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Pubbl. Mar, 5 Gen 2016

Peculato del medico in intramoenia: è reato solo se legittimato alla riscossione delle somme

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Natale Pietrafitta


La Suprema Corte di Cassazione ha fatto ormai chiarezza, dopo numerosi anni di struggenti indecisioni, circa il trattamento sanzionatorio e la qualificazione giuridica della condotta di colui il quale, pur profittando della disponibilità della struttura sanitaria pubblica, ossia il medico, devii i proventi derivanti dalla sua attività presso le proprie casse e non quelle pubbliche. La Corte, altresì, ha finalmente posto l´accento sul concetto di attività medica intramoenia, si spera una volta per tutte. Maggiori chiarezze renderanno maggiormente fluida l´attività giudiziaria di coloro i quali, in futuro, si troveranno ad occuparsi di consimili casi.


Commento a Cassazione penale, sez. VI, sentenza 04 settembre 2015 n. 35988.

1. La vicenda giudiziaria.

Un medico ospedaliero, veniva condannato, sia in primo sia in secondo grado, per peculato, in quanto ritenuto di essersi appropriato di alcune somme corrisposte dai pazienti per le prestazioni erogate da questo in regime di intramoenia, anziché indirizzarli, per il relativo pagamento, presso gli sportelli di cassa dell’ente pubblico. In particolare, secondo la ricostruzione dei Giudici di merito il professionista avrebbe effettuato le visite oggetto del capo di imputazione senza il rilascio della ricevuta fiscale, eludendo le procedure di prenotazione ospedaliera ed omettendo, altresì, di versare la quota parte di pertinenza pubblica. La tesi difensiva del sanitario sosteneva che i giudici del merito avessero fatto erronea applicazione dell’art. 314 c.p. difettandovi la ragione dell’ufficio o del servizio; difatti il medico non aveva percepito le somme per conto dell’amministrazione, ma nel proprio esclusivo interesse ed in violazione di legge. Sostanzialmente, era stato l’abuso del ruolo – e non la ratione officii – ad aver determinato l’occasione per la condotta criminosa. La vicenda al più sarebbe dovuta essere ricondotta, sempre secondo la tesi difensiva, nella diversa fattispecie dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.. 

2. Il delitto di peculato.

Per una migliore intelligenza del caso sottoposto alla nostra attenzione occorre preliminarmente porre alcuni cenni in ordine al delitto di peculato. Valutarne le sue caratteristiche essenziali e i suoi presupposti di fondo. Il delitto di peculato, di cui all’art. 314 c.p., infatti, punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.

Più precisamente, il peculato è un "reato proprio", in quanto può essere commesso solo da un soggetto che rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Ai fini della configurazione del reato, per pubblico ufficiale deve intendersi sia colui che tramite la sua attività concorre a formare la volontà della P.A., sia colui che è chiamato a svolgere attività aventi carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali, poiché, anche in tal caso, attraverso l'attività stessa, si verifica una partecipazione alla formazione della volontà dell'amministrazione pubblica (Cass. Pen. n. 39351/2010). 

Il peculato, peraltro, secondo un primo indirizzo è un reato di natura plurioffensiva, poiché configura da un lato un abuso della situazione giuridica di cui il soggetto agente è titolare, e, dall'altro, un delitto contro il patrimonio pubblico, bene giuridico di cui si vuole tutelare l'integrità, poiché necessario alla realizzazione dei fini istituzionali da parte dello Stato e degli enti pubblici nei confronti della collettività. Secondo un altro indirizzo, invece, il bene giuridico tutelato coincide con quello collettivo del buon andamento, dell'imparzialità e dell'efficienza dell'attività della Pubblica amministrazione, leso dalle condotte illecite perpetrate dai suoi stessi organi. Il delitto di peculato, altresì, ha natura istantanea in quanto si consuma nel momento in cui ha luogo l'appropriazione dell'oggetto materiale altrui, da parte dell'agente, la quale si realizza con una condotta incompatibile con il titolo per cui si possiede la res altrui, a prescindere dal verificarsi di un danno alla pubblica amministrazione. L'elemento oggettivo del reato esige solo che la cosa mobile oggetto del reato si trovi nella disponibilità del soggetto agente. Nel reato di peculato, infine, il dolo è generico e consiste nella mera coscienza e volontà dell'appropriazione.

3. La qualifica di pubblico ufficiale e il concetto di attività intramoenia.

Circa la qualificazione giuridica del concetto di pubblico ufficiale nel corso degli anni si sono contrapposti due orientamenti. Il primo, particolarmente datato, il secondo, più recente e maggiormente condiviso nel panorama giudiziario odierno. 

Secondo la prima ricostruzione, allora, il medico che si faccia pagare dal cliente anziché indirizzare lo stesso alla cassa dell'ente ospedaliero, nello svolgere, nell'ambito della struttura ospedaliera, attività libero-professionale (cosiddetta "intra moenia") non riveste la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di un pubblico servizio. Ciò in quanto egli nell'esplicare la suddetta attività si limita a mansioni di natura tecnica senza concorrere in alcun modo a formare e manifestare la volontà della pubblica amministrazione; d'altro canto le prestazioni in questione non risultano in alcun modo regolate da norme pubbliche. Peraltro, il fatto che il corrispettivo delle visite private "intra moenia" debba essere versato a tale cassa non implica una disciplina pubblicistica trattandosi di semplice modalità di pagamento rivolta a far pervenire direttamente all'ente la percentuale dovutagli per l'uso consentito al medico delle attrezzature ospedaliere (Cass. Pen. 1128/1996).

Un secondo orientamento, piuttosto, ha sancito il principio secondo cui per attività libero-professionale intramuraria o intramoenia si intende l'attività medica esercitata fuori dell'orario di lavoro, in favore e su libera scelta dell'assistito pagante, ad integrazione e supporto dell’attività istituzionalmente dovuta. Le prestazioni professionali, ove effettuate all’interno dell’azienda sanitaria, vengono remunerate mediante il pagamento di una tariffa comprensiva dell’onorario del professionista oltre che della quota parte da destinare all’ente pubblico per l’utilizzo delle strutture ambulatoriali e delle strumentazioni diagnostiche. La Cassazione, intervenuta a più riprese sul punto, ha specificato che il medico che esercita in intramoenia non è di per sé pubblico ufficiale ma lo diviene nel momento in cui provvede alla percezione della quota parte degli onorari da riversare nelle casse dell’ente di appartenenza (Cass. Pen. n. 39695/2009). Il sanitario, quindi, riveste la qualità di pubblico ufficiale per la parte della sua attività inerente al versamento delle somme che, in base alle norme vigenti in materia di attività intramoenia, sono dovute alla azienda sanitaria. A tal proposito, allora, assume rilevanza, ai fini della qualifica in parola, la virtuale sostituzione del medico ai funzionari amministrativi nella attività pubblicistica di riscossione dei pagamenti (Cass. Pen. n. 2969/2004).

4. L’interpretazione del requisito della“ragione di ufficio o di servizio”. 

Il requisito in epigrafe ha, fin da sempre, suscitato ampie e notevoli perplessità nello scenario ermeneutico italiano. Proprio in ragione di tali incertezze, nel corso degli anni si sono confrontate tre preminenti ricostruzioni di carattere giurisprudenziale. 

Stando, allora, ad un primo orientamento pare possa ritenersi sufficiente il requisito della occasionalità. Ciò in quanto il possesso “incriminato” non deve necessariamente rientrare nel novero delle competenze o attribuzioni connesse alla funzione esercitata o al servizio prestato dal soggetto agente, essendo sufficiente a tal fine anche una coincidenza occasionale con le suddette attività. Sicché il peculato sarebbe da escludere solo nel caso di usurpazione di pubbliche funzioni (Cass. Pen. n. 17920/03).

Contro tale orientamento è stato osservato, però, che questo porterebbe a un eccesso di tutela nei confronti della P.A. impedendo la configurazione del reato di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell’all’art. 61 n. 9 (l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio), risultando - quest’ultima ipotesi - sempre assorbita dal delitto di peculato. 

Per un opposto orientamento l’incriminazione a titolo di peculato presupporrebbe il necessario collegamento del possesso alle sole competenze o attribuzioni connesse alla posizione gerarchica o funzionale del reo. È stato però osservato, di contro, che un tale orientamento presenterebbe difetti opposti al precedente, onde incrementare l’eccessivo zelo di garantismo, rischiando di restringere eccessivamente l’area del penalmente rilevante (Cass. Pen. 34884/2007 - Cass. Pen. n. 25255/2012). 

Un orientamento intermedio, invece, mira a valorizzare il collegamento non formale tra l’ufficio e la res, e ritiene sussistente la ragione funzionale quando la cosa o il bene rientrino tra le attività funzionalmente devolute all’ufficio, siano esse attribuite per legge, per consuetudine o per prassi (Cass. Pen. n. 34489/13). 

5. La decisione della Corte.

La Suprema Corte di cassazione, da ultimo, con la sentenza Cassazione Penale, sez. VI, sentenza 04 settembre 2015 n. 35988, aderendo al secondo degli orientamenti suesposti, ha affermato che il soggetto agente risponderà del delitto di abuso d’ufficio solo ove abbia avuto il possesso o la disponibilità della cosa, sulla base di un atto illecito o di un affidamento contrario ad un espresso divieto di legge mancherebbe dunque il suddetto collegamento con l’esercizio di poteri o doveri funzionali; indi, l’impossibilità di sussunzione sub art. 314 c.p.

In tali casi le condotte appropriative non troverebbero “la loro causa nella ragione funzionale” ma ne rappresenterebbero “una palese violazione, costituendo l’occasione stessa della materiale apprensione della res”.  Piuttosto, integra il delitto di peculato la condotta del medico dipendente di un ospedale pubblico il quale, svolgendo in regime di convenzione attività intramuraria, dopo aver riscosso l'onorario dovuto per le prestazioni, omette poi di versare all'azienda sanitaria quanto di spettanza della medesima, in tal modo appropriandosene, a condizione che la disponibilità del denaro sia legata all'esercizio dei poteri e dei doveri funzionali del medesimo, e non in ragione di un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo "intuitu personae", ovvero scaturito da una situazione "contra legem", priva di relazione legittima con l'oggetto materiale della condotta (Cass. Pen. n. 35988/2015).
Ciò in quanto, nello schema normativo della fattispecie di peculato la locuzione "ragione del suo ufficio o servizio" esprime una caratterizzazione giuridica del potere che deve sussistere in capo al soggetto attivo. Per commettere il delitto di peculato, dunque, il pubblico ufficiale, ovvero l'incaricato di pubblico servizio, deve appropriarsi del denaro o della cosa mobile di cui dispone per una ragione legata all'esercizio di poteri o doveri funzionali, in un contesto che consenta al soggetto di tenere nei confronti della cosa quei comportamenti uti dominus in cui consiste l'appropriazione, dovendosi ritenere incompatibile con la presenza della ragione funzionale un possesso proveniente da un affidamento devoluto solo intuitu personae (Cass. Pen. n. 34884/2007), ovvero scaturito da una situazione contra legem o evidentemente abusiva, senza alcuna relazione legittima con l'oggetto materiale della condotta. 

6. Conclusioni.

Orbene, nel caso in esame, infatti, il medico, avendo provveduto alla percezione della quota parte degli onorari da riversare nelle casse dell’ente di appartenenza, ha rivestito la qualità di pubblico ufficiale; ed avendo acquistato il possesso delle somme di denaro, a titolo di onorario, non da un affidamento contrario ad un espresso divieto di legge, o da un atto illecito, ma in conseguenza della funzione rivestita all’interno della struttura ospedaliera, la quale costituiva proprio l'occasione stessa della materiale apprensione della cosa, ha posto in essere una condotta sussumibile sotto la fattispecie delittuosa di cui all’art. 314 c.p., ossia quella di peculato.