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Pubbl. Mar, 21 Mag 2024

L´importanza della publica utilitas tra pupilli, tutela e status personarum

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Maria Liberti
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Parthenope



Nel diritto romano, lo ”status personarum” era un concetto fondamentale che definiva la posizione legale e sociale di un individuo all´interno della società. La tutela era un meccanismo legale che forniva protezione e gestione degli affari per coloro che non potevano farlo autonomamente, come i minori e le donne. La ”tutela” era originariamente vista come un diritto e un potere del tutore, simile all´autorità del pater familias. Tuttavia, con il tempo, è diventata un ufficio pubblico e un onere per il tutore, trasformandosi in un istituto protettivo per il pupillo. Questo cambiamento riflette l´evoluzione del ruolo dello Stato nella società romana, che ha iniziato a regolamentare la tutela come un interesse pubblico oltre la sfera privata della famiglia.


ENG

The importance of public utilitas between pupils, protection and status personarum

In Roman law, ”status personarum” was a fundamental concept that defined an individual´s legal and social position within society. ”Guardianship” was a legal mechanism that provided protection and management of affairs for those who could not do so independently, such as minors and women. Guardianship was originally seen as a right and power of the guardian, similar to the authority of the pater familias. However, over time, it became a public office and a burden for the guardian, turning into a protective institution for the pupil. This change reflects the evolution of the role of the state in Roman society, which began to regulate guardianship as a public interest beyond the private sphere of the family.

Sommario: 1. Cenni introduttivi sullo status personarum; 2. Lo status di schiavo: servi publici e privati; 3. L’istituto giuridico tutelare al tempo dei Romani; 3.1 La tutela come causa pubblica; 3.2 La tutela e la cura pubblica; 4. Utilitas publica e tutela in Ulpiano;  4.1 Analisi del caso e riflessioni Ulpianee;  4.2 Riflessioni conclusive sulla tutela come interesse pubblico.

1. Cenni introduttivi sullo status personarum

In quasi tutti gli studi inerenti al diritto romano, vi è una approfondita analisi iniziale riguardante lo status giuridico delle persone. Il termine status, è frequentemente utilizzato nelle fonti giuridiche romane, senza però mai averne una definizione esatta, ma solo in un significato ampio, individuando in questo modo il termine status come una posizione, di un soggetto nell’ordinamento sociale partecipe alla città o più in generale al diritto anche in minima percentuale.

Nel Digesto si trova un frammento di Paolo che afferma Tria enim suntquae habemus: libertatem, civitatem, familiam [1]. Si rinviene, quindi, nel diritto romano, tre tipi di status: lo status civitatis, lo status libertatis, lo status familiae[2]. La libertas è un elemento essenziale per la capacità giuridica, e un soggetto senza libertas è un soggetto privo della capacità giuridica. Si può quindi individuare la libertas come un segno di discriminazione, infatti la stessa andrà a caratterizzare i liberi e non gli schiavi. Molti studiosi ritengono che vi furono solo due status in Roma cioè lo status civitatis e familiae, in quanto non è ravvisabile una libertas pura, distinta dalla civitas. I liberi nascevano liberi se al momento del parto lo status della madre era appunto lo status libertatis. Nell’età classica venne considerato libero anche il figlio della serva che al momento della gestazione fu libera, anche per breve tempo.  I soggetti nati liberi assumevano la denominazione di ingenui.  In questo caso tale condizione di ingenuitas rendeva il soggetto al  massimo della sua capacità giuridica.  

Ma questa non è l’unica opzione per essere soggetti liberi.  Vi era la possibilità per uno schiavo di essere liberato attraverso una concessione per atto di un organo statale o attraverso la volontà del dominus con un atto di affrancazione detto manumissio[3]. In questo modo si veniva liberati dalla servitù legale, assumendo la denominazione di liberti o libertini.[4]

2. Lo status di schiavo: servi publici e privati

La parola servo deriva dal latino servum ovvero schiavo. Chi è privo di libertà, soggetto ad altri, essere servum di qualcuno, principalmente del dominus. Senza dubbio il servo nel diritto romano viene considerato una res,ovvero oggetto di diritto altrui, rientrante nell’elenco delle res mancipi, ricompreso tra le cose di maggior rilievo ai bisogni della familia, tra animali,terreni, danaro e schiavi. La proprietà dello stesso può trasmettersi tramite negozi solenni.  

Il servo può essere oggetto di possesso, obbligazione, pegno, danneggiamento, furto. Questo riferimento fa comprendere come vi è una svariata quantità di negozi patrimoniali aventi ad oggetto il servo quale res, ne abbiamo conferma in testi romani di ogni epoca; ciò basta a farci capire il rilievo che gli schiavi avevano come utilitas, come entità materiali al servizio del dominus, altresì suscettibili di utilitas economica.

Vi è un frammento di Cicerone il Cic., pro Caec., 20,55 dove appunto si fa espresso riferimento alla familia parlando si schiavi. Cic., pro Caec., 20,55: “…Si me vilicus tuus solus deiecisset, non familia deicisset, ut opinor, sed aliquis de familia. Recte igitur diceres te restituisse? Quippe; quid enim facilius est quam probare eis qui modo Latine sciant, in uno scervolo familiae nomen non valere? Si vro non sabea quidem servum praeter eum qui me deiecerit, clames vide licet: ‘ Si habeo familiam a familia mea fateor te esse deiectum’. Neque enim dubium est quin, si ad rem iudicandam verbo ducimur, non re familiam intellegamus quae constes ex servis pluriuso; quis unus homo familia non sit; 56- verbum certe hoc non modo postulat, sed etiam cogit, at vero ratio iuris interdictique vis et praetorum voluta et hominum prudentium consilium et auctoritas respuit hanc defensionem et pro nihilo putat. Quid ergo? Isti nomine latine non loquantur? Immo vero tantum loquantur quantum est satis ad intellegendum voluntate, cum sibi hoc propsuerint ut, sive me tu deieceris sive tiorum quispiam sive servo rum sive amico rum, servos non numero distinguant sed appellent uno familiae nomine”.[5]

Cicerone nel frammento afferma che non vi è alcun dubbio che il termine familia andrebbe ad indicare una pluralità di schiavi e che un solo schiavo non costituiva famiglia, l’interpretazione giurisprudenziale sosteneva però che con il termine familia questo volesse diversificare gli schiavi in base al numero, invece che nominarli con il termine in questione. Lo status di servo si costituiva per captivitas, cioè colui che veniva catturato in guerra e quindi fatto prigioniero del peregrinus o excivies quando avesse subito la perdita della cittadinanza; Come è stato già menzionato prima, vi era la condizione di schiavo dalla nascita, nato da schiava “ex ancilla”. In diritto post classico, la revoca in schiavitù “revocatio in servitutem” del liberto che si fosse mostrato ingrato nei confronti del patronus.[6] Infine si ritrova l’eventuale riduzione in schiavitù per provvedimento del governo nei confronti di un cittadino.

Ritornando ora alla prima forma di schiavitù menzionata, la captivitas, bisognare dire che lo Stato poteva vendere i servi diventati captivi, o utilizzarli per sé. Destinandoli a vari servizi pubblici e facendoli così entrare, parallelamente a quanto accadeva per i servi privati, nella cosiddetta familia publica, anzi più propriamente in qualcuna delle famiglie pubbliche. Che lo Stato potesse avere dei servi di sua proprietà appare ovvio, dal momento che era soggetto di diritto, vale a dire godeva della ragione di persona giuridica.[7]Dovendosi ben notare che, sebbene fosse la captivitas causa della schiavitù, per aversi la figura dei servi publici era necessaria la destinazione nei confronti di un servizio dello Stato o di una civitas  all’interno dello Stato.[8] Si può comprendere nel discorso fin qui fatto, che lo schiavo pubblico, prima di ricoprire tale figura era già schiavo captivus, appartenente quindi allo Stato essendo prigioniero di guerra, esso poteva essere oggetto di vendita privata o riservarlo ad un servizio pubblico. Quindi non ricopriva già la figura di specie con la conseguente condizione giuridica di servo pubblico[9].

In riferimento al matrimonio i servi pubblici sposavano o potremmo dire ponevano in essere delle unioni permanenti simili al matrimonio con delle donne libere, i cui figli trattandosi di madre libera nascevano liberi. Il potere dello Stato in riferimento ai servi pubblici si poteva anche concretizza attraverso un trasferimento inteso come quel negozio giuridico che assume varie forme diverse, ma che si caratterizza per avere ad oggetto lo schiavo, trasferito  da un privato allo Stato. In questo caso abbiamo molteplici modi : per donazioni fatte allo Stato da privati, per confisca dei beni di un privato, per eredità fatte allo Stato, per successione attraverso legati, per compera da parte dello Stato. Come si è potuto vedere, cause originarie specifiche della cosiddetta servitus publica  o dei servi publici, non ci furono. D’altra parte la condizione dei servi publici fu più mite di quella dei servi privati[10]. Non ci sono dubbi che anche le donne cadevano in prigionia in guerra diventando captive, le stesse erano oggetto di vendita a privati. Esse vivevano in condizioni disumane, considerate oggetti, facenti parte del patrimonio familiare.  

Le schiave non godevano di alcuna libertà, destinate alle attività più pesanti come pulizia della casa, macinatura del grano, lavori da campo. Non avevano alcun diritto e non potevano sposarsi, se legate ad uno schiavo il dominus aveva il diritto di interrompere l’unione in qualsiasi momento; allo stesso veniva riconosciuta la facoltà di vendere anche uno dei due conviventi. Molti studiosi hanno confermato che non vi sia alcuna traccia di schiave pubbliche, le stesse come abbiamo pocanzi detto cadevano in prigionia diventando captive , ma erano destinate ad essere oggetto di vendita a privati e non invece a servizi pubblici.

E s’intende pure cosi come la nascita da schiava non costituisse l’altra causa di schiavitù  iuris gentium con riguardo ai servi pubblici.[11]

3. L’istituto giuridico tutelare al tempo dei Romani

Tra le condizioni necessarie a porre in essere atti giuridici rilevanti ebbe una grande importanza l’età. Fino all’epoca giustinianea la capacità di agire si acquistava con la pubertà; essa si differenziava tra donne e uomini. In diritto Romano venne definita pubertà, la capacità giuridica acquisita dal soggetto ad un certa età accompagnata dalla maturità fisica e intellettuale.  Secondo i Proculeiani[12] vennero considerate puberes indipendentemente dalla maturità fisiologica le donne che avessero raggiunto dodici anni; ugualmente vennero considerati puberesi maschi che avessero compiuto il quattordicesimo anno di età, a prescindere dal concreto habitus corporis. 

Per i Sabiniani invece era necessario un ispectio corporis per constatare la sopraggiunta pubertà. Nel sistema Giustinianeo, ma già nel diritto classico avanzato, divenne regola la visione più razionale della pubertà secondo i Proculeiani. Parliamo invece di impuberes, per età prossimi alla pubertà, in riferimento a quei soggetti che non privi del tutto di una ragionevole volontà e giudizio, si riconobbe agli stessi una limitata capacità di agire.  Gli infantes vennero invece identificati come coloro privi totalmente della capacità giuridica;  in età classica si venne a considerare il termine dell’infantia con la fine del settimo anno di età, ma ciò non divenne mai una regola neanche in età Giustinianea. In generale possiamo dire che gli impuberi non infantes, vennero considerati capaci di porre in essere molti atti giuridici leciti, fatta esclusione del testamento o di altri atti mortis causa e altresì delle nozze. A questi venne riconosciuta la libertà di porre in essere gli atti di mero acquisto o vantaggio; mentre per atti inerenti alla perdita di un diritto o all’acquisto di obbligazioni solamente con l’intervento del tutore. Prima del raggiungimento della pubertà, agli impuberes veniva affidato un tutore.

La tutela dell’impubere consisteva nell’amministrare i beni del minore, tale rapporto fra tutore e minore venne identificato come negotiorum gestio, andando in questo modo ad delineare il rapporto non solo dal punto di vista amministrativo dei beni ma anche curandone gli affari. Il rapporto poteva identificare un vincolo dell’agnatio ovvero il rapporto che ugualmente univa tutti coloro che sottostavano alla potestà dello stesso pater familias; questo aveva quindi più interesse ad amministrare il patrimonio del pupillo, infatti in caso di morte dello stesso ereditava il pater familias; per converso se il pater non  riteneva alcun figlio degno di questo vincolo, nominava un tutore. Quindi la tutela era funzionale al patrimonio del pupillo e della sua famiglia. Diversamente dalla visione moderna della tutela potremmo dire che essa  venne considerata più un diritto e un potere del pater familias. Sirio Solazzi ha affermato che: la tutela dell’impubere è divenuta un ufficio pubblico e un onere per il tutore, un istituto protettivo per il pupillo. Ma questi caratteri non sono originari. La tutela è stata prima un diritto e un potere del tutore, una privata funzione in rapporto con la famiglia romana.[13]

Parole queste di Sirio Solazzi, uno dei più importanti studiosi di questo istituto. Notiamo che in questa definizione si accosta il piano privatistico-familiare e lo sviluppo pubblico-sociale, individuando uno Stato che riassume nelle sue innumerevoli funzioni un istituto quello tutelare, che ritiene essere una publica utilitas, ben oltre l’ambito familiare. Nel momento in cui lo Stato definisce la tutela di pubblico interesse, controllando la gestione tutelare, si sviluppano le richieste di esenzione da quello che è diventato un onere (excutationes)[14]Questo sviluppo sembra mostrare un legame tra l’epoca repubblicana[15] e quella giustinianea attraverso una modificazione di ruoli e di materia giuridica, già nel periodo del principato al dovere sociale subentrò l’obbligo giuridico.

3.1.La tutela come causa pubblica

D.1.6.9, Pomp.16 ad Q.Mucium: Filiusfamilias in publiciscausis loco patrisfamiliashabetur, velutiulmagistratum great, ut tutor detur[16].

Nel passo di Pomponio si denota come la nomina a tutore viene paragonata ad una nomina di una magistratura, notiamo subito che sono entrambe cause publiche; e che sia nella prima che nella seconda ipotesi il filius familias è considerato allo stesso livello del pater. Notiamo che il passo che stiamo analizzando fa riferimento alla tutela in generale e non ad una particolare tutela. Dobbiamo sottolineare come Pomponio equiparando magistratura e tutela alla causa publica, individua l’ambito pubblico nel quale, sia il magistrato che il tutore agiscono, diverso dall’ambito del pater che è appunto la famiglia. Solo nella sfera pubblica il filius familias può porre in essere un potere autonomo, sia attraverso, la gestione di un patrimonio, sia attraverso il potere decisionale e di comando, senza oltraggiare il potere del pater.

Lobrano afferma che l’elemento comune tra figli tutori o magistrati e pater familias è la potestas del pater; la tutela ha lo stesso valore di honor, pensata come una potestas. Tale paragone della tutela ad un honor è pensata da alcuni come risultato della mentalità tardo-repubblicana, è da menzionarsi infatti come Cicerone valorizza per i soggetti che sono titolari di una carica pubblica, l’ufficio ricoperto dal tutore. Abbiamo già accennato nei paragrafi precedenti come il filius familias è sottoposto alla patria potestas prima di diventare sui iuris al termine del rapporto di patria potestas.

Tale regola ha caratterizzato il diritto romano e nel tempo non ha subito molti cambiamenti. Ma ciò che dobbiamo sottolineare è che il filius familias può ricoprire cariche pubbliche ed in questo modo essere dotato di potere pubblico nei confronti dei cittadini e di esercito: patria potestas ed imperium. Possiamo quindi paragonare la potestà del parter familiasa quella del magistrato e del tutore? In riferimento al termine potestas è bene riportare una definizione di Servio e riportata da Paolo.

Tutela est, ut Servius definit vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere equità, iure civili data ac permissa.

La tutela è, come la definisce Servio un potere su una persona libera, concesso dal ius civile per proteggere colui che a causa dell’età non è in grado di difendersi da solo. Cosi si spiega che divenuta la tutela un istituto nell’interesse del pupillo, sia stata votata una legge (Lex Atilia) che prevedeva la nomina di un tutore, da parte del magistrato, all’impubere che ne fosse privo. E si spiega pure che, essendo divenuta ormai la tutela non più un ambito diritto del tutore, ma un ufficio oneroso(munus), si sia ammesso, in tutta una serie di casi, che il tutore potesse chiedere l’esonero(excusatio) da tale ufficio.[17]

Ma Pomponio per causa publica a cosa vuole far riferimento ? La causa publica, a cui si riferisce Pomponio indica l’ambito nel quale sia i filii magistrati che tutori agiscono, vale a dire la comunità in cui gli stessi agiscono ovvero La Res Publica. Si è assistito al progresso della città e della repubblica populi romani attraverso il cambiamento dello ius publicum e dei servizi richiesti ai cives. In questo contesto va individuato quindi un filius familias nuovo, ovvero un filius che ricopre un ufficio pubblico allo stesso titolo del pater.

3.2. La tutela e la cura pubblica

Lo ius publicum in determinati testi contiene riferimenti alla tutela connessi con la materia della responsabilità dei tutori sia avente ad oggetto la gestione dolosa e sia la  nomina dei tutori con responsabilità solidale da parte dei magistrati. Abbiamo un adagio in riferimento ai minori incapaci e ai suoi interessi privati che recita: Interest rei publicae rem pupilli salvamfore.[18

Tale clausola fa riferimento ad un obbligo di cauzione per il tutore dato e legittimo, notiamo il richiamo alla res publica, ad un pubblico interesse, indicando che lo Stato controlla e vigila l’ufficio tutorio . Andiamo ora  a menzionare una serie di passi rispettivamente di Papiniano e Paulo. D.26.2.29, Pap. 15 resp.: Ex sententiasenatus consulti Liboniani tutor non erit, qui se testamento pupillo tutoremscripsit: cumautempatris voluta hoc ipsum manusua declarantis ambigua non essest, eum, quamvisaliitutoresessent, curatoremdandumrespondi, necadmittendaexcusationem, quam iure publicohabebat, quotiamo promisissevidebatur, necutsuspectumremoveri.

D.27.1.30,  Pap. 5 resp.: Patronus impuberi liberto quosdam ex libertistutores aut curatores testamento dedit. Quamvis eros idoneos esse constet, nihilo minus iure publico patueruntexcusari, ne decreto confirmentum.

D.27.1.36.1, Paul. 9 resp.: LuciusTitius ex tribus filiis incolumibus unum habetemancipatumeiusaetatis, ut curatoresacciperedebeat: quero, si idem Titius pater petenteeodem filo emancipato curator a praetoredetur, an iure publicoutipossit et nihilo minustriumfiliorum nomine vacationem postulare.[19]

Si analizzano quindi i testi partendo dal primo. Papiniano nel D.26.2.29, Pap. 15 resp.fa riferimento al caso del testamento redatto dal tutore contenente la sua nomina, con autografia del testatore confermata di proprio pugno. L’autografia viene paragonata ad una promessa. Il tutore sulla base del suddetto senatoconsulto non può richiedere l’excusatio (con iure publico) quando appunto abbia lui stesso redatto il testamento. Nel secondo testo invece Papiniano parla della nomina data dal patrono ai liberti designandoli tutori del liberto impubere, sottolineando che anche se questi sono obbligati ad accettare la nomina, possono ottenere l’esenzione iure publico.

L’ultimo testo di Paolo parla di un padre che chiede l’esenzione della nomina a curatore del figlio emancipato chiesta dallo stesso, per il numero di figli. Qui l’excusatio è stata concessa tramite rescritti imperiali e indicata con iure publico. Si può notare come in tutti e tre i testi analizzati si fa riferimento allo ius publicum inteso come diritto imperiale. Non si può non ricordare l’analisi di questo gruppo di testi a cui fanno riferimento rispettivamente i giuristi Nocera, Kaser e Aricò Anselmo, individuando un punto in comune il riferimento allo ius publicum. Il pensiero di Nocera si basa sul riferimento alle fonti del diritto  intese come autorità che produce il diritto stesso, ius publico inteso come diritto imperiale. Per Kaser le excusationes,derivano dallo ius publicum, quindi vincolanti, con possibilità di deroga da parte del pretore su sua valutazione.

Infine Aricò Anselmo individua lo ius publicum individuato nei testi sopra, come il diritto vigente al quale i casi devono essere raffrontati.  Ben si nota come Nocera, Kaser e Aricò Anselmo riconducono la loro analisi sempre allo ius publicum in riferimento all’istituto della tutela.[20]

4.Utilitas publica e tutela in Ulpiano

Il termine publica utilitas viene utilizzato dal giurista Papiniano, da Marco Aurelio che ne fa spesso riferimento nei suoi ricordi, ma colui che utilizza frequentemente tale termine è Ulpiano allievo di Papiniano. Rinveniamo in Ulpiano l’accostamento tra utilitas publica e tutela in almeno due passi. Ulp. 36 ‘ ad Sab.’ D.26.2.10.4:“Servusalienus ita dari tutor potest ‘si libererit, tutor esto’ .Quinimmo et si pure datussit, videturinessehaeccondicio’cumlibererit’. Potestautem qui set extraneo servo defendere ex hac causa fidecommissariamlibertatem: quid eniminterest, suumservum an alienumtutoremscripserit, cum pupilli favore et publicaeutilitasadsumptalibertassit in persona eius, qui tutor scriptum est ?potestigitur et huicfidecommissarialibertasdefendi, si voluta apertissime non refragetur.”

Ulp.13 ‘adSab’ D.38.17.2.44: “Tractari belle potest, si pupillo amplumlegatum sub condicione sitrelictum ‘si tutores non habuerit’ et propterea ei mater non petierit, ne condicione deficeretur, an constitutiocesset. Et puto cessare, si damnumminussit cumulo legati. Quod et in magistrati bus municipalibustractaturapudTertullianum: et putatdandam in eosactionem, quatenus plus esset in damnoquam in legato. Nisi forte quisputetcondicionemhanc quasi utilitatipublicaeobpugnantemremittendam ut alias plerasque: aut verbacavillatusimputaveritmatri, cumcuratores non petierit. Finge autempleniuscondictionemconscriptam: nonne eritmatriignoscendum? aut hoc imputaturmatri, cur non desideravit a principe condicionemremitti? et puto non esse imputandum.”[21. Si analizza il primo passo di Ulpiano il 36 ‘ ad Sab.’ D.26.2.10.4, in cui viene ritenuta valida la datio tutoris[22] di un servo, disposta in un testamento, anche se non espressa verbalmente subordinata alla manomissione, dovendosi considerare la clausola condizionale implicitamente operante.

Ulpiano si chiede che differenza sussiste tra la pretesa di un servo proprio o altrui, quando si sia raggiunta la libertà della persona scelta a beneficio del pupillo e nell’interesse pubblico. Il giurista Ulpiano ritiene che la libertà dello schiavo vista come libertas fideicommissaria possa essere difesa, sempre che ciò non sia in contrasto con la volontà del testatore. Il commento di Ulpiano nel libro 36 ad Sabinum sulla norma a tutore testamentario di un servo alienus, va divisa in 3 parti. Inizialmente Ulpiano riconosce allo schiavo altrui la legittimazione a ricoprire tale ufficio andando a condizionare la validità della disposizione all’espressa manumissio servi come individuato dalla clausola ‘si libererit’, manumissio effettuata dal dominus. Tale datio tutoris infatti sarebbe stata priva di efficacia se all’interno del testamento non fosse esplicitamente ed espressamente individuata la clausola con cui si condizionavano gli effetti della nomina alla manumissio dello schiavo; operatività dipendente dalla volontà del proprietario.

Da un altro punto di vista il commento di Ulpiano, induce a constatare la nullità della disposizione con cui si nomina tutore[23] lo schiavo altrui senza il raggiungimento preventivo dello status libertatis in capo ad esso, anche se non espressamente richiesto lo status sui iuris ai fini dell’attribuzione della funzione. Non bisogna stupirsi di quanto detto infatti durante tutta l’età classica ricordiamo che la figura del tutore corrispondeva alla figura di un cittadino libero, maschio, e legittimato alla testamenti factio passiva. In più si ricorda che se nel testamento il servus alienus scelto a ricoprire l’ufficio di tutore[24] e quindi liberato, non fosse risultato manomesso o ciò non fosse stato aggiunto al testamento, la nomina sarebbe risultata nulla. Si può quindi affermare che tale condizione di manomissione doveva essere presente o inserita a pena di nullità. Nel prosieguo del testo si nota come Ulpiano non condivise quest’impostazione rigorosa che discende dallo ius civile, e ciò viene confermato in seguito nel testo. Rispettivamente nella seconda e terza parte, in evidente contrasto con la prima parte, pur individuando un’evoluzione logica.

Ulpiano in ordine alla fattispecie pocanzi esaminata rileva un’illogicità in riferimento al presupporre che il testatore nel nominare un servo altrui senza la relativa manumissio[25]non avesse valutato la condizione negativa soggettiva del servo; il giurista conclude che tale condizione sia implicita, preservando la volontà del testatore e tutelando la posizione del pupillo. In questo modo Ulpiano fornisce un’interpretazione innovativa; la nomina a tutore di un servo senza la presenza della clausola condizionale di manumissio all’interno del testamento, viene tacitamente interpretata come un fedecommesso tacito di libertà diretto ad ottenere la manumissio indiretta.

Bisogna infatti presupporre che se nel testamentum fosse stato nominato l’erede con obbligo di liberare lo schiavo, quest’ultimo appartenente ad un terzo, avrebbe comportato in capo all’erede l’acquisto dello stesso; ma nel momento in cui eventualmente il dominus si fosse rifiutato di alienare lo schiavo, o vi fosse stato un prezzo troppo esoso per l’erede, l’istituto si sarebbe estinto. Secondo Ulpiano in assenza della clausola condizionale, questa può essere oggetto di richiesta in un giudizio dallo stesso schiavo o pupillo, nominando un tutore per quest’ultimo al fine di promuovere l’azione di liberazione dello schiavo.

Si rinviene così uno spostamento di interpretazione da parte del giurista passando dalla condizione tacita al fedecommesso di libertà; argomentando che indipendentemente dal fatto che lo schiavo fosse del terzo, del testatore o dell’erede, non essendo presente la clausola condizionale e altresì non riconoscendo la tacita efficacia non si sarebbe ravvisata alcuna modifica all’operatività della medesima soluzione.[26]

Analizzando il secondo testo di Ulpiano il 13 ‘ad Sab’ D.38.17.2.44, partiamo col dire che il passo ha ad oggetto una nota costituzionale di Settimo Severo nella quale si illustra l’ipotesi di un testamento contenente un legato lasciato a un pupillo subordinato alla condizione di non avere un tutore. Il giurista sottolinea e si pone indirettamente una questio ipotizzando se eventualmente la madre non avesse nominato un tutore, per evitare la decadenza del legato, se quest’ultima fosse ugualmente esclusa dalla successione. Il passo analizza un contrasto tra la condizione individuata esplicitamente nel testamento apposta dal padre e la disposizione di Settimo Severo che subordina la validità della successione materna ai figli morti alla richiesta della nomina dei tutori. Ulpiano nel testo menziona Tertulliano, ricordando come quest’ultimo avesse analizzato lo stesso problema in riferimento ai magistrati municipali, individuando un’azione contro di loro, nel caso in cui il pupillo avesse avuto una perdita maggiore al legato, ad eccezione del ritenere che questa condizione dovesse essere rimossa, adducendosi la sua contrarietà all’interesse pubblico.

Lo stesso provvedimento di Settimo Severo viene riportato anche in una nota di Modestino[27]. D.26.6.2.2, Mod 1 de exc.: "Divus Severus CuspioRufino. Omnem me rationemadhiberesubveniendispupillis, cum ad curampublicampertineat, liquere omnibus volo.Et ideoquae mater vel non petierittutoresidoneosfiliissuisvel priori bus excusatis riectisve non confestim aliorum nomina dederit, ius non habeatvindicandorumsibibonorumintestato rum filiorum.”[28Bisogna subito notare nel passo di Modestino un riferimento alla cura publica.

L’imperatore assume con ogni mezzo la difesa degli impuberi orfani e ciò è sottolineato proprio nel passo “subveniendis pupillis, cum ad curam publicam pertineat”. Vi è quindi una visione innovativa dell’istituto della tutela da parte dell’Imperatore; una volontà tesa a rafforzare in riferimento alla richiesta dei tutori idonei la responsabilità della madre nei confronti dei figli.[29]

4.1.  Analisi del caso e riflessioni Ulpianee

Nel testo D.38.17.2.44 Ulpiano si sofferma su un interesse da salvaguardare che si sostanzia in quello pupillare.  Ciò non vuol dire che nella visione del giurista vi sia un sacrificio delle aspettative della madre ; notiamo come nella seconda parte del passo Ulpiano cerca di bilanciare e preservare entrambi gli interessi. Il giurista nel testo richiama la posizione di Tertulliano consistente nell’ipotesi in cui il contrasto tra le due norme non può avere altra soluzione, si ravvisa il sacrificio dell’interesse materno. Ma il problema di maggiore rilevanza per Ulpiano si sostanzia nel contrasto tra due disposizioni normative entrambe vigenti, concretizzandosi in due ipotesi contrastanti.

Infatti da un lato nel caso di nomina dei tutori da parte della madre si verifica l’inefficacia del legato; nel caso contrario in cui il pupillo beneficia del legato in forza del rescritto imperiale che impone la datiotutoris da parte della madre, la stessa essendo inadempiente viene punita con l’esclusione dalla successione. Il giurista divide il testo in due parti, individuandone la separazione nella frase “nisi forte”. Nella prima parte è centrale l’interesse pupillare, a sacrificio di quello materno. Scevola impeccabilmente denota una riflessione volta a valutare se il danno subito dalla mancanza della datio tutoris fosse maggiore o minore del reale valore del legato; e di conseguenza considerare a seconda del caso negativo o meno la caducazione della successione nei confronti della madre. Ma ciò, continua Scevola, può portare a dei risultati iniqui, dovendosi bilanciare il valore del legato entità concreta e il danno per la mancata tutela entità astratta.

Tutto ciò conduce a delle perplessità, dato che risulta difficile concretizzare a livello valutativo un’entità astratta quale era la mancanza della datio tutoris; per di più risulta irrilevante la stessa caducazione alla successione della madre (così come esposto dal rescritto imperiale) per un’omissione a vantaggio del figlio. Il passo fa leva sul bilanciamento degli interessi sottesi alla condizione; cercando di pervenire ad esiti equi. Ma come abbiamo più volte sottolineato siamo alla presenza di due disposizioni imperiali entrambe vigenti. Infatti il senato consultum di Tertullianum prevedeva la successione ab intestatio della madre ai figli; la costitutio Severiana prevedeva invece un’ipotesi più restrittiva in seno alla madre escludendola dalla successione se la stessa non avesse richiesto ai magistrati la tutela. Quindi la madre sarebbe stata legittimata alla rivendicazione dei beni del figlio morto intestato non solo alla presenza delle condizioni stabilite dal senatoconsulto, ma anche attraverso la nomina dei tutori ex costitutionem; in mancanza di tale onere vi era la preclusione all’eredità.

Non vi è dubbio che Settimo Severo propendesse per la tutela dei pupilli; ma Ulpiano sottolinea come la contemporanea validità distintamente di entrambe le disposizioni e non invece riunite in un unico provvedimento bilanciando gli interessi, avrebbe sempre condotto ad una confusione legislativa per il semplice fatto che il testatore ha apposto una condizione testamentaria “situtores non habuerit”.[30]

Si analizza ora la seconda sezione del D 38.17.2.44 “…nisi forte quisputetcondicionemhanc quasi utilitatipublicaeobpugnantemremittendam ut alias plerasque: aut verbacavillatusimputaveritmatri, cumcuratores non petierit. Finge autempleniuscondictionemconscriptam: nonne eritmatriignoscendum? aut hoc imputaturmatri, cur non desideravit a principe condicionemremitti? et puto non esse imputandum.”Nel passo suddivisibile in 3 ipotesi si individua l’intenzione del giurista. La prima ipotesi denota la remissione della condizione individuata nel legato.[31] Ulpiano ritiene che tale condizione pur non rientrando tra le condizioni contra bonos mores, denota finalità comunque contrarie all’utilitas publicae per questo andrebbe eliminata. La seconda ipotesi ha ad oggetto la sanzione alla madre per non avere nominato un curatore; il giurista si chiede se la madre fosse stata comunque sanzionabile nell’ipotesi in cui la condizione avesse menzionato espressamente l’obbligo alla nomina come previsto nel rescritto severiano. [32]

Anche in questo caso è bene riportare un’arguta riflessione effettuata da Scevola che ora qui riporto:Si è osservato, da un lato, come nel periodo classico la nomina di un tutore o di un curatore non integrassero atti produttivi di risultati ‘fungibili’, in quanto il contenuto delle rispettive funzioni sarebbe potuto essere accostato in età ben posteriore, fors’anche giustinianea: vi è quindi motivo di dubitare della genuinità del testo, questa volta ragionevolmente e su basi non riconducibili alla semplice concinnitas del medesimo, perché non pare molto probabile che il giurista classico avesse pensato alla curatela come ad una sorta di surrogato della tutela impuberum. 

Andando in questo caso a dubitare della genuinità del testo, in quanto non si denota una corrispondenza tra la figura del curator impuberum appartenente al periodo classico e quella individuata nel testo. Pertanto facendo riferimento ad un principio affermato nel passo Mod 7 diff D 26.6.1 appartenente a Modestino, si individua che la nomina del tutore sarebbe potuta avvenire solo da parte sua qualora avesse invocato la sua sostituzione e non invece da parte della madre come affermato da Ulpiano nel suo passo. In un passo di Paulo il D 26.8.19 si ipotizza la figura di un curatore per acta necessari allo stesso, nominato accanto al tutore, restando ferme le competenze di quest’ultimo.[33]

Mod. 7 diff D. 26.6.1: “Matriessollicitudo in petendisfilio tutori bus, non etiam curatori bus observatur, nisiquo  casu impuberi curator petendus est”[34].

Paul. 9 resp. D 26.8.19:“Curatoremetiam impuberi dari posse, sed ad ae, quaesolemnitatem iuris desiderant, explicanda tutore auctore opus esse...In definitiva non si ravvisa alcuna figura di un curatore che possa esercitare le funzioni spettanti al tutore, e non è ipotizzabile che in età classica il curatore fosse nominato indipendentemente dal tutore, solamente in età postclassica fu riconosciuta totalmente la facoltà al curatore di sostituire completamente il tutore.[35]

Tornando al testo di Ulpiano l’ultima ipotesi si sofferma sul bilanciamento tra perdita subita per mancata nomina del tutore e valore del legato. Il giurista qui effettua una riflessione diretta a risolvere sia il conflitto tra le disposizioni legislative sia il conflitto di interessi.

Ulpiano parte dal ritenere come mai apposta la condizione, in questo modo il rescritto severiano non aveva ragione di applicarsi; non esistendo la condizione, il pupillo avrebbe beneficiato del legato e la madre avrebbe chiesto al magistrato la nomina di un tutore, senza contrasto tra il rescritto imperiale avente ad oggetto l’obbligo di nomina del tutore in capo alla madre e il senato consultum di Tertulliano(consistente nel diritto della madre di succedere al figlio morto). La cessata applicazione del rescritto severiano si sarebbe ugualmente verificato attraverso un’analisi volta a tutelare tutti gli interessi meritevoli di tutela. Ulpiano afferma cosi che la condizione analizzata fin qui fosse contraria all’interesse pubblico.

4.2 Riflessioni conclusive sulla  tutela come interesse pubblico

L’importanza degli interessi in gioco quali quelli pupillari, giustificano un riferimento all’utilitas publica; interessi cui il principe tendeva a tutelare. Come già detto in precedenza la condizione apposta al legato viene interpretata da Ulpiano come contraria all’interesse pubblico.  Interesse  pubblico, inteso come quella applicazione nei confronti dei consociati sia della disposizione sulla tutela che quella sulla successione. Ciò che il giurista sottolinea è che bisogna garantire effettività a tali provvedimenti, tutti vigenti e talvolta in contrasto tra di loro quando aventi ad oggetto materie uguali o affini. Ulpiano propone un espediente per evitare tali conflitti, attraverso un’analisi caso per caso e trovando soluzioni armoniche. Espediente questo per evitare i conflitti giurisprudenziali; individuando una serie di rimedi, accompagnati da costituzioni emanate dal principe volte a sciogliere i dubbi via via individuati, sia sostanziali che applicativi.

L’utilitas publica qui costituisce lo strumento ermeneutico giusto per unire i contrasti normativi senza eventualmente l’intervento dell’imperatore; individuando secondo tale tesi, l’importanza maggiore di una delle due discipline, riscontrandone la prevalenza[36]. In questo modo Ulpiano partendo dal caso concreto, non si sofferma sulla liceità della condizione, ma sulla mancanza di coesione normativa, che giustifica l’impiego dell’utilitas publica individuando l’eliminazione della volontà privata in conseguenza dell’esclusione della condizione in vista di un più armonico assetto legislativo, evitando i conflitti.[37]

In generale si può concludere l'analisi affermando che l’importanza della publica utilitas in materia di pupilli e tutela e più in generale agli status personarum, ha manifestato la sua importanza attraverso interventi dell’imperatore e dei giuristi( questi consapevoli della natura pubblica delle norme in materia) in età del principato.[38] Pertanto si può affermare che questi concetti interconnessi tra loro denotano l'impegno dello Stato Romano nel promuovere l'interesse pubblico e nel fornire protezione e servizi alla civitas, nozioni queste determinanti che manifestano una continuità storica con gli attuali sistemi giuridici moderni.


Note e riferimenti bibliografici

[1]I.FARGNOLI, M.DI BERNARSI, Percorsi di diritto romano: tra personae, res e actiones, Torino, 2017, p. 33.

[2]Adgnatio. Il giurista romano GAIO ne dà la seguente definizione nelle sue Istituzioni:

G.1.156 «Suntautemadgnati pervirilissexus persona cognazione iuncti, quasi a patre cognati,velutifratereodempatrenatus, fratisfiliusneposve ex eo, item patruus et patruifilius et nepos ex eo. At hi, qui per femini e sexuspersonas cognazione coniuguntur, non suntadgnati,sed alias naturali iure cognati».

 
[3]Qui ex iusta servitutem anumissi sunt, GAIO,I,11
 

[4] I liberti erano schiavi liberati dal padrone attraverso la manumissio; esistevano tre tipi di manumissio:  la manumissio per vindictam dove un cittadino romano si accordava con il padrone dello schiavo da liberare, contestandone il diritto di proprietà davanti ad un magistrato, e dopo essergli stato assegnato lo schiavo, questo gli poneva un bastncino detto vindicta dichiarandolo libero; la manumissio censu dove il dominus faceva iscrivere lo schiavo nelle liste del censimento e lo dichiarava libero ed infine la manumissio testamento dove il dominus liberava lo schiavo attravrso una disposizione testamentaria. Cdauda in desuetudine la manumissio censu, Gai., inst. epit. 1.1.1, afferma che cives romani sunt, qui his tribus modis, id est testamento aut ante consulem fuerint manumissi. Cfr. I. 1.5.3:…modo maiorem et iustam libertatem consequebantur et fiebant cives Romani…

[5] M. MICELI, Studi sulla rappresentanza del diritto romano volume IMilano, 2008, p. 122.

[6] A.GUARINO Diritto Privato Romano, Napoli, 2001, p. 677.

[7]O.ROBLEDA, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Roma, 1976, p. 64.

[8]O.ROBLEDA, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, cit., p. 64.

 
 

[9]Servi publici appartenenti allo stato come i praecone(banditori), i lictores(littori che procedevano  con dei fasci di verghe gli altri magistrati, a titolo onorifico), gli scribae( segretari particolari o cancellieri dei magistrati), o ancora i viatore( messi statali), o gli aeditui( custodi dei templi).

[10]O.ROBLEDA, ivi, cit., p. 68.

[11]Ivicit., p. 67.

[12] Nel periodo classico della giurisprudenza romana esistettero due scuole di diritto, quella dei Proculiani e quella dei Sabiniani. Molti studisi che hanno affrontato il problema dell’insegnamento del diritto nella Roma classica fanno riferimento come fonte principale l’Enchiridion di Pomponio riportato anche nel Digesto D. 1.2.2.47-53. Secondo Pomponio la scuola Proculiana fu fondata da Labeone, cui succedette Nerva e poi Procuolo ed è appunto da lui che venne il nome di Proculiani.

[13] G.VIARENGO, Studi sulla tutela dei minori,  cit, Torino, 2015.

[14] Ivi, cit., p. 1.

[15] Quella della Repubblica (509 a.C.) rappresentò una fase complessa, determinante e lunga della storia romana; vi furono importanti cambiamenti per Roma che da piccola città stato fino al VI secolo a.C. divenne alla vigilia della fondazione dell’Impero, la Capitale di un vasto e complesso Stato, costituito da molte civiltà differenti, elemento che segnò in maniera decisiva la storia dell’Occidente e del Mediterraneo.

[16] G.VIARENGO, ivi., p. 7.

[17] C.SANFILIPPO; Istituzioni di diritto romano, a cura di A. Corbino ; A. Metro, Soveria Manelli, 2002, pp. 181-182.

[18] S.PUGLIETTI., Scritti Giuridici I  1927-1936, Milano, 2008, p. 818.

[19] G.VIARENGO, Studi sulla tutela dei minori, cit., p. 14.

 [20] Cfr. ivi, pp. 15-16.

 [21]R.SCEVOLA, Utilitas Publica, II. Elaborazione della giurisprudenza severiana, in L’arte del diritto, a cura di  Luigi Garofolo, Trentino, 2012, pp.  9-10-22-23.

 

[22] Come osserva L. DESANTI, De confirmando tutore, Milano, 1995, p. 154 “ Non si legge 8 come sarebbe logico) che il testaore volle il servo – anzitutto -  libero e quindi tutore; all’opposto, che lo volle – anzitutto – tutore, e quindi, implicitamente, libero”.

[23] Cfr. S. DI SALVO, Lex Laetoria. Minore età e crisi sociale tra il III e il II a.C., Napoli, 1979, p. 19 ss.

[24] La tutela impuberum è un istituto assai risalente, la cura minorum che non venne disciplinata dallo ius civile ha avuto inizio conl’emanazione della Lex Laetoria de circumscriptione adulescentium, risalente al II sec. a.C. , da qui si iniziò ad affiancare ai minores per la conclusione di affari persone competenti e di fiducia.

[25] M. MELLUSO, La schiavitù nell’età giustinianea: disciplina giuridica e rilevanza sociale, Paris, 2000, p. 137 afferma “Conformemente allo spirito dei canoni di diversi concili, nella legislazione di Giustiniano viene sviluppato il concetto per cui il potere che il dominus esercita sul servus è di tipo disciplinare, non configurandosi più quale esercizio di dominio”.

[26] Cfr. R.SCEVOLA, Utilitas Publica, II. Elaborazione della giurisprudenza severiana, in L’arte del diritto, a cura di  Luigi Garofolo, Trentino, 2012, pp. 10-14.

[27] Rilevante è anche ricordare come in G. VIARENGO, L’excusatio tutelae nell’età del Principato, Genova, 1996, p. 121 s., la studiosa afferma “Certamente Settimo Severo era legittimato da principi morali a rivendicare al potere imperiale il dovere di difendere soggetti altrimenti privi di difesa” e continua “ Forse anche motivazioni più contingenti hanno ispirato il suo intervento; come quella, per esempio, di attribuire alla madre la responsabilità di un compito che né i costumi, né i rapporti di parentela, né le leggi riuscivano più ad assolvere: trovare chi si assumesse l’onere di amministrare una tutela”.

[28]D.26.6.2.2, Mod 1 de exc. in G. VIARENGO, Studi sulla tutela dei minori, cit., p. 18.

[29] Cfr. ivi, p. 18.

 

[30]Cfr. R.SCEVOLA, Utilitas Publica,II. Elaborazione della giurisprudenza severiana, in L’arte del diritto, a cura di  Luigi Garofolo, Trentino, 2012, cit., pp. 29-33. 

 

[31] A. CALORE, La rimozione del giuramentoMilano, 1988, pp. 218 ss.,  sulla tipologia di impiego del termine remissio, nel linguaggio giuridico del principat, tale contributo, dà rilevanza circa il trattamento delle condizioni illecite, con speciale riguardo al rapporto corrente tra inesistenza e remissione.

[32]Cfr. R.SCEVOLA, Utilitas Publica,II. Elaborazione della giurisprudenza severiana, in L’arte del diritto, a cura di  Luigi Garofolo, Trentino, 2012, pp. 33-38.

[33] Cfr. ivi,  pp. 38-39.

[34] G. VIARENGO, Studi sulla tutela dei minori, cit., p. 55.

[35]A.GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, 2001, p. 620.

[36] Inquesto caso è bene richiamare un’osservazione effettuata da M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma- Bari, 1987, p. 246, dove afferma che “La legislazione imperiale è in se stessa episodica, amche quando si muove lungo i binari della tradizione o sottende un duraturo indirizzo di governo. Si potrebbe dire che essa non ha mai perduto questo suo carattere. Alla giurisprudenza spetta invece una funzione unificatrice. Fra i suoi compiti vi è anche quello di guadagnare, o riguadagnare, di volta in volta l’equilibrio formale dell’ordinamento. Si badi bene. La giurisprudenza dà rilievo ai criteri equitativi che ispirano spesso la legislazione imperiale, e non rinuncia a cogliere la forza innovatrice, Ma di fronte al suo procedere saltuario, e alle sue ragioni spesso contingenti, essa, in quanto scienza, si considera custode di una ratio più profonda, da cui dipende l’unità e la continuità del diritto”.

[37] Cfr. ivi,  pp. 41-42.

[38] G.VIARENGO, Studi sulla tutela dei minori, cit., p. 19.