Pubbl. Mar, 5 Dic 2023
Un primo sguardo critico alla riforma Casellati: il premierato
Modifica pagina
Leonardo Mangini
Il Governo Meloni presenta l´introduzione del c.d. “premierato”, andando a modificare, con un apposito Disegno di Legge, appena quattro articoli della Costituzione.
A first critical sight at the Casellati´s reform: the premiership
The Italian Government of Giorgia Meloni presents the introduction of the so-called “premierato”, which modify, with a specific Disegno di Legge, just four articles of the Costituzione.Sommario: 1. Il premierato: un'alternativa al presidenzialismo; 2. I proclami sulla “stabilità”; 3. La fine dei partiti?; 4. Un ddl da rivedere; 5. Conclusioni.
1. Il premierato: un'alternativa al presidenzialismo
Uno degli obiettivi mai celati della coalizione di centro-destra, già prima di ottenere la maggioranza parlamentare nel settembre 2022, era quello di riformare la Costituzione, concentrandosi sulla modifica dei poteri e delle modalità di elezione relative al Presidente della Repubblica, con l'introduzione – per l'appunto – del c.d. “presidenzialismo"1.
Tuttavia l'idea, portata principalmente avanti da Fratelli d'Italia, finì mestamente in archivio nel maggio del 20222. L'esito favorevole delle successive elezioni politiche ha permesso però al partito rappresentato da Giorgia Meloni di rilanciare la posta, come da programma di campagna elettorale, prevedendo un apposito dicastero per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa, capeggiato dalla ex Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.
Dopo poco più di un anno dall'insediamento, ma in linea con gli intenti riformisti della corrente filogovernativa, si materializza quindi un progetto apparentemente più soft rispetto a quello originario (ambizioso e forse utopistico) del presidenzialismo.
In base al ddl Casellati, rubricato “Introduzione dell'elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia” (e definito dagli stessi proponenti, come si vedrà non a caso, “anti-ribaltone”), sono appena quattro gli articoli della Costituzione coinvolti nella revisione: 59, 88, 92, 943.
L'abolizione del secondo comma dell'art. 59 della Costituzione toglie la facoltà, al Presidente della Repubblica, di nominare i senatori a vita «che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»4. Rimarrebbero in carica (oltre a coloro ancora in vita; gli ultimi di nomina presidenziale se dovesse diventare definitiva la proposta Casellati)5 solo quelli “di diritto”, ossia i Presidenti della Repubblica emeriti.
Ricordando che gli stessi non sono vincolati da mandato, non essendo eletti e venendo scelti discrezionalmente dal Capo dello Stato in base ai predetti e tassativi criteri, tante sono state le critiche rivolte alla loro figura istituzionale6. La loro peculiarità, seppure supposta, fa presumere una loro probità; un possesso insindacabile della “dignità morale” ripresa dalla Dottrina.
La cancellazione di siffatte figure, quindi, da un lato provocherebbe una carenza di donne e uomini di spessore e cultura all'interno delle istituzioni; dall'altro non parteciperebbero più ai lavori persone che non nascono e crescono con l'intenzione di occuparsi della res publica e che potrebbero essere dispregiativamente identificate come membri del “partito del Presidente”.
Poco, invece, per amor di logica e continuità, si può opporre all'abrogazione della possibilità, a carico del Presidente della Repubblica, di sciogliere anche una sola delle Camere ex art. 88 Cost.7: si tratta di una norma desueta e rimasta dormiente (inizialmente il Senato veniva votato ogni sei anni, prima della parificazione a cinque con la Camera dei Deputati)8, ma mai variata nonostante le molteplici modifiche di rango costituzionale seguitesi negli anni.
2. I proclami sulla “stabilità”
La modifica degli articoli 92 e 94 Cost. è, ovviamente, quella principale della riforma Casellati, definita non casualmente “premierato” da parte delle cronache.
La ratio della riforma è ben sintetizzata nella nota del Governo: «rafforzare la stabilità, consentendo l'attuazione di indirizzi politici di medio-lungo periodo; consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione; favorire la coesione degli schieramenti elettorali; evitare il transfughismo e il trasformismo parlamentare»9.
In effetti, in prima lettura ancora embrionale – il testo, lapalissiano ricordarlo, è ancora suscettibile di emendamenti e modifiche in fase di discussione – gli intenti sembrano esattamente rispecchiati nelle formule adottate dal Legislatore.
Secondo la possibile nova, il Presidente del Consiglio viene eletto dal popolo a suffragio universale e diretto, verosimilmente scelto tra i capilista dei singoli partiti nel corso del rinnovo del Parlamento (i perdenti, dunque, saranno deputati o senatori a seconda del collegio in cui sono candidati) e rimane in carica per cinque anni10.
Interessante è ciò che potrebbe accadere nel caso in cui cessasse il mandato del Presidente del Consiglio: qualora dimissionario, verrebbe incaricato nuovamente dal Presidente della Repubblica al fine di formare una nuova squadra; ovvero (ad esempio, in caso di morte prematura) riceverebbe mandato un successore, collegato strettamente al primo eletto, dunque capace di proseguire l'indirizzo politico e gli impegni programmatici del predecessore11.
Viene previsto, altresì, un premio di maggioranza a favore della coalizione vincente (rectius: «liste collegate al Presidente del Consiglio eletto») che coprirebbe il 55% del Parlamento, onde evitare quanto avvenne nelle elezioni del 201812 e, nel contempo, garantire una certa stabilità utile ad attuare il programma di un dato raggruppamento. Lo scopo, neppure troppo celato, è (provare a) limitare i cosiddetti cambi di casacca13.
Il redattore delle nuove norme con questi accorgimenti ha codificato, sebbene implicitamente, il tanto ricercato “vincolo di mandato”, rendendo in apparenza più duro lo scoglio della mozione di fiducia. Se la prima squadra presentata alle Camere dopo 10 giorni dalla sua formazione non dovesse ottenere il favor, il Presidente del Consiglio eletto potrà proporne un'altra ex novo. Qualora bocciata anche in seconda istanza, la squadra decade e il Parlamento viene sciolto. Logicamente, la sfiducia sarebbe una condizione quasi irreversibile, contrariamente a quanto avviene oggi con la possibilità di dialoghi e rimpasti, pur di evitare possibili crisi.
Lo si evince immediatamente dalla nuova formulazione: il Presidente della Repubblica, nonostante permanga nelle possibilità di sciogliere le Camere in ossequio all'ipotesi appena descritta, «conferisce incarico al» e non «nomina» più il Capo dell'Esecutivo. È la logica conseguenza del voto popolare che rende l'inquilino del Quirinale mero esecutore di un formalismo che, tra l'altro, taglia la prassi del giro di consultazioni. Sarebbe, infatti, già acclarato e pacifico il nome di chi siederà al vertice di Palazzo Chigi.
Più concretamente, però, questo è proprio quanto accaduto negli ultimi trent'anni. Da quando è sorta la consuetudine di associare il nominativo del maggior rappresentante ad ogni singola lista, è proprio la persona che prende il sopravvento sul partito; quest'ultimo potenzialmente privato della propria identità a favore di quella del momentaneo leader.
3. La fine dei partiti?
Certamente è lampante che il progetto voluto dal centro-destra sia improntato sulla ricerca assoluta della «stabilità». L'intento è di evitare possibili nomine tecniche, rimanendo nell'ambito delle scelte dei partiti che hanno ottenuto - a prescindere da calcoli e dinamiche esogene ed endogene - una fiducia popolare.
Situazione, questa, che in futuro potrebbe essere utile per qualsiasi coalizione e mette pertanto in evidenza una forte problematica. Più che la lista in sé, conterebbe più il principale esponente della stessa al fine elettorale (scelto, comunque in via preliminare, all'interno delle segreterie prima di essere portato all'attenzione del popolo sovrano).
Tale circostanza è forse il vulnus principale del Disegno: l'ideologia, su cui si basa la definizione di politica in senso stretto, finirebbe inevitabilmente in secondo piano. «L'indirizzo politico» e «gli impegni programmatici» citati nell'articolo 94 riformato (e che sono, in realtà, alla base del ddl) sarebbero quelli della persona più che del collettivo.
Non può escludersi l'ipotesi secondo cui il Parlamento possa essere soggetto ad un Capo dell'Esecutivo alquanto plenipotenziario; o comunque ad una sorta di timore reverenziale verso quest'ultimo. Di conseguenza, è difficile immaginare decise espressioni di sfiducia, a dispetto di quanto previsto al novellato terzo comma del sopra citato articolo.
Se ne deduce che uno dei limiti del ddl Casellati è ciò che emerge nell'analisi più immediata e superficiale: è unilaterale e proviene da una sola parte partitica. Per quanto possa riguardare “appena” quattro articoli e i cambiamenti siano definiti in relazione minimali, logici ed in linea con la tradizione costituzionale14, sui piatti di una metaforica bilancia vengono posti da un lato la già sottolineata stabilità; dall'altro il mantenimento del pluralismo, nella sua forma più autentica.
La stabilità ottiene dunque la prevalenza a discapito della parimenti fondamentale presenza di maggioranze (reali) e opposizioni. Le medesime che hanno il diritto-dovere di incidere nella vita politica e non divenire sparring partner in ostaggio del Capo di Governo, tra l'altro avallato impotentemente (sic est) da un Presidente della Repubblica retrocesso passivamente al rango di yes man.
L'esatto contrario rispetto alle volontà dell'Assemblea Costituente, che sosteneva il confronto continuo e costante tra i poteri Legislativo ed Esecutivo15. Tanto meno vengono evidentemente «preservate al massimo grado le prerogative del Presidente della Repubblica», come invece esposto dai relatori nella glossa allegata al ddl16.
La formazione di un'apposita commissione, magari bicamerale come accaduto in passato e sicuramente allargata tra più schieramenti già ab origine, avrebbe contribuito a ricercare soluzioni sugli inevitabili "buchi” che si presentano e che potrebbero essere discussi solo in un secondo momento, con ulteriori rallentamenti dell'iter e scontrosi ostracismi nel corso dei lavori. Va da sé che il Legislatore, nella fattispecie, auspica testualmente che «gli interventi di revisione debbano limitarsi a quelli strettamente necessari al conseguimento degli obiettivi» poiché, nelle intenzioni, sono minime «le difficoltà applicative e i dubbi interpretativi»17.
4. Un ddl da rivedere
Un esempio che nega quest'ultimo assunto dei riformisti è dato dal preannunciato premio di maggioranza al 55%: esso garantirebbe, sì, la ridetta stabilità, ma non necessariamente una equilibrata proporzione tra le forze in campo, specie con un ipotetico risultato non bipartisan, come avvenne giustappunto nel 2018, e sempre al netto delle leggi elettorali (che devono necessariamente adeguarsi alla particolare soglia qualificata).
Al momento della presentazione del ddl, vige la c.d. Legge Rosato (o, secondo le cronache, Rosatellum), introdotta nel 201718. Quest'ultima ha sostituito l'Italicum19, dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con la rilevante Sentenza n. 35 dello stesso anno20, indicata peraltro analiticamente dal Legislatore del 202321. La Consulta, nella sua pronuncia, afferma che «al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati» non devono ostacolare in ogni caso «all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee». In altre parole, la Corte lamentava proprio un rischio di sproporzione tra gli schieramenti in caso di un bonus a favore di uno solo di essi.
Nel Rosatellum, infatti, sulla base di questa esperienza, non è previsto alcun premio di maggioranza. Ovviamente, per una regolare applicazione della nuova normativa costituzionale e per legittimare con ancora più forza la voluta stabilità, sarebbe indispensabile lo studio di un'ulteriore legge elettorale. Il Legislatore prospetta che l'incostituzionalità espressa nella Sentenza n. 35/2017 non coinvolga la riforma poiché si riferirebbe a legislazione ordinaria e dunque non estendibile a norme di rango costituzionale22. Pur battezzando come valida la dichiarazione dei redattori della nova, sarà comunque inevitabile non includere il bonus nella rivista legge (ordinaria) che regola il voto. Con conseguenti richiami alle massime di cui sopra e rinnovate diatribe fuori e dentro le Aule.
A margine, è bene ribadire che la Corte Costituzionale intende salvaguardare «il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare». Che, se dovesse entrare in vigore il ddl senza modifica alcuna, non esisterebbe più, sostituita da una forma di governo di espressione popolare: un'altra potenziale antinomia di cui si discuterebbe ampliamente.
Per quel che concerne il conferimento del mandato all'eventuale successore in itinere (e dunque non votato direttamente) del Presidente del Consiglio, un'ispirazione migliore poteva essere traslata dal sistema statunitense. Di regola, ad ogni candidato alla Presidenza della Repubblica USA viene affiancato già un vice che subentrerebbe di diritto al principale esponente qualora eletto (si ricorda, ad esempio, il caso di Lyndon B. Johnson dopo l'omicidio di John F. Kennedy nel 1963). Nel disegno di legge italiano è previsto che il Capo dello Stato possa conferire il mandato «a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto». Questo, però, non impedisce colpi di spugna o comportamenti opportunistici di papabili sostituti, soprattutto nell'ambito di coalizioni composte da più partiti. Un possibile controsenso, quando tra gli scopi dichiarati vi sono quelli di combattere il trasformismo e instillare la fiducia in un elettorato disaffezionato che tende al marcato astensionismo23.
5. Conclusioni
Al di là delle paventate buone intenzioni del Legislatore, secondo la presente e soggettiva analisi sinora esposta, il rischio di personalizzazione di un'elezione a danno delle ideologie e del confronto diretto tra parlamentari, non è poi così immaginario.
Una riforma di rango costituzionale è sempre delicata ed è meritevole di essere studiata contemporaneamente da più forze politiche presenti tra gli scranni. Solo con un utile compromesso si potrebbero scongiurare incongruenze o forzature di dubbia legittimità, come può essere l'insistente ricerca di una netta maggioranza (per mezzo della quota del 55%) pur di sostenere come un mantra il concetto di "stabilità". Peraltro relativo, se lo si applica al medio-lungo periodo previsto dal redattore della Legge e che dovrebbe assolutamente superare i cinque anni di Governo. Uno scenario plausibile ed esemplificativo: un Esecutivo di un dato schieramento potrebbe sovvertire, per ovvie ragioni, tutto quanto messo in atto nel quinquennio precedente da quello di una coalizione tendenzialmente avversaria.
Il decantato "indirizzo politico", in realtà, appartiene all'idea di un leader difficilmente sostituibile nel corso del suo mandato (se non solo tramite il raro caso di un subentro) e non di un partito o di una coalizione. Il potere Esecutivo, così formulato, diviene accentratore: non depaupera solo il rapporto – già di per sé minimo – che detiene con il Presidente della Repubblica, ma potrebbe inglobare l'intero potere Legislativo. Infine, il popolo verrebbe – anche in questo caso – nuovamente illuso di essere direttamente il sovrano dello Stato, poiché i nomi di papabili Presidenti del Consiglio saranno devoluti agli elettori solo in seguito a scelte strettamente interne dei singoli partiti. I quali, a loro volta, sacrificano ulteriormente la natura politica per nomi più di comodo, di facciata o di grido che di contenuti, di concretezza o di rappresentanza. Non proprio la migliore soluzione per sconfiggere il galoppante astensionismo.
1L. MANGINI. L'Italia da Repubblica Parlamentare a Presidenziale. Dibattito tra possibile cambiamento o pura demagogia in Cammino Diritto, n.7/2022, pp. 38-40.
2Articolo de La Repubblica dell'11 maggio 2022, a firma di Emanuele Lauria – Stop al Presidenzialismo: il flop della Legge Meloni. Lega-FI assenti decisivi.
3cfr. relazione del ddl, p. 3.
4cfr. art. 1 del ddl.
5cfr. art. 5 del ddl..
6F. PATERNITI. Riflessioni critiche sui senatori a vita di nomina presidenziale in Forum di Quaderni Costituzionali, 23/11/2006, pp. 6-7.
7cfr. art. 2 del ddl.
8cfr. art. 3, L. Cost. 9 febbraio 1963, n. 2
9Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 57 del 3 novembre 2023.
10cfr. art. 3 del ddl.
11cfr. art. 4 del ddl.
12Nell'occasione, la coalizione di centro-destra risultò la più suffragata (37% dei consensi); tuttavia il primo partito fu il MoVimento 5 Stelle (32,68%), non aderente a tale raggruppamento: ciò comportò la creazione di una nuova coalizione compromissoria tra Lega e M5S per la formazione di un Governo (il Conte I), destinato a cadere (con conseguente "ribaltone") nell'agosto 2019.
13cfr. art. 3 del ddl.
14cfr. relazione del ddl, p. 4.
15cfr. Relazione del Presidente della Commissione per il Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (M. RUINI) del 6 febbraio 1947, p. 12.
16cfr. relazione del ddl, p. 4.
17v. nota precedente.
18L. 3 novembre 2017, n. 165, mod. con D. Lgs. 23 dicembre 2020, n.177 (che ne ha modificato i collegi dopo la riduzione del numero di parlamentari sancita dal referendum costituzionale del settembre dello stesso anno).
19L. 6 maggio 2015, n. 62.
20Sent. Corte Cost. 25 gennaio 2017, n. 35.
21cfr. analisi tecnico-normativa (parte I, punto n. 9) del ddl, p. 9.
22v. nota precedente.
23cfr. relazione del ddl, p. 3.