiuse nello stesso giorno del 1911 con l’ordinanza di dissoluzione da parte della Corte Suprema americana. L’ideatore della prima forma di cartello al mondo, John Davison Rockefeller, nel 1867 ricorse ad uno strumento giuridico di matrice anglosassone, il trust, in cui si affidano a un soggetto (trustee) l’esercizio dei propri diritti. Il meccanismo era semplice ma al tempo stesso efficiente; ciò permetteva ai consiglieri di amministrazione delle imprese che aderivano all’accordo di partecipare e votare ai singoli consigli. In questo modo, a ciascun Consiglio di amministrazione di ogni singola impresa aderente partecipavano tutti i concorrenti di un determinato mercato, garantendo ai partecipanti un controllo incrociato e la stabilità delle proprie attività. A causa dei prezzi esorbitanti, che contribuirono ad incrementare la ricchezza accumulata da Rockefeller e della borghesia agricola, si generò un progressivo impoverimento della middle class americana, soprattutto dei piccoli e dei medi operatori che compravano beni a prezzi elevati per rivenderli a prezzi ben più bassi. Proprio in questo periodo venne coniato il termine “Anti-trust”. Gli Stati Uniti d’America dispongono lo Sherman Act sin dal 1890 (dal nome del senatore degli Stati Uniti John Sherman), ossia una efficace e completa legge federale contro i monopoli. Va precisato che, per decenni, la normativa antitrust americana aveva come scopo principale quello di difendere le piccole e medie imprese dallo strapotere dei colossi industriali. È solo negli anni Sessanta che l’antitrust si afferma come uno strumento a tutela dei consumatori, per rendere effettiva la concorrenza in modo da garantire prodotti a prezzi più bassi. Significativa fu la causa che nel 1965 l’avvocato Ralph Nader vinse contro la General Motors, che non era solo un gigante economico, ma era anche considerata un simbolo per gli Stati Uniti di quegli anni (si diceva «ciò che è utile per la General Motors è buono per l’America!»). L’avvocato Nader dimostrò che la Chevrolet Corvair, il modello di punta della General Motors, era «unsafe at any speed» («non sicura a qualsiasi velocità»); questa sentenza rivoluzionaria aprì le porte a un mondo che non poteva più ignorare i diritti dei consumatori in materia di sicurezza, tutela ambientale, qualità dei prodotti o gestione dei prezzi. Per approfondimenti, v. H.B. Thorelli, The Federal antitrust policy: origination of an American tradition, Johns Hopkins Press, Baltimora, 1955; W. Letwin, Law and Economic Policy in America. The Evolution of the Sherman Antitrust Act, University of Chicago Press, Chicago e Londra, 1981; R. Peritz, Competition Policy in America: History, Rhetoric, Law, Oxford University Press, Oxford, 2001; D. Crane-H. Hovenkamp, The making of competition policy, Oxford University Press, Oxford e New York, 2013.

[4] In Italia, nell’immediato dopoguerra, il dibattito circa la necessità di introdurre una normativa sulla concorrenza mosse dalla convinzione che una disciplina in tal senso fosse indispensabile per la ristrutturazione dei mercati e dei beni finanziari, e come uno strumento di deconcentrazione del potere economico. Negli anni Cinquanta del Novecento si riteneva che la disciplina della concorrenza potesse rivelarsi funzionale in una strategia di rafforzamento delle istituzioni di controllo pubblico sui mercati e sugli assetti di controllo societario. La preoccupazione per la concentrazione del potere economico poteva essere neutralizzata solo mediante un adeguato bilanciamento esercitato dal potere economico pubblico. Proprio durante tale fase storica, infatti, ebbe luogo la nazionalizzazione delle imprese elettriche private (Edison, SADE, SME etc.); l’espansione dell’attività dell’ENI in campo energetico; il significativo sviluppo del ruolo dell’IRI e delle imprese da esso controllate nell’industria e nei servizi dorsali dell’economia italiana. Tuttavia, tale meccanismo operativo finiva per negare la stessa finalità di una normativa per la concorrenza, che presuppone un’applicazione uniforme di regole a tutte le imprese, senza che alcuna di questa risulti particolarmente favorita. Così osserva A. Pera, Vent’anni dopo: l’introduzione dell’Antitrust in Italia, in Concorrenza e mercato, 2010, pp. 443-444.

[5] Nel novembre 1986, poco dopo la presentazione da parte della Commissione Europea del Libro bianco sul completamento del mercato interno (Milano, 29-29 giugno 1985), l’allora ministro dell’Industria Valerio Zanone, di estrazione liberale, nominò una commissione di studio sulla concorrenza affidandone la presidenza al professore Franco Romani, economista anch’egli di formazione liberale. Nel 1987, la Commissione Industria del Senato avviò un’indagine conoscitiva sulla internazionalizzazione delle imprese le concentrazioni industriali che si occupò del tema della concorrenza e dell’opportunità di introdurre anche in Italia una normativa che la tutelasse. Nell’ambito dell’indagine conoscitiva furono sentiti gli esponenti delle maggiori entità economiche del Paese, nonché delle maggiori organizzazioni interessate. Le opinioni sull’argomento restituirono un panorama variegato e molto polarizzato. Gli industriali si posero in un atteggiamento di diffidenza nei confronti di qualunque forma di regolazione pubblica dell’economia, considerata come una limitazione della libertà da parte di uno Stato di cui si temeva l’invadenza, sebbene molto spesso se ne invocava la protezione. Nel 1988 la commissione di studio portò a termine l’indagine, redigendo una relazione che promuoveva la promulgazione di una legge per la tutela della concorrenza ispirata alle norme del Trattato CEE e l’istituzione di un’Autorità amministrativa indipendente deputata ad applicarla. Sul punto, v. L. Berti-A. Pezzoli, Le stagioni dell’Antitrust, Egea, Milano, 2010.

[6] La legge è stata promulgata a seguito di un acceso dibattito politico. Il Governo dell’epoca, spesso in contrasto con la sua stessa maggioranza parlamentare nell’iter di approvazione della legge, era pienamente consapevole della necessità che lo Stato dovesse mutare il ruolo nel mercato, lasciando a quest’ultimo le decisioni fondamentali e riservandosi il compito di controllo sull’osservanza delle regole di concorrenza. Questa revisione del ruolo statuale è stata influenzata anche dalla crisi della politica registrata in Italia negli anni Novanta, segnati dall’accertamento di gravi casi di corruzione. Per approfondimenti, si rinvia a G. Corso, Attività economica privata e “deregulation”, in Riv. Trim. Diritto Pubblico, 1998, pp. 629 ss; N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, Bari, 1998.

[7] G. Amato, Il mercato della Costituzione, in Quaderni costituzionali, 1992, pp. 17 ss.

[8] Così osservano A. Catricalà-A. Lalli, L’Antitrust in Italia: il nuovo ordinamento, Giuffré, Milano, 2010, pp. 6 ss.

[9] La fisionomia dell’Istituzione presenta peculiari caratteristiche strutturali, organizzative e funzionali. L’Autorità è costituita dal collegio, composto dal presidente e da quattro membri, assistita da una snella struttura burocratica, a sua volta composta di uffici che svolgono attività di investigazione e di analisi dei mercati e forniscono tutto il necessario supporto tecnico e operativo al collegio per l’esercizio delle sue funzioni decisorie. L’Antitrust non è titolare di autonoma personalità giuridica, la legge istitutiva non ne fa menzione e l’interpretazione maggioritaria della giurisprudenza è nel senso di non ritenerla un ente distinto dallo Stato, bensì un organo dello stesso (Stato comunità e non apparato), sia pure dotato si un alto grado di indipendenza nei confronti del potere esecutivo (cfr. Cons. St., sez. VI, 25 novembre 1994, n. 1716). Da questa configurazione deriva che la rappresentanza e difesa in giudizio della stessa competono all’Avvocatura dello Stato. Il collegio possiede piena autonomia nell’esercizio delle funzioni. Infatti, l’art. 10, co. 2, l. 287/90 precisa che l’Autorità «opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione»: in altre parole, essa applica direttamente la legge ai casi concreti, senza subire alcun vincolo da parte degli organi titolari dell’indirizzo politico. Inoltre, l’autonomia è presidiata da precipue garanzie concernenti le modalità di nomina dei componenti, i loro requisiti, la disciplina delle incompatibilità e, in generale, dall’assetto organizzativo della medesima Istituzione. Sul piano funzionale, le competenze dell’Autorità si risolvono in un’attività di giudizio e di valutazione, vòlta ad accertare violazioni e a adottare i conseguenti provvedimenti: sanzione pecuniaria amministrativa, riduzione in pristino attraverso l’esperimento di procedimenti nei quali è garantito il contraddittorio dei soggetti interessati. Per approfondimenti, v. G. Di Federico, Effetti delle decisioni definitive degli organi nazionali e delle decisioni definitive degli organi degli altri Stati membri, in P. Manzini (a cura di), Il risarcimento del danno nel diritto della concorrenza, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 61 ss.; A. Toffoletto-A. Stabilini-E. De Giorgi-R. Guaineri-D. Gullo, Competition Law in Italy, Wolters Kluwer International, Alphen aan den Rijn, 2019; M. Cosimano, Poteri e provvedimenti dell’AGCM, Carthago, Catania, 2019; M. Clarich, I nuovi poteri affidati all’antitrust, in Quaderni costituzionali, 1/2012, pp. 115-118; Id., Le competenze in materia di diritto dei consumatori dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle autorità di regolazione settoriale, in Studi in onore di Alberto Romano, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, pp. 1963-1983; A. La Spina-S. Cavatorto, Le autorità indipendenti, Il Mulino, Bologna, 2008; F. Cintioli, I nuovi strumenti di tutela antitrust, Giuffré, Milano, 2007   

[10] Per approfondimenti, v. M. D’Aliberti, Autorità indipendenti (diritto amministrativo), in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1995; M. Di Benedetto, L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Il Mulino, Bologna, 2000; N. Longobardi, Autorità amministrative indipendenti e sistema giuridico istituzionale, Giappichelli, Torino, 2009.

[11] Esso prevedeva la creazione di un’area di libera circolazione, all’interno della quale dovevano ritenersi vietate le pratiche restrittive e discriminatorie che potessero influenzare la concorrenza e gli scambi comunitari nei settori del carbone e dell’acciaio, settori portanti dell’economia tedesca durante il nazismo. Il tentativo era quello di raggiungere un duplice obiettivo: a) evitare una eccessiva concentrazione di alcune tra le principali materie prime in un’unica area territoriale (il controllo della quale rappresentava uno dei motivi principali scatenanti le molte guerre succedutesi al centro dell’Europa) e, al contempo, b) favorire un accesso equo e non discriminatorio a dette, fondamentali, risorse da parte di tutti i paesi firmatari al fine di stimolarne le economie, depresse dopo lunghi anni di guerra. Così osservano F. Ghezzi-G. Olivieri, Diritto Antitrust, Giappichelli, Torino, 2023, pp. 11 ss. 

[12] Cfr. art. 2: «la Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante l’introduzione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, (…) un alto grado di competitività e convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione ambientale (…) e la solidarietà tra stati membri (…)».

[13] «Ai fini enunciati dall’articolo 2, l’azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato (…) un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno».

[14] In particolare, l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) stabilisce ora che l’Unione «instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico». Peraltro, il Protocollo n. 27 allegato al TUE e al Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TfUE) che, ai sensi dell’art. 51 TUE deve considerarsi parte integrante dei trattati stessi, puntualizza che il mercato interno «comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata».

[15] In questo quadro si colloca il cd. “European Green Deal”, il quale tratteggia una strategia di crescita che intende trasformare l’Unione Europea in una «società prosperosa ed equa, con una economia competitiva e capace di usare le risorse in modo efficiente, che nel 2050 non genererà emissioni nette di gas a effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dall’uso delle risorse». Alla luce di ciò, posta la difficoltà di indurre le singole imprese a perseguire percorsi di crescita sostenibile, sopportandone i costi, le nuove linee guida sulla cooperazione orizzontale tra imprese consentono taluni accordi di cooperazione che, seppur restrittivi della concorrenza, risultano necessari per il raggiungimento tempestivo ed efficace degli obbiettivi di sostenibilità. Per approfondimenti, v. E. Chiti, Oltre la disciplina dei mercati: la sostenibilità degli ecosistemi e la sua rilevanza nel Green Deal europeo, in Rivista della Regolazione dei mercati, fasc. 2-2022, pp. 468 ss.; Id., Managing the Ecological Transition of EU: the European Green Deal as a Regulatory Process, in Common Market Lax Review, 2022, p. 19 ss.; C. Muraca, Tutela della concorrenza e sostenibilità ambientale: un dialogo difficile ma necessario, ivi, fasc. 1/2021, pp. 70 ss.; A. Moliterni, Antitrust e ambiente ai tempi del Green Deal. Il caso dei "sustainability agreements", in Giornale di Diritto Amministrativo, 3/2021, pp. 354-364; O. Brook, Struggling With Article 101(3) TFEU: Diverging Approaches of the Commission, EU Courts, and Five Competition Authorities, in Common Market Law Review, 2019, pp. 121 ss.

[16] In argomento S. Lamarca, La disciplina dei cartelli nel diritto antitrust europeo ed italiano, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 17 ss.; G. Bruzzone-A. Saija, Shrinking the margin of appreciation. Modernization, the economic approach and judicial review of antitrust decisions, in Mercato Concorrenza Regole, fasc. 1/2010, pp. 7-28; G. Bruzzone (a cura di), Poteri e garanzie nel diritto antitrust. L'esperienza italiana nel sistema della modernizzazione, Il Mulino, Bologna, 2008; L. Toffoletti, Modernizzazione del diritto antitrust comunitario e tutela dei singoli, in Antitrust e globalizzazione - Atti del Convegno, Fondazione Centro internazionale su diritto società e economia (a cura di), Giuffré, Milano, 2004; L. Fratini, La modernizzazione del diritto Antitrust comunitario: il Regolamento n.01/2003, in www.diritto.it, 2003; F. Ghezzi, La modernizzazione delle norme antitrust comunitarie, in Rivista delle società, fasc. 6, vol. 45, 2000, pp- 1098-1100; Id., Il Libro Bianco della Commissione sulla Modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, in Concorrenza e mercato, vol. 8/2000, pp. 175-255.

[17] A. Zanardo, Il «consumer welfare approach» nei recenti documenti della Commissione europea in materia di antitrust, in Rivista Orizzonti del Diritto Commerciale, 3-2023, pp. 739 ss.; R. Van Der Bergh-A. Giannaccari, L’approccio più economico nel diritto comunitario della concorrenza, in Mercato concorrenza regole, III, 2014, pp. 393-433.

[18] In questo ambito, la Commissione agisce come primus inter pares, con il potere di rigettare denunce concernenti condotte già sottoposte all’attenzione delle autorità nazionali, nonché di avocare a sé i casi di interesse sovranazionale, evitando l’adozione a livello decentrato di decisioni illegittime e discordanti. Quanto alla cooperazione orizzontale tra le autorità nazionali, è previsto lo scambio di informazioni sull’attività investigativa espletata ed è contemplata la possibilità di non intervenire perché sul medesimo caso si è pronunciata un’altra autorità antitrust ovvero è dinanzi ad essa pendente un procedimento per violazione degli artt. 101 e 102 tFUE. Così osserva G. Di Federico, Effetti delle decisioni definitive degli organi nazionali, cit., p. 63.

[19] Cfr. P. Fattori-M. Todino, La disciplina della concorrenza in Italia, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 443 ss.; A. Correnti, Il danno antitrust tra private e public enforcement; le prospettive dopo il recepimento della Direttiva 2014/104/UE: luci e ombre, in Giustizia Civile, 3, 2017, pp. 7 ss.; G. Bernini, Un secolo di filosofia antitrust. Il modello statunitense, la disciplina comunitaria e la normativa italiana, Clueb, Bologna, 1991, passim.

[20] Cfr. Reg. n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002 concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del trattato, in G.U.U.E L 1 del 4 gennaio 2003, consideranda nn. 7, 11 e 12, nonché artt. 5, 7 e 23.

[21] Direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014 relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea, in G.U.U.E. L 349 del 5 dicembre 2014, 6º considerando, 1.

[22] Così osservano F. Altrui-F. Paola, Controllo giudiziario dell’applicazione da parte dei giudici delle regole antitrust, in G. Cassano-A. Catricalà-R. Clarizia (a cura di), Concorrenza, Mercato e Diritto dei Consumatori, UTET, Torino, 2018, pp. 1005 ss.

[23] Con le sentenze Courage e Manfredi, la Corte di Giustizia aveva chiarito che la piena efficacia delle norme antitrust del trattato e l’effetto utile, in particolare, del divieto di intese restrittive della concorrenza, sarebbero messi in discussione se, sulla base delle stesse, non si potesse chiedere il risarcimento del danno derivante da un comportamento restrittivo della concorrenza. Pertanto, secondo la Corte, chiunque ha il diritto di chiedere il risarcimento del danno subìto quando esiste un nesso di causalità tra tale danno e un’intesa o pratica vietata. Tuttavia, l’accertamento in via giurisprudenziale dell’esperibilità di un’azione risarcitoria in base alle norme a tutela della concorrenza europee e nazionali non aveva risolto tutti i problemi che si pongono sulla strada di un concreto ed efficace private enforcement di suddette norme. Cfr., sul punto, M. Aranci, Il sistema sanzionatorio degli illeciti antitrust: prospettive di armonizzazione europea per le misure nei confronti degli individui?, in Eurojus, fasc. 1/2021, pp. 340-360; M. Colangelo, Le evoluzioni del private enforcement: da Courage al Libro Bianco, in Europa e dir.priv., 3, 2008, pp. 655 ss.

[24] Per approfondimenti, v. G. Benacchio, Il private enforcement del diritto europeo antitrust: evoluzione e risultati, in L.F. Pace, Dizionario sistematico del diritto della concorrenza, 2ª ed., Cedam, Padova, 2020, pp. 17-30; P. Manzini (a cura di), Il risarcimento del danno nel diritto alla concorrenza. Commento al d.lgs. n. 3/2017, Giappichelli, Torino, 2017, pp. XVII ss.; E. De Giorgi, Risarcimento del danno antitrust: primo commento allo schema di decreto legislativo di attuazione della Direttiva 2014/104/UE, in Diritto Bancario, 25 novembre 2016; P. Iannuccelli, La base giuridica della direttiva 2014/104 e i suoi rapporti con il regolamento n° 1/2003, intervento nel convegno “L’impatto della direttiva 104/2014 sul private antitrust enforcement. Profili applicativi di diritto della concorrenza e problemi aperti”, 2015, rinvenibile su www.giurisprudenza.unige.it

[25] Cfr. R. Alessi-G. Olivieri, La disciplina della concorrenza e del mercato, Giappichelli, Torino, 1991, passim.

[26] F. Belli-R. Bertelli, Banca nel diritto comunitario, in Digesto pubbl., IV, UTET, Torino, 1987, p. 179 ss.

[27] Così osserva L.C. Ubertazzi, Banche e concorrenza. Scritti, Giuffré, Milano, 2007, pp. 253 ss.

[28] L.C. Ubertazzi, op. cit., secondo il quale «il principio di uguaglianza antitrust di imprese pubbliche e private offre un’ulteriore conferma che il diritto materiale della concorrenza si applica tel quel anche al comparto bancario, senza dover essere combinato con altre filosofie non liberiste eventualmente proprie del settore bancario» (p. 47).

[29] Cfr. artt. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), già artt. 82 e 82 TCE e Regolamento n. 139/2004 e succ. mod. int. in tema delle concentrazioni tra imprese.

[30] Questione diversa è quella relativa alla configurabilità – o meno – di una disciplina antitrust “speciale”, applicabile in via esclusiva al mercato bancario, al fine di bilanciare esigenze di concorrenza e stabilità nel settore. Secondo parte della dottrina, le norme sostanziali antitrust in materia di intese, di abusi e di concentrazioni andrebbero applicate sic et simpliciter anche al settore bancario. Così ragionando, le disposizioni degli artt. 20, co. 5 e 25, co. 2, l. 287/1990, che introducono peculiari eccezioni al divieto di intese o di concentrazioni bancarie, detterebbero una disciplina antitrust “speciale” e, pertanto, di stretta interpretazione; tuttavia, così ragionando non farebbero altro che confermare l’applicabilità – in ogni caso – della normativa generale. Sul punto, cfr. L.C. Ubertazzi, op. cit., pp. 40 ss. In argomento, v. anche F. Di Porto, Banche e concorrenza, in A. Benocci- F. Mazzini (a cura di), Corso di legislazione bancaria. Approfondimenti sulla legislazione bancaria vigente, vol. II, Pacini, Pisa, 2010, pp. 85 ss. Un diverso orientamento, invece, rintraccia un conflitto tra norme generali antitrust e norme bancarie a tutela della stabilità (cc.dd. norme prudenziali), il quale può atteggiarsi o nel senso che le prime si pongono come limite all’applicazione delle seconde, ovvero nel senso che le norme prudenziali si pongono come un’eccezione alle norme antitrust. In quest’ottica, le autorità e le norme bancarie non sarebbero obbligate a perseguire la concorrenzialità del mercato, siccome tale obbiettivo spetterebbe esclusivamente all’autorità e alle norme a tutela della concorrenza (AGCOM). Così R. Costi, L’ordinamento bancario, 1ª ed., Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 152 ss.; F. Ghezzi-M. Notari, La disciplina della concorrenza nei settori dell’informazione, del credito e delle assicurazioni, in Riv. società, 1993, I, p. 119 ss. Per altri, sarebbe configurabile una prevalenza gerarchica della stabilità sulla concorrenza (cfr. F. Merusi, sub art. 47, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, III, Zanichelli, Bologna-Roma, 1980, p. 153 ss.; contra S. Cassese (a cura di), La nuova Costituzione economica, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 3 ss., il quale sottolinea il primato assoluto della legge antitrust). A tale posizione, invero, si replica che non sarebbe ammissibile una superiorità gerarchica della disciplina concorrenziale su quella a tutela della stabilità, proprio in forza dell’esistenza di una disciplina “speciale” antitrust preordinata a risolvere i conflitti tra i due beni giuridici (R. Costi, op. loc. ult. cit.).

[31] Sul punto, v. A. Frignani-M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CEE, UTET, Torino, 1996, pp. 68 ss.

[32] Così F. Longobucco, Contratti bancari e normativa antitrust, in E. Capobianco (a cura di), Contratti bancari, Wolters Kluwer, Milano, 2021, p. 470.

[33] Il problema si è posto, ad esempio, per alcuni sistemi di pagamento (come le reti di ATM o le carte di pagamento), i quali si fondano su accordi tra banche concorrenti che hanno il benefico effetto di ridurre i costi di transazione altrimenti derivanti dalla stipulazione di tanti accordi bilaterali tra singoli operatori. Anche la fissazione di commissioni interbancarie, risultante da accordi tra aziende bancarie, risponde alle medesime finalità, eppure, nel sistema antitrust, integra un’intesa sui prezzi, come tale lesiva della concorrenza sul mercato interbancario. L’ingresso di una rete affermata sul mercato (come Bancomat o Visa) comporta un vantaggio per la banca aderente che in tal modo di appropria degli effetti positivi di rete, ma al contempo concorre a rafforzare le barriere all’ingresso di nuovi circuiti e relativi operatori, limitando la pressione concorrenziale. Sulla medesima scia si pongono le cc.dd. Norme Bancarie Uniformi (NBU), oggi “Condizioni generali relative al rapporto banca cliente”, ovvero quegli schemi contrattuali, condizioni generali di contratto omnicomprensive e complete, adottati dall’associazione di categoria (ABI) e diffusi presso le associate al fine di promuovere la standardizzazione dei contratti bancari. Tali pratiche sono, in concreto, suscettibili di limitare la concorrenza tra operatori bancari su elementi determinanti come il prezzo, o in generale sulle condizioni contrattuali, producendo l’effetto di uniformare il comportamento degli operatori sul mercato. Così osserva F. Longobucco, Contratti bancari e normativa antitrust, cit., p. 471.

[34] M. Bianco-F. Ghezzi-W. Negrini-P. Signorini, Applicazioni della disciplina antitrust al settore bancario in Italia, in M. Polo (a cura di), Industria bancaria e concorrenza, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 329 ss.

[35] Per approfondimenti, v. I. Calboli, La concorrenza bancaria nei pareri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Banca borsa e titoli di credito, vol. 48, fasc. 3,1995, pp. 299 ss.

[36] Così F. Longobucco, Contratti bancari e normativa antitrust, cit., pp. 472.

[37] Per approfondimenti, v. G. Acerbi, Discorso sopra le regole di governo della Banca d’Italia, Egea, Milano, 2010.

[38] Cfr. G. Cassano-A. Catricalà-R. Clarizia, Concorrenza, mercato e diritto dei consumatori, UTET, Torino, 2018, passim; F. Di Cristina (a cura di), Le ragioni della concorrenza. Vent’anni di antitrust italiano, in Concorrenza e mercato, 2011, pp. 860 ss.

[39] È questo il caso dello schema negoziale tipo predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana) nell’ottobre del 2002, per la fideiussione a garanzia di operazioni bancarie. A seguito di un’attività istruttoria espletata dalla Banca d’Italia, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel parere n. 14251, ebbe ad evidenziare come la disciplina della «fideiussione omnibus», di cui allo schema predisposto dall’ABI, presentava clausole idonee a restringere la concorrenza, poiché suscettibili – in linea generale – «di determinare un aggravio economico indiretto, in termini di minore facilità di accesso al credito», nonché, nei casi di fideiussioni a pagamento, «di accrescere il costo complessivo del finanziamento per il debitore, che dovrebbe anche remunerare il maggior rischio assunto dal fideiussore». I rilievi critici dell’Autorità Garante coinvolsero le clausole nn. 2, 6 e 8 del citato schema contrattuale. Sulla scorta di tale parere, e rilevato che dall’istruttoria espletata era emerso che diverse banche avevano ormai adottato lo schema predisposto dall’ABI, e che dai dati raccolti era altresì risultato che la maggior parte delle clausole esaminate fosse stata ritenuta dalle banche applicabile anche ai contratti stipulati da soggetti privati in qualità di fideiussori, la Banca d’Italia, con il provvedimento n. 55 del 2005, ha dichiarato la nullità delle clausole nn. 2, 6 e 8 dell’intesa ABI. Tuttavia, precisava altresì che tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità. Le clausole in questione disciplinavano: a) la cd. «clausola di reviviscenza», secondo la quale il fideiussore è tenuto «a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo» (art. 2); b) la cd. «clausola di rinuncia ai termini ex art. 1957 cod. civ.», in forza della quale «i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato» (art. 6); c) la cd. «clausola di sopravvivenza», a termini della quale «qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate» (art. 8).

[40] Cass., SS.UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, consultabile su www.personaemercato.it.

[41] Si precisa a tal riguardo che, all’epoca della pronuncia, la cognizione dell’azione era rimessa alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della Corte d'Appello.

[42] Cfr. Cass. sez. un. 30 dicembre 2021, n. 41994, in Foro it., 2022, I, pp. 499 ss., con nota di A. Palmieri-R. Pardolesi, Le sezioni unite e la sorte dei contratti attuativi di intesa restrittiva della concorrenza: schegge di diritto disorientato; S. Pagliantini, Fideiussioni « omnibus» attuative di un’intesa anticoncorrenziale: le sezioni unite, la nullità parziale e il « filo» di Musil; A. Montanari, Nullità dei contratti attuativi dell’intesa illecita e « prova privilegiata»: qualche appunto alle Sezioni unite n. 41994/2021; C. Romano, Quale destino per le fideiussioni « omnibus» a valle di intese anticoncorrenziali?; G. D’Amico, Modelli contrattuali dell’Abi e nullità dei contratti c.d. a valle; S. Bastianon, Fideiussioni Abi e sezioni unite 41994/21: “the dark side of the moon. In argomento, v. anche M. Santucci, Fideiussioni bancarie anticoncorrenziali: lo statuto della nullità antitrust tracciato dalle Sezioni unite, in Giur. it., 2022, pp. 1832 ss.; M.S. Maisano, La sofferta dialettica tra contratto e diritto antitrust nella prospettiva del c.d. private enforcement, in Nuova giur. civ. comm., 2022, pp. 309 ss.; E. del Prato, Illecito e rifiuto di esecuzione di clausole contrattuali: un altro rimedio in forma specifica contro l’abuso di autonomia?, in Nuova giur. civ. comm., 2022, pp. 665 ss.; A. Montanari, Sulla tutela privata antitrust dopo le Sezioni unite n. 41994/2021, ivi, pp. 682 ss.; C. Scognamiglio, I contratti di fideiussione a valle di intese in violazione della disciplina antitrust: il problema dei rimedi, ivi, pp. 694 ss.; M. Libertini, I contratti attuativi di intese restrittive della concorrenza: un commento a Cassazione civile, sezioni unite, 30 dicembre 2021, n. 41994, in ODC, 2022, pp. 13 ss.; A.A. Dolmetta, Fideiussioni bancarie e normativa antitrust: l’« urgenza della tutela reale; la «qualità» della tutela reale, in Riv. dir. banc., 2022, pp. 1 ss.; E. Minervini, Fideiussione omnibus ed intesa antitrust: la sentenza delle sezioni unite n. 41994 del 2021, in Pers. merc., 2023, pp. 65 ss.; E. Panzarini, Ancora sulla nullità parziale delle fideiussioni omnibus redatte in conformità allo schema ABI 2003: questioni rimaste irrisolte, in Banca, borsa, tit. cred., 1, 2023, pp. 53 ss.

[43] Cfr., in dottrina, A. Palmieri-R. Pardolesi, L’antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) del consumatore, in Giur. it., 2005, pp. 302 ss., e in Dir. ind., 2005, pp. 188 ss.; Id., L’antitrust dalla parte del consumatore, in Foro it., 2005, I, pp. 1014 ss; C. Castronovo, Sezioni più unite che antitrust, in Europa dir. priv., 2005, pp. 435 ss.; S. Simone, Intese anticoncorrenziali e tutela del consumatore, in Giur.it., 2005, pp. 1675 ss.; G. Canale, I consumatori e la tutela antitrust, in Danno resp., 2005, pp. 956 ss.; M. Negri, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed ombre di un atteso grand arret, in Corr. giur., 2005, pp. 342 ss.; B. Libonati, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, in Giur. it., 2000, pp. 939 ss.; L. Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur. comm., 1999, II, pp. 223 ss.; F. Denozza, I principi di effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva nella disciplina dei contratti a valle di intese ed abusi, in Riv. dir. ind., 2019, pp. 354 ss.; Id., Incongruenze, paradossi e molti vizi della tesi del “solo risarcimento” per le vittime di intese ed abusi, in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 412-414; A. Gentili, La nullità dei ‘contratti a valle’ come pratica concordata anticoncorrenziale. (Il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, pp. 675 ss.; E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI e invocabilità della sola tutela riparatoria in chiave correttiva, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II, pp. 397 ss.; M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II, pp. 378 ss.; G. Stella, Fideiussioni predisposte su modello uniforme ABI dichiarato parzialmente nullo dall’Autorità Garante della Concorrenza: quali rimedi a favore del fideiussore?, in Contr., 2020, pp. 385 ss.; M.R. Maugeri, Breve nota su contratti a valle e rimedi, in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 415 ss.; G. Guizzi, I contratti a valle delle intese restrittive della concorrenza: qualche riflessione vingt ans après, aspettando le Sezioni Unite, in Corr. giur., 2021, pp. 1173 ss.; A. Gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, pp. 698 ss.; M. Onorato, Nullità dei contratti nell’intesa competitiva, Giuffrè, Milano, 2012.

[44] Si è stabilito, al riguardo, che il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale. E tuttavia, qualora le parti, all'esito di tale indicazione officiosa, omettano un'espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l'originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo. Cfr. Cass., SS.UU., 12 dicembre 2014, nn. 26242, in Foro it., 2015, I, pp. 909-946, con note di M. Adorno, Sulla rilevanza di ufficio della nullità contrattuale: il nuovo intervento delle sezioni unite; A. Palmieri-R. Pardolesi, Nullità negoziale e rilevazione officiosa a tutto campo (o quasi); F. Di Ciommo, La rilevabilità di ufficio ex art. 1421 c.c., secondo le sezioni unite: la nullità presa (quasi) sul serio; S. Pagliantini, Nullità di protezione e facoltà di non avvalersi della dichiarabilità: quid iuris?; S. Menchini, Le sezioni unite fanno chiarezza sull’oggetto dei giudizi di impugnativa negoziale: esso è rappresentato dal rapporto giuridico scaturito dal contratto; A. Proto Pisani, Rilevabilità di ufficio della nullità contrattuale: una decisione storica delle sezioni unite. Per approfondimenti, in dottrina, ex pluribus, si rinvia a S. Monticelli, Fondamento e funzione della rilevabilità d’ufficio della nullità negoziale, in Riv. dir. civ., 1990, I, pp. 669 ss. e a R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, II, in R. Sacco (diretto da), Trattato di diritto civile, UTET, Torino, 2004, pp. 557 ss.

[45] Cfr. Cort. Cass., sent. 22 maggio 2019, n. 13846. Nel merito, v. Corte d’Appello Bari, 21/03/2018 n. 526; Corte d’Appello Firenze, 18/07/2018; Corte d’Appello Roma, 26/07/2018; Tribunale Salerno, 23/08/2018, n. 3016; Tribunale Fermo, 24/09/2018; Tribunale Bolzano, 19/12/2018; Tribunale Belluno, 31/01/2019; Tribunale Pesaro, 21/03/2019; Tribunale Siena, 14/05/2019; Tribunale Taranto, 8/08/2019; Corte di Appello di Bari, 15/01/2020, n. 45; Trib. Salerno 19/08/2020, n. 208; Corte d’Appello Roma, 24/05/2021; Corte d’Appello di Bari, 23/06/2021. In dottrina, si rinvia a R. Bresolini, La Cassazione ritorna sulla fideiussione conforme al modello ABI, in Nuova giur. civ. comm., 2020, pp. 770 ss.

[46] Cfr. A.B.F., coll. coord. 19 agosto 2020 n. 14555 e A.B.F. Milano, 4.7.2019, n. 16558. Cfr. anche A. Viglianisi Ferraro, Diritto antitrust e rimedi utilizzabili in Italia dai soggetti danneggiati dai c.d. contratti “a valle”. Un problema ancora aperto, in Diritto dell’economia, 2019, p. 269, nt. 72 (cui si rinvia anche per una ricca ed esaustiva disamina della dottrina italiana in materia), secondo il quale la tesi della nullità integrale dei contratti a valle si giustifica per l’esigenza di assicurare l’effetto utile delle norme europee in materia di tutela della concorrenza. Per approfondimenti sul punto, v. F. Molinaro, Brevi osservazioni sull’attesa pronuncia delle Sezioni Unite in materia di fideiussioni omnibus (nota a Cass., Sez. Un., sent. 30 dicembre 2021 n. 41994), in Judicium.it.

[47] Per approfondimenti, v. M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti ‘‘a valle’’. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in NGCC, 2/2020, pp. 378-396.

[48] Cfr. G. Votano, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sulle fideiussioni “a valle”: la pronuncia delle Sezioni Unite, in I Contratti, n. 2, 1° marzo 2022, pp. 145 ss., il quale rileva inoltre come in dottrina sia stata sollevata qualche perplessità in merito, essendo stato evidenziato che «in materia antitrust l’ammontare delle ammende e dei risarcimenti dovuti è sempre più elevato e non sembra affatto insufficiente ai fini della deterrenza. Non si riesce dunque a trovare un fondamento plausibile ad una ipotetica sanzione punitiva extra ordinem, quale sarebbe la nullità integrale ed assoluta dei contratti ‘a valle’» (così M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti ‘a valle’. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, cit., p. 394). Secondo l’A., l’osservazione non è, tuttavia, pertinente, poiché la presenza di un rimedio “pubblicistico” (le sanzioni amministrative) non esclude la possibilità di ritenere ammesso anche un rimedio “privatistico” (che deve autonomamente possedere i caratteri della congruità e della effettività).

[49] Così osserva A. Barba, Organizzazione dell’attività di impresa e nullità parziale del contratto a valle di intese vietate, in NGCC, n. 3, 1° maggio 2022, pp. 654 ss., il quale parla di «nullità dinamica come invalidità assiologica».

[50] Sul punto, cfr. G. Guizzi, I contratti a valle delle intese restrittive della concorrenza: qualche riflessione vingt ans après, aspettando le Sezioni Unite, cit., p. 1173.

[51]«Competenza giurisdizionale.

1. La tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo è disciplinata dal codice del processo amministrativo.

2. Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti al tribunale competente per territorio presso cui è istituita la sezione specializzata di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 26 giugno 2003, n. 168, e successive modificazioni».

[52] Cfr. Cass. Civ., sez. VI, 6 luglio 2022, n. 21429; Cass. Civ., sez. VI, 10 marzo 2021, n. 6523.

[53] Ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, le Sezioni Specializzate sono (per quanto qui rileva) competenti in materia di: «c) controversie di cui alla L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, comma 2» e «d) controversie relative alla violazione della normativa antitrust dell’Unione Europea». Il successivo art. 4 comma 1-ter del d.lgs. n. 168 del 2003, disciplina il regime specifico e inderogabile secondo il quale «per le controversie di cui all’art. 3, comma 1, lett. c) e d), anche quando ricorrono i presupposti del comma 1-bis, che, secondo gli ordinari criteri di competenza territoriale e nel rispetto delle disposizioni normative speciali che le disciplinano, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari di seguito elencati, sono inderogabilmente competenti: (..) a) la sezione specializzata in materia di impresa di Milano per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Brescia, Milano, Bologna, Genova, Torino, Trieste, Venezia, Trento e Bolzano (sezione distaccata);

b) la sezione specializzata in materia di impresa di Roma per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di Ancona, Firenze, L’Aquila, Perugia, Roma, Cagliari e Sassari (sezione distaccata);

c) la sezione specializzata in materia di impresa di Napoli per gli uffici giudiziari ricompresi nei distretti di corte d’appello di Campobasso, Napoli, Salerno, Bari, Lecce, Taranto (sezione distaccata), Potenza, Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Messina, Palermo, Reggio Calabria.».

[54] Per approfondimenti, sul punto v. M. Wundenberg, Regulation of Benchmarks, in R. Veil (a cura di), European Capital Markets Law, Oxford University Press, Oxford, 2022, p. 646; N. Moloney, EU securities and financial markets regulation, Oxford EU Law Library, Oxford, 2023, pp. 739 ss.; R. Priem-W. Van Rie, The Euribor and Eonia reform: achieving regulatory compliance while protecting financial stability, in International Journal of Business, Economics and Management, 2021, 8, n. 2, pp. 50 ss.; R. Zakrzewski-G. Fuller, McKnight and Zakrzewski on the law of loan agreements and syndicated lending, Oxford University Press, Oxford, 2020, pp. 61 ss.

[55] Le misurazioni sono affidate all’European Money Market Insititute (EMMI), un ente senza scopo di lucro costituito dalle associazioni bancarie degli Stati europei. L’Istituto, con sede a Bruxelles, si avvale di un panel di primarie banche (attualmente 19) che comunicano quotidianamente – mediante il Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer – i tassi ai quali sono disposte a costituire depositi non garantiti in favore di banche della medesima famiglia prime. Sul punto, cfr. A.S. Sirak, Anti-herding in the Euribor Survey, Goethe University Frankfurt, 29 aprile 2018; P.A. Cucurachi, Gli strumenti di capitalizzazione delle banche, in P.L. Fabrizi-G. Forestieri-P. Mottura (a cura di), Strumenti e servizi finanziari, 2ª ed., 4 ª rist., Giuffé, Milano, 2007, pp. 56-57.

[56] Affine all’Euribor è l’indice Eonia (Euro OverNight Index Average), che rappresenta il tasso medio di riferimento nelle operazioni a brevissima scadenza e viene calcolato come media ponderata dei tassi overnight applicati su operazioni di finanziamento non garantite. A completamento del quadro appena delineato, è d’uopo menzionare altresì il tasso Libor (London Inter Banks Offer Rate), che misura l’interesse medio al quale le principali banche concedono finanziamenti a breve termine nel mercato di Londra, sulla base di diverse valute. Tutti gli indici appena descritti, pur nascendo in seno a rapporti interbancari, possono essere utilizzati come benchmark nei contratti di finanziamento accessibili al pubblico; tra questi, l’Euribor rappresenta il parametro principale nell’area Euro. Per approfondimenti, v. Y. Matsubayashi-S. Kitano, Global Financial Flows in the Pre- and Post-global Crisis Periods, Springer, Singapore, 2022, p. 11; M. Bagella, L’euro e la politica monetaria, Giappichelli, Torino, 2014, p. 208.

[57] Cfr. P.L. Fausti, Il Mutuo, in Tratt. dir. civ., diretto da P. Perlingieri, Esi, Napoli, 2004, p. 124, nt. 208, ove si legge che «l’Euribor viene calcolato sulla base di diverse durate, ottenendosi così diversi parametri all’interno di uno stesso tipo: l’Euribor a un mese, tre mesi, sei mesi ecc.». Cionondimeno, la scelta di una particolare durata del parametro non condiziona la «periodicità dell’ammortamento: quindi si potrà certamente avere, ad es., un mutuo a scadenze mensili parametrato all’Euribor a sei mesi». Degna di considerazione è altresì la circostanza che il piano di ammortamento del mutuo può essere più o meno sensibile alle fluttuazioni del parametro: più le rilevazioni sono ravvicinate (mensili, trimestrali), maggiore è il grado di variabilità della rata del finanziamento; diversamente, «rilevazioni meno ravvicinate […] possono produrre rate più omogenee al loro interno, con il vantaggio ad esempio di godere più a lungo di un particolare ribasso del parametro, e anche, però, il rischio di subire più a lungo di un suo particolare rialzo».

[58] L’oggetto dell’Euribor è stato così definito: «the rate at which wholesale funds in euro could be obtained by credit institutions in current and former European Union and European Free Trade Association countries in the unsecured money market» (tale nozione è rintracciabile su www.emmi-benchmarks.eu). Per delucidazioni sull’argomento si rimanda altresì all’articolo della Banca Centrale Europea, Cosa sono i tassi benchmark? Perché sono importanti e perché sono sottoposti a riforma?, consultabile in www.ecb.europa.eu. In termini prettamente tecnico-economici è stata altresì proposta da A. Kloster-O. Syrstad, Nibor, Libor and Euribor – all IBORs, but different, in Memo, n. 2/2019, la seguente definizione di Euribor: «the rate at which euro interbank term deposits are offered by one prime bank to another prime bank within the EMU zone, and is calculated at 11:00 am (CET) for spot value (T+2)».

[59] Così osservano A. Parziale-N.M.F. Faraone, Affinità/divergenze tra le fideiussioni “omnibus” e le “clausole Euribor”: del conseguimento della nullità antitrust, in Diritto Bancario, 17 maggio 2024.

[60] Cfr., sul punto, Bis, Towards better reference rate practices: a central bank perspective – A report by a Working Group established by the BIS Economic Consultative Committee (ECC) and chaired by Hiroshi Nakaso, Assistant Governor, Bank of Japan, marzo 2013, consultabile su www.bis.org.

[61] N. Brutti, La manipolazione degli indici finanziari: un illecito in cerca di identità, in Nuova giur. civ., 5, 2013, p. 302; R. Priem-W. Van Rie, cit., p. 51; C.A. Snider-T. Youle, Does the Libor reflect banks “borrowing costs”?, in SSRN Working Paper, 2010, consultabile su www.ssrn.com.

[62] M. Wundenberg, cit., p. 646; N. Moloney, cit., pp. 739 ss.; R. Priem-W. Van Rie, cit., 50 ss.; R. Zakrzewski-G. Fuller, cit., 61 ss.

[63] Ord. Cort. Cass. 13 dicembre 2023, n. 34889. Sul punto, si rinvia a G. Guizzi, Manipolazione dell’Euribor e nullità contratti di finanziamento a tasso variabile: “ci risiamo”!, in Riv. dir. banc., fasc. 1, 2024, pp. 29 ss.; A. Gentili, Sulla tutela del cliente nel ‘contratto a valle’ (il caso Euribor), ivi, pp.19 ss.; A.A. Dolmetta, Euribor manipolato e contratti «a valle». Questioni, ivi, pp. 1 ss.

[64] Cfr. Cort. Cass. 13 febbraio 2024, n. 4001, consultabile su www.dirittodelrisparmio.it.

[65] Nel caso di specie, infatti, il concreto assetto di autoregolamentazione degli interessi delle parti è integrato, secondo la loro stessa volontà, dal riferimento ad un parametro esterno di cui è noto il meccanismo ordinario di determinazione che, in tal modo, assume la natura di un vero e proprio presupposto del regolamento negoziale, in quanto idoneo a individuare l’oggetto della clausola di determinazione del corrispettivo (o quello di una penale), benché non sia prevedibile ex ante il risultato finale concreto (cfr. Cort. Cass. sent. n. 12007/2024).

[66] Nello specifico, occorre «l’allegazione e la prova che la banca stipulante, al momento della conclusione del contratto, fosse o direttamente partecipe di quell’intesa o, almeno, fosse consapevole della sussistenza di una intesa tra altre banche volta ad alterare il valore dell’Euribor o di una effettiva pratica non negoziale in tal senso ed abbia inteso avvalersi dei risultati di questa» (cfr. Cort. Cass., sent. n. 12007 del 3 maggio 2024). Conf., nel merito, Trib. Potenza, sentt. nn. 767/2024, pubblicata il 3 maggio 2024 e 1287/2023, pubblicata il 13 ottobre 2023.

[67] A. Sorgentone, Commento alla sentenza n. 12007/2024: quale futuro per le cause sulla nullità dei contratti EURIBOR?, in Diritto del Risparmio, 24 maggio 2024; A. La Lumia-C. Carmicino, La Cassazione frena sulle conseguenze della manipolazione del tasso di finanziamento definito sulla base Euribor, in Norme&Tributi, 17 maggio 2024; C. Schena, Clausola Euribor: analisi sulla validità dei contratti di mutuo, in Giuricivile.it, 7 maggio 2024.