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Pubbl. Mer, 24 Gen 2024
Sottoposto a PEER REVIEW

L’ adozione di un codice di condotta per l’uso dei social network

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autori Camilla Della Giustina , Pierre De Gioia Carabellese



Mentre il ”dress code” forma oggetto di lunga analisi da tempo, soprattutto da parte della dottrina anglo-americana, il ”language code” e ancor di più il ”social media code” suscitano tematiche e pongono quesiti sempre più stimolanti ma anche pressanti. In particolare il social media code, data la sua contemporaneità e attualità, si ricollega al potere di controllo del datore di lavoro nonché al corrispondente dovere di riservatezza e confidenzialità del lavoratore dipendente. A partire da questo, gli Autori evidenziano opportunità e rischi connessi a una eventuale adozione di un ”social media code” da parte del datore di lavoro. La metodologia utilizzata è non solo di diritto comparato (English Common Law ) ma anche interdisciplinare ( tra diritto del lavoro e pubblico).


ENG

The use of a code of conduct relating to social media

This paper discusses and analyses from a legal point of view the prospective concept of the social media code. This term, in building upon the entrenched dress code, and, more recently the language code, would be the outcome of the control power of the employers on their own employees. On the other side, the social media code may impact on the duty of confidentiality that is owed by each employee to the respective employer. The methodolgy used in this paper is multifarious: in addition to the doctrinal analysis of law, a comparative analysis between Italy and English common law is also used, as well as an interdisciplinary approach in between labour and constitutional law.

Sommario: 1.Introduzione 2. Una nuova sfida per il diritto del lavoro 3. La rilevanza del personal account nel diritto del lavoro; 4. L’opportunità di adottare un “social media code”; 5. Raccordo conclusivo

1. Introduzione 

Trattare di social media e diritto qualche anno orsono avrebbe potuto rappresentare una novità assoluta se non, addirittura, fantascientifica. Tuttavia, la pervasività dell’evoluzione tecnologica delle piattaforme ha portato differenti Corte ‘Supreme’ ad affrontare la problematica dell’estensione delle tradizionali categorie giuridiche.

A titolo esemplificato, può essere richiamata la recente ordinanza di remissione alle Sezioni Unite[1] concernente la vexata quaestio relativa alla possibilità di acquisire, e utilizzare, i messaggi scambiati su una chat di gruppo ma ‘protetti’ dal sistema cifrato. Quest’ultimo, infatti, è un software che consente di contenere un sistema operativo specifico grazie al quale è possibile avere particolari garanzie dato che, ad esempio, vengono disabilitati i servizi di localizzazione.

Un altro esempio è la pronuncia della Corte costituzionale italiana[2] con la quale è stato precisato che i messaggi scambiati su Whatsapp, come i messaggi di posta elettronica, rientrano nella nozione di corrispondenza. Precisamente, per il Giudice delle Leggi, i messaggi scambiati su Whatsapp non sono meri documenti ma vera e propria corrispondenza[3].

A partire da queste premesse, il presente research paper analizzerà il rapporto tra potere di controllo del datore di lavoro, da un lato, e possibilità del lavoratore dipendente di esprimere il proprio pensiero sul proprio social media account, dall’altro lato. La conclusione alla quale si perverrà è che, probabilmente, sarebbe opportuno che il datore di lavoro arrivasse, in primo luogo a disporre e, successivamente, ad applicare un cd. ‘social media code’.

Sebbene detta proposta possa sembrare, prima facie, futuristica, recentemente è invalsa la prassi di indossare un determinato colore, o un bollino di un determinato colore, per manifestare la propria volontà di non essere destinatario di riprese video. Di qui si è discusso di «dress code surveillance»[4].

2. Una nuova sfida per il diritto del lavoro

L’avvento e lo sviluppo della tecnologia e, soprattutto, dei social media hanno imposto una ridefinizione dei concetti spazio-temporali che scandivano la vita degli uomini. Prima dell’avvento degli «smartphone», la consultazione della casella di posta elettronica avveniva accedendo tramite il proprio «personal computer». A seguito dell’immissione in commercio di «smartphone» sempre più sofisticati, una delle prime funzioni atteneva proprio alla possibilità di accedere alla casella «email» dal proprio telefonino di ultima generazione.

Attualmente, «social media» e «app» di messagistica permettono alle persone di essere in una situazione di eterna connessione attraverso la condivisione, in tempo reale, di aggiornamenti circa la propria vita privata, le proprie opinioni in relazione a un determinato argomento, i propri gusti e preferenze.

L’aspetto peculiare dei «social network», ad esempio «Facebook», è quello di rendere intrinsecamente presente qualsivoglia informazione oggetto di pubblicazione ponendo in essere quello che può essere definito come un eterno presente[5]. L’elemento che accentua tale dimensione è il «web», infatti, archivia tutti i dati in un eterno presente al fine ultimo di aumentare la memoria nonché la conoscenza collettiva[6]. Nel contesto appena descritto, dunque, non si assiste mai a una definitiva eliminazione dei dati che il soggetto, attraverso il proprio «account», immette nell’ambito dei «social media» poiché, anche qualora l’informazione, più precisamente il dato, dovesse essere disperso, esso permarrebbe nella Rete[7].

Il rapporto che intercorre tra soggetti e piattaforme di «social media» è stato descritto come «la relazione fra il soggetto e i contenuti pubblicati» che «può essere interpretata come una dialettica fra controllo (dei tempi e degli spazi di consultazione, di gestione) e ricerca costante della novità e della presenza sulle piattaforme, con modalità e pratiche profondamente diverse in funzione dell’età, del genere, del contesto sociale e dei bisogni individuali»[8].

Per quanto concerne l’attività di controllo svolta dal datore di lavoro sui social media, si deve richiamare una sentenza del 2021 della Corte di Cassazione[9]. Essa attiene allo scambio di messaggi, durante l’orario di lavoro e attraverso la «chat» aziendale, tra due colleghe di lavoro e aventi contenuto offensivo nei confronti di una superiore gerarchica e di qualche altra collega. L’aspetto che distingue questo caso dal primo attiene alla contestazione mossa alla lavoratrice che viene rapportata al contenuto della «chat» non sussistendo alcun riferimento a inadempienze lavorative nonché uso anomalo o inappropriato dello strumento aziendale

Alla luce di ciò la Corte di Cassazione arriva a confermare quanto statuito dalla Corte d’Appello di Milano, cioè, l’esclusione della possibilità di utilizzare i dati raccolti derivando, di conseguenza, il venir meno dell’intera base fattuale della contestazione disciplinare mossa dal datore di lavoro.

3. La rilevanza del personal account nel diritto del lavoro

Nel momento in cui si tratta di social media e diritto del lavoro, è necessario tenere distinte due situazioni. La prima attiene alla possibilità di eseguire la prestazione lavorativa esclusivamente attraverso la piattaforma. Si pensi, ad esempio al lavoro che viene svolto dagli influencer[10]  da tutto il sistema della platform economy e, dunque, della gig-economy[11].

Per «influencing marketing» si intende l’attività, svolta da influencer, di «diffusione su blog, vlog, e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, Snapchat, Myspace) di foto video e commenti da parte di “bloggers” e “Influencers” (ovvero di personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di Follower), che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario»[12]. La definizione appena fornita potrebbe essere riduttiva poiché l’attività dell’influencer non si realizza solamente nel mondo dei social network ma si espande anche al di fuori di essi[13].

La gig-economy, invece, concerne prestazioni lavorative intermittenti e flessibili, nonché l’offerta di prestazioni on demand da parte dei gig workers. Quando ci si approccia al lavoro su piattaforma, si fa riferimento a un fenomeno assai variegato, comprendente al proprio interno diverse attività come, ad esempio, l’organizzazione di consegne e distribuzioni di beni mediante riders[14].

Differente da quanto appena prospettato, è l’ipotesi in cui il social network assuma rilevanza nel rapporto di lavoro non quale strumento lavorativo, appunto, quanto piuttosto quale elemento della vita privata del lavoratore. Questa problematica nasce perché attraverso i social media, le persone aspirano a lasciare tracce di loro stessi, a essere conosciuti dall’intero universo digitale. Ciò si realizza attraverso l’immissione di contenuti personali (foto, immagini, video, pensieri) funzionali a ottenere un riconoscimento da parte della comunità virtuale[15].

Con riferimento all’estensione del potere di controllo del datore di lavoro ci si è chiesti se fosse possibile effettuare un parallelismo con l’email, dunque arrivando a distinguere tra email personale e aziendale. Sul punto, tuttavia, è stato precisato che detto accostamento non possa essere considerato pienamente corretto. Con riferimento ai social network, infatti, vi è la possibilità, per lo stesso utente, di predisporre differenti gradazioni circa la riservatezza e/o la pubblicità del proprio profilo. Nell’ipotesi in cui il profilo sia accessibile solamente a persone selezionate e, a contrario, non sia accessibile a chiunque, qualsivoglia contenuto che viene pubblicato sulla pagina personale deve essere considerato come riservato[16]. L’accesso impostato deve essere interpretato quale filtro che il soggetto pone tra le informazioni proprie e il mondo esterno: in altri termini, il soggetto, attraverso la personalizzazione delle impostazioni «privacy» esercita il proprio diritto all’autodeterminazione con il fine ultimo di esercitare consapevolmente il «ius escludendi alios».

A contrario, qualora il profilo sia “pubblico” o altrimenti reso visibile “agli amici degli amici” l’accesso viene consentito a qualsivoglia soggetto: il datore di lavoro, potenzialmente, può accedere alle informazioni pubblicate in questa modalità pubblica.

È possibile, tuttavia, che la condivisione sul «web» e sui «social media» di informazioni e di opinioni, da interpretare quale momento estraneo nonché esterno alla prestazione lavorativa, può assumere importanza sia quale elemento unicamente considerato, sia quale fonte di prova di un comportamento distinto e posto in essere nella vita reale[17].  Le pubblicazioni effettuate su «Facebook» vengono spesso utilizzate quale prova documentale della violazione di obblighi imposti al dipendente che si trovi in malattia o qualora egli si intrattenga in conversazioni che risultino incompatibili con lo stato di salute certificato o dichiarato[18]. Si tratta di ipotesi in cui è stata ammessa la prova estrapolata dal profilo «social media» e il recesso del datore di lavoro è stato ritenuto legittimo attraverso il combinato disposto tra gli artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 c.c.[19].

Dall’analisi delle disposizioni appena richiamate, infatti, si ha contezza che le condotte poste in essere si possono tradurre in una «violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede[20] e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore»[21].

Distinto da quanto appena prospettato è l’utilizzo dei «social network» quale condotta extralavorativa ma suscettibile di incidere sul rapporto di lavoro. Un primo esempio di ipotesi concerne la pubblicazione di notizie riservate all’impresa: si tratta di una fattispecie riconducibile nell’alveo dell’art. 2105 c.c. quale violazione dell’obbligo di fedeltà. È stata ricondotta a questa fattispecie la pubblicazione di contenuti con connotati dispregiativi nei confronti dell’azienda o dei colleghi[22].

In Gran Bretagna, ad esempio, il principio cui fare riferimento è quello di good faith, buona fede[23]; quest’ultimo ricomprende i seguenti concetti: 1) onestà e integrità, il dovere di non danneggiare gli interessi del datore di lavoro e, infine, il dovere a mantenere le informazioni di ufficio confidenziali.

Nell’ambito del dovere di buona fede, si segnala anche quello a non approfittare illegalmente di un vantaggio (no secret profit). Il caso di scuola nel common law è Sanders v Parry[24]. Mr Parry era un solicitor che lavorava per una law firm di una certa importanza. Lavoro’ per conto di uno dei maggiori cliente della law firm. Il cliente risultò insoddisfatto del lavoro fatto dalla firm in generale, non da Mr. Perry. Il solicitor fu approcciato dal cliente: a causa di detto incontro, l’avvocato trasse spunto per svolgere detto lavoro a titolo personale, non a favore della law firm. Fu statuito che il principale scopo del dipendente, nell’ambito dei suoi doveri, era quello di attirare l’attenzione del datore di lavoro di migliorare la customer care del cliente; per contro, in questo caso, il dipendente, solicitor, aveva semplicemente tratto vantaggio e sfruttato a proprio fine tale insoddisfazione.

Un ulteriore caso cui fare riferimento è  Industrial Development Consultants (I.D.C.) v Cooley[25]: in esso un Managing Director (MA), nel corso del suo lavoro, ottenne un contratto per se stesso. Fu statuito che era responsabile per dover riversare a beneficio del datore di lavoro il profitto che aveva realizzato, anche se in questo caso poteva dimostrare che il datore di lavoro non avrebbe comunque mai ottenuto il contratto[26].

Il dovere di non danneggiare gli interessi del datore di lavoro ricomprende anche  i temi della competizione fra dipendente e datore di lavoro. In generale, niente previene il lavoratore dipendente (employee) dal lavorare per un competitor del datore di lavoro. Cio’ fu statuito in Graham v Patom [27].

Tuttavia, se il dipendente (employee) adempie doveri (duties) che gli danno accesso a informazioni strategiche e confidenziali, allora l’attività per il competitor del datore di lavoro e’ proibita. In Hivac v Park Royal Scientific Instruments Ltd[28] e University of Nottingham v Fishel [29]tale principio fu affermato, sebbene i casi siano diversi fra di loro.

Un importante principio è che il dipendente (employee) ha diritto alla prestazione esclusiva del contratto al tempo e alla fascia oraria stabilita nel contratto. Cameron v Gibb (1967) 3 S.L.T. 282). In ogni caso, è proibito un secondo lavoro che possa causare danno al dipendente[30].

Quanto alle informazioni confidenziali (confidential information), il dipendente (employee) e’ tenuto a proteggere segreti di ufficio ovvero informazioni confidenziali. Altrimenti, sarebbe possibile un’azione del datore di lavoro (employer). L’oggetto di questa azione sarebbe, verosimilente, il risercimento dei danni, e l’ingiunzioni, la injunction ovvero interdict nel diritto scozzese.

Sul concetto di confidential information, o informazione confidenziale, si puo’ fare riferimento a Faccenda Chicken v Fowler[31].  Mr. Fowler iniziò un’attività per sé stesso, dopo che per vari anni aveva lavorato per “Faccenda”. Iniziò a lavorare usando I nomi e gli indirizzi dei precedenti clienti di Faccenda, e le loro richieste preferenze, le modalità piu’ convenienti per consegnare i veicoli (giorni e fasce orarie), e la struttura dei prezzi usati per particolari clienti. In questo caso, nel contratto, non vi era una “restrictive covenant”, una clausola di limitazione della concorrenza. Fu statuito che, se da un lato l’ex dipendente non doveva svelare processi segreti di manifattura o altre informazioni confidenziali, dall’altro questo obbligo non comprendeva informativa la cui confidenzialità dipendeva al fatto che, se fosse stata svelata durante la sussistenza del contratto, la stessa avrebbe violato il principio di buona fede.

In generale, le clausole che limitano la concorrenza (restrictive covenants), sono quelle che, da tempo, hanno formato oggetto di analisi da parte della giurisprudenza di Oltremanica. Le clausole che prevengono i dipendenti dal lavorare per competitors durante il rapporto di lavoro dovrebbero cessare una volta che cessa il rapporto di lavoro. Per quelle destinate ad avere effetto dopo, le stesse sono legalmente valide, nella misura in cui siano ragionevoli: quindi, dovrebbero tutelare un ragionevole interesse del datore di lavoro; e/o l’area di efficacia delle stesse dovrebbe essere definita[32].

Particolarmente delicate sono le ipotesi di contenuti anti-aziendali non creati dal dipendente, ma condivisi sul profilo social o rispetto ai quali viene dimostrato un apprezzamento attraverso un “like”. L’attività di ri-pubblicazione è stata ritenuta equivalente alla elaborazione di un contenuto o elaborato innovativo. In relazione al “like”, è stata ritenuta legittima la sanzione disciplinare comminata per aver espresso un apprezzamento, attraverso “like” appunto, a una indignazione e condanna per l’operato della pubblica amministrazione di cui faceva parte l’utente «Facebook»[33]

Alla luce di ciò emerge, dunque, che «tale riguardo, l’obbligo di fedeltà, letto in combinato disposto con la buona fede oggettiva, rappresenta la porta di accesso alla rilevanza giuridica dell’utilizzo extralavorativo dei social network, come del resto di tutti i comportamenti tenuti dal lavoratore fuori dall’orario e dalla sede di lavoro, che non abbiano una connotazione esclusivamente privata. Il contemperamento tra il vincolo fiduciario fondativo del rapporto ed i diritti della persona garantiti al massimo livello gerarchico delle fonti ordinamentali poggia su limiti formali e sostanziali, nonché su un generale criterio di proporzionalità, il cui dosaggio finisce con l’essere rimesso (prima all’impresa, e poi in sede di controllo) al giudice nel caso concreto.

Tanto considerato, se pubblicare contenuti sui social media ben può avere ricadute (anche drammatiche) sul rapporto di lavoro, in caso di accertata lesione del predetto obbligo di fedeltà, è chiaro che al lavoratore e’ richiesta una maggiore consapevolezza nell’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione.

Questa rafforzata responsabilità è senza dubbio il riflesso della dilatazione delle potenzialità lesive dell’immagine e degli interessi aziendali da parte singolo, che si trova ora a disporre di una audience mediatica impensabilmente espansa ed astrattamente illimitata. Tuttavia, essa consegue anche (e soprattutto) a quello che i più hanno salutato come il nuovo “patto” posto alla base del moderno rapporto di lavoro, in cui l’impresa è chiamata ad assumere un maggiore impegno nel garantire benessere al lavoratore, con l’effetto che a questo può correlativamente richiedersi un maggiore sforzo sul piano della fedeltà, della lealtà e del senso di appartenenza»[34].

In materia è da segnalare quanto sostenuto dalla Suprema Corte[35] in tema di creazione di un account falso da parte del datore di lavoro al fine di effettuare un controllo a distanza sull’attività svolta dai lavoratori[36]. La condotta posta in essere è stata riconosciuta come legittima da parte della Corte, sia in relazione alla normativa ad hoc in materia di controlli da parte del datore di lavoro, sia con riferimento alla conformità ai principi di buona fede e correttezza nella esecuzione del rapporto di lavoro

È stato osservato attentamente che nel caso di specie, si fondono differenti problematiche: l’applicazione delle tutele strettamente connesse alla posizione di lavoratore subordinato, una generale di rispetto del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, una attinente al profilo «privacy» e, infine, una attinente al diritto penale. Più precisamente, «la questione che si pone – su cui nel caso di specie i giudici non intervengono per inammissibilità della doglianza in questa fase del giudizio – è quella relativa alla violazione dell’art. 494 c.p. che statuisce il reato di sostituzione di persona (un indizio in questo senso può essere letto nel testo della sentenza, che dichiara inammissibili i documenti prodotti dal lavoratore relativi al procedimento penale nei confronti del responsabile e, tra questi, fa menzione di un decreto penale di condanna)» [37].

4. L’opportunità di adottare un “social media code

In base a quanto esposto fino a questo momento, si ritiene come opportuna (e legittima) l’adozione, da parte del datore di lavoro, di codici di condotta il cui obiettivo dovrebbe essere quello di regolamentare, ex ante, il comportamento che i lavoratori dipendenti dovrebbero tenere sui social network.

Ancora più precisamente, il riferimento va ai “Codes of Practice” dell’esperienza giuslavoristica britannica. Essi sono codici di comportamento che i datori di lavoro adottano con l’obiettivo di definire quali condotte sono corrette e quali non lo sono, come trattare dette condotte. In via generale si può dire che i “Codes of Practice” disciplinano i rapporti tra datore di lavoro e lavoratori[38].

Il codice di Condotta[39] non è obbligatorio, ma ogni datore di lavoro è incoraggiato ad adottarlo: maggiore è la coerenza fra condotta concreta del datore di lavoro e condotta astrattamente prescritta dal codice di condotta, maggiori sono le possibilità che quel licenziamento sia definito fair[40].

Si deve aggiungere che l’adozione di un “social media code” sarebbe funzionale non solamente nel disciplinare i rapporti di lavoro tra datore di lavoro e dipendente, ma anche nel definire la cd. corporate governance di una determinata impresa[41]. Corporate governance, infatti, comprende strumenti, meccanismi e regole contenute non solamente in leggi, ma anche in articolati di natura associativa[42].

I vantaggi per un datore di lavoro di adottare un social media code[43] potrebbero essere duplici. In primis, egli andrebbe a definire ex ante le condotte che i propri dipendenti potrebbero tenere sui social media al fine di evitare di incorrere in una sanzione disciplinare. In secundis, questo ‘Code’ potrebbe assolvere anche la funzione del cd. Modello 231 con riferimento a eventuali reati che un dipendente potrebbe compiere attraverso i social accounts. Precisamente, qualora questo ‘Code’ dovesse essere ritenuto come efficace, l’ente, dunque l’impresa, andrebbe esente da responsabilità.

È doveroso precisare che, da una prospettiva teorica, si è trattato di social media code per indicare il linguaggio proprio che ogni piattaforma, Facebook, Twitter, Instagram, utilizza nel proprio circuito. Tuttavia, ai fini del presente scritto, la nozione di social media code deve essere interpretata quale codice di condotta che i dipendenti di una determinata azienda devono seguire al fine di andare esenti da illeciti disciplinari.

5. Raccordo conclusivo

Sebbene la soluzione proposta potrebbe adombrare una violazione della libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, essa sembra essere un possibile compromessa tra due diritti confliggenti. In altri termini, come noto dalla risalente giurisprudenza costituzionale[44], tutti i diritti sanciti dalla Carta costituzionale italiana devono essere oggetto di bilanciamento affinché nessuno risulti essere tiranno nei confronti dell’altro.

Tuttavia, dinnanzi a una moltiplicazione delle Autorità Indipendenti e a una assenza non solo di una tutela giurisdizionale ma anche di derivazione legislativa, il datore di lavoro si trova in una situazione quasi paradossale. L’aspetto che si vuole evidenziare è che il datore di lavoro si trova ad essere, al tempo stesso, “regolatore e regolato di se stesso”[45]. Di qui, ergo, la necessità di addivenire autore del bilanciamento per quanto concerne interessi propri.

In tema di libertà di espressione del pensiero, tutelata sia dalla Costituzione che da fonti sovranazionali, la Carta Edu, ad esempio, è doveroso richiamare una sentenza della Corte Edu. Il riferimento va a Melike v Turchia[46]. Il caso riguardava l’apposizione di un ‘like’ su Facebook da parte di una lavoratrice assunta a tempo indeterminato come addetta alle pulizie presso il Ministero dell’Istruzione nazionale turco che aveva apprezzato dei post su Facebook di natura politica e di interesse generale. Secondo la posizione espressa dal Ministero, detti ‘like’ sarebbero stati idonei a turbare “la pace, la tranquillità e l’ordine del posto di lavoro per scopi ideologici e politici, boicottando od occupando, mettendo in atto comportamenti volti ad impedire lo svolgimento dei servizi pubblici e provocando e incoraggiando tali atti”. Questi atti, infatti, attenevano accuse verso insegnanti uomini dello Stato e rappresentanti di partiti politici. Il Ministero deduceva una violazione del dovere di lealtà verso il datore di lavoro.

Prendendo le mosse da quanto appena descritto, la Corte Edu si è pronunciata circa le ricadute che un apprezzamento online espresso tramite ‘like’ può avere. I fattori utilizzati alla base della decisione furono, essenzialmente, tre. Il primo era da riferire al fatto che l’oggetto del procedimento disciplinare era tutelato dalla libertà di espressione coperto dal raggio di azione dell’art. 10 CEDU: l’irrogazione del procedimento disciplinare rappresentava una violazione di detta disposizione. Gli apprezzamenti erano da riferire ad aspetti di interesse generale e di attualità del dibattito politico.

In secondo luogo, i Giudici si sono focalizzati su quelli che sono i limiti dell’obbligo di diligenza e di buona fede che incombono sul lavoratore dipendente. Nel caso di specie, venne evidenziato che la ricorrente non ricopriva la posizione di dipendente pubblico poiché si trattava di lavoratrice a contratto presso al Ministero dell’Istruzione nazionale e soggetta al regime giuridico di diritto del lavoro privato. Di conseguenza, ella non poteva essere assoggettata al medesimo regime di diligenza e confidenzialità che viene richiesto ai funzionari dello Stato.

Elemento cruciale è dato dal fatto che la ricorrente, che svolgeva l’attività di addetta alle pulizie, non avesse tra i suoi contatti su Facebook docenti o famigliari degli alunni posto che le mansioni che svolgeva concretamente non la portavano a instaurare uno stretto legame con i soggetti poc’anzi menzionati.

Infine, per i Giudici, la sanzione risultava essere eccessivamente sproporzionata in quanto i Giudici nazionali non avevano considerato in concreto l’effettiva portata del gesto della ricorrente[47] e le ripercussioni che questo aveva avuto nel rapporto di lavoro[48].

Alla luce di ciò, l’autoregolamentazione che il datore potrebbe predisporre dovrebbe tenere in considerazione differenti elementi, come: 1) il ruolo svolto dal lavoratore dipendente; 2) il grado di riservatezza a esso richiesto; 3) la tipologia di profilo, se totalmente privato, oppure, pubblico; 4) l’attività concretamente svolta sul social media (like, condivisione di un contenuto o redazione di un post); 5) eventuale contrasto con la legge.


Note e riferimenti bibliografici

Sebbene l'articolo sia il frutto di una riflessione comune, i paragrafi 1 e 2 sono da attribuire al Professore de Gioia Carabellese, i paragrafi 3 e 4 alla Dottoressa Della Giustina. Il paragrafo 5 è da attribuire a entrambi. 

[1] Il riferimento va Corte Cassazione penale, sez. III, 30 novembre 2023, n. 1128. Precisamente, il dubbio è se questi messaggi possano essere assoggettati all’art. 234-bis c.p.p. il quale consente l’acquisizione «di documenti e dati informatici» anche nell’ipotesi in cui siano conservati all’estero e anche nell’ipotesi in cui siano diversi da quelli disponibili al pubblico e a condizione che il legittimo titolare abbia espresso il consenso.

[2] Corte costituzionale, 11 maggio 2023, n. 170.

[3] Per un commento, si rimanda a C. DELLA GIUSTINA, Per la Corte costituzionale i messaggi Whatsapp e di posta elettronica rientrano nella nozione di corrispondenza, in Cammino Diritto, 5/8/2023.

[4] J. REBEKAH, D.J.W. WISE, D. BHAVANI, P.A. REGINA, N. MUTHUKUMARAN, July. Dress code Surveillance Using Deep learning. In 2020 International Conference on Electronics and Sustainable Communication Systems (ICESC) (pp. 394-397).

[5] J.C. Hulbert, M.C. Anderson, The role of inhibition in learning, in S. Aaron, J. Benjamin, S. Belle, Human Learning, New York, 2008, 7 ss.; M. Zanichelli, Il diritto all’oblio tra privacy e identità digitale, in Informatica e Diritto, vol. XXV, 2016, 25.

[6] C. Della Giustina, P. de Gioia Carabellese, L’effettiva del diritto alla protezione dei dati personali (diritto all’oblio) nel mondo digitale, in Diritto di Internet, n. 4/2021, 601 ss.

[7] B.J. Koops, Technology and the Crime Society: Rethinking Legal Protection Law, in Innovation & Technology, 2009, 93 ss.; L.J. Bannon, Forgetting as a Feature, not a Bug: The Duality of Memory and Implications for Ubiquitous Computing, in CoDesign, 2006, 10 ss.

[8] G. Boccia Altieri, D. Borelli, Il senso dei tempi. Per una sociologia del presente, Milano,  2014, 164 ss.

[9] Cass. civ., sez. lavoro, 22 settembre 2021, n. 25731.

[10] Con audizione alla Camera alla dei Deputati del 14 settembre 2021, Assoinfluencer ha avanzato una proposta di riforma dell’art. 2094 c.c. per affiancare al lavoro intellettuale anche «la propria immagine e credibilità» come se oggetto di un contratto di lavoro subordinato possa essere anche la mera e semplice rappresentazione.

[11] Sul punto si rimanda a C. Della Giustina, P. de Gioia Carabellese, Employment and Platforms, viz. Self-employed versus workers, that is the question (or the irresolvable dilemma). Reflections about “Uber v. Aslam” of the UK Supreme Court, in Diritto e Politica dei Trasporti, n. 1/2022, 16 ss.; P. de Gioia Carabellese P., C. Della Giustina, The “Uber case” against the Background of the Gig-Economy: Dilemmas between Labour Law and Techno Law, in Journal of Law, Market and Innovation, n. 2/2022, pp. 76 ss.; C. Della Giustina, P. de Gioia Carabellese, La gig-economy al vaglio delle Corti Britanniche: self-employed or workers?, in Il diritto del mercato del lavoro, n. 1/2022, pp. 143 ss.

[12] Definizione di Influencer Marketing dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 24 luglio 2017, v. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2017/7/alias-8853.

[13] Per un’analisi si rimanda a P. de Gioia Carabellese, C. Della Giustina, Diritto del lavoro e del techno business law. Dal law of master and servant britannico all’Industry 5.0. Un research textbook, Pacini, Pisa, 2023.

[14] M. Faioli, Mansioni e macchina intelligente, Torino, 2018.

[15] T. Cantelmi, Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecno liquida, Milano, 2013; E. Rocchini, Social Network e controlli a distanza. Alla ricerca di un difficile equilibrio, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, fasc. 1/2019, 143 ss.

[16] Sul punto Trib. Bergamo, ord. 24 dicembre 2015, in il giuslavorista, 11 gennaio 2016, con nota redazionale Immagini sconvenienti su facebook: la vita virtuale influisce sul rapporto di lavoro: «postare immagini su Facebook equivale, infatti, nella buona sostanza ad inviarle alle persone del proprio circolo di amicizie. La facilità di accesso alle caselle dei colleghi e degli amici, quando anche non sia stata chiesta o concessa una preventiva amicizia, è oramai un fatto notorio».

[17] M. Bombelli, R. Giordano, R. Lanzo, Diritto di Facebook. Viaggio nella giurisprudenza italiana per scoprire come i nostri giudici affrontano le problematiche legate al popolarissimo social network, Milano, 2018.

[18] Il riferimento va al caso del dipendente in congedo per «stress» e licenziato a seguito della pubblicazione sul proprio «social network» di una immagine che lo ritraeva a un concerto, oppure il caso di un dipendente che aveva prodotto un certificato riportante un problema di sciatalgia e che si era esibito in piedi a un concerto di fisarmonica dopo aver affrontato un viaggio di chilometri al fine di raggiungere il luogo dello spettacolo. Cass. civ. sez, lavoro, 13 marzo 2018, n. 6047.

[19] Una sentenza della Corte di Cassazione ha sottolineato il rapporto che intercorre tra le disposizioni appena menzionate. A tal proposito, «le norme poste dagli art. 2 e 3 l. 20 maggio 1970 n. 300 a tutela della libertà e dignità del lavoratore, delimitando la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, con specifiche attribuzioni nell'ambito dell'azienda (rispettivamente con poteri di polizia giudiziaria a tutela del patrimonio aziendale e di controllo della prestazione lavorativa) non escludono il potere dell'imprenditore, ai sensi degli art. 2086 e 2014 c.c. di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all'art. 4 della stessa l. n. 300 del 1970, riferito esclusivamente all'uso di apparecchiature per il controllo a distanza». Cassazione civile sez. lav., 18 novembre 2010, n. 23303.

[20] La Suprema Corte ha puntualizzato che la buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa «trova fondamento anche nel dovere di esecuzione secondo buona fede, poiché il lavoratore non adempie i doveri nascenti dal contratto di lavoro mettendo formalmente a disposizione dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma è necessario e indispensabile che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro l'uso effettivo e proficuo di queste, il che si realizza anche mediante l'integrazione tra gli apporti dei singoli operatori nel contesto unitario della funzione e/o del servizio cui la prestazione lavorativa inerisce». Cassazione civile sez. lav., 26 settembre 2013, n.22076.

[21] Cass. civ, n. 17625 del 2014; Cass., n. 24812 del 2016; Cass., n. 21667 del 2017.

[22] Cass. pen., sez. I, 2 gennaio 2017, n. 50; Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431.

Ci si riferisce a quanto postato da un lavoratore sulla propria pagina personale «Facebook»: oggetto della pubblicazione erano delle foto in cui egli appariva con dei colleghi all’interno dei locali aziendali, in circostanza idonee a dimostrare l’inadempimento della prestazione lavorativa, con relativa didascalia offensiva nei confronti del datore di lavoro. Sebbene quest’ultimo non era stato nominato, egli venne ritenuto ugualmente identificabile quale destinatario delle espressioni oltraggiose da parte dei soggetti che avevano accesso al profilo medesimo. Trib. Milano, sez. lav., ord. 1 agosto 2014, P. Salazar, Facebook e rapporto di lavoro: quale confine per l’obbligo di fedeltà, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 2/2016, 201 ss.

[23] È noto che il principio di buona fede è assente nel diritto dei contratti inglese. Si tratta, dunque, di un’importante eccezione, al pari di quella esistente nel contratto di assicurazione marittima (Marine Insurance Act 1906). Per ogni più recente riferimento a detto principio, si rimanda P. de GIOIA CARABELLESE, “Utmost Good Faith” in Marine Insurance: Common Law and Civil Law (Divergences and Convergences) and an “IT Blue” Perspective, Business Law Series, Studium, Publisher, Rome, 2023,

[24] [1967] 1 W.L.R. 753.

[25] [1972] 1 W.L.R. 443 A. 

[26] Un ulteriore caso da richiamare è Sinclair v Neighbour [1967] 2 QB 279, un manager sottrasse £15 dalla cassa lasciando pero’ un biglietto, “IOU (I Owe You)”, chiaramente una sorta di promissory note, di nota di credito nella quale riconosceva il proprio credito. La sua intenzione era quella di sostituire questa promessa cartacea con denaro il giorno dopo. Fu statuito che il licenziamento era giusto, in quanto il suo comportamento era considerato disonesto.

[27] (1917) S.C. 203).

[28] [1946] Ch. 169.

[29] [2000] ICR1462.

[30] Si rimanda a Currie v Glasgow Central Stores (1905) 12 S.L.T. 651.

[31] [1986] I.C.R. 297.

[32] Fra le numerose sentenze britanniche, si fa riferimento a Bluebell Apparel v Dickinson (1980) S.L.T. 157; Spencer v Marchinson [1988] I.R.L.R. 393. Il tempo deve essere anche definite, in particolare non dovrebbe essere troppo lungo.

[33] TAR Milano, sez. III, 3 marzo 2016, n. 246, in Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 3/2017, 381 ss.

[34] F. Fameli, La rilevanza giuridica dell’utilizzo extralavorativo dei social network da parte del lavoratore, in Rivista italiana di informatica e diritto, fasc. 1/2019, 29.

[35] Cass. civ., sez, lavoro, 27 maggio 2015, n. 10955.

[36] Nel caso di specie, dinnanzi a ripetuti episodi riferibili alla prassi di un lavoratore di allontanarsi dalla propria prestazione lavorativa per effettuare una chiamata privata che aveva impedito di intervenire prontamente su un macchinario in stato di blocco, l’azienda aveva autorizzato il responsabile delle risorse umane alla creazione e al successivo utilizzo di un account falso sul «social network» al fine di intrattenere conversazioni con il dipendente. Il tutto, quindi, era finalizzato a verificare l’effettivo utilizzo del dispositivo mobile durante l’orario di lavoro.

[37] E. Dagnino, Controlli social dei lavoratori: un’interessante pronuncia della Cassazione, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 3/2015, 839.

[38] P. de Gioia Carabellese, C. Della Giustina, Diritto del lavoro e del techno business law. Dal law of master and servant britannico all’Industry 5.0. Un research textbook, Pisa, 2023.

[39] Il più diffuso codice di condotta è quello ACAS, ossia quello emanato della Advisory, Conciliation and Arbitration Service (o ACAS, che è l’acronimo con cui è meglio conosciuta), la maggior organizzazione di consulenza dei datori di lavoro. L’importanza di rispettare la procedura contenuta nei ‘Codes’ è stata riconosciuta in Polkey v A E Dayton Services [1988] ICR 142.

[40] P. de Gioia Carabellese, C. Della Giustina, Diritto del lavoro e del techno business law. Dal law of master and servant britannico all’Industry 5.0. Un research textbook, Pisa, 2023.

[41] In tema di impresa, si rimanda a P. de Gioia Carabellese, C. Della Giustina, Il Research textbook del diritto societario. Common law, metaverso e sostenibiltà, Bari, 2023.

[42] P. de Gioia Carabellese, C. Della Giustina, Diritto del lavoro e del techno business law. Dal law of master and servant britannico all’Industry 5.0. Un research textbook, Pisa, 2023.

[43] Da una prospettiva pubblicistica, si rimanda a C. Della Giustina, Soft law e crisi del sistema delle fonti, in Gazzetta Forense, n. 1/2020, pp. 116 ss.

[44] Corte costituzionale, 9 maggio 2013, n. 85.

[45] C. DELLA GIUSTINA, La videosorveglianza “reale” del lavoratore approda alla Corte Edu. Il caso Affaire florindo de almeida vasconcelos gramaxo c. Portugal, in Nomos. Le attualità nel diritto, fasc. 1/2023.

[46] Corte Edu, sez. X, ricorso n. 35786/2019, 15 giugno 2019.

[47] Venne evidenziato come non solamente la ricorrente avesse messo ‘like’ a un post che non aveva riscosso popolarità sulla piattaforma. 

[48] C. VALENTI, I confini tra libertà di espressine e obbligo di diligenza nell’era dei social network, in Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza, n. 3/2021.