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Pubbl. Mer, 27 Gen 2016

Truffa sentimentale: ecco quando fingere di amare qualcuno può diventare reato.

Fabio Zambuto


Se fingere d´amare sembra un reato a dir poco curioso, la conclusione è ancor più sorprendente. Con una pronuncia del 14 luglio 2015, infatti, il Tribunale di Milano ha valutato se una condotta finalizzata all´induzione in errore, mediante artifici e raggiri volti al conseguimento di un vantaggio patrimoniale a discapito del partner, possa o meno configurare il reato di truffa.


Sommario: 1. Il Caso; 2. Il delitto di Truffa; 3. La Truffa Sentimentale; 3.1 Gli elementi caratterizzanti della truffa sentimentale; 4. L’appropriazione indebita: la questione inerente “l’altruita’ della cosa”; 5. Conclusioni.

Sommario: 1. Il Caso; 2. Il delitto di Truffa; 3. La Truffa Sentimentale; 3.1 Gli elementi caratterizzanti della truffa sentimentale; 4. L’appropriazione indebita: la questione inerente “l’altruita’ della cosa”; 5. Conclusioni.

1. Il Caso

La vicenda giudiziaria dalla quale prende le mosse il processo vede coinvolto un uomo, accusato dei reati di truffa e appropriazione indebita ex artt. 81 co. 2, 640, 646 c.p. aggr. ex art. 61 n. 7 c.p. per avere – con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – indotto in errore la propria compagna sfruttando il sentimento affettivo di tale donna nei suoi confronti. Secondo la prospettazione accusatoria, l’uomo, assicurando alla donna che sarebbero andati a vivere insieme in Perù ove avrebbero intrapreso un’attività imprenditoriale, si sarebbe fatto corrispondere svariate somme di denaro per un importo complessivo di 16.500,00 euro circa, che non avrebbe mai più restituito nonostante le ripetute richieste della donna.

La vicenda oggetto del giudizio, è importante sottolinearlo per ciò che si vedrà nel prosieguo, è stata ricostruita mediante l’escussione della la persona offesa, l’esame dell’imputato e la documentazione prodotta dal Pubblico Ministero (contratto di prestito, ricevute di versamento, estratto conto, raccomandata T).

Nel caso di specie, poco dopo l’inizio della relazione, secondo quanto riferito dalla persona offesa, il compagno dapprima le chiese un piccolo prestito per far fronte ad un periodo di difficoltà economica, successivamente le domandò del denaro per intraprendere un’attività commerciale in Perù. Stipulato un contratto di mutuo al fine di ottenere immediata liquidità, la donna procedeva al prestito e, in un momento successivo, lo raggiungeva all’estero, previo trasferimento di altre somme di denaro con promessa dell’imputato di restituzione negli anni successivi dell’intera somma.

Terminato il viaggio e rientrati in Italia, la donna sosteneva che il compagno, dopo avere cambiato atteggiamento nei suoi confronti, le riferì di volere interrompere la relazione, lasciando intendere che non avrebbe proceduto alla restituzione del denaro. Nel corso del giudizio, la donna ha più volte affermato di aver ricevuto dal compagno illusioni sulla costruzione insieme di una famiglia e rassicurazioni sulla restituzione delle somme anticipate.

Diametralmente opposta appare invece la ricostruzione dei fatti posta in essere dall’imputato che ha negato l’esistenza di tutte le dazioni di denaro di cui sopra, eccetto quella documentata con ricevuta di trasferimento presente agli atti. L’uomo, dietro specifica domanda del difensore, ha infatti negato di aver ricevuto dalla donna le ingenti somme da questa millantate ammettendo di aver ricevuto 1.974 euro come rimborso del prezzo del biglietto aereo della donna, da lui precedentemente acquistato per conto della stessa. Quanto alle vicende successive al viaggio in Perù, l’uomo ha riferito di essersi infastidito a causa dell’atteggiamento della donna che – a dire dell’imputato – iniziò a diffamarlo presso la struttura in cui i due lavoravano, diffondendo la voce secondo cui egli era un “ladro”, un truffatore; a ciò aggiungendo che la donna gli fece una minaccia, telefonando alle due del mattino e dicendo che se non si fosse sposato con lei, avrebbe raccontato della loro relazione alla di lui ex-ragazza che – ai tempi dell’inizio della relazione – conviveva con quest’ultimo.

Orbene, alla luce di tale quadro probatorio, la questione giuridica sottoposta al tribunale concerne la possibilità di ritenere configurabile o meno il delitto di truffa nel caso in cui una persona, ingannando il partner circa i propri sentimenti, induca quest'ultimo ad effettuare in suo favore una prestazione patrimoniale.

I reati ipotizzati nel capo d’imputazione sono quelli di truffa (art. 640 c.p.) e di appropriazione indebita (art. 646 c.p.).

2. Il delitto di Truffa

Al fine di comprendere la questione sottesa al caso in esame, appare doveroso effettuare, seppur brevemente una digressione in ordine agli elementi caratterizzanti del delitto di Truffa.

Il reato di cui all’art. 640 c.p., dispone, al comma 1, per quello che qui rileva, che chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032".

Il delitto di truffa, notoriamente posto a presidio del patrimonio, viene commesso mediante la cooperazione della vittima, carpita con la frode, la cui condotta tipica consta di quattro eventi tra loro collegati e cronologicamente successivi: in primo luogo, il soggetto deve porre in essere un comportamento fraudolento che comprenda artifici o raggiri (condotta tipica a forma vincolata); a causa di tali atti fraudolenti, il soggetto passivo della condotta dev’essere indotto in errore (primo evento); a causa di tale errore, il soggetto ingannato deve compiere un atto di disposizione patrimoniale (secondo evento, implicito); da tale atto debbono derivare un danno ingiusto ad altri (terzo evento) e un profitto ingiusto del soggetto agente (quarto evento).

La truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo[1].

Il bene giuridico tutelato è costituito dal patrimonio della persona offesa[2]. Come si evince dal tenore letterale della disposizione, si tratta di un reato comune in quanto il soggetto agente può essere chiunque, non essendo necessario che possieda determinate qualità personali o rivesta ruoli particolari.

L'elemento oggettivo è integrato ogniqualvolta l'autore materiale, mediante artifizi o raggiri, induca la persona offesa in errore, procurando, in tal modo, a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

In materia di truffa, il danno deve concretarsi in una deminutio patrimonii del soggetto passivo, e, se non può essere configurato dalla violazione di una mera aspettativa fondata su una astratta situazione giuridica ipotizzata dalla legge, è integrato quando l'aspettativa sia divenuta concreta e dia luogo al sorgere di un interesse munito di tutela giuridica, avente contenuto patrimoniale [3]

L’artifizio ed il raggiro, nonostante siano richiamati espressamente dalla norma, non sono, a ben vedere, elementi costitutivi della truffa ma mere modalità della condotta. Ciò che quindi è necessario ai fini della sussistenza del delitto in esame è l’errore in cui deve cadere la persona offesa.

Le modalità con cui il soggetto attivo del reato può indurre in errore la vittima sono innumerevoli ed inesauribili.

E’ possibile succintamente definire come artificio la calcolata trasfigurazione del vero, la fittizia modifica della realtà effettuata sia simulando ciò che non esiste, sia dissimulando ciò che esiste. I raggiri, al contrario sono rappresentati da ogni condotta idonea a far scambiare il falso per il vero

Discussa invece, tanto in dottrina quanto nella giurisprudenza di legittimità, è l’attitudine della semplice menzogna a dar luogo alla configurazione del reato de quo.

L’idoneità dell’azione, in ogni caso, va giudicata ex post, per cui, la truffa sussiste se l’induzione in errore ed il profitto ingiusto si sono verificati nonostante il raggiro o l'artificio siano stati rudimentali o facilmente identificabili

I1 delitto de quo richiede tassativamente che il soggetto attivo, con la condotta suesposta, procuri a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.

Il primo si estrinseca in qualsiasi utilità, incremento o vantaggio patrimoniale, anche a carattere non strettamente economico, mentre il secondo deve avere necessariamente contenuto patrimoniale, consistendo in una lesione concreta che abbia l'effetto di cagionare alla vittima il depauperamento del proprio patrimonio.

Per quanto concerne l'elemento soggettivo, esso è rappresentato dal dolo che, per espressa previsione normativa, sussiste qualora "l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione" (art. 43 c.p.)

Si tratta, in particolare, di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di realizzare la condotta sopra esposta, senza necessità, dunque, che il soggetto attivo si prefigga il perseguimento di ulteriori finalità.

La Suprema Corte, a più riprese, e per quanto di attinenza con il caso in esame, ha avuto modo di precisare che in tema di truffa (contrattuale), l'elemento che imprime al fatto dell'inadempienza il carattere di reato è costituito dal dolo iniziale che, influendo sulla volontà negoziale di uno dei due contraenti - determinandolo alla stipulazione del contratto in virtù di artifici e raggiri e, quindi, falsandone il processo volitivo - rivela nel contratto la sua intima natura di finalità ingannatoria[4].

Orbene, nel caso in esame, precisa il Tribunale, perché possa dirsi integrato il reato di truffa, occorrerebbe provare che l'uomo, con una condotta fraudolenta, abbia indotto in errore la donna sulle proprie intenzioni familiari e lavorative future, così da convincerla a corrispondergli quelle somme, con l'iniziale e perdurante intento sia di ingannarla circa i propri sentimenti sia di non restituire il denaro ricevuto.

3. La Truffa Sentimentale

In termini più generali, continua il Giudice di merito, e con la cautela che ogni astrazione dal caso concreto richiede, è lecito domandarsi se sia concepibile una truffa quando una persona inganni il proprio “compagno” (o la propria “compagna”) in ordine ai propri sentimenti, al solo scopo di ottenere un vantaggio patrimoniale con altrui danno.

Può dunque l'inganno tipico della truffa avere ad oggetto i sentimenti dell'agente e possono quest'ultimi essere l'oggetto dell'errore della vittima?

Può, in generale, affermarsi la sussistenza di una “truffa sentimentale” in ipotesi di questo tipo?

La risposta al quesito, secondo il Tribunale di Milano, non può che essere affermativa.

Il giudice di merito, per meglio chiarire la portata di tale (sorprendente) affermazione, pone il caso di un soggetto che, attraverso un’artificiosa messa in scena, faccia credere ad una persona che esistano determinati sentimenti di affetto o di amore reciproci all’unico e preciso scopo di ottenere da quest’ultima un atto di disposizione patrimoniale. E’ il caso un soggetto che contatta una persona tramite un social-network e intraprende con questa una corrispondenza offrendo dati falsi circa le proprie qualità, i propri interessi, e la propria professione e riuscendo, in tal modo, a far invaghire la persona, a farle credere che i sentimenti affettivi siano reciproci e infine a farle effettuare una prestazione patrimoniale a proprio favore. Un’analoga condotta, sottolinea il Tribunale, è d’altronde ipotizzabile anche qualora l’agente agisca ‘di persona’ e non tramite internet.

3.1 Gli elementi caratterizzanti della truffa sentimentale

A fronte di un’affermazione del genere, certamente “forte” e dalla portata idealmente dirompente sulle molteplici questioni che affliggono la vita di coppia, consapevole del pericolo che l’area del penalmente rilevante possa arrivare ad abbracciare anche condotte intrinsecamente non meritevoli di sanzioni penali, il Giudice di Milano ha ritenuto più che mai doveroso vagliare con cura ogni singolo elemento costitutivo della fattispecie di reato individuando gli elementi caratterizzanti della truffa in questione.

1) Secondo il Tribunale, quindi, un primo aspetto da vagliare con stretto scrutinio è la concreta portata fraudolenta della condotta.

Perché possa parlarsi di truffa è necessario innanzitutto che l’inganno sia stato tessuto in modo artificioso attraverso un’alterazione della realtà esterna, simulatrice dell’inesistente o dissimulatrice dell’esistente (secondo i caratteri dell’artificio di cui sopra), o con una menzogna corredata da ragionamenti idonei a farla scambiare per realtà (nel caso del raggiro). Il Tribunale, aderendo a quella corrente che non ritiene la semplice (nuda) menzogna elemento integratrice della condotta tipica, afferma che questa non possa entrare nell’area del penalmente rilevante, essendo quindi necessario un quid pluris.

La condotta artificiosamente posta in essere dall’agente deve essere colorata da diverse sfaccettature che ne arricchiscano il contenuto e facciano risaltare quell’aspetto arguto che travalichi l’ordinaria accortezza dell’uomo e induca la vittima in “pieno” errore.

2) Il secondo fondamentale aspetto concerne l’elemento soggettivo: il dolo.

Esso deve essere presente sin dal momento iniziale della condotta[5]. L’agente, in ipotesi del genere, deve rappresentarsi l’intero piano criminoso (lato sensu) sin dall’inizio della relazione che, quindi, deve nascere per quel fine, ovvero carpire la volontà della vittima al fine di ottenere una prestazione patrimoniale.

Il dolo eventualmente sopravvenuto non dà luogo al delitto di truffa. L’agente deve avere fin dall’inizio voluto ingannare la vittima e ottenere una prestazione patrimoniale ingiusta con altrui danno.

Sarebbero dunque penalmente irrilevanti le condotte poste in essere nell’ambito di una relazione che non sia stata ab origine intrapresa con quel preciso intento criminoso.

Tale incontestabile rilievo di carattere sostanziale, chiaramente, comporta un’evidente difficoltà di tipo probatorio.

Perché possa dirsi integrato il delitto di truffa in ipotesi del genere, occorre la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533 c.p.p.), che l’agente abbia, fin dall’inizio della condotta fraudolenta, voluto ottenere da questa un atto di disposizione patrimoniale che altrimenti non avrebbe potuto ottenere.

Proprio la difficoltà probatoria, in ipotesi di questo tipo, pare essere di portata rilevante. Si pensi infatti alla difficoltà di potere indagare (e sindacare), esulando da presunzioni, in merito a stati emotivi intrinseci ad un rapporto di coppia.

3) Un terzo aspetto, continua il Tribunale, riguarda il rapporto causale-consequenziale tra errore e atto di disposizione patrimoniale. Affinché possa ritenersi sussistente il delitto di truffa, l’errore deve essere causa dell’atto dispositivo: ciò significa che bisogna valutare se, in assenza di esso, quell’atto non sarebbe stato posto in essere.

Infatti, se la scelta della vittima di porre in essere l’atto di disposizione patrimoniale non è stata effettivamente determinata dall’errata convinzione che la controparte provasse determinati sentimenti o avesse determinati propositi per il futuro non può dirsi che vi sia il reato.

Ciò appare rilevante in quanto, spesso, non è possibile provare tutte le componenti di una relazione di coppia, e cioè tutte le ragioni per cui una persona desidera “stare” con un’altra e disporre anche patrimonialmente a favore di quest’ultima. In tali casi è normalmente impossibile provare che non sussistano altre cause di per sé sufficienti a giustificare l’atto dispositivo. Ciò, peraltro, evita che condotte palesemente immeritevoli di pena possano essere qualificate come truffa.

Anche in questo caso il Tribunale offre un lapalissiano esempio: si pensi, a mero titolo esemplificativo, al caso di un nobile e ricco erede che intraprenda una relazione con una giovane e bellissima donna, ricoprendola di doni e spendendo a suo favore ingenti capitali. In tal caso – anche qualora si raggiunga la prova che la donna, fin dall’inizio, non provava alcun sentimento nei confronti dell’uomo e fraudolentemente lo illuse del contrario all’unico scopo di ottenere benefici economici – non potrà dirsi integrato il delitto di truffa finché permanga il ragionevole dubbio che la presunta vittima, essendo ben lieto di accompagnarsi all’avvenente ragazza, anche sapendo della reale intenzione della stessa, si sarebbe comportato allo stesso modo.

Ciò che quindi, secondo il Tribunale, deve essere accertato, è che sussista in concreto lo stato di errore della vittima, dal momento che (come ribadito da autorevoli tesi dottrinali e giurisprudenziali) il “dubbio concreto” sulla possibilità di essere ingannati esclude la configurabilità della truffa.

Andando poi ad accertare il menzionato rapporto causale consequenziale tra errore e atto dispositivo, si dovrebbe verosimilmente constatare l’insussistenza della prova che a determinare il soggetto all’atto patrimoniale sia stato proprio tale errore e non già altre componenti della relazione di coppia, diverse dai sentimenti amorosi oggetto dell’inganno.

Alla luce di quanto sin qui esposto, il Tribunale di Milano ha affermato che la truffa “sentimentale” è astrattamente concepibile ma in concreto difficilmente ravvisabile.

In ordine al caso sottoposto all’attenzione del Giudice di merito, questi ha ritenuto mancanti tanto una condotta fraudolenta tipica quanto un dolo di truffa. Anzitutto non può ritenersi che gli artifici o i raggiri richiesti dall’art. 640 c.p. consistano nell’aver fatto credere alla donna che quelle somme sarebbero state destinate all’investimento in un’attività imprenditoriale in Perù; ciò in quanto è ben possibile che quella fosse effettivamente la reale intenzione dell’imputato o addirittura la reale destinazione che l’imputato diede alle somme ricevute: nel primo caso difetterebbe senz’altro il dolo di truffa, nel secondo mancherebbe tanto una condotta menzognera dell’agente quanto un errore del soggetto passivo (ipotesi alternative atte a non scongiurare un dubbio ragionevole ai sensi dell’art. 533 c.p.p.).

Invero, per ritenere integrata una truffa, occorrerebbe provare che l’imputato intraprese la relazione con la donna con lo specifico intento di creare in capo a quest’ultima la falsa apparenza di un rapporto sentimentale all’interno del quale la stessa avrebbe facilmente accolto la richiesta di un prestito di denaro. Inoltre, ai fini della prova del dolo, occorrerebbe altresì dimostrare che l’imputato, una volta creato artificiosamente tale contesto di intimità, indusse la donna ad effettuare gli atti patrimoniali con l’originaria e perdurante intenzione di disattendere la promessa di restituzione delle somme prestate. Prove che, nel caso di specie, risultano chiaramente mancanti. Secondo il Tribunale, la ricostruzione dei fatti emersa durante l’istruttoria dibattimentale, al contrario, ha permesso di ritenere che l’imputato intraprese la frequentazione con la donna senza adoperare alcuna malizia e che l’intenzione di non restituire le somme ricevute sorse solo successivamente, allorché la relazione sentimentale tra i due terminò e i loro rapporti si deteriorarono.

Ciò che può affermarsi, sicuramente, è che il quadro probatorio posto alla base dell’intera vicenda processuale risulta in qualche misura carente e privo di portata individualizzante.

Né la Pubblica accusa, né tantomeno la difesa della parte civile sono state in grado di provare non solo e non tanto l’intento criminoso dell’agente, quanto più che questo sussistesse ab origine, che l’uomo si sia determinato ad instaurare una falsa relazione sentimentale per ottenere facilmente un prestito che non avrebbe mai restituito, e che la donna sia concretamente stata indotta in errore.

4. L’appropriazione indebita: la questione inerente “l’altruita’ della cosa”

L’assenza di una condotta fraudolenta e di un dolo iniziale di truffa lascerebbero residuare la necessità di vagliare il possibile inquadramento della fattispecie concreta all’interno del delitto di appropriazione indebita, di cui all’art. 646 c.p., norma che punisce “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.

Trattasi di delitto il cui presupposto fondamentale risiede nell’esistenza, in capo al soggetto agente, di una situazione possessoria in senso lato, da intendersi come rapporto di disponibilità materiale sulla cosa.

Anche la fattispecie delittuosa de qua, come la truffa, tutela il patrimonio della persona offesa.

L'elemento oggettivo si configura allorquando l'agente si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia a qualsiasi titolo il possesso.

Per "cosa mobile" deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento o appropriazione, e che, inoltre, sia in grado di essere trasportata da un luogo ad un altro[6].

L'elemento psicologico è rappresentato dal dolo specifico, ossia dalla coscienza e volontà di porre in essere la condotta suddetta, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto che non deve connotarsi necessariamente in senso patrimoniale, ben potendo essere di diversa natura.

Il possesso implica non già un semplice rapporto materiale con la cosa, ma un potere di fatto autonomo sulla stessa, esercitato al di fuori della sfera di vigilanza e di custodia del titolare.

Per quanto concerne l'appropriazione, essa si realizza con l'attribuzione alla cosa di una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustifichino il possesso, ovvero attraverso il rifiuto immotivato della sua restituzione, indici, entrambi, della volontà di affermazione del dominio sulla stessa.

L’art. 646 c.p., richiede che l’agente si sia “appropriato” del bene mobile “altrui”.

L'appropriazione, a parere della giurisprudenza e della dottrina consolidata, si verifica nel momento in cui il detentore attua la cosiddetta “interversione del possesso” consistente nell'attuare sul bene (di proprietà altrui) atti di disposizione uti dominus (come se ne fosse proprietario) e, quindi, nell'intenzione di convertire il possesso in proprietà[7].

L’omessa restituzione della cosa alla controparte che ne ha fatto richiesta in pendenza di un rapporto contrattuale non integra, di per sé, il reato di cui all'art. 646 c.p. in quanto non modifica il rapporto tra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione "uti dominus" e l'intenzione soggettiva di interversione del possesso, ma si riflette in un inadempimento di esclusiva rilevanza civilistica[8]. Non può esservi appropriazione indebita di un bene da parte di chi è proprietario di quel bene stesso, in quanto difetterebbe tanto la condotta tipica appropriativa quanto l’oggetto materiale del reato: fondamentale attributo di quest’ultimo, infatti, è l’altruità. Tale concetto normativo svolge un’essenziale funzione negativa, indicando che la cosa non deve essere propria.

L’orientamento più tradizionale considera “altrui” la cosa che è in proprietà di altri secondo le norme del diritto civile. Avendo le parti, nel caso in esame, pattuito una futura restituzione da parte dell’imputato delle somme consegnate, rectius prestate, l’operazione, a detta del Tribunale, è giuridicamente qualificabile come contratto di mutuo[9]. Nel caso in esame, la proprietà delle somme di denaro è passata all’accipiens (l’imputato), la cui condotta futura è rimasta tuttavia vincolata all’obbligo di restituire il tantundem. Alla stregua di ciò, il denaro di cui l’imputato ha disposto non può dirsi “altrui” e la sua mancata restituzione può dar luogo, tuttalpiù, ad un torto civile, ma non al delitto di appropriazione indebita, proprio per difetto del requisito dell’altruità della cosa oggetto della condotta.

Ad ogni modo, il Giudice prende atto di un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa leva sulla destinazione della cosa concessa all’accipiens.

Secondo tale tesi[10], che rivede in qualche misura il concetto civilistico di altruità, il delitto si configurerebbe allorché l’agente disponga delle somme di denaro dando loro una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso.

Il discrimine tra acquisto del possesso a titolo derivativo di denaro cui si accompagna l’acquisto del diritto di proprietà e acquisto svincolato dal trasferimento della proprietà risiede, essenzialmente, nell’esistenza o meno di un vincolo attuale di destinazione a uno scopo cui altri ha interesse. In tal modo, come rappresentato da autorevole dottrina[11] “l’altruità viene a coincidere, in tema di appropriazione indebita, con un vincolo attuale di destinazione ad uno scopo cui altri ha interesse”. Dunque, anche qualora la consegna abbia – in termini civilistici – trasferito la proprietà del denaro in capo all’accipiens, la cosa può comunque considerarsi “altrui” ai fini penalistici purché vi sia stata un’espressa limitazione all’uso o uno specifico vincolo di destinazione nell'interesse del tradens.

Il Tribunale di Milano, ha in ogni caso affermato che anche seguendo tale secondo, e più recente, orientamento la soluzione del caso in esame non muterebbe. Ciò in quanto le somme di denaro furono consegnate all’imputato nell’ambito di un rapporto di intima amicizia senza prevedere uno specifico vincolo di destinazione. Non può infatti considerarsi l’accordo, intercorso tra le parti, di utilizzare il denaro prestato per far fronte alle spese del viaggio e per tentare di intraprendere un’attività imprenditoriale in Perù (essendo tra l’altro verosimile che le somme siano state destinate dall’imputato proprio a tale scopo). Ciò che è stato contestato all’imputato, infatti, non è la mancata destinazione delle somme consegnate ad uno scopo prefissato nell’interesse della proprietaria, bensì il mancato rispetto dell’obbligo di restituire l’equivalente di quelle somme dopo averle utilizzate. Non è stata contestata una destinazione incompatibile con le ragioni che giustificano il possesso del denaro.

Conclude quindi il Tribunale affermando che, nel caso in esame, la consegna del denaro trasferì la proprietà di quest’ultimo in capo all’imputato, il quale dispose di una cosa che non era altrui, né ai fini civilistici (ex art. 1814 c.c.) né ai fini penalistici (secondo entrambi gli orientamenti giurisprudenziali citati).

Rebus sic stantibus, la mancata restituzione di una somma di denaro equivalente nell’ammontare a quella prestata, può dar luogo solo ad una violazione contrattuale rilevante in sede civile, ma non al delitto di appropriazione indebita (proprio per difetto del requisito dell’altruità della cosa oggetto della condotta) né a qualsivoglia altro illecito penale.

5. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, appare innegabile come la conclusione cui è pervenuto il Tribunale di Milano con la pronuncia in esame appaia pressoché curiosa sotto molteplici aspetti. Affermare la possibilità a che la truffa “sentimentale” possa astrattamente trovare applicazione, riportando quasi un “vademecum” per l’interprete ai fini del suo riconoscimento, ed allo stesso tempo affermare la dubbia possibilità a che questa possa essere provata desta non poche perplessità ma, allo stesso tempo, lascia ampi margini di “speranza” per le vittime.

Ciò che, in sintesi, pare venire fuori da un’attenta lettura della sentenza, è che l’assoluzione sia stata pronunciata non tanto alla luce di una vera e propria insussistenza del fatto contestato, quanto più per una mancanza di prova in ordine all’elemento soggettivo del reato di truffa e ad una più generale errata linea accusatoria promossa dal Pubblico Ministero procedente.

Ad ogni modo, a parere dello scrivente, se da un lato è vero che il riconoscimento di una truffa in questi termini è in grado di allargare le maglie dell’area del penalmente rilevante sino ad abbracciare condotte intrinsecamente non meritevoli di sanzioni penali, dall’altro è evidente come ipotesi di questo tipo non solo non siano lontane dalla realtà, ma avvengono più frequentemente di quanto ci si aspetti. Ecco perché tale pronuncia appare, ad ogni modo, punto di partenza per un ragionamento fondato sulla tutela di quei soggetti che vengono truffati e soffrono un pregiudizio non solo patrimoniale, ma anche (e soprattutto) morale.

Il Tribunale, con un ammirabile bilanciamento di termini, affermando l’astratta configurabilità ha affermato contestualmente la difficile ravvisabilità in concreto della truffa sentimentale: si badi bene, “difficile”, non “impossibile”. Ciò significa che qualora il quadro probatorio lo consenta non è da escludersi che possa pervenirsi ad un positivo giudizio di colpevolezza per avere finto di amare con l’intento di farsi prestare del denaro senza la volontà di restituirlo.

Note e riferimenti bibliografici
[1] Cass. Pen. Sez. 2, n. 18859 del 24/01/2012 Ud. (dep. 17/05/2012 ) in, www.italgiure.it
[2] Ex plurimis, Cass. Pen. Sez. 2, n. 11989 del 24/02/2010 Ud. (dep. 26/03/2010 ) in, www.italgiure.it
[3] Cass. Pen. Sez. 2, n. 34722 del 14/05/2014 Ud.  (dep. 07/08/2014), in www.italgiure.it
[4] Cass. Pen. Sez. 2, n. 37859 del 22/09/2010 Ud.  (dep. 25/10/2010) in www.italgiure.it
[5] Cass. Pen. Sez. 2, n. 37859 del 22/09/2010, cit.
[6] Cass, pen., Sez. 2, 11 maggio 2010, n. 20647, in www.italgiure.it
[7] Cass. pen., Sez. 2, n. 44557 del 03 ottobre 2014, in www.italgiure.it
[8] Cass. Pen. Sez. 2, n. 12077 del 17/02/2015 Ud.  (dep. 23/03/2015), in www.italgiure.it
[9] Al momento della consegna del denaro (o di altra cosa fungibile) il mutuatario ne acquista la proprietà (art. 1814 c.c.): la somma esce dal patrimonio del mutuante e si realizza l'acquisizione della medesima al patrimonio della controparte.
[10] Cass. Pen., Sez. 5, n. 46475 del 26/05/2014, in www.italgiure.it
[11] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto Penale – Parte Speciale, Volume I, Zanichelli, 2007, p. 107.