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Pubbl. Ven, 3 Mag 2024

Il reato “condizionato”: le cd. condizioni obiettive di punibilità

Paolo Leone
AvvocatoUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



L´articolo si concentra sul concetto di condizioni obiettive di punibilità nel contesto del diritto penale. Attraverso un´analisi approfondita della giurisprudenza e della dottrina giuridica, viene esaminato il ruolo e l´importanza di tali condizioni nella determinazione della responsabilità penale di un individuo. Vengono esplorate le diverse teorie e interpretazioni delle condizioni obiettive di punibilità, con particolare attenzione ai criteri oggettivi che devono essere soddisfatti affinché un´azione sia considerata punibile. Particolare attenzione è dedicata alla sentenza dichiarativa di fallimento come elemento cruciale nel determinare l´insorgenza delle condizioni obiettive di punibilità. Infine, vengono proposte brevi considerazioni critiche.


Sommario: 1. Introduzione; 2. Distinzione rispetto alla condizione di diritto privato; 3. Condizioni obiettive di punibilità intrinseche ed estrinseche; 4. Locus et tempus commissi delicti; 5. Leading case: la sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta; 6. Conclusioni.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Distinzione rispetto alla condizione di diritto privato; 3. Condizioni obiettive di punibilità intrinseche ed estrinseche; 4. Locus et tempus commissi delicti; 5. Leading case: la sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

L’istituto delle condizioni obiettive di punibilità individua la sottile linea di confine tra tipicità e punibilità[1]. Esso, infatti, rappresenta il terreno ideale sul quale verificare la tenuta del principio cardine dell’intera architettura del sistema penale: il principio di legalità.

In particolare, rispetto a tale principio la previsione di cui all’art. 44 c.p. impone che sia la legge ad imporre il verificarsi di una determinata condizione, la quale, tuttavia, non è espressamente qualificata come elemento “condizionale” del reato anziché elemento “costitutivo” del fatto tipico.

Pertanto, tale formulazione normativa parrebbe essere incompatibile tanto con il generale principio di tassatività e determinatezza, che impone al legislatore di stabilire in maniera precisa i presupposti al verificarsi dei quali un fatto possa essere qualificato come reato, quanto con il principio di personalità della responsabilità penale, di cui all’art. 27 Cost.

Ciò posto, si comprende come, in dottrina ed in giurisprudenza, si sia fatta strada quella teoria del reato cd. “quadripartita”, la quale inquadra la punibilità come quarto ed autonomo elemento del reato[2].

In effetti, dando rilievo all’interpretazione letterale del codice vigente, la disgiunzione tra illiceità e punibilità non è mera teoria, ma è un dato di fatto, confortato dalla disposizione avente carattere generale di cui all’art. 44 c.p.[3]

Dunque, in alcuni casi la punibilità viene condizionata dalla legge al verificarsi di determinati fatti, oggetto di accertamento giudiziale successivo: in sostanza non tutti i fatti antigiuridici, tipici e colpevoli, in astratto punibili, devono essere necessariamente sanzionati in concreto, rinunziando lo Stato allo jus puniendi per ragioni di economia della pena.

In questi termini, l’indeterminatezza circa la concreta irrogazione della sanzione penale fino al verificarsi dell’evento futuro ed incerto costituito dalla condizione, non si pone in contrasto con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale.

Infatti, la condizione obiettiva di punibilità deve essere ricondotta all’alveo della condicio iuris piuttosto che a quella di cui all’art. 353 c.c., consistente nella condizione prevista dalle parti, quale elemento accessorio, al contratto ovvero ad altro patto.

Il tutto può essere meglio compreso se viene ricondotto alla dicotomia esistente tra “meritevolezza” di pena e “bisogno” (o “necessità”) di pena.

In dottrina, la “meritevolezza” viene interpretata quale precipitato dei principi costituzionali di personalità, offensività e proporzionalità.

Invece, il “bisogno” di pena viene qualificato come esito di una valutazione, operata in concreto, ispirata al principio di opportunità, da declinarsi con esito deflativo verso quelle condotte caratterizzate da scarsa lesività del bene giuridico tutelato.

Dunque, secondo tale impostazione, la punizione (o meglio, la sanzione penale) è razionale fintanto che la pena costituisce strumento idoneo a raggiungere lo scopo prefissato; invece, quando non lo è, ovvero vi sono strumenti meno afflittivi, la sua necessità viene meno[4].

Le condizioni obiettive di punibilità, pertanto, devono essere intese quali requisiti del “bisogno” di pena.

In conclusione, quanto esposto può essere riassunto nel modo che segue.

Preferendo la teoria della tripartizione, le condizioni obiettive di punibilità (così come anche quelle negative[5]) sono ricondotte nell’alveo dell’antigiuridicità.

Di conseguenza, un fatto sarebbe qualificabile come antigiuridico e, quindi, idoneo ad integrare una fattispecie di reato punibile, esclusivamente in presenza della condizione.

Al contrario, se la condizione non sussiste, lo stesso fatto non potrà dirsi antigiuridico e, pertanto, non potrà essere sanzionato penalmente.

In definitiva, la valorizzazione della teoria tripartita comporta l’immediata conseguenza per la quale illecito e punibilità “simul stabunt, simul cadunt”.

Invece, ove venga preferita la teoria quadripartita, la quale, come già detto, scinde illiceità e punibilità, elevando quest’ultima ad autonomo elemento costitutivo del reato, ne consegue che un fatto, tipico, antigiuridico e colpevole, in astratto meritevole di pena, potrà essere ritenuto bisognoso di pena e, quindi, in concreto punito, solamente ove sia sussistente la condizione obiettiva di punibilità. Ne consegue che la valorizzazione della teoria quadripartita non può che comportare il seguente precipitato: in talune accezioni, si è in presenza di un reato “sub condicione”.

2. Distinzione rispetto alla condizione di diritto privato

Come è noto, la condizione privatistica di cui all’art. 353 c.c. è un avvenimento futuro ed incerto, qualificato come elemento accidentale o accessorio rispetto ad un negozio giuridico già perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, al cui verificarsi il negozio inizi (condizione sospensiva) ovvero cessi (condizione risolutiva) di produrre effetti giuridici.

In virtù del tenore letterale dell’art. 44 c.p. vi è chi ha tentato di assimilare le condizioni obiettive di punibilità alla condizione di diritto privato[6]. Tuttavia, una attenta analisi degli istituti dimostra la profonda differenza inerente alla natura giuridica degli stessi.

In primo luogo, è opportuno soffermarsi sulla natura accessoria della condizione privatistica e verificare se medesima natura possa essere riscontrata anche nella condizione di punibilità.

Così come avviene per il negozio giuridico, anche per i reati è possibile distinguere tra gli elementi essenziali, che devono necessariamente sussistere affinché possa essere considerato venuto ad esistenza lo stesso reato, e gli elementi accidentali, i quali accedono, ove esistenti, ad un reato già perfetto nei suoi elementi essenziali.

Se per il negozio giuridico gli elementi accidentali sono; la condizione, il termine e il modo; per il reato detti elementi sono costituiti dalle circostanze.

Ciò precisato, si evince immediatamente come le condizioni obiettive di punibilità manchino del carattere dell’accidentalità tipico della condizione di diritto privato in quanto, ex art. 44 c.p., ove manchi il loro avveramento, il reato non è suscettibile di essere sanzionato.

In secondo luogo, è necessario rimarcare una ulteriore differenza.

Infatti, se la condizione di diritto privato può essere tanto legale quanto convenzionale, ossia frutto della disponibilità e del libero accordo tra le parti, l’art. 44 c.p., in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 25, c. 2, Cost., impone invece che sia la sola legge a poter prevedere una condizione obiettiva.

Infine, vi è un terzo aspetto che conferma la netta distinzione tra i due istituti.

La condizione di diritto privato si caratterizza per la sua natura di evento futuro ed incerto. Invece, la condizione ex art. 44 c.p., seppur anch’essa caratterizzata da incertezza (altrimenti, ove il suo avveramento fosse sempre certo, non vi sarebbe alcun margine applicativo da attribuire alla norma), non necessariamente deve consistere in un evento futuro.

Infatti, la condizione obiettiva di punibilità può verificarsi antecedentemente ovvero contestualmente al fatto illecito cui accede.

Si pensi, ad esempio, alla sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta, in relazione alla quale più avanti meglio si dirà.

3. Condizioni obiettive di punibilità intrinseche ed estrinseche

La formulazione dell’istituto delle condizioni obiettive di punibilità non è rimasta immutata.

In origine, infatti, l’istituto era collocato all’art. 47 c.p., il quale contemplava tanto le condizioni obiettive quanto le condizioni di esistenza del reato, determinando quella summa divisio tra condizioni di punibilità intrinseche ed estrinseche tanto cara alla dottrina[7].

Nel progetto definitivo, invece, l’istituto è stato trasferito all’art. 48 c.p. il quale, parimenti al vigente art. 44 c.p., aggancia l’elemento condizionale alla sola punibilità del fatto e non anche alla sua esistenza[8].

Inoltre, è lo stesso legislatore a chiarire che, quanto alla collocazione sistematica, l’istituto viene posto subito dopo le disposizioni in materia di elemento soggettivo del reato, proprio al fine di evidenziare che la condizione obiettiva di punibilità non rientra nell’alveo del dolo, essendo la stessa un avvenimento che sta al di fuori del processo esecutivo del reato e che si differenzia nettamente dall’evento criminoso[9].

Del resto, proprio per tale ragione nel paragrafo precedente è stato evidenziato come, volendo dare rilievo alla teoria tripartita, le condizioni obiettive di punibilità dovrebbero essere ricondotte all’elemento dell’antigiuridicità e non a quello della colpevolezza.

Questa breve disamina circa l’evoluzione storico-sistematica dell’istituto in esame consente di comprende la ragione per la quale, nonostante la nuova formulazione di cui all’art. 44 c.p., la dottrina continui a distinguere tra le condizioni di punibilità intrinseche (o improprie) ed estrinseche (o proprie).

In particolare, le condizioni intrinseche sono da individuarsi in eventi che rendono attuale l’offesa all’interesse protetto o che ne costituiscono una progressione, i quali concorrono nel delineare l’offesa nel suo nucleo essenziale[10].

Esse, in definitiva, corrispondono alle condizioni “per la esistenza del reato”, di cui all’art. 47 del Progetto del nuovo codice penale.

Ad esempio, l’art. 580 c.p. punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio “se il suicidio avviene”, oppure art. 641 c.p. incrimina la condotta soltanto “qualora l’obbligazione non sia adempiuta”.

Pertanto, concorrendo le condizioni intrinseche a delineare i tratti esistenziali del fatto penalmente rilevante, ai fini del rispetto del principio di legalità è necessario che il loro verificarsi sia prevedibile ed evitabile, da parte del soggetto agente, secondo i criteri generali di imputazione soggettiva, ex art. 42 c.p.

Invece, le condizioni estrinseche si limitano a consentire la punizione di un fatto già perfetto nei suoi elementi essenziali, dovendo pertanto essere individuate in fatti non legati alla condotta, attiva od omissiva, dell’agente, i quali, al contrario, sono indipendenti dalla sua volontà e costituiscono indice di una scelta politico-criminale volta alla decisione di infliggere una sanzione penale.

Ad esempio, la flagranza di reato nel gioco d’azzardo, di cui all’art. 720 c.p. (depenalizzato), ovvero l’annullamento del matrimonio nel caso di induzione al matrimonio mediante inganno, ex art. 558 c.p.

Ne consegue che, essendo le condizioni estrinseche completamente indipendenti dalla volontà dell’agente, le stesse sono svincolate dai criteri di cui al già menzionato art. 42 c.p.[11]

Pertanto, riconducendo all’alveo di applicazione dell’art. 44 c.p. esclusivamente le condizioni obiettive di punibilità estrinseche si evita di confliggere con il principio di legalità di cui all’art. 25, c. 2, Cost.

Ad ogni modo, la netta differenziazione sussistente tra le condizioni intrinseche ed estrinseche ha spinto taluni, in dottrina, a tentare di individuare validi criteri atti ad individuarne in maniera efficace ed immediata la differente natura.

Vi è chi ha avanzato il cd. “criterio della progressione”[12], in forza del quale ci si troverebbe in presenza di una condizione intrinseca ogniqualvolta la medesima abbia ad oggetto una progressione riguardante lo stesso bene giuridico tutelato dalla norma; invece, si avrebbe una condizione estrinseca ove la progressione asserisca ad un interesse diverso.

Altri, invece, rinvengono il criterio distintivo tra le due species in forza di un criterio letterale[13].

In applicazione di tale criterio, si avrebbe una condizione estrinseca ogniqualvolta, nella norma, vi siano espressioni sintomatiche di una frattura tra la struttura essenziale del reato (ad es., “se dal fatto deriva”, “nel caso in cui”, “laddove sia”, ecc.) ed un quid pluris costituito, appunto, dalla condizione obiettiva di punibilità.

In tutti gli altri casi, verrebbe a determinarsi la presenza di una condizione intrinseca.

Altri ancora, danno maggior rilievo al criterio sostanziale, il quale individua le condizioni obiettive di punibilità in quei profili, estranei al reato, già perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, che testimoniano la volontà di infliggere una risposta sanzionatoria, all’esito di una valutazione di politica criminale.

Quest’ultimo criterio è, ragionevolmente, quello da preferire, in quanto risulta essere quello che meglio riflette la già menzionata distinzione tra fatto “meritevole” di pena e fatto “bisognoso” di pena.

Infine, vi è chi ritiene il criterio letterale e quello sostanziale suscettibili di una valutazione combinata[14].

4. Locus et tempus commissi delicti

In via generale, l’art. 6 c.p. prevede l’applicazione della legge penale italiana ove il reato sia commesso nel territorio dello Stato, cosa che si verifica ogniqualvolta la condotta sia avvenuta in tutto o in parte nel territorio italiano, ovvero quando ivi sia avvenuta in tutto o in parte.

Ciò è rilevante anche per l’individuazione del giudice territorialmente competente.

Detto principio generale opera anche laddove sussista una condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 c.p.

In tal caso, in particolare, il locus commissi delicti è individuato nel luogo di avveramento della condizione[15], da considerarsi quale luogo di consumazione del reato

Quanto al tempus commissi delicti, con particolare riferimento al termine iniziale di decorrenza della prescrizione, l’art. 158, c. 1., c.p. prevede che, per il reato consumato, il termine decorra dal giorno della consumazione.

Tuttavia, al comma successivo, la norma prevede che, quando la legge, come nel caso delle condizioni obiettive, fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata.

Ne consegue che fino a quando la condizione ex art. 44 c.p. non si verifica, la prescrizione non decorre[16].

Inoltre, le peculiarità della disciplina del tempus commissi delicti applicata alle condizioni obiettive di punibilità emerge in particolar modo con riguardo all’operatività dei provvedimenti di amnistia.

Infatti, in dottrina, vi è chi ritiene applicabile l’amnistia solo a quei reati divenuti punibili ex art. 44 c.p. entro il periodo di vigenza del provvedimento di clemenza; altri, invece, muovendo dal generale principio del favor rei, ritengono applicabile l’operatività dell’amnistia anche a quei reati non ancora punibili ex art. 44 c.p.

Tuttavia, sulla base di quanto osservato, si dovrebbe propendere per il primo orientamento, con la conseguenza per la quale l’amnistia non possa riguardare un periodo di tempo in cui la condizione ex art. 44 c.p. non si sia ancora verificata.

5. Leading case: la sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta

In tema di condizioni obiettive di punibilità, una delle tematiche più dibattute e controverse è quella relativa alla natura giuridica da attribuire alla sentenza dichiarativa di fallimento con riferimento ai reati di bancarotta.

Sul punto, è opportuno precisare come, secondo l’orientamento più recente, detti reati, disciplinati dall’art. 216 e ss. della Legge fallimentare, si caratterizzino, quanto all’elemento soggettivo, per la sussistenza del dolo generico, consistente nella volontà del soggetto agente di recare pregiudizio ai creditori[17].

Invece, secondo l’orientamento più risalente, per integrare le fattispecie di bancarotta sarebbe necessaria la sussistenza del dolo specifico, consistente nel compimento dei fatti volti a recare pregiudizio ai creditore, al fine di trarre profitto, per sé o per altri.

Effettuata detta doverosa, seppur breve, premessa, l’oggetto dell’analisi è costituito dalla natura giuridica da attribuirsi alla sentenza dichiarativa di fallimento.

Sul punto, è doveroso effettuare alcune opportune distinzioni.

Nelle ipotesi di bancarotta postfallimentare, ex art. 216, c. 2, L. fall., che si caratterizzano per una condotta criminosa posta in essere successivamente alla dichiarazione di fallimento dell’impresa, non vi è dubbio alcuno circa la natura giuridica del provvedimento.

Infatti, nel caso di specie si è al cospetto di un presupposto del reato, in quanto l’illecito non avrebbe ragione di sussistere in assenza della sentenza, la quale assurge a situazione di fatto in mancanza della quale il reato non potrebbe ascriversi in capo all’imprenditore fallito.

Da tale assunto derivano una serie di precipitati: in primo luogo, il reato è consumato nel luogo e nel tempo in cui sono commessi i fatti contestati, ivi radicandosi la competenza territoriale; inoltre, qualificandosi la sentenza dichiarativa di fallimento quale presupposto del reato, non è necessaria la conoscenza del provvedimento medesimo da parte dell’imprenditore affinché siano sanzionate le condotte distrattive.

Ad analoga conclusione si perviene in ordine alle fattispecie di bancarotta impropria, ex art. 223, c. 2, e 224, c. 2, L. fall., in quanto anche in tali ipotesi il fallimento è qualificato come evento e, di conseguenza, quale elemento costitutivo dell’illecito.

Alla sentenza dichiarativa di fallimento è stata equiparata l’ammissione al concordato preventivo[18].

Assai più problematica è la natura della sentenza dichiarativa di fallimento in caso di bancarotta prefallimentare, di cui agli artt. 216, c. 1 e 217, c. 1, L. fall.

In tali ipotesi il fatto è commesso in precedenza rispetto alla sentenza dichiarativa di fallimento e l’imprenditore, a norma di legge, è punito “solo se è dichiarato fallito”.

La problematica si ripropone anche con riferimento alle ipotesi di bancarotta impropria, ex art. 223, c. 1, e 224, c. 1, L. fall., nella misura in cui rendono applicabile la pena di cui agli artt. 216 e 217, L. fall., agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori delle società dichiarate fallite.

L’ubi consistam della problematica in commento può essere meglio precisato nei termini che seguono.

Applicando al caso di specie quanto detto in tema di teoria generale del reato, la qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato implicherebbe tanto l’accertamento del nesso causale tra la condotta dell’imprenditore ed il dissesto dell’impresa, quanto l’accertamento dell’elemento soggettivo doloso in capo all’agente.

Infatti, in mancanza dell’accertamento dei predetti presupposti, si violerebbero gli artt. 40 e 42 c.p., nonché l'art. 27 Cost.

Invece, qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità ex art. 44 c.p., da un lato, si prescinde dall’accertamento del nesso causale e dell’elemento psicologico e, dall’altro, si individuano locus et tempus commissi delicti nel luogo di emanazione della sentenza, e, ancora, il dies a quo di decorrenza della prescrizione coincide con quello di pubblicazione della sentenza.

In relazione a tali ipotesi, la dottrina non ha dubbi nel qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità[19], facendo leva sull’assunto in forza del quale il reato è perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, ma può essere sanzionato solo se l’imprenditore viene dichiarato fallito, anche se il fallimento non è da lui voluto ovvero non è diretta conseguenza della condotta criminosa.

Assai più complessa è l’evoluzione giurisprudenziale sul punto.

Gli approdi della giurisprudenza di legittimità possono essere distinti in quattro fasi: la prima, che qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come “condizione di esistenza del reato”; la seconda, che, seppur attraverso una isolata pronuncia, la qualifica come “evento del reato”; la terza, che perviene alla qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità; la quarta, più recente, in cui la Corte di Cassazione, operando un sorprendente revirement, è tornata a considerare la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato e non come condizione obiettiva di punibilità.

La prima fase ha inizio a seguito della sentenza cd. “Mezzo[20], nella quale le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento come “condizione di esistenza del reato”, vale a dire quale elemento costitutivo del fatto di bancarotta.

La Corte perveniva a tale assunto valorizzando il presupposto per il quale la sentenza “rispetto ai fatti di bancarotta che siano anteriori alla sua pronuncia, costituisce una condizione di esistenza del reato, oltre a determinare la punibilità. Pertanto si differenzia concettualmente dalla condizione obiettiva di punibilità, perché mentre queste presuppongono un reato già perfetto oggettivamente e soggettivamente, essa inerisce, invece, così intimamente alla struttura del reato da qualificare quei fatti, i quali, come fatti di bancarotta sarebbero penalmente irrilevanti fuori del fallimento”.

Le successive pronunce si sono allineate a tale dictum[21] confermando l’assunto per il quale la sentenza dichiarativa di fallimento non costituisce una condizione obiettiva di punibilità dei reati di bancarotta, ma integra un elemento costitutivo di essi e, di conseguenza, i fatti compiuti dall’imprenditore diventano penalmente rilevanti solo con la pronunzia di detta sentenza.

Tale orientamento è stato parzialmente revisionato dalla pronuncia cd. “Corvetta[22] nella quale la Suprema Corte, pur ponendosi in linea di continuità con l’impostazione che considera la sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato, ha precisato che la sentenza de qua debba essere qualificata come “evento” del reato medesimo, in quanto “il fallimento compartecipa intrinsecamente alla fattispecie incriminatrice, conferendo disvalore ad una condotta che, altrimenti, sarebbe penalmente irrilevante”.

In sostanza, secondo tale assunto, emergerebbe che il fallimento della società, o meglio l’insolvenza, che ne costituisce il presupposto di fatto, riflette l'evento della condotta di bancarotta fraudolenta prefallimentare, sicché ai fini dell’affermazione della responsabilità occorrerebbe la presenza di un rapporto di causalità con la condotta distrattiva, oltre che un collegamento psicologico di tipo doloso con l'autore della distrazione, così come prescrive l'art. 43 c.p., “quantomeno a titolo di dolo eventuale”.

Ad ogni modo, va precisato che tale pronuncia, rimasta isolata, è stata sottoposta ad aspre critiche, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

In particolare, poco tempo dopo, la Corte di Cassazione, tornata a pronunciarsi sul punto nella cd. Sentenza “Parmalat[23], ha sottoposto a vaglio critico[24] la statuizione della sentenza Corvetta, secondo la quale prescindere dal rapporto causale avrebbe condotto a conseguenze assurde, rendendo da un lato non punibile chi avesse drenato risorse enormi da una società dotata di un patrimonio attivo considerevole, tale da permetterle di sfuggire al fallimento, e assoggettando invece a pena chi avesse prelevato indebitamente una modestissima somma di denaro molti anni prima di un fallimento verificatosi per cause del tutto autonome.

Infatti, la sentenza Parmalat evidenzia che argomentando al contrario si preverrebbe a conseguenze ancora più irragionevoli: “una volta verificatosi l'irreversibile stato di insolvenza prodromico al fallimento, per qualsiasi causa estranea al fatto dell'imprenditore a quest'ultimo sarebbe data la piena libertà di distrarre l'intero patrimonio aziendale (e di dissipare in aggiunta quello personale), dato che tale condotta non potrebbe qualificarsi come causa del fallimento già resosi inevitabile per fatti pregressi; né varrebbe, in tal caso, ipotizzare una responsabilità a titolo di aggravamento del dissesto”.

Pertanto, a conclusione del suo itinerario, la Corte ribadisce l’adesione all'orientamento tradizionale che qualifica la sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato, il quale non risulta scalfito dalla isolata sentenza Corvetta, ribadendo come “la dichiarazione di fallimento non costituisce l'evento del reato di bancarotta distrattiva, sicché sarebbe arbitrario pretendere un nesso eziologico tra la condotta, realizzatasi con l'attuazione di un atto dispositivo che incide sulla consistenza patrimoniale di un'impresa commerciale, e il fallimento”.

Dunque, “nulla impedisce al legislatore di attribuire ad un determinato reato una struttura unica e peculiare, purché non risulti violato un precetto costituzionale; […] peraltro, non risulta che una simile violazione si sia prodotta, giacché anche la Corte Costituzionale[25] ha ritenuto di condividere l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità che qualifica la sentenza di fallimento alla stregua di un elemento costitutivo del reato, non censurando in alcun modo la conformazione della fattispecie”.

Successivamente, anche la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di allinearsi all’impostazione dottrinale che ha sin da subito qualificato la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità.

In particolare, con la cd. pronuncia “Santoro[26] la Suprema Corte ha affermato che, con specifico riferimento alle ipotesi di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la sentenza dichiarativa di fallimento “ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l’area dell’illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento”.

La Suprema Corte giunge a tale conclusione in quanto la qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato presta il fianco ad una critica fondamentale.

In virtù dei già richiamati principi di cui agli artt. 27 Cost., 40 e 42 c.p., non è possibile giustificare l’irrilevanza del nesso, tanto psicologico che causale, tra la condotta e la sentenza dichiarativa di fallimento in quanto, altrimenti opinando, si perverrebbe ad un assunto in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale.

Infatti, nella pronuncia Santoro, la Suprema Corte chiarisce come la sentenza dichiarativa di fallimento nulla aggiunge ad una fattispecie criminosa in re ipsa perfetta, ma rileva esclusivamente ai fini dell’applicazione della sanzione penale.

La statuizione in commento è stata seguita da numerose pronunce conformi[27], per quanto sono pervenute anche pronunce in senso contrario[28].

La pronuncia Santoro pareva aver messo fine alle oscillazioni giurisprudenziali sulla questione, qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento come condizione obiettiva di punibilità e riuscendo ad allineare gli assestamenti pretori agli assunti dottrinari[29].

Tuttavia, la Suprema Corte ha di recente operato un sorprendente revirement[30], abbandonando l’ultimo orientamento assunto e tornando a dare rilievo al precedente.

Infatti, tornata a pronunciarsi sulla natura da attribuire, all'interno dei reati di bancarotta pre-fallimentare, alla sentenza dichiarativa di fallimento, discostandosi dal più recente orientamento, la Corte è tornata a considerare la sentenza in parola quale elemento costitutivo del reato e non una condizione obiettiva di punibilità.

In particolare, la Cassazione ha statuito che la consumazione dei reati di bancarotta coincide sempre con l'emissione della sentenza dichiarativa di fallimento, ciò anche nel caso in cui le condotte ascritte si siano consumate in epoca antecedente, rispetto all'intervento della sentenza stessa.

Dunque, alla sentenza dichiarativa di fallimento la giurisprudenza di legittimità attualmente riconosce la natura di elemento costitutivo del reato.

6. Conclusioni

Alla luce di tutto quanto fino ad ora specificato, si comprende facilmente come le vicende relative alla punibilità e, più in particolare, quelle relative alle condizioni di punibilità, costituiscano una materia complessa e non assai agevole, con rilevanti precipitati dal punto di vista pratico.

Innanzitutto, il labile confine tra antigiuridicità e punibilità rende impervio il tentativo di ricondurre quest’ultima, nell’ambito della struttura del reato, alla teoria tripartita ovvero quadripartita, con la conseguenza che, nel primo caso, l’assenza di punibilità determinerà l’inesistenza del reato e, di converso, nel secondo, sarà limitata alla sola applicazione della pena, essendo comunque il reato perfetto in tutti i suoi elementi essenziali.

Inoltre, qualificare un determinato evento come condizione obiettiva di punibilità determina la conseguenza di sganciare tale evento dall’accertamento di causalità e colpevolezza, svincolandolo, di fatto, dal principio di personalità della responsabilità di cui all’art. 27 Cost.

In particolare, il discrimen tra le due fattispecie rappresenta il profilo più controverso, anche per l’inesistenza di particolari indici di riconoscimento nell’ambito del diritto positivo.

Non può negarsi, infatti, come l’istituto della punibilità possa essere concepito in entrambi i modi.

Forse, potrebbe essere individuata una efficace soluzione alla problematica in parola.

Riprendendo la genesi legislativa dell’istituto della condizioni obiettive di punibilità, si evince come, nel progetto definitivo di codice penale, l’istituto sia stato agganciato esclusivamente alla punibilità del reato e non anche alla sua esistenza[31].

L’approdo a tale formulazione trova riscontro nella Relazione governativa al codice Rocco, ove è lo stesso legislatore ad affermare di aver voluto mantenere in vita la disposizione “pur semplificandola, con l’omettere il richiamo alla distinzione tra condizioni di esistenza del reato e condizioni di punibilità[32].

Probabilmente, piuttosto che una norma generale come l’art. 44 c.p., sarebbe preferibile fornire in ogni singola fattispecie una indicazione (tassativa, precisa e determinata) circa la natura ovvero il regime di imputazione degli elementi previsti.

Ciò consentirebbe all’interprete del diritto di orientarsi meglio, posto che verrebbe chiarito ex ante il rilievo dato ad un requisito della fattispecie, inquadrandolo come elemento costitutivo, posto a fondamento della responsabilità penale, ovvero quale elemento condizionale, posto a delimitazione della sola pena.

Ad ogni modo, va anche rilevato come vi sia chi continua a perorare la necessità di una norma di carattere generale, facendo leva sulla circostanza per la quale identiche problematiche si pongono anche in altri ordinamenti giuridici, quali, ad esempio, quello tedesco o spagnolo, nei quali detta norma a carattere generale è assente.


Note e riferimenti bibliografici

[1] L. Cornacchia, La punibilità sub condicione, in Legislazione Penale, p. 1 e ss.

[2] G. Cocco, La difesa della punibilità quale elemento autonomo del reato, in Scritti in onore di Stile, Napoli, 2013, p. 497 e ss; G. Cocco – E.M. Ambrosetti, La punibilità quarto elemento del reato, in Trattato breve di diritto penale, Padova, 2017.

[3] G. Cocco, Riflessioni su punibilità, sussidiarietà e teoria del reato. Tra vecchi e nuovi istituti, in Studi in onore di Ronco, Torino, 2017, p. 264 e ss.

[4] G. Cocco, Punibilità nella teoria del reato, in DigDPen, Appendice IX, Torino, 2016, p. 89 e ss.

[5] Sia consentito il riferimento a P. Leone, Il reato “condizionato”: le cd. condizioni negative di punibilità, in rivista Cammino Diritto, fasc. 08/2023.

[6] P. Curatola, Condizioni obiettive di punibilità, in Enc. Dir. VIII, Varese, Giuffrè, 1992, p. 807 e ss.

[7] Progetto preliminare di un nuovo codice penale, II, 1927, art. 47 “quando la legge richieda per la esistenza del reato o per la sua punibilità, il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, ancorché l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non sia dal lui voluto”.

[8] Progetto definitivo di un nuovo codice penale, V, 1929, art. 48 “quando, per la punibilità del reato, la legge richieda il verificarsi di  una condizione, il colpevole risponde del reato, ancorché l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non sia da lui voluto”.

[9] Relazione governativa al codice Rocco, II, 1929, p. 89 e ss.

[10] A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 383.

[11] Corte Cost., sent. 1085 del 1988.

[12] T. Padovani, Diritto Penale, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 445-446.

[13] A. Cadoppi – P. Veneziani, Elementi di diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2015, p. 392; F. Mantovani, Diritto penale, Milano, Cedam, 2017, p. 390.

[14] F. Bricola, Teoria generale del reato, in Novissimo digesto, XIX, Torino, Utet, 1973, pp. 51-52.

[15] Cass. Pen., Sez. V, sent. 13910 del 2017, la quale, in tema di bancarotta prefallimentare ha statuito che “il luogo e il tempo della commissione del reato, ai fini della determinazione della competenza territoriale, dei tempi di prescrizione e del calcolo del termine di efficacia di amnistia o dell’indulto, coincidono con quelli della sentenza di fallimento”.

[16] Cass. Pen., Sez. V, sent. 45288 del 2017, la quale, in tema di bancarotta prefallimentare, ha statuito che “il termine di prescrizione decorre dal momento in cui interviene la sentenza dichiarativa di fallimento e non dal momento di consumazione delle singole condotte distrattive precedenti a tale declaratoria”.

[17]Cass. Pen., Sez. V, sent.  n. 29631 del 2023, la quale, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, ha statuito che “l'elemento soggettivo è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte”; Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 26613 del 2019, la quale, in tema di bancarotta documentale, ha statuito che la condotta “si sostanzia nel dolo generico. In particolare, esso è costituito dalla coscienza e volontà dell'irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili, con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell'imprenditore o del movimento d’affari”.

[18] Cass. Pen., Sez. V , sent. n. 50289 del 2015.

[19] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto  penale. Parte generale, Milano, Giuffrè. 2018, p. 440; F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam, 2017, p. 784; F. D’Alessandro, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali?, in Diritto Penale Contemporaneo, 2013, p. 335 e ss.; G. De Simone, Sentenza dichiarativa di fallimento, condizioni obiettive di punibilità e nullum crimen sine culpa, in RIDPP, 1992, p. 1145 e ss.; M. Donini, Le condizioni obiettive di punibilità, in S.I., 1997, p. 592 e ss.

[20] Cass. Pen. SS.UU., sent. n. 2 del 1958.

[21] Cass. Pen. SS. UU. Sent. n. 24468 del 2017; Cass. Pen. Sez. I, sent. n. 3282 del 1993, n. 2392 del 2001; Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 2334 del 1989, n. 15850 del 1990, n. 8327 del 1998, n. 17049 del 2001, n. 1825 del 2006, n. 43076 del 2008.

[22] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 47502 del 2012.

[23] Cass. Pen., Sez. V. sent. n. 32352 del 2014.

[24] F. Balato, Sentenze Parmalat vs Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in Diritto Penale Contemporaneo, del 16.02.2015.

[25] Corte Cost. sent. n. 110 del 1972.

[26] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 13910 del 2017.

[27] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 4400 del 2017, Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 53184 del 2017, Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 2899 del 2018, tutte conformi alla sentenza in commento, nonché a Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 992 del 2016, a tenore della quale “in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione obiettiva di punibilità, poiché si pone come evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente”; Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 25651, la quale ha statuito che “il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisce, in ragione del divieto di bis in idem, di giudicare l’imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato rispetto al primo, costituisce mera condizione obiettiva di punibilità e non è quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso”.

[28] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 45288 del 2017 e Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 40477 del 2018, tutte in favore della qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento quale elemento costitutivo del reato (in specie, bancarotta fraudolenta prefallimentare).

[29] N. Pisani, La sentenza dichiarativa di fallimento ha natura di condizione obiettiva di punibilità estrinseca nella bancarotta fraudolenta prefallimentare, in D.P.P., 2017, p. 1166 e ss.

[30] Cass. Pen., Sez. I, sent. n. 24714 del 2023, per la quale “per determinare il tempo di commissione del reato di bancarotta, ai fini dell'applicazione o della revoca dell'indulto, occorre tener presente esclusivamente la data di emissione della sentenza dichiarativa di fallimento. La consumazione dei reati di bancarotta, infatti, coincide sempre con l'emissione di tale pronuncia; ciò anche nel caso in cui le condotte ascritte - di natura commissiva o omissiva - si siano consumate in epoca antecedente, rispetto all'intervento della sentenza stessa, giacché a questa deve riconoscersi la natura di elemento costitutivo del reato”; Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 27426 del 2023, che ha statuito che “la declaratoria di fallimento ha natura di elemento costitutivo del reato e non di condizione obiettiva di punibilità”.

[31] Progetto definitivo di un nuovo codice penale, V, 1929, art. 48 c.p., ora contenuto nel vigente art. 44 c.p.

[32] Relazione governativa al Codice Rocco, II, 1929, pp. 89 – 90.