Pubbl. Mer, 1 Mag 2024
Le clausole generali, accessori problematici del discorso penalistico
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Sofia Greco
Il mondo del diritto, nonostante le sue caratteristiche autoreferenziali di rigidità e completezza, è contraddistinto dalla presenza di formule linguistiche vaghe ed equivocabili: le cosiddette clausole generali. Si tratta di una problematica comune che viene qui riportata - con riguardo all’ambito penalistico - partendo dallo studio effettuato da Donato Castronuovo, Professore Ordinario di Diritto Penale dell’Università degli Studi di Ferrara, in «La mappa dell’impero. Clausole generali e decifrabilità della norma penale».
General clauses, problematic elements of the criminal speech
The world of law, despite its self-referential characteristics of rigidity and completeness, is marked by the presence of vague and ambiguous language formulas: the so-called general clauses. It is a common problem that is analyzed here - with regard to the criminal field - starting from the study carried out by Donato Castronuovo, professor of Criminal Law at the University of Ferrara, in «La mappa dell’impero. Clausole generali e decifrabilità della norma penale».Sommario: Premessa. 1. Determinatezza, chimera del diritto penale; 2. È possibile definire le clausole generali?; 3. Le clausole generali alla prova del diritto penale; 4. Un discorso penalistico al passo con i tempi; 5. Conclusioni.
Premessa
Il sintagma “clausola generale” può rivestire molteplici significati a seconda del contesto in cui è collocato. Originariamente concepito nel diritto privato, in cui si trovano espressioni come buona fede, danno ingiusto, ingiusto profitto (ecc.), per “clausola generale” si intendono formule linguistiche generalmente soggette a indeterminatezza.
Tuttavia, il loro uso non è rimasto limitato al panorama privatistico, ma è stato presto esteso ad altre aree del sistema giuridico demandanti maggior rigore, come il diritto penale. Di conseguenza, il quadro di riferimento è molto più vasto.
Donato Castronuovo, nel suo articolo «La mappa dell’impero. Clausole generali e decifrabilità della norma penale», ha cercato di delineare un approccio adattabile all’universo penalistico che, contraddistinguendosi per un intrinseco bisogno di rigidità, non dovrebbe lasciar spazio né all’incertezza né a dei canoni interpretativi troppo ampi come l’analogia, salvo rare e tassative ipotesi prevalentemente orientate a una visione favorevole all’autore del reato. Il principio di legalità, pietra angolare delle norme penali, risente della presenza di siffatti elementi di vaghezza, la cui corretta estrinsecazione ne demanda un uso non smodato, al fine di evitare il più possibile l'insorgere di antinomie normative.
L’idea che un sistema (concepito come) rigido ne sia comunque pervaso potrebbe condurre a risultati aberranti in termini di prevedibilità normativa poiché, in un’ottica preventiva, le norme penali devono poter essere comprensibili, oltreché conoscibili, ai loro destinatari, che essi siano gli operatori del diritto o la genericità dei consociati.
Dal momento che la presenza di formule vaghe può compromettere la certezza del diritto, occorre chiarire la loro ratio sul presupposto che non esiste una vera definizione di esse e che la dottrina ha cercato più volte di delinearne i contorni e le caratteristiche, tentando di dotare di maggior chiarezza qualcosa che per sua stessa essenza non lo è.
1. Determinatezza, chimera del diritto penale
Il problema della certezza del diritto si declina in termini di linguaggio e di tecnica legislativa, ossia di interpretazione (e applicazione). L’indagine sul significato incombe pertanto agli interpreti.
Il principio di determinatezza viene definito come il «punto più basso del principio nulla poena» [B. SCHÜNEMANN], ma anche come «utopia dello stato di diritto» [E. SCHMIDHÄUSER], soffrendo di una debolezza intrinseca dovuta a ragioni istituzionali e strutturali.
Sul piano istituzionale, la legge ha via via perso il suo ruolo centrale per far spazio alla «massiccia giudizializzazione dei […] sistemi giuridici» [M. LA TORRE]: una perdita indotta sia da una degradazione qualitativa della legislazione sia della presenza di fonti sovranazionali integrate all’ordinamento interno. Invero, quello dell’ammissibilità di una giurisprudenza-fonte, è un tema di forte attualità nel contesto penalistico, messo più volte in luce dalla Corte costituzionale e, in particolare, in occasione della vicenda Taricco (C-105/14).
La questione principale era stata la possibile influenza (e quindi la valenza) delle pronunce della Corte di giustizia europea nell’ordinamento interno, laddove a esser prese di mira fossero state le norme penali.
Con l’ordinanza n° 24/2017, la Corte costituzionale negava i risultati interpretativi dalla Corte europea, soffermandosi al punto 5 sui criteri per mezzo dei quali il giudice nazionale avrebbe dovuto disapplicare la normativa interna sull’interruzione della prescrizione, a beneficio delle determinazioni europee.
La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile «che il diritto dell’Unione fissasse un obiettivo di risultato al giudice penale e che, in difetto di una normativa che predefinisse analiticamente casi e condizioni, quest’ultimo sarebbe stato tenuto a raggiungerlo con qualunque mezzo rinvenuto nell’ordinamento».
Il richiamo a tale esempio è utile nel contesto delle clausole generali perché queste ultime non si rinvengono soltanto nelle leggi, come tradizionalmente intese, ma anche nelle sentenze delle corti di più alto rango, che siano esse interne o esterne all’ordinamento.
La dottrina penalistica ha sviluppato così una nuova consapevolezza rispetto alle insidie del linguaggio giuridico, all’identità e al ruolo dell’interprete, nonché all’influenza del contesto di riferimento.
La non sicura (e corretta) applicazione del principio di determinatezza non è però una questione dipendente soltanto dal quadro istituzionale sfavorevole, ma anche dall’insufficienza epistemologica della determinatezza come parametro di giudizio della legge penale.
La giurisprudenza-fonte, infatti, sarebbe il sintomo di un mutamento del paradigma scientifico.
Per chiarire il contenuto del principio di determinatezza, occorre osservarlo da tre punti di vista differenti:
- la determinatezza (in senso stretto) imporrebbe che i fatti descritti all’interno delle norme penali possano essere accertati e provati nel processo;
- la precisione che il legislatore sia obbligato a indicare con precisione gli elementi costituitivi del reato e delle sanzioni penali a esso connesse;
- la tassatività che vi sia un divieto di analogia a sfavore del reo.
Da un punto di vista strutturale, invece, l’ambito penale si confronta con le teorie dell’interpretazione. Occorre, a questo punto, evidenziare l’ulteriore distinzione sussistente tra la disposizione, costituita dall’enunciato linguistico frutto dell’attività legislativa, e la norma, risultato dell’attività interpretativa di ricerca del significato.
La disposizione può essere indeterminata, la norma può essere più o meno tassativa.
La norma (il significato) non è ‘scoperta’ dall’interprete, com’è opinione prevalente della teoria cognitiva pura, e nemmeno il risultato dell’attività ‘creativa’ dell’interprete, come per la teoria scettica pura. Ma è qualcosa che involge entrambe le attività, di scoperta e di creatività. Accanto al nucleo semantico certo, la legge si compone di un’area di incertezza dovuta alla struttura aperta del linguaggio giuridico: si tratterebbe della cosiddetta zona di “penombra”, per come definita da Herbert Hart, in cui l’interprete non può operare secondo deduzione e sussunzione, ma deve avere la responsabilità di decidere quale significato dare al testo.
Questa è la teoria eclettica (ossia mista) accolta dalla maggior parte dei penalisti. Le caratteristiche del linguaggio costituiscono un ostacolo concreto al principio di determinatezza, dato dall’esistenza di un legame inscindibile tra realtà fattuale e contesto normativo alla base del diritto penale.
La vaghezza risulta pertanto intrinseca. Per questa ragione vi sono degli elementi che gravitano ai margini dell’area del significato letterale, il cui utilizzo necessita di un’integrazione valutativa. Tali elementi sono, per l’appunto, le clausole generali.
2. È possibile definire le clausole generali?
Da un punto di vista preventivo, il principio di determinatezza imporrebbe che un determinato precetto possa essere prima riconoscibile e poi conosciuto dal consociato, prima che questi ponga in essere un determinato comportamento.
Deve essergli garantita la libertà nell’agire, valutando in maniera preordinata le conseguenze di una violazione. Tale compito è assegnato alle norme penali materiali, le quali stabiliscono quali fatti punire (sulla base della preliminare selezione dei beni giuridici meritevoli di tutela), quali soggetti e con quali pene.
Quando, in tale contesto, vengono a inserirsi elementi indeterminati, per i destinatari si paventa un rischio, che siano essi i singoli o gli stessi operatori del diritto. La presenza di tali elementi coinvolge pertanto, per un verso, il rapporto tra i poteri statali, legislativo e giudiziario, collocandosi nella stessa prospettiva politico-garantista della riserva di legge; per altro verso, si riferisce all’autonomia dell’individuo nei confronti del potere statuale.
La formula clausola generale, di origine dottrinale, è stata pensata nell’ambito dalla letteratura giuridica specialistica.
Non esiste una vera e propria definizione: si è cercato di capirne i meccanismi attraverso l’analisi dei risultati che tali espressioni linguistiche possono raggiungere. Difatti, la tendenza ad adottare formule vaghe dipende (anche) dalla difficoltà a concettualizzarle e a darne una definizione, non esistendo in natura in quanto categoria e non presentando proprie qualità intrinseche.
Determinate caratteristiche vengono attribuite per il tramite di convenzioni variabili di volta in volta in base alle diverse attribuzioni dottrinali per qualificare i diversi gruppi di norme.
Malgrado la pluralità di definizioni, dei vincoli ancorché deboli sembrano comunque sussistere. Vi sono tre tipi di limiti ai quali gli interpreti dovrebbero sempre e comunque attenersi:
- limiti storici che derivano dalla priorità d’uso: chiunque adotti un’espressione precedentemente usata da altri senza nulla specificare, si presume che utilizzi la medesima formula con il medesimo significato;
- limiti procedimentali che si riferiscono al caso in cui si decida di utilizzare una determinata espressione dandone una diversa accezione: in tal caso, deve aversi l’onere di specificare e motivare perché si è descritto qualcosa di diverso utilizzando comunque la medesima formula linguistica;
- limiti razionali che suggeriscono di non sovrapporre fra loro le categorie e di non moltiplicarle inutilmente.
In quanto formule linguistiche ellittiche e bisognose di concretizzazione valutativa, le clausole generali sembrano assimilabili a «tranelli del linguaggio» [D. CASTRONUOVO].
Si tratta di fattori d’incertezza giuridica che rendono difficile la costruzione di un linguaggio formale privo di elementi intuitivi o soggettivi (valutativi) e adeguato alle esigenze di rigore proprie delle scienze dure. La loro presenza, all’esito dell’attività interpretativa, può provocare un effetto entropico: la norma, prodotto della stessa attività interpretativa, non rispecchia più la disposizione di origine perché dispersa nelle differenti (forse eccessive) sfumature di significato [R. BIN]. Un effetto entropico che, prodotto da un’intenzionale indeterminazione, conferisce al giudice un potere di disambiguazione di tali elementi indeterminati per mezzo dell’attribuzione di significati extra o ipertestuali.
L’attività valutativa è operata rinviando a un metodo di integrazione con cui si ricerca il significato (materiale) delle clausole.
Attraverso la propria opera di interpretazione, il giudice assume così il ruolo di creatore del diritto. Non è però il solo protagonista: nella sua attività interpretativa, il giudice è supportato dal giurista che decifra i dettami del legislatore e dal teorico che interpreta e classifica il discorso del giurista.
È proprio su quest’ultimo livello d’astrazione che potrebbe collocarsi il tema delle clausole generali.
3. Le clausole generali alla prova del diritto penale
Nel discorso penalistico si incontra un problema di tecnica normativa. La collocazione delle clausole generali non è indifferente: esse assumono una diversa valenza che siano utilizzate nella parte generale oppure nella parte speciale del codice.
Nel diritto penale, non sempre si procede a distinzioni semantiche precise rispetto a fenomeni e a termini analoghi (norme elastiche, fattispecie aperte, standard normativi, concetti giuridici indeterminati, norme in bianco, ecc.) e neppure si distinguono sempre le clausole generali dalle varie ipotesi di discrezionalità del giudice.
Per quanto concerne le diverse tipologie strutturali, si elencano qui di seguito alcuni esempi di clausole generali: extra o metagiuridiche riferibili a giudizi morali, socio-relazionali o culturali, quali osceno, pubblico scandalo, pubblica decenza; oppure fondate su motivi o cause, come senza giusta causa, motivi abietti o futili; di tipo relazionale-esperienziale, quali colpa per negligenza o imprudenza; di tipo tecnico-scientifico come colpa per imperizia; esplicitamente intra-giuridiche e (tendenzialmente) in bianco (clausole da rinvio intra-giuridico), quali colpa specifica o inosservanza di leggi o regolamenti; analogiche, come altro disastro o di incriminazione suppletiva, ad esempio concorso di persone.
Nonostante le differenze definitorie, si tratta sempre di enunciati normativi indeterminati a contenuto valutativo, mediante i quali il testo si apre verso dati extra-testuali, rimettendo al giudice il compito di rinvenire il parametro di integrazione. Lo scarso coefficiente di determinatezza non comporta sempre e automaticamente una sua insufficienza rispetto allo standard qualitativo della norma.
In una diversa prospettiva, le clausole generali apportano un’utilità garantendo un diritto penale sempre attuale, offrendo la possibilità di integrare il sistema con elementi esterni derivanti direttamente dalla realtà fattuale.
4. Un discorso penalistico al passo con i tempi
Partendo dal presupposto che i concetti utilizzati dalla penalistica sono legati sia alla realtà fattuale sia al contesto normativo, ci si ricollega alla distinzione tra realtà e mondo giuridico, da cui il ragionamento dei destinatati del diritto non può scindersi. Nonostante la presenza delle clausole generali porti a uno squilibrio all’interno della materia penalistica, si può evidenziarne un’utilità da non sottovalutare sotto un profilo teleologico.
Poiché la decisione giudiziale è preceduta dalla valutazione di un determinato fatto storico, per coglierne la vera natura, l’interprete dovrà immedesimarsi nell’effettiva realtà empirica per stabilire il dialogo teleologico tra l’essere e il dover essere che nelle clausole generali è sempre trasversale.
Le clausole generali, seppure ognuna in modo diverso, si riferiscono sempre a dei valori ben precisi caratterizzanti l’epoca storica nella quale si inseriscono. Esse concorrono in tal modo a determinare le regole giuridiche arricchendone i dettami per il tramite di dati esterni dai quali, volendo mantenere il legame con l’attualità, non si può prescindere.
Le clausole generali permettono la realizzazione di manipolazioni ermeneutiche capaci di garantire un’interpretazione evolutiva riferibile all’intero sistema normativo, perpetuando l’aderenza dello stesso all’orientamento etico della società cui si rivolge. Esse, in tal modo, sono capaci di orientare sia il legislatore sia l’interprete verso l’idea di un diritto in continua evoluzione, in modo da consentire al sistema stesso, mediante le integrazioni consentite dalle clausole generali, di prosegue il suo cammino autonomamente in un’ottica progressista e legata ai cambiamenti sociali. Ponendo sempre e comunque davanti a un tale cammino l’esistenza del principio di legalità e delle sue (immancabili) garanzie.
5. Conclusioni
Le clausole generali costituiscono un elemento imprescindibile del discorso giuridico. Per tale ragione se n’è reputata opportuna questa breve disamina. Lo studio di Donato Castronuovo è stato per quest’autore di grande ispirazione per l’elaborazione di numerose idee legate al modo in cui il diritto si esprime.
Un linguaggio complesso e talmente elaborato da suonare ambiguo anche per coloro che lo praticano e lo vivono giornalmente. Un linguaggio che meriterebbe di essere scomposto e scardinato non solo al fine di apportavi le opportune migliorie tecniche, ma anche di adeguarne la comprensione a coloro sui quali incombono le conseguenze in termini sia favorevoli che sfavorevoli.
D. CASTRONUOVO, La mappa dell'impero. Clausole generali e decifrabilità della norma penale, in Diritto e questioni pubbliche, Palermo, XVIII, 2018 / 2 (dicembre), pp. 11–83.