• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 31 Gen 2024

La sorte delle dichiarazioni auto indizianti rese dall´indagato alla polizia giudiziaria in assenza di garanzie difensive nei riti a prova contratta

Modifica pagina

Valentina Ciracì
Praticante AvvocatoUniversità del Salento



Il presente contributo si propone di analizzare il controverso tema della sorte delle dichiarazioni auto indizianti rese dall’indagato alla polizia giudiziaria in assenza di garanzie difensive nei riti a prova contratta. Sul punto, si registra un annoso dibattito giurisprudenziale che, senza alcuna pretesa di esausitività, nel corso della trattazione si tenterà di ricostruire. 


ENG

The fate of the self-providing statements made by the suspect to the judicial police in the absence of defensive guarantees in the "proof contract" rites

This contribution aims to analyze the controversial issue of the fate of self-providing statements made by the suspect to the judicial police in the absence of defensive guarantees in trial proceedings. On this point, there is a long-standing jurisprudential debate which, without any claim to exhaustiveness, we will attempt to reconstruct during the course of the discussion.

Sommario: 1. La disciplina delle dichiarazioni auto indizianti: il paradigma di cui all’art. 63, c.p.p.; 2. La tesi dell’inutilizzabilità patologica nei riti “a prova contratta”; 3. Il successivo contrasto giurisprudenziale; 4. Criticità e prospettive: l’applicazione dell’art. 63, c.p.p. alle dichiarazioni spontanee autoincriminanti; 5. Conclusioni. 

 1. La disciplina delle dichiarazioni auto indizianti: il paradigma di cui all’art. 63, c.p.p.

La disciplina delle dichiarazioni indizianti è offerta dall’art. 63, c.p.p. che contempla due differenti ipotesi: una fisiologica ed una patologica. Ai sensi del comma uno, se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente deve interromperne l’esame, deve avvertirla che, alla luce di tali dichiarazioni, potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e deve invitarla a nominare un difensore. Si tratta, dunque, del caso in cui il soggetto venga sentito correttamente dall’autorità giudiziaria competente come persona informata sui fatti ma, successivamente, lo stesso renda delle dichiarazioni auto indizianti a sorpresa: tali dichiarazioni non potranno essere utilizzate contro la persona che le ha rese. La sanzione prevista è quella dell’inutilizzabilità relativa, giacché le dichiarazioni saranno inutilizzabili solo nei confronti della persona che le ha rese mentre saranno, invece, perfettamente utilizzabili nei confronti dei terzi.

Ai sensi del comma due, se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono, in nessun caso, essere utilizzate . In tal caso, la sanzione prevista è quella dell’inutilizzabilità assoluta.

A differenza dell’ipotesi di cui al comma uno, le dichiarazioni rese da colui per il quale sin dall’inizio dovevano essere riconosciute le garanzie difensive previste dalla legge, saranno inutilizzabili tanto nei confronti di colui che le ha rese, quanto nei confronti dei terzi (inutilizzabilità erga omnes). Tale disposizione, difatti, costituisce un valido deterrente contro le ipotesi “patologiche” in cui deliberatamente vengono ignorati i già preesistenti indizi di reità a carico dell’escusso, con pericolo di dichiarazioni accusatorie compiacenti o negoziate.

In entrambi i casi, le sanzioni disposte dall’art. 63, c.p.p. sono da ritenersi attuative del principio del nemo tenetur se detergere, in forza del quale nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale. Nello specifico, la disposizione attribuisce all’indagato (o imputato) la facoltà di non autoincriminarsi, così facendo retroagire la tutela del diritto al silenzio.

2. La tesi dell’inutilizzabilità patologica nei riti “a prova contratta”

Il giudizio abbreviato è definito un procedimento “a prova contratta” a mezzo del quale le parti accettano la definizione del giudizio alla stato degli atti, ovvero sulla base degli atti d’indagine già acquisiti, rinunciando ad ulteriori mezzi di prova (salvo le ipotesi di abbreviato condizionato).

A mente dell’art. 438, co. 6 bis, c.p.p., la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare determina la sanatoria delle nullità (ove non si tratti di nullità assolute), la non rilevabilità dell’inutilizzabilità (fatte salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio) e la preclusione di ogni questione circa la competenza per territorio del giudice.

Dunque, se per un verso non rilevano né l’inutilizzabilità cd. fisiologica della prova né l’inutilizzabilità relativa peraltro, gode di piena rilevanza l’inutilizzabilità cd. patologica, inerente agli atti probatori assunti in violazione di legge. In questa prospettiva, nell’ambito del giudizio abbreviato, la piena utilizzabilità degli atti di indagine realizzati dalla p.g. e dal P.M. trova un unico limite: le prove illegittimamente acquisite ex art. 191 c.p.p., la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo in dibattimento ma, altresì, nelle procedure incidentali cautelari e in quelle negoziali di merito .

L’inutilizzabilità patologica costituisce un’ipotesi di illegalità intrinseca della prova che non può essere tollerata neppure in virtù della scelta dell’imputato di avvalersi del rito abbreviato : gli incentivi premiali non possono giustificare il rischio di lesione dei diritti e delle garanzie sancite dal legislatore a tutela dell’imputato.

Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’inutilizzabilità patologica, rilevabile, a differenza di quella fisiologica, anche nell'ambito del giudizio abbreviato, costituisce un'ipotesi estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell'ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell'imputato .

La questione dell’inutilizzabilità in sede di giudizio abbreviato delle dichiarazioni rese dall’indagato, nell’immediatezza dei fatti, alla p.g. in sede di indagini preliminari senza garanzie difensive è un tema tutt’oggi dibattuto: sul punto, non sussiste un orientamento giurisprudenziale unitario.

In un primo momento, la giurisprudenza di legittimità ha avallato la tesi dell’inutilizzabilità patologica, sostenendo che nell’ambito del giudizio abbreviato “la possibilità di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari il valore probatorio di cui sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie del dibattimento riguarda i casi di inutilizzabilità fisiologica della prova, relativa ad elementi assunti "secundum legem", ma non legittimamente acquisite al dibattimento ex art. 526 c.p.p., cui corrispondono i divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p., e le ipotesi di nullità relativa, stabilite esclusivamente per la fase dibattimentale dalla legge, mentre non riguarda i casi di inutilizzabilità "patologica", riguardante atti probatori assunti "contra legem", la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto, in tutte le fasi procedimentali, e nelle procedure incidentali cautelari e di merito. Ne consegue che sono inutilizzabili le dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato rese nel corso dell’attività ispettiva, nei cui confronti siano emersi anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni siano state assunte, ciononostante, in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa. Infatti l’espressione “quando...emergano indizi di reato” contenuta nell’art. 220 disp. att. c.p.p. è tesa a fissare il momento a partire dal quale, nell’ipotesi di svolgimento di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale” .

Secondo tale indirizzo, le dichiarazioni rese dall’indagato o dall’imputato, allorquando siano già emersi anche semplici elementi sintomatici di reità, in assenza di garanzie difensive, sarebbero da ritenersi in ogni caso inutilizzabili, trattandosi di prove illegittimamente acquisite ai sensi dell’art. 191, c.p.p. e dunque, di inutilizzabilità patologica non sanabile con la scelta del rito abbreviato ma rilevabile in ogni stato e grado del procedimento.

La tesi dell’inutilizzabilità patologica risulta l’opzione interpretativa più adeguata al fine di tutelare i diritti e le garanzie dell’imputato che, diversamente opinando, verrebbero esposti al rischio di una pericolosa violazione.

3. Il successivo contrasto giurisprudenziale

Superata la tesi dell’inutilizzabilità patologica, la giurisprudenza di legittimità ha aperto la strada alla possibilità di riconoscere, a determinate condizioni, piena utilizzabilità alle dichiarazioni auto indizianti de quo.

Secondo un orientamento giurisprudenziale successivo, le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (anche se non nell’immediatezza dei fatti) in assenza di garanzie difensive possono essere considerate alla stregua di dichiarazioni spontanee ex art. 350, comma 7, c.p.p.

In particolare, a mente dell’art. 350, co. 7, la polizia giudiziaria può ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, ma di esse non è consentita l’utilizzazione solo in dibattimento (salvo quanto previsto dall’art. 503, co. 3): l’istituto solleva rilevanti dubbi sotto il profilo delle garanzie difensive .

Sostenere che le dichiarazioni auto indizianti rese in assenza di idonea assistenza difensiva alla polizia giudiziaria possano essere qualificate alla stregua di dichiarazioni spontanee, comporterebbe un consequenziale mutamento del regime processuale applicabile. In questa prospettiva, le dichiarazioni auto indizianti – in presenza di determinati requisiti - diverrebbero inutilizzabili solo in dibattimento e, per contro, pienamente utilizzabili negli eventuali riti a prova contratta.

In questo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità più recente che ha sostenuto la piena utilizzabilità delle dichiarazioni auto indizianti rese alla p.g., purché emerga con chiarezza che il suo autore abbia scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione. Nello specifico, la spontaneità delle dichiarazioni rese alle forze dell'ordine ex art. 350 comma 7, c.p.p. si riferisce non alla volontarietà delle stesse ma all’assenza di induzione o di sollecitazioni da parte delle forze dell'ordine che ricevono le propalazioni da parte dell'imputato .

Il limite all’utilizzabilità di tali dichiarazioni è da ravvisarsi non già nella loro inutilizzabilità patologica ma, bensì, nell’assenza di spontaneità e nella coercizione dell’autodeterminazione patita dall’indagato o dall’imputato, allorquando vi sia il sospetto che siano state rese a seguito di indebite pressioni realizzate dagli inquirenti.

Dunque, in questa prospettiva, ai fini dell’individuazione della disciplina sanzionatoria applicabile alle dichiarazioni occorre, di volta in volta, accertarne la spontaneità. L’arduo compito spetta al giudice del merito che, mediante un accertamento ex post, deve valutare se, nel momento in cui l’indagato ha reso le dichiarazioni auto incriminanti, vi erano o meno condizionamenti o pressioni ad opera degli inquirenti.

Il paradosso è che, per effettuare tale accertamento - trattandosi di una ricostruzione successiva di cui non può diversamente avere contezza - il giudice dovrà valutare attentamente il compendio probatorio a sua disposizione, costituito dagli atti di indagine redatti dai medesimi soggetti che hanno raccolto il contributo potenzialmente “inquinato” .

In quest’ottica, la spontaneità delle dichiarazioni sembra giustificare l’indebolimento delle garanzie difensive ordinariamente sussistenti. Il rischio che si corre è che, in forza della spontaneità, si pervenga alla legalizzazione di un comodo espediente finalizzato a giustificare l’inosservanza delle garanzie difensive , presentando «sotto una forma nuova, innocente e credibile, un atto sostanzialmente illegittimo» .

Con alcune pronunce successive, la Corte di Cassazione si è soffermata su un aspetto fondamentale che fino a quel momento aveva trascurato: il problema della documentazione di tali dichiarazioni.

In particolare, il giudice di legittimità si è posto un interrogativo: ai fini della qualificazione delle dichiarazioni rese in assenza di garanzie difensive quali dichiarazioni spontanee ex art. 350, co. 7, è sufficiente che emerga la loro spontaneità e dunque l’assenza di qualsivoglia forma di coercizione o sollecitazione o è necessario un quid pluris?

Sul punto, si registrano due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Un primo orientamento secondo cui, ai fini dell’utilizzabilità delle dichiarazioni auto indizianti in sede di giudizio abbreviato è sufficiente che emerga la loro spontaneità, a nulla rilevando la forma della loro documentazione, attesa l’insussistenza di uno specifico divieto probatorio che impedisca l’utilizzo di una siffatta dichiarazione ove attestata in un atto di polizia giudiziaria ma priva di sottoscrizione. Nello specifico, secondo tale interpretazione “sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell'incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta (quale, nella specie, il rito abbreviato), le dichiarazioni spontanee che la persona sottoposta alle indagini abbia reso - in assenza di difensore ed in difetto degli avvisi di cui all'art. 64 cod. proc. pen. - alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen., non verbalizzate ma raccolte in un'annotazione di servizio o in un'informativa di reato, sempre che sia possibile accertare la libertà del dichiarante nella decisione di rendere le stesse, purché emerga, cioè, con chiarezza che la medesima abbia scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione” .

Secondo un orientamento di segno contrastante, invece, “in tema di giudizio abbreviato, le dichiarazioni spontanee rese, nell'immediatezza dei fatti, alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta ad indagini sono pienamente utilizzabili, purché verbalizzate in un atto sottoscritto dal dichiarante, onde consentire al giudicante di verificarne i contenuti ed evitare possibili abusi, o anche solo involontari malintesi, da parte dell'autorità di polizia” . Tale indirizzo appare maggiormente condivisibile: la sottoscrizione rappresenta una forma di garanzia minima finalizzata a consentire al giudice di valutare la spontaneità del dichiarato in termini di assenza di induzione o di sollecitazione da parte delle forze dell'ordine.

Ciò che è dirimente, in altri termini, è la spontaneità con cui le dichiarazioni sono rese: il divario esistente tra i due orientamenti è più apparente che di sostanza . Ed invero, entrambi in realtà conferiscono rilievo determinante alla spontaneità della dichiarazione, solo che la seconda opzione riconduce tale connotato unicamente all'esistenza di un atto ad hoc sottoscritto dal dichiarante, laddove la prima non esclude che la spontaneità possa parimenti essere rilevata anche in assenza di una dichiarazione sottoscritta dall'indagato .

La giurisprudenza di legittimità più recente, in controtendenza con quanto avvenuto negli ultimi anni, sembrerebbe indirizzarsi prevalentemente verso quest’ultimo indirizzo che, invero - seppur minoritario - risulta maggiormente conforme al quadro normativo di riferimento.

A livello sistematico, difatti, l’art. 357, co. 2, b), cristallizza l’obbligo di documentazione delle dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini. La possibilità di riconoscere valore probatorio alle dichiarazioni dell’indagato che, non solo sono state rese in assenza di idonea assistenza difensiva in un momento estremamente delicato (quale quello di un sopralluogo o di una perquisizione, caratterizzato dal particolare stato emotivo di timore e soggezione patito dall’interessato) ma che, altresì, sono state occultate all’interno di un’annotazione di p.g., di una comunicazione di notizia di reato o di un verbale di arresto, arreca un rischio concreto di lesione del principio di legalità e del principio di effettività del diritto di difesa.

4. Criticità e prospettive: l’applicazione dell’art. 63, c.p.p. alle dichiarazioni spontanee autoincriminanti

Abbandonata la tesi dell’inutilizzabilità patologica, anche una confessione in piena regola, raccolta in assenza di garanzie difensive, in violazione dello schema tipico disciplinato dall’art. 63, c.p.p., per il solo fatto di essere considerata spontanea, dovrebbe essere inutilizzabile solo in dibattimento e, di contro, pienamente utilizzabile nella fase cautelare e nei riti “a prova contratta”.

Ed invero, tali dichiarazioni sarebbero, al contempo, spontanee ex art. 350, comma 7, ed autoincriminanti secondo il disposto di cui all’art. 63, così aprendo la strada ad un interrogativo critico circa l’inquadramento della disciplina applicabile al caso di specie: si tratterebbe di inutilizzabilità relativa o di inutilizzabilità assoluta?

Secondo il giudice di legittimità, è pacifico che le dichiarazioni rese spontaneamente non siano riconducibili allo statuto di cui agli artt. 63 e 64 codice di rito, giacché esse non integrano né l'ipotesi dell'interrogatorio, né quella dell'esame di cui all'art. 63 c.p.p. che deve essere necessariamente interrotto ove emergano indizi di reità. Ancora, nell’ipotesi di arresto, le dichiarazioni rese successivamente a fronte dell’evidenza della situazione già delineatasi dovrebbero considerarsi il frutto di una spontanea ammissione del fatto; pertanto, ad avviso della giurisprudenza di legittimità, non vi sarebbe motivo, né logico né giuridico, di considerarle inutilizzabili, salvo che emergano elementi che inducano a dubitare della loro spontaneità o della stessa legittimità dell'arresto .

Ad avviso di chi scrive, nell’ipotesi di dichiarazione confessoria resa dall’indagato alla polizia giudiziaria, nell’immediatezza dei fatti e in presenza di preesistenti indizi di reità a suo carico, non dovrebbero esserci dubbi circa la disciplina applicabile: lo schema tipico di cui all’art. 63, c.p.p. risulta perfettamente integrato, indipendentemente dal carattere spontaneo o sollecitato del contributo stesso.

Di conseguenza, la sanzione applicabile, a mente dell’art. 63, co. 2, dovrebbe essere l’inutilizzabilità patologica: la norma, nel cristallizzare il divieto, non realizza alcun riferimento rispetto al carattere volontario o sollecitato della dichiarazione, ma si limita a sancire un principio di carattere generale, funzionale a tutelare le garanzie difensive dell’indagato (o dell’imputato), applicabile anche in tema di dichiarazioni rese spontaneamente. Diversamente opinando si consentirebbe – come di fatto si consente – un’indebita lesione delle garanzie difensive dell’indagato, in assenza di una valida giustificazione a livello normativo.

5. Conclusioni

Alla luce di ciò, non resta che auspicare un radicale dietro front della giurisprudenza di legittimità con consequenziale ritorno alla tesi dell’inutilizzabilità patologica delle dichiarazioni rese dall’indagato in assenza di garanzie difensive o, in alternativa, un intervento risolutivo della Corte Costituzionale che, pronunciandosi su una questione di legittimità costituzionale sull’art. 350, co. 7, c.p.p. sottragga dal suo ambito di applicazione le dichiarazioni rese dall’indagato alla polizia giudiziaria che, seppur spontanee, abbiano carattere autoincriminante secondo il paradigma di cui all’art. 63, c.p.p. 
In caso contrario, si continuerebbe a consentire un’indebita menomazione delle garanzie difensive previste a tutela dell’indagato o dell’imputato senza una valida giustificazione a livello normativo. La valorizzazione del carattere spontaneo delle dichiarazioni così rese – si ritiene – non può prevalere sul diritto al silenzio garantito all’indagato o all’imputato. Inoltre, la spontaneità, così concepita, non regge. Una valutazione di questo tipo, dal cui esito si fa dipendere la sorte della disciplina di invalidità applicabile alle dichiarazioni rese in assenza di garanzie difensive alla polizia giudiziaria, non può essere ancorata ad una valutazione a posteriori, realizzabile sulla scorta degli atti di indagine effettuati dagli inquirenti, ovvero coloro che – potenzialmente –  avrebbero potuto sollecitare o pressare l’indagato per rendere tali dichiarazioni.  
Altresì, occorre attribuire rilievo all’art. 220 disp. att. c.p., il quale dispone che allorquando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o da decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice. Alla luce di ciò, nel corso dell’attività ispettiva, a seguito dell’emersione di indizi di reato, la disciplina generale applicabile alle dichiarazioni de quo dovrebbe essere quella di cui all’art. 63, c.p.p., al fine di garantire all’indagato la possibilità di avvalersi anticipatamente del diritto al silenzio. 
Le dichiarazioni auto incriminanti rese dall’indagato alla polizia giudiziaria  – seppur spontanee – appaiono, in tutta evidenza, dichiarazioni auto indizianti assunte in contrasto con quanto sancito dall’art. 63, c.p.p. e pertanto, la disciplina applicabile dovrebbe essere quella dell’inutilizzabilità patologica ex art. 191, c.p.p., trattandosi di prove illegittimamente acquisite, ovvero di prove acquisite in violazione di un divieto probatorio espressamente previsto dalla legge (nel caso di specie, dall’art. 63, co. 2, c.p.p.). 

In questa prospettiva, l’applicazione della disciplina delle dichiarazioni ex art. 350, comma 7, alle dichiarazioni auto indizianti rese dall’indagato alla polizia giudiziaria sembra fungere da valido escamotage per considerare utilizzabili delle dichiarazioni che, diversamente, non lo sarebbero. Ed invero, più che di dichiarazioni spontanee dovrebbe parlarsi di dichiarazioni inconsapevoli, giacché rese dall’indagato (o imputato) inconsapevolmente (poiché all’oscuro delle conseguenze processuali del suo dichiarato e della possibilità di avvalersi del diritto al silenzio) in un momento - quale per esempio quello della perquisizione o di altra attività ispettiva - di particolare soggezione psicologica. 


Note e riferimenti bibliografici
  Sul tema, si segnala Cass. Pen., Sez. II, Sent. n. 20936 del 03/05/2017, secondo cui in tema di dichiarazioni indizianti rilasciate da persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita in qualità di indagato o imputato, l’inutilizzabilità di cui all’art. 63, co. 2, c.p.p. è subordinata ad una duplice condizione: che il dichiarante sia raggiunto da chiari indizi di reità e che i suddetti indizi attengano al medesimo reato ovvero al reato connesso o collegato attribuito al terzo».
  In questo senso, Cass. Pen., S.U., Sent. n. 16 del 30/06/2000 in cui si definisce il giudizio abbreviato «un procedimento a prova contratta, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisiti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del dibattimento».
  Sul punto G. Vassalli, ll diritto alla prova nel processo penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1968, p. 12 nella parte in cui parla di rinuncia al diritto di «difendersi provando».
  Al riguardo, Cass. Pen., S.U., Sent. n. 16 del 30/06/2000 secondo cui il giudizio abbreviato «può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio».
  Cass. Pen., Sez. 3, Sent. n. 882 del 09/06/2017 Ud. dep. 12/01/2018, Rv. 272258 – 01.
  Sul tema vd., Cass. Pen., Sez. 5, Sent. n. 43542 del 23/09/2004, dep. 08/11/2004, Rv. 230065.
  Sull’art. 350, comma 7, P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2012, p. 403, nella parte in cui sostiene che: «la norma si ritiene espressione del generale diritto a discolparsi e al diritto ad essere ascoltato, che fondano anche la facoltà dell’imputato di rendere dichiarazioni spontanee in ogni stato del dibattimento. La carenza di garanzie si può spiegare col fatto che non si vuole limitare l’esplicazione di un diritto dell’indagato, anche in forza delle dichiarazioni rese».
  In questi termini, E. F. Aceto, Il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee a contenuto auto incriminante rese alla polizia giudiziaria: il rischio di una pericolosa violazione dei diritti dell’indagato, in Archivio Penale, 2020, n. 3, p. 8; in particolare, secondo l’autrice l’istituto solleva rilevanti dubbi sotto il profilo della corretta assicurazione del diritto di difesa in quanto, proprio in virtù del carattere della spontaneità, è come se il legislatore avesse svincolato l’istituto dai criteri valutativi e applicativi posti a tutela dell’indagato e strettamente connessi alle sue garanzie difensive. 
  Tra le tante, Cass. Pen., Sez. 4, Sent. n. 2124 del 27/10/2020, dep. 2021, Minauro, Rv. 28024.
  Così, Cass. Pen.,  Sez. 2, Sent. n. 41705 del 28/06/2023 Ud.  (dep. 13/10/2023 ) Rv. 285110 – 01.
  In questi termini, E. F. Aceto, Il regime di utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee a contenuto auto incriminante rese alla polizia giudiziaria: il rischio di una pericolosa violazione dei diritti dell’indagato, in Archivio Penale, 2020, n. 3, pp. 13-14 secondo cui, inoltre «…è ictu oculi evidente come l’accertamento cui è chiamato il giudice possa non rivelarsi sempre idoneo a saggiare l’effettiva natura “spontanea” della dichiarazione, per la semplice ragione che l’atteggiamento del dichiarante non può valutarsi – rectius ricostruirsi – ex post sulla scorta di indici presuntivi, per di più ricavati da atti redatti e compiuti dallo stesso organo che ha raccolto le dichiarazioni».
  Così, V. Bosco, Le dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria: il rischio per una pericolosa caduta per le garanzie dell’indagato, in Legislazione Penale, 2020, p. 5 nella parte in cui afferma testualmente «Il richiamo alla spontaneità potrebbe dunque divenire il comodo espediente per giustificare l’inosservanza delle garanzie difensive, al fine di legalizzare possibili abusi da parte della polizia giudiziaria».
  Testualmente, P. Ferrua, Dichiarazioni spontanee dell’indiziato, nullità dell’interrogatorio di polizia ed invalidità derivata, in Cass. Pen., 1983, p. 88.
  In questo senso, Cass. Pen., Sez. 2, Sent. n. 22962 del 31/05/2022, Nacchia, Rv. 283409; inoltre, Cass. Pen., Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020, dep. 2021, Minauro, Rv. 280242; Cass. Pen., Sez. 3, Sent. n. 15798 del 30/04/2020, Solino, Rv. 279422-02; Cass. Pen., Sez. 1, Sent. n. 15197 del 08/11/2019 Ud., dep. 15/05/2020, Rv. 279125 – 01.
  Così, da ultimo Cass. Pen., Sez. 2, Sent. n. 41705 del 28/06/2023 Ud.  (dep. 13/10/2023 ) Rv. 285110 – 01; altresì, Cass. Pen., Sez. 6, Sent. n. 10685 del 19/01/2023 Imp. Moccia Rv. 284466 – 02; Cass. Pen., Sez. 1, Sent. n. 37676 del 03/05/2022, L., Rv. 283740; Cass. Pen., Sez. 6, Sent. n. 14843 del 17/02/2021, Ferrante, Rv. 280880; Cass. Pen., Sez. 1, Sent. n. 12752 del 27/02/2019, Marchese, Rv. 276176.
  In questi termini, Cass. Pen.,  Sez. 2, Sent. n. 41705 del 28/06/2023 Ud.  (dep. 13/10/2023 ) Rv. 285110 – 01.
  Secondo Cass. Pen., Sez. 3, Sent. n. 9354 del 08/01/2020 Rv. 278639 - 01, dal rifiuto di sottoscrizione non può desumersi in automatico la mancanza di spontaneità della dichiarazione, che va invece accertata sulla base di elementi concreti dedotti dall’interessato; testualmente: «Le dichiarazioni liberamente rese alla polizia giudiziaria, senza assistenza difensiva, dall'indagato sottoposto a perquisizione, ai sensi dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen., sono utilizzabili nel giudizio abbreviato anche qualora egli si rifiuti di sottoscrivere il verbale in cui sono contenute, non potendosi da ciò solo desumere la loro non spontaneità, ed essendo invece necessario che, a sostegno di tale prospettazione, siano dedotti dalla difesa elementi concreti».
  In questo senso, Cass. Pen., Sez. 2, Sent. n. 41705 del 28/06/2023 Ud. (dep. 13/10/2023 ) Rv. 285110 – 01, secondo cui, peraltro «…in un siffatto contesto, la richiesta di definizione del procedimento col rito abbreviato ben può ascriversi alla scelta di proseguire, coerentemente, sulla strada dell'ammissione del responsabilità, accettandosi la valutazione allo stato degli atti in vista della riduzione di pena prevista».