Pubbl. Lun, 26 Feb 2024
La natura degli atti di alta amministrazione
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Dalila Ramazzotti
La giurisprudenza amministrativa pullula di decisioni che interessano la natura degli atti di alta amministrazione, ciononostante negli anni, seppure attraverso le più disparate casistiche, continuano a riproporsi ai giudici amministrativi le medesime questioni. È accaduto anche di recente con una pronuncia del TAR Lazio, sez. IV bis, n. 1768 del 27 novembre 2023, ove sebbene non si questionasse sulla natura giuridica degli atti di nomina dei rappresentanti del CNEL, la loro qualificazione come atti di alta amministrazione è apparsa dirimente per la definizione del ricorso. Forse la funzione dell’alta amministrazione, come il suo perimetro e la sua sindacabilità, non sono ancora tanto chiari come dovrebbero, e il loro studio merita ancora attenzioni.
Sommario: 1. L’atto di alta amministrazione: connotati principali e funzione; 2. I labili confini tra atto politico e di alta amministrazione; 3. L’impugnabilità dell’atto di alta amministrazione: un vaglio a maglia stretta; 4. Implicazioni della recente decisione TAR Lazio, sez. IV bis, n. 1768 del 27 novembre 2023.
1. L’atto di alta amministrazione: connotati principali e funzione
Nella nostra Costituzione si rinviene il fondamento della separazione tra politica e amministrazione, secondo il quale, da un lato, gli organi politici definiscono gli obiettivi da perseguire - bilanciando i diversi interessi in gioco per soddisfare i bisogni della collettività - esercitando un potere di indirizzo ampiamente discrezionale e libero nel fine; d’altro lato, invece, agli organi amministrativi, dotati delle necessarie competenze tecniche, spetta l’attività di attuazione concreta di tali obiettivi, meno libera, poiché rilegata all’interno di una cornice disegnata dal canone della legalità[1], oltreché soggetta un controllo esterno.
L’art. 97 Cost. infatti, non solo afferma che i pubblici uffici - rimandando al concetto soggettivo di amministrazione - devono essere organizzati secondo quanto previsto dalle disposizioni di legge, ma che l’adesione al principio di legalità è altresì propedeutico e necessario al rispetto di ulteriori vincoli: quello del buon andamento e dell’imparzialità, a cui devono ispirarsi tutte le attività amministrative.
La distanza della funzione amministrava da quella politica, ossia i vincoli della prima contrapposti alla libertà della seconda, sono dunque evidenti; ciò viene ribadito anche dal precetto successivo dell’art. 97, secondo cui negli uffici nei quali l’amministrazione si articola sono determinate le sfere di competenze, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Ogni sviamento dalle prescrizioni di legge che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo, che sia lesivo di diritti soggettivi o interessi legittimi, viene recriminato e sanzionato inficiando la validità dell’atto che ne è espressione; in tal senso, gli artt. 24 e 113 Cost. garantiscono l’effettività della tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione[2].
Al contrario, l’atto politico viene definito, per sua natura, insindacabile. La ratio di questa particolare immunità dovrebbe risiedere, storicamente, nella necessità di preservare il potere esecutivo dalle ingerenze del potere giudiziario. Inoltre, viene argomentato che l’atto politico, quale espressione della funzione di indirizzo politico dello Stato, afferisce a questioni di carattere generale, con ciò non possedendo, a differenza degli altri atti amministrativi, una immediata e diretta capacità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali[3].
Il nostro ordinamento fa propria questa concezione dell’atto politico, tanto che l’art. 7 c.p.a. statuisce espressamente che non sono impugnabili gli atti o i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico.
Tuttavia, la distinzione tra atto politico e amministrativo non sempre è così netta; tra i confini sfuocati delle due categorie se ne inserisce una terza, quella dell’alta amministrazione.
Secondo parte della dottrina la categoria dell’atto di alta amministrazione fu elaborata per conciliare l’insindacabilità degli atti politici con il principio costituzionale della tutela giurisdizionale. Tali atti, sebbene posti in essere da organi politici ed assimilabili ad atti di indirizzo, poiché funzionali all’attuazione dei fini della legge e vincolati al rispetto del principio di legalità, non sono classificabili come atti politici e sono perciò impugnabili dinnanzi al giudice[4]. Qui, il controllo del giudice, benché ammesso, è meno ampio rispetto a quello esercitato sugli atri atti amministrativi, rimanendo circoscritto entro gli stringenti limiti della ragionevolezza.
Il ristretto vaglio del giudice è strettamente connesso all’ampia discrezionalità e all’impronta fiduciaria che connotano l’atto di alta amministrazione, elementi questi propri anche della decisione politica e alla quale lo accomunano; a differenza dell’atto politico però, la discrezionalità in questione consiste in una ponderazione di interessi che passa per l’osservazione di specifici principi costituzionali e delle regole che ne discendono, che riguardano l’attività amministrativa[5].
Trattasi, infatti, di un tipo di discrezionalità genericamente definita amministrativa, anche per distinguerla da altri tipi di discrezionalità, più o meno ampia, come quella tecnica, ove la valutazione dei fatti avviene attraverso la rigorosa applicazione di canoni specialistici, appartenenti a materie tecnico-scientifiche, senza svolgere alcuna comparazione tra interessi primari o secondari; o ancora, si distingue dalla discrezionalità politica, propria dei pubblici poteri, liberi di stabilire i fini da perseguire attraverso la propria attività e con la quale vengono definiti gli interessi pubblici primari.
La discrezionalità amministrativa è invece vincolata nei fini, dal momento che questi rispecchiano non interessi propri bensì quelli dei cittadini; questo tipo di discrezionalità consiste nel potere di scelta tra diverse soluzioni, tutte ugualmente legittime, e che deve essere guidata da una equa comparazione qualitativa e quantitativa degli interessi in gioco, sia pubblici che privati. In aggiunta, il contenuto discrezionale degli atti amministrativi è più o meno ampio a seconda di quanto statuito dalle disposizioni di legge che disciplinano il relativo potere.
Riassume le caratteristiche proprie dell’atto di alta amministrazione la giurisprudenza amministrativa, che dirime ogni dubbio sulla sua natura, spiegando che «l’atto di alta amministrazione, di regola adottato dall’organo politico, è il primo momento attuativo, anche se per linee generali, dell’indirizzo politico a livello amministrativo. A differenza dell’atto politico, esso esprime una potestas vincolata nel fine e soggetta al principio di legalità. Gli atti di alta amministrazione sono una species del più ampio genus degli atti amministrativi e soggiacciono pertanto al relativo regime giuridico, ivi compreso il sindacato giurisdizionale, sia pure con talune peculiarità connesse alla natura spiccatamente discrezionale degli stessi. Infatti, il controllo del giudice non è della stessa ampiezza di quello esercitato in relazione ad un qualsiasi atto amministrativo, ma si appalesa meno intenso e circoscritto alla rilevazione di manifeste illogicità formali e procedurali. La stessa motivazione assume connotati di semplicità e il sindacato del giudice risulta complessivamente meno intenso ed incisivo»[6].
Da qui emerge, pertanto, quale sia la disciplina applicabile all’atto di alta amministrazione: sul piano sostanziale quella prevista dalla legge n. 241/1990, relativa ai connotati generali del provvedimento amministrativo e al rispettivo procedimento di formazione - dagli elementi essenziali, necessari per acquisire efficacia, agli istituti di partecipazione, sino all’autotutela volta al riesame o al ritiro dell’atto - sul piano processuale, invece, quella dettata dal codice di procedura amministrativo, precludendo tuttavia, qualsiasi sindacato sul merito dell’atto[7].
Per quanto attiene, poi, all’inquadramento dell’atto di alta amministrazione nella gerarchia delle fonti, questo può definirsi atto di livello sub-legislativo, in quanto subordinato alle norme di legge di cui è chiamato ad attuarne i fini, senza possedere dunque alcuna capacità di innovare l’ordinamento giuridico. Nel panorama delle fonti, questi atti non assumono un connotato del tutto straordinario, potendo rinvenire altrove atti non legislativi, come regolamenti, direttive o programmi, che pur esplicando una funzione amministrativa non dettano provisioni puntuali, bensì norme generiche o finalità da raggiungere attraverso l’adozione di altri successivi atti più concreti.
Detto in altri termini, l’attività di alta amministrazione non è altro che «l’indispensabile saldatura tra gli indirizzi espressi a livello politico e i provvedimenti di amministrazione attiva»[8].
L’attività di alta amministrazione, appartenente per lo più a organi di vertice amministrativo, mantiene quindi la sua funzione amministrativa: è servente alla successiva attività di uffici e articolazioni dell’amministrazione ed è preposta all’attuazione di quegli indirizzi dettati a monte dal potere politico e che vengono poi meglio definiti e puntualizzati proprio grazie all’atto di alta amministrazione[9].
2. I labili confini tra atto politico e di alta amministrazione
Non si può negare che gli organi politici adottino talvolta atti amministrativi, né il contrario, ben potendo un organo amministrativo esercitare una discrezionalità più ampia o poteri di programmazione e indirizzo, latu sensu politici. D’altra parte, molto spesso funzioni amministrative e politiche vengono a coincidere in un unico organo, basti pensare che l’art. 95 della Costituzione riconosce in capo al Governo, nella veste del Presidente del Consiglio, non solo compiti di direzione politica ma anche ma anche di unità e indirizzo amministrativo.
Ciò che si deve guardare, dunque, è sia al contenuto che alla funzione dell’atto e non solo il soggetto da cui promana; quando l’attività esplicata risulta in certa misura vincolata dalla presenza di norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, questa non può dirsi politica, a nulla rilevando chi sia a porla in essere[10].
Nel tempo, la dottrina si è divisa tra chi individua l’atto come politico in presenza di un requisito oggettivo, oltre che soggettivo, e chi invece prescinde da una definizione unitaria di atto politico, preferendo individuare caso per caso le caratteristiche che consentono di definire un provvedimento come politico, inquadrando poi tutta la categoria residuale nell’alveo degli atti amministrativi. Nel primo caso si etichettano come politici quegli atti che, oltre ad essere emanati dal Governo, o da altri supremi organi dello Stato individuati dalla Costituzione, sono espressione di un potere politico in quanto assolvono alla funzione di cura di interessi superiori e unitari, volti a garantire il libero funzionamento dei pubblici poteri.
Nel secondo caso, invece, permane un’alea di incertezza sulla tutela giurisdizionale ascrivibile all’atto, rinviando la questione al libero apprezzamento del giudice, che di volta in volta, riconoscendo o meno la natura politica dell’atto, ne deciderà anche la sua sindacabilità[11].
La distinzione può divenire particolarmente complessa quando, in presenza di un atto di alta amministrazione, il confine tra le due categorie si fa ancora più labile.
Sono atti tipicamente politici: la legge e gli atti aventi forza di legge; la nomina dei senatori a vita e dei giudici costituzionali; gli atti di concessione di grazia e di commutazione delle pene; le pronunce della Corte costituzionale; l’elezione del Presidente della repubblica; lo scioglimento delle camere; la nomina dei ministri; la presentazione di disegni di legge; la firma dei trattati; la mozione di fiducia e di sfiducia delle Camere al Governo[12].
Sono atti tipicamente amministrativi, o meglio di alta amministrazione: la nomina o revoca delle più alte cariche dello Stato in regime fiduciario; l’approvazione di regolamenti generali da parte del Consiglio dei Ministri; le deliberazioni dei Consigli regionali; le direttive dei Comitati interministeriali; le determinazioni del Consiglio superiore di difesa e del Consiglio Superiore della Magistratura[13].
Queste esemplificazioni non devono però trarre in inganno, infatti, come è stato già fatto attentamente notare dalla dottrina, «non sono considerati atti politici le nomine di alti vertici dell’amministrazione ma è riconosciuto carattere politico alla nomina dei componenti di una commissione tecnica che opera in materia di giochi e monopoli di Stato. Non sono politici gli atti di pianificazione territoriale né il piano sanitario regionale ma (sia pure saltuariamente) sono considerati tali il piano delle farmacie e il piano delle infrastrutture e degli insediamenti strategici. È escluso dalla categoria di atto politico l’atto di indizione di elezioni regionali, ma non la decisione di concentrare in un’unica data le elezioni amministrative ed europee»[14].
Ecco quindi dimostrato come mai all’atto politico la letteratura ha riconosciuto un carattere metagiuridico - o persino mitologico - rappresentando piuttosto una soglia che delimita il terreno dell’insindacabilità, ricostruita dalla giurisprudenza in modo disomogeneo anche a fronte di situazioni apparente omogenee[15].
Il rapporto dialettico tra governo e amministrazione pare essere la chiave di lettura della questione: si instaura un rapporto inversamente proporzionale tra gli atti politici e quelli di alta amministrazione, alla crescita di questi ultimi corrisponde un decremento dei primi[16].
Ad oggi, la categoria dell’alta amministrazione sembra destinata a un’inarrestabilmente dilatazione; vi rientrano, infatti, non più semplicemente atti amministrativi con funzione di indirizzo amministrativo - quali direttive, atti generali o di programmazione- ma anche atti puntuali - espressione della direzione politica e finalizzati alla gestione di rapporti d’ufficio, come incarichi, nomine e rimozioni - o, ancora, atti di indirizzo, emanati senza l’anteriore mediazione di altri atti e caratterizzati da una causa o un motivo di carattere politico che ne dilata la discrezionalità e li rende sindacabili per i soli profili di stretta legittimità (incompetenza, violazione di legge, illogicità)[17].
Non sembra esservi una soluzione definitiva per schiarire questo difficile rapporto tra amministrazione e politica, definito da taluni addirittura “drammatico”[18].
Atteso che l’atto di alta amministrazione si individua attraverso un rapporto di escludibilità con l’atto politico, a complicare le cose vi è la difficoltà nel definire in modo certo cosa sia propriamente un atto politico; di questo si può solo dire, astrattamente, che, mosso da «motivi indicati dai principi della politica e non determinati, né apprezzabili dal punto di vista giuridico», esplica un potere libero nella sua determinazione e direttamente produttivo di effetti[19].
Solo in sporadici casi, assai remoti, ci si è trovati dinnanzi ad atti chiaramente politici; si cita il caso di un atto di scioglimento di una scuola di ginnastica motivato dalla necessità di reprimere il pericolo di propaganda nazionalista slovena nei territori della Venezia Giulia, e un altro caso di temporanea occupazione di un’immobile, attuata come riposta a una grave e minacciosa situazione politica. Riguardo alla natura giuridica dell’atto di scioglimento dei Consigli comunali, invece, venne definita politica nel momento in cui, per la gravità delle circostanze che imponevano l’adozione di tale misura, questa veniva dettata da ragioni di ordine pubblico e non amministrativo[20].
Solo in epoca fascista aumentarono le fattispecie sussumibili nella nozione di atto politico, al precipuo fine di sottrarle da ogni sindacato, come l’atto di espulsione degli stranieri, lo scioglimento dei Consigli comunali e provinciali o la rimozione dei sindaci[21].
Con l’avvento della Costituzione e l’affermazione del principio racchiuso all’art. 113, secondo cui tutti gli atti della pubblica amministrazione sono giustiziabili, si assistette a una nuova inversione di rotta: molto più frequenti divennero le ipotesi in cui il giudice amministrativo, avendo indagato a fondo la natura dell’atto impugnato, ne escludeva poi il carattere politico, sia che si trattasse, ad esempio, di un provvedimento di scioglimento di un partito politico o della nomina di rappresentanti sindacali[22].
Non potendo esimerci, tuttavia, dal giusto inquadramento di un atto come di alta amministrazione piuttosto che politico, in considerazione delle importanti implicazioni di disciplina applicabile, ciò che può venire in soccorso è un’attenta lettura della giurisprudenza intervenuta sul tema, cercando di cogliere tra le varie pronunce quel file rouge che lega le attività che, seppure in limine, sono state definite di alta amministrazione.
3. L’impugnabilità dell’atto di alta amministrazione: un vaglio a maglia stretta
Come già anticipato, è ammissibile una tutela giurisdizionale avverso gli atti di alta amministrazione in quanto la disciplina del processo amministrativo esclude espressamente la sindacabilità dei soli atti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico, c.d. atti politici. Al contrario, gli atti di alta amministrazione ricadono nel novero degli atti amministrativi contemplati nella prima disposizione dell’art. 7, 1° co. c.p.a., applicandosi, dunque, la medesima disciplina, il cui perimetro è stato meglio ridisegnato dalla giurisprudenza, ed appare, ad oggi, piuttosto ristretto.
Una prima riflessione va posta sull’idoneità degli atti di alta amministrazione a incidere sulla sfera dei singoli, considerato che la previsione e l’ampiezza della loro sindacabilità sono attributi strettamente correlati al bisogno di garantire una tutela giurisdizionale a quanti se ne ritengano lesi.
Si consideri che di regola gli atti politici contengono direttive di carattere generale con le quali si individuano gli obbiettivi programmatici dell’attività pubblica, che difficilmente risultano immediatamente lesivi della posizione dei singoli; viceversa sarà più facilmente riconosciuto un interesse ad agire avverso i rispettivi atti di attuazione posti a valle, come quelli di alta amministrazione, che sebbene spesso generici, talvolta possono anche incidere direttamente su posizioni soggettive, come gli atti di nomina e revoca di alcune cariche.
La questione della sindacabilità è tanto rilevante da rappresentare talvolta il discrimen per identificare un atto come politico o di alta amministrazione. Invero, nonostante la tendenza a restringere sempre più il campo dell’atto politico, sino a riconoscere persino una sua sindacabilità [23], attraverso l’interpretazione restrittiva dell’art. 7 c.p.a., il problema dell’impugnabilità dell’atto politico è spesso superato attribuendogli la diversa natura di atto di alta amministrazione, dunque sindacabile; si spiega così la progressiva erosione da parte della giurisprudenza della categoria degli atti politici[24].
Come chiarito dai giudici di Palazzo Spada, i caratteri dell’alta amministrazione si possono quindi riconoscere in negativo, ove non vengano in rilevo «supremi ed unitari compiti statali, bensì interessi puntuali e contingenti», al fine di «estendere il numero degli atti sindacabili dal giudice e dunque a garantire la tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive coinvolte»[25].
Ciò detto, non va dimenticato però che il controllo del giudice amministrativo sugli atti di alta amministrazione presenta non pochi limiti, essendo detti atti censurabili (secondo la giurisprudenza) solo qualora contrastino con i canoni di ragionevolezza, logicità e coerenza; principi questi fortemente correlati, nonché in parte ricompresi, in quelli di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost.
Prima di addentrarsi nell’analisi del significato di tali parametri, viene da chiedersi se un sindacato così ristretto non contrasti con i principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale. Sul punto va ricordato che il diritto alla difesa non costituisce un valore assoluto, dovendo questo essere comparato con valori e principi di pari rango, tale da consentirne opportune e ragionevoli limitazioni; al contempo però la protezione giurisdizionale della sfera soggettiva individuale non può mai essere ristretta oltre un certo limite, trattandosi in ogni caso di un diritto di rilevanza costituzionale nonché tutelato anche dall’ordinamento europeo[26].
Tanto precisato, va detto che i summenzionati principi di coerenza e logicità, possono essere ricompresi nel concetto di ragionevolezza, inteso in senso ampio; infatti, la ragionevolezza di un atto si apprezza quando dai presupposti di fatto e di diritto dell’atto derivi un contenuto decisorio coerente, logico e dunque consequenziale. La ragionevolezza consiste, quindi, non solo nella equa ponderazione degli interessi coinvolti, ma anche nella consequenzialità logica della decisione rispetto alle sue premesse.
Ecco come la ragionevolezza può essere considerata uno strumento per circoscrivere e sindacare il corretto esercizio della discrezionalità amministrativa: un uso non ragionevole del potere discrezionale, così come la manifesta illogicità o l’incoerenza del contenuto decisorio dell’atto con i suoi presupposti, danno luogo a un vizio di eccesso di potere del provvedimento[27].
La questione più complessa attiene all’estensione del sindacato di ragionevolezza, ossia fino a che punto si può estendere il vaglio del giudice quando la giurisdizione non è estesa al merito Escludendo che il sindacato sulla ragionevolezza possa tradursi in un controllo sull’opportunità dell’atto, soprattutto nel caso di un atto di alta amministrazione, connotato per sua natura di ampia discrezionalità, potremmo dunque concludere che è lo stesso principio di ragionevolezza a fungere al contempo sia da limite al sindacato del giudice, che da limite alla discrezionalità della funzione amministrativa[28].
Alla luce di ciò, la minore intensità del sindacato giurisdizionale, che rimane circoscritto al riscontro dei suddetti parametri, deve passare attraverso un attento vaglio sulla motivazione dell’atto, in particolare sulla congruità di questa rispetto ai suoi presupposti. Infatti, la motivazione è l’essenza stessa del corretto esercizio del potere amministrativo, in quanto rende intellegibile l’iter logico seguito nell’assumere una decisione discrezionale, dando contezza dei motivi per cui, nel perseguire l’interesse pubblico, si è si prescelta una soluzione piuttosto che un’altra. La funzione della motivazione rimane dunque la stessa anche al trattarsi di un atto di alta amministrazione.
Ne dà conferma il Consiglio di Stato che, con la decisione n. 4062 del 2017, si è espresso in tal senso affermando che «Quanto invece ai limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti di alta amministrazione, quale quello di cui alla delibera impugnata del Consiglio dei Ministri, va rilevato che l’art. 14 quater comma 3 della legge n. 241 del 1990 non implica che ove la deliberazione del Consiglio dei Ministri contrasti, anche in parte, l’atto di dissenso qualificato, possa prescindere da una motivazione che dia adeguato e congruo conto delle ragioni specifiche per cui gli elementi del giudizio di compatibilità assunti dall’amministrazione dissenziente vanno, in quel concreto caso, diversamente valutati. [(…)] Il manifestarsi di lacune procedimentali non può che avere riflesso anche sulla ragionevolezza della scelta in concreto operata, profilo quest’ultimo sicuramente ammesso al sindacato giurisdizionale. Tale sindacato, infatti, pur avendo natura estrinseca e formale, può essere esercitato sul corretto esercizio del potere anche con riferimento alla verifica della ricorrenza di un idoneo e sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole»[29].
4. Implicazioni della recente decisione TAR Lazio, sez. IV bis, n. 1768 del 27 novembre 2023
Essendo la natura dell’atto di alta amministrazione particolarmente duttile e talvolta multiforme, o meglio, plasmata dalla giurisprudenza, stante l’assenza di una norma che ne definisca chiaramente caratteri, funzioni e disciplina, non resta che guardare con attenzione a quanto, di più recente, deciso dalla giustizia amministrativa, sia in primo che in secondo grado.
Si intende porre un focus, innanzitutto, sulla recentissima sentenza TAR Lazio n. 1768 del 27 novembre 2023, ricercando se e quali implicazioni questa abbia apportato alla nozione di atto di alta amministrazione, oltreché comprendere come quest’ultima decisione si inserisca nel quadro delineato dalla giurisprudenza già affermatasi sul medesimo tema.
Nello specifico, il giudice amministrativo è stato chiamato a decidere sul ricorso presentato dalla Confederazione italiana della piccola e media industria privata (Confapi) per chiedere l’annullamento della nota del 29.8.2017 - della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Segretariato generale, Dipartimento per il coordinamento amministrativo, ufficio affari generali ed attività politico amministrativo - con quale si è redatto l’elenco propedeutico alla nomina dei rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi, nei settori pubblico e privato, presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) per il quinquennio 2017-2022, oltreché l’annullamento del successivo decreto del Presidente della Repubblica del 23.3.2018, che ha provveduto alla nomina dei predetti 48 rappresentanti, e dell’atto presupposto di proposta di designazione della Presidenza del Consiglio.
Più precisamente, Confapi contesta che la sua ingiusta esclusione dal citato elenco dei rappresentanti si sia compiuta in violazione degli artt. 2 e 4 della legge 936/1986[30], degli artt. 1, 2, 3, 39 e 99 della Costituzione[31], nonché costituisca un eccesso di potere per irragionevolezza, contraddittorietà, incongruità e illogicità derivanti da difetto di istruttoria ed erroneità dei presupposti della decisione, risultando inficiata, pertanto, la legittimità dei suddetti atti.
Secondo la ricorrente, consideratasi una delle voci più importanti del settore produttivo italiano, con la sua mancata nomina si sarebbe illegittimamente sottovalutata l’importanza delle piccole e medie imprese, poiché «tra le numerose organizzazioni di parte datoriale essa è l’unica ad essere rappresentativa, in termini di specificità, del settore delle piccole e medie imprese; settore che, peraltro, non è uno tra i tanti del mondo produttivo bensì il portante tessuto economico italiano, sul quale ruota più del 95% della produzione»[32].
La ricorrente sostiene quindi la violazione dell’art. 4, 5° co., legge 936/1986 nella parte in cui non si è tenuto conto degli indici di rappresentatività della propria organizzazione, dalla stessa forniti, tra cui l’ampiezza e la diffusione nel territorio delle strutture organizzative, la consistenza numerica e la sua partecipazione effettiva all’attività contrattuale, che insieme mostrano l’intenso grado di espressività degli interessi dei soggetti rappresenti da Confapi.
Inoltre, sempre la medesima, adduce la disparità di trattamento tra le varie sigle sindacali nel diverso modo di tener conto dei requisiti richiesti dal predetto art. 4, richiedendo, da un lato, a Confapi, la presenza di tutti gli indici di rappresentatività e, viceversa, ritenendo sufficiente, per le altre organizzazioni, solamente la sussistenza di alcuni degli indici esplicitati dalla norma, ai fini della della conseguente assegnazione di seggi.
Per come illustrato nei motivi di ricorso, il contrasto con i principi costituzionali di uguaglianza, pluralità, democrazia e di rappresentanza si manifesterebbe con l’attribuzione di un numero eccessivo di seggi a organizzazioni che sarebbero state comunque rappresentate in seno al CNEL, anche con un numero minore di designazioni, al contrario, privando irragionevolmente di seggi Confapi, nonostante si collochi, in termini qualitativi e numerici, tra le organizzazioni più rappresentative del mondo imprenditoriale e dei lavoratori autonomi.
Infine, l’incongruità e la contraddittorietà della decisione rispetto ai dati istruttori raccolti emergerebbero dall’aver ignorato oggettivi dati da cui si evince la maggiore corrispondenza di Confapi agli interessi delle aziende che rappresenta e tutela, tra cui l’incontestabile presenza di numerose sedi periferiche della Confapi, sia regionali che provinciali, su tutto il territorio nazionale, indice chiaro della maggiore rappresentatività della ricorrente rispetto ad altre sigle.
In risposta, la Presidenza del Consiglio, in merito all’allegata disparità di trattamento, si difende argomentando che nell’ambito di un più ampio bilanciamento tra gli indici di cui all’art. 4, sebbene i dati numerici sembrino esprimere una maggiore rappresentatività di Confapi, non si può tuttavia prescindere dalla loro ponderazione con riferimento al numero di componenti del settore rappresentato. Allo stesso modo, l’altra sigla accusata di aver ottenuto ingiustamente dei seggi si è difesa allegando che «la misura della rappresentatività e l’intensità del grado di espressività degli interessi sono da assumere in funzione non solo del dato quantitativo, ma anche in base alla specialità, qualità e rilevanza degli interessi collettivi espressi dalle organizzazioni sindacali»[33].
La questione sembra, prima facie, facilmente risolta per il TAR, che definisce subito il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse; tuttavia, in questa sede interessa particolarmente quanto chiarito dallo stesso giudice amministrativo in merito alla natura dell’atto di nomina dei rappresentanti del CNEL.
Infatti, nella decisione in oggetto, si legge espressamente che «il punto nodale del procedimento di nomina è da ravvisare nella natura di atto di alta amministrazione, chiaramente desumibile dalla previsione circa la proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri»[34], facendo riferimento con questo inciso all’elemento soggettivo che è indice, ma da solo non sufficiente, del carattere di alta amministrazione dell’atto, ovverosia la sua provenienza da un organo politico; nondimeno, la conclusione sulla natura dell’atto arriva dopo la doverosa precisazione sull’ampiezza discrezionale della scelta compiuta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nella decisione si esplicita, quindi, che, nel contesto del procedimento di nomina dei componenti del CNEL, l’assenza di regole chiare e univoche sui criteri di raccordo fra seggi e designazione, fanno sì che competa inevitabilmente al Presidente del Consiglio dei Ministri formulare la proposta di nomina dei rappresentanti «selezionando all’interno delle varie entità sindacali con un’analisi comparativa, quelle che sono maggiormente rappresentative»[35].
Nell’indagare la presenza del criterio positivizzato dall’art. 4, comma 5, legge 936/1986 inerente al grado di “rappresentatività” delle organizzazioni sindacali, detto organo deve tener conto di tutti gli elementi necessari. Spiega però il giudice che tali elementi non sono aprioristicamente e integralmente definiti, essendone indicati dalla norma solamente alcuni tra i più rilevanti, senza vietare una ulteriore e successiva individuazione di questi da parte dell’organo decidente.
Come il Consiglio di Stato aveva già avuto modo di chiarire con altre recenti pronunce, evidenzia il TAR, la Presidenza del Consiglio, nell’assegnazione dei seggi, compie una valutazione ampiamente discrezionale e non puramente “aritmetica” o “meccanicistica”, considerando sì alcuni dei parametri positivamente indicati, come nel caso di specie la diffusione sul territorio di Confapi, ma non in maniera rigida ed esclusiva, secondo un meccanismo predeterminato, vincolante e “predittivo” degli esiti della designazione; si ribadisce che «il dato normativo non esclude che si possano valorizzare anche altri elementi se “necessari” a manifestare il particolare “grado di rappresentatività” dell’associazione sindacale»[36].
Infine, la decisione si conclude citando quanto già detto con la nota sentenza del Consiglio di Stato, datata 27.07.2011, ricordando l’inquadramento degli atti di alta amministrazione tra gli atti amministrativi e la loro equiparazione ai fini della disciplina applicabile, seppur con le dovute eccezioni derivanti dalla peculiare ed ampia discrezionalità di cui sono connotati, che ne limita il sindacato giurisdizionale[37].
Il TAR nelle conclusioni richiama altresì un’altra pronuncia dei giudici di Palazzo Spada per sviare ogni dubbio sui limiti del vaglio giurisdizionale nei casi in cui, come quello di specie, ci si trovi innanzi ad atti a forte contenuto discrezionale, asserendo che la discrezionalità rimane «sempre vincolata dal necessario perseguimento delle finalità pubbliche e dal fondamento sostanziale del potere amministrativo consistente nell’impossibilità di utilizzare lo stesso per fini diversi da quelli che ne giustificano l’attribuzione»[38].
È il momento di chiedersi dunque quali conclusioni possiamo trarre dalla recente decisione del TAR, già sviscerata in tutti in suoi elementi. In primo luogo, non sorprende che l’atto con cui si procede alla nomina dei membri CNEL venga inquadrato nella categoria degli atti di alta amministrazione, in quanto, non solo era stato già definito tale dalla giurisprudenza sin da prima dell’introduzione dell’attuale disciplina[39], ma nemmeno pare essergli mai stata riconosciuta altra differente natura.
In secondo luogo, non si apprezzano novità nemmeno nel tema affrontato, essendo stato il caso sottoposto al TAR già presentatogli qualche anno prima in termini simili da Confcommercio Imprese per l’Italia, che parimenti invocava la violazione dell’art. 4 legge 936/1986, nonché il travisamento dei dati sulla rappresentatività delle diverse organizzazioni, erroneamente valutati. Anche in tal caso, il TAR riconosceva la correttezza dei dati adoperati ai fini della verifica del grado di rappresentatività del ricorrente, escludendo la perpetrazione di un’arbitraria applicazione del principio pluralistico nella distribuzione di seggi all’interno della categoria di riferimento; il ricorso in effetti veniva respinto[40].
Ugualmente, in tale sede il giudice amministrativo bilanciava il principio pluralistico con quello di proporzionalità, nel senso che l’esigenza di assicurare in seno al CNEL la rappresentanza degli interessi delle varie categorie doveva contemperarsi con l’inevitabile selezione delle associazioni più rappresentative. Di conseguenza, veniva invocato l’ampio grado di discrezionalità connotante la scelta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che, tenuto conto della potenziale sussistenza di numerosi settori produttivi astrattamente degni di riconoscimento, incontrava come unico limite quello della non manifesta irragionevolezza della decisione assunta[41].
In terzo luogo, si vuole far notare che la più recente sentenza del TAR Lazio, oggetto di analisi di questo paragrafo, si inserisce all’interno della copiosa giurisprudenza già presente sul tema e in parte richiamata e ricalcata dallo stesso Tribunale, divenendone un ulteriore tassello, utile nella ricostruzione delle caratteristiche dell’alta amministrazione e dei suoi ristretti margini di sindacabilità. Sebbene nulla di particolarmente nuovo venga apportato, chi scrive ritiene che non se ne debba sminuire l’importanza, rappresentando un elemento in più, che, unito agli altri, può contribuire a ridurre la nube di incertezza che avvolge questo particolare istituto.
Attraverso l’analisi delle più disparate casistiche, passando dalla nomina degli assessori o dal provvedimento di estradizione[42], alla nomina del presidente del Consiglio di amministrazione della Rai[43] e sino alla nomina dei membri del CNEL, l’atto di alta amministrazione raggiunge una forma sempre più definita, con l’auspicio che, come tanti altri istituti di origine giurisprudenziale, trovi quanto prima una sua positivizzazione.
[1] Il principio di legalità riferito all’attività amministrativa, oltre a trovare una copertura costituzionale nell’art. 97, viene espressamente formulato nella prima disposizione dell’art. 1 legge 291/1990 con la quale si statuisce che «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge»; per maggiori approfondimenti sul significato di tale principio si veda M. FRATINI, Manuale sistematico di diritto amministrativo, Roma, 2020, 437 ss.
[2] In particolare, l’art. 24 della Costituzione prevede ai primi due commi che «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado di procedimento.»; l’art. 113 invece statuisce che «Contro gli atti della Pubblica Amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della Pubblica Amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa.».
[3] G. PEPE, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale tra atti politici, atti di alta amministrazione e leggi-provvedimento di Gabriele Pepe, in Federalismi.it, 2017, 22, 3 ss.
[4] M. FRATINI, op.cit., 399 ss.
[5] Sul differente grado di discrezionalità tra atti di alta amministrazione e atti politici si veda quanto illustrato nella sezione online “risorse”, messa a disposizione alla pagina https://www.mulino.it/aulaweb/.
[6] Cfr. Cons. St., sez. V, 27.07.2011, n. 4502.
[7] Con il termine “merito” ci si riferisce all’opportunità dell’atto, che si traduce nel libero apprezzamento degli interessi pubblici coinvolti nell’esercizio di un’attività discrezionale. Di regola il merito amministrativo non è sindacabile del giudice salvo i casi in cui la legge prevede espressamente una giurisdizione estesa al merito. Per una più approfondita analisi della sindacabilità dell’atto di alta amministrazione si rimanda a quanto illustrato nel terzo paragrafo.
[8] Cfr. M. FRATINI, op.cit., 400.
[9] V. CERULLI IRELLI, Politica e amministrazione tra atti “politici” e atti “di alta amministrazione”, in Diritto pubblico, 2009, 130 ss.
[10] Questa soluzione veniva per prima proposta da E. GUICCIARDI, L’atto politico, in Arch. dir. pubbl. 1937, pp. 277 ss; rielabora e illustra tale teoria anche V. CERULLI IRELLI, op. cit., 114 ss.
[11] Per approfondimenti si veda l’articolo “Atto politico e insindacabilità”, pubblicato dalla Redazione il 06.02.2019, in Diritto.it, disponibile alla pagina web: https://www.diritto.it.
[12] Questa esemplificazione viene adoperata dal Consiglio di Stato nella già citata sentenza del 27.07.2011, n. 4502; nell’elencare tali atti i giudici amministrativi precisano che nessuno dubita della loro politicità, con annessa insindacabilità.
[13] Individua questa tassonomia M. FRATINI, op.cit., 402.
[14] C. CUDIA, Considerazioni sull’atto politico, in Diritto amministrativo: rivista trimestrale, 2021, 3, 621 ss.
[15] G. MONTEDORO, L’atto politico, 2023, disponibile in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[16] G. TROPEA, Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico, in Diritto amministrativo: rivista trimestrale, 2012, 3, 329 ss. Sulla stessa questione si veda anche G. MONTEDORO, op.cit., il quale afferma che la nozione di atto di alta amministrazione erode la nozione di atto politico, al punto tale da far ritenere da alcuni inesistente l’atto politico.
[17] G. TROPEA, op.cit.,16 ss.
[18] V. CERULLI IRELLI, op. cit.,104; lo stesso autore individua il problema nei seguenti termini «l’amministrazione è cura concreta di interessi che via via emergono nell’ambito del contesto sociale e la politica non può tirarsene fuori (essa deve rispondere della cura di codesti interessi), senza poter interferire al di là di certi limiti, se non attraverso strumenti tali da rispettare e da consentire l’esercizio imparziale dell’amministrazione».
[19] Ibid.
[20] Ibid.
[21] F. BLANDO, Fine dell’atto politico?, in Nuove Autonomie, rivista quadrimestrale di Diritto Pubblico, 2015, 1, 81 ss.
[22] Ibid.
[23] Con sentenza n. 81 del 5.04.2012, la Corte costituzionale svolge significative riflessioni in ordine alla natura dell’atto politico e ai limiti della sua giustiziabilità. La Corte afferma, che ad essere sottratto al controllo giurisdizionale non è l’atto politico globalmente inteso, bensì i soli elementi di tale atto che sono espressivi di una scelta politica; si legge infatti nella sentenza che «gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate».
[24] G. PEPE, op. cit., 9.
[25] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.07. 2011, n. 4502.
[26] G. PEPE, op. cit., 7.
[27] M. FRATINI, op. cit., 469 ss.
[28] Ibid.
[29] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24.08.2017, n .4062.
[30] Gli articoli richiamati della legge 936/1986 disciplinano rispettivamente, la composizione del CNEL e la procedura di nomina dei membri; nella specie, l’art. 2. lett. b) prevede la nomina di: «quarantotto rappresentanti delle categorie produttive dei quali ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti di cui tre in rappresentanza dei dirigenti e quadri pubblici e privati, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese»; mentre il comma 5 dell’art. 4 sancisce che «Nel ricorso le organizzazioni sono tenute a fornire tutti gli elementi necessari dai quali si possa desumere il grado di rappresentatività, con particolare riguardo all'ampiezza e alla diffusione delle loro strutture organizzative, alla consistenza numerica, alla loro partecipazione effettiva alla formazione e alla stipulazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro e alle composizioni delle controversie individuali e collettive di lavoro».
[31] Gli articoli richiamati tutelano rispettivamente, il principio di democraticità, la dignità dell’individuo anche all’interno delle formazioni sociali, i principi di uguaglianza e ragionevolezza e i diritti delle organizzazioni sindacali; infine l’art.99 Cost. si riferisce espressamente al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro prevedendo che sia composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura da tener conto della loro importanza numerica e qualitativa.
[32] Cfr. sentenza TAR Lazio, sez. IV bis, n. 1768 del 27 novembre 2023.
[33] Ibid.
[34] Ibid.
[35] Ibid.
[36] Ibid.
[37] Cfr. Cons. St., sez. V, 27.07. 2011, n. 4502
[38] Cfr. Cons. St. sez. V, 2.08.2017, n. 3871.
[39] G. TROPEA, op.cit.
[40] Cfr. Sentenza TAR Lazio, sez. I, 29.05.2020, n. 5735
[41] Ibid.
[42] Cfr. Cons. St., sez. IV, del 15.06.2007, nr. 3286.
[43] Cfr. Tar Lazio, sez. III, 04/01/2020, n.54; in questa decisione gli atti del procedimento di nomina del Presidente del C.d.A. della Rai S.p.A. vengono definiti atti di alta amministrazione, sindacabili da parte del giudice amministrativo, con la precisazione che la loro natura ampiamente discrezionale può essere sindacata dal giudice sul piano della sufficienza, della logica e della sostanziale congruità e razionalità, in quanto non possono ritenersi sussistenti zone assolutamente franche. dal sindacato giurisdizionale, seppure, come in tal caso, circoscritto al riscontro della congruità del nesso logico di consequenzialità fra presupposti e conclusione.