ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Lun, 6 Nov 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Luci e ombre della giustizia riparativa, con particolare riferimento al contesto della violenza domestica

Modifica pagina

autori Rebecca Girani , Matilde Botto



Il contributo si concentra sull’analisi della giustizia riparativa, con specifico riferimento al contesto della violenza domestica. In primo luogo, si esamina la disciplina della restorative justice elaborata dalla Riforma Cartabia, in cui spicca la scelta del legislatore di prevedere la possibilità di accesso alla giustizia riparativa senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità. Successivamente, ci si sofferma sullo specifico contesto della violenza domestica, uno dei terreni più controversi per il ricorso ai programmi di restorative justice proprio per le stesse caratteristiche del fenomeno (quali, ad esempio, la ciclicità della violenza o i meccanismi di “assoggettamento” della vittima).


ENG

Lights and shades of restorative justice, and its controversial use in domestic violence context

The aim of this essay is a study around the highly controversial use of restorative justice approaches in cases of domestic violence. The first part of the paper provides an overview of the new Italian legislation on restorative justice (the so-called Riforma Cartabia). Then, in the second part of the essay, the attention will be focused on the specific context of domestic violence. Considering that victim-offender mediation (VOM) seems to be the main programme in the Italian legal-framework, it will be pointed out that main problems around that kind of restorative intervention are strictly connected to features of domestic violence phenomenon, especially in cases of intimate partner violence (i.e. cycle of violence and particular kind of relation between authors and victims).

Sommario:

PARTE I. 1. La giustizia riparativa in Italia; 2. Il consenso e la vocazione universale della giustizia riparativa; 3. I programmi di giustizia riparativa introdotti dalla Riforma Cartabia e l’importanza del linguaggio; 4. Il ruolo della vittima nei programmi di restorative justice; 5. Il mediatore: una figura di centrale importanza; 6. Cenni alle modifiche normative volte a garantire la complementarietà tra giustizia riparativa e giustizia tradizionale;

PARTE II. 1. Il concetto di «violenza domestica»; 2. Dalla «giustizia riparativa» all’estensione del suo paradigma alla violenza domestica: uno sguardo al contesto italiano; 3. La diversità di vedute in materia di compatibilità tra programmi riparativi e violenza domestica nell’ambito comparato ed internazionale; 4. Le sfide della restorative justice dinnanzi al polimorfismo e alla ciclicità della domestic violence: analisi degli argomenti contrari e favorevoli; 5. Conclusioni: l’imprescindibile valutazione del caso concreto.

PARTE I

1. La giustizia riparativa in Italia

La giustizia riparativa o restorative justice (RJ) è un modello di giustizia, emerso sul finire degli anni Settanta, che coinvolge l’autore del reato, la vittima e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo[1]. Essa consente di gestire il conflitto e ricomporlo[2], indirizzandolo verso una soluzione condivisa, valorizzando gli elementi costruttivi e gli stimoli positivi che derivano dal confronto tra posizioni contrapposte. Il metodo della giustizia riparativa si basa sul dialogo e sull’incontro: la parola scambiata e rivolta all’altro, la capacità di accogliere, la creazione di spazi protetti in cui ciascuna persona possa raccontare la propria storia, la possibilità di incoraggiare forme di riparazione materiali o simboliche[3].

In Italia, inizialmente, la giustizia riparativa si è fatta strada attraverso pertugi normativi e prassi sul territorio, come è accaduto in seno al procedimento a carico di imputati minorenni[4] e al procedimento per le competenze penali del giudice di pace[5].

Solo recentemente, con la legge 27 settembre 2021, n. 134[6], rubricata Delega al governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, si è registrato un momento di svolta. Infatti, con la suddetta legge delega, l’Italia – culturalmente distante dal modello riparativo – è stata chiamata a provvedere all’inserimento di una disciplina organica della restorative justice nel sistema penale, accogliendo le indicazioni contenute da tempo nelle fonti sovranazionali in materia[7].

Con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150[8], il legislatore delegato, in ossequio alla menzionata legge delega, ha adottato, nel rispetto di quei princìpi sanciti a livello sovranazionale, una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, criteri di accesso, garanzie, persone legittimate a partecipare, modalità di svolgimento dei programmi e valutazione dei suoi esiti, nell’interesse della vittima e dell’autore del reato.

Sin da subito appare opportuno segnalare che la disciplina organica della restorative justice introdotta dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, è entrata in vigore dopo un travagliato iter: prima l’art. 6 del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162, ha differito l’entrata in vigore dell’intera Riforma Cartabia al 30 dicembre 2022, poi l’art. 5 novies della legge 30 dicembre 2022, n. 199, che ha convertito in legge il summenzionato decreto legge, ha rinviato al 30 giugno 2023 l’attuazione delle sole disposizioni in materia di giustizia riparativa. In attesa dei decreti ministeriali, che specificheranno gli aspetti operativi della riforma, appare interessante analizzare l’impianto normativo della cosiddetta “giustizia senza spada”, al fine di valutare se la giustizia riparativa possa assumere un ruolo anche nella ricomposizione del conflitto che scaturisce dalla violenza domestica[9].

2. Il consenso e la vocazione universale della giustizia riparativa

In linea con le nozioni elaborate a livello sovranazionale, l’art. 42 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 definisce la giustizia riparativa come «ogni programma che consente alla vittima del reato, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore»[10].

La restorative justice è caratterizzata dalla partecipazione attiva e volontaria al percorso, a seguito di consenso libero e informato dei partecipanti, davanti a un terzo imparziale con l’obiettivo della risoluzione delle questioni derivanti dal reato. Come indicato dalle fonti sovranazionali[11], vi deve essere un approccio volontario e consapevole ai percorsi di giustizia riparativa. A tal proposito, l’art. 43 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 menziona tra i principi della giustizia riparativa la “partecipazione attiva e volontaria” e il “consenso alla partecipazione”. Quest’ultimo rappresenta la vera e propria cifra della giustizia riparativa e il suo coefficiente democratico, nonché il suo tratto distintivo rispetto al sistema penale coercitivo, punitivo e passivizzante. Ancora, l’art. 48, comma 1, specifica espressamente che «il consenso alla partecipazione ai programmi di giustizia riparativa è personale, libero, consapevole, informato ed espresso in forma scritta». Inoltre, esso è «sempre revocabile anche per fatti concludenti».

Nell’ottica del legislatore nazionale, al sussistere del consenso informato e della partecipazione volontaria delle persone interessate, la restorative justice può trovare applicazione in ogni ambito, per qualsiasi illecito, in ogni stato o grado del procedimento. Infatti, in linea con l’art. 1, comma 18, lett. c), della legge delega, l’art. 44 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 afferma che «i programmi di giustizia riparativa […] sono accessibili senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità» (comma 1) e che «si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l’esecuzione delle stesse e all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva del reato» (comma 2). Addirittura, «qualora si tratti di delitti perseguibili a querela, ai programmi […] si può accedere anche prima che la stessa sia stata proposta» (comma 3)[12].

Con riferimento al campo di applicazione, nella prassi, nel corso degli ultimi anni, la restorative justice è stata utilizzata principalmente in determinati ambiti: quello delle gravi violazioni dei diritti umani[13] e quello del terrorismo[14]. In realtà, il modello della giustizia riparativa – così come elaborato dalla Riforma Cartabia – ben si presta a trovare applicazione anche in altre tipologie di conflitti. L’enfasi sul ripristino del danno, sulla guarigione delle relazioni danneggiate, la sua ricerca delle radici del comportamento dannoso e il suo orientamento pro futuro consentono alla RJ di trovare ampio spazio di applicazione. Tuttavia, a parere di chi scrive, occorre ponderare la vocazione universale assunta dalla giustizia riparativa, valutando se davvero essa possa avere un ruolo anche nella ricomposizione dei conflitti sorti nell’ambito della violenza domestica. Rileggere questi ultimi attraverso la lente della restorative justice impone che l’interprete prenda consapevolezza di alcune caratteristiche di tale ambito. Come emergerà nella Parte II del presente contributo, tale contesto solleva questioni complesse e si ritiene che l’applicazione della giustizia riparativa debba essere oggetto di una più attenta riflessione.

3. I programmi di giustizia riparativa introdotti dalla Riforma Cartabia e l’importanza del linguaggio

Con il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, il legislatore fornisce un’elencazione – aperta e non tassativa – dei programmi di giustizia riparativa. In particolare, l’art. 53 afferma che «i programmi di giustizia riparativa si conformano ai principi europei e internazionali in materia e vengono svolti da almeno due mediatori con le garanzie previste dal presente decreto. Essi comprendono: a) la mediazione tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, anche estesa ai gruppi parentali, ovvero tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede; b) il dialogo riparativo; c) ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa».

Con riferimento alle norme sovranazionali, la Direttiva 2012/29/UE prevede che: «46. I servizi di giustizia riparativa, fra cui ad esempio la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi, possono essere di grande beneficio per le vittime, ma richiedono garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, l’intimidazione e le ritorsioni». Ancora, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8) afferma che: «II.4. La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l’autore dell’illecito e può includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell’illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite. Di qui in avanti i partecipanti ai percorsi di giustizia riparativa saranno indicati, ai fini di questa Raccomandazione, con le locuzioni “le parti”. 5. A seconda del paese in cui la giustizia riparativa viene utilizzata e al modo in cui è praticata, essa può essere denominata con i termini tra gli altri di mediazione reo-vittima, mediazione penale, restorative conferencing, family group conferencing, consigli commisurativi e circoli di conciliazione»[15]. Infine, i Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, elaborati dalle Nazioni Unite nel 2002 statuiscono che: «I.2. Restorative processes may include mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles; III.12. Member States should consider establishing guidelines and standards, with legislative authority when necessary, that govern the use of restorative justice programmes. Such guidelines and standards should respect the basic principles set forth in the present instrument and should address, inter alia: a) the conditions for the referral of cases to restorative justice programmes; b) the handling of cases following a restorative process; c) the qualifications, training and assessment of facilitators; d) the administration of restorative justice programmes; e) standards of competence and rules of conduct governing the operation of restorative justice programmes».

In Italia, il legislatore delegato, nel rispetto dei principi di fonte sovranazionale, ha identificato i modelli di giustizia riparativa all’art. 53 del decreto. Essi sono: la mediazione, tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, anche estesa ai gruppi parentali e anche con vittima aspecifica (o surrogata)[16]; il dialogo riparativo (restorative dialogue) (diretto o indiretto) tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima; ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa. Come anticipato, tale elenco non è tassativo, in modo da lasciare spazio all’operatività di altri programmi, visti la costante evoluzione e il progressivo affinamento dei metodi della giustizia riparativa[17].

Inoltre, tutti i programmi di giustizia riparativa sono svolti da almeno due mediatori, soggetti terzi, adeguatamente formati, indipendenti e imparziali[18].

Infine, essi sono a base dialogica e caratterizzati dall’ascolto attento e attivo, dalla parola che si fa dialogo, narrazione, validazione dei racconti, condivisione dei vissuti e delle memorie, elaborazione di emozioni e sentimenti[19]. Infatti, la giustizia riparativa è uno spazio di parola fondato sulla possibilità del recupero di una relazione con l’altro. Le dinamiche della giustizia riparativa sono veicolate da un linguaggio intrinsecamente empatico e funzionalmente cooperativo[20]. Proprio il linguaggio, che durante o dopo la commissione di un reato è stato veicolo di logiche di dominio, di sottomissione o di violenza, diventa nei programmi di giustizia riparativa il tramite di un gesto di rispetto e di riparazione[21]. Nella giustizia riparativa esso consente di instaurare una connessione tra autore e vittima[22], che è indispensabile per articolare un dialogo tra le parti e, quindi, per gestire il conflitto perché «uscire dal disaccordo implica una riconciliazione, un processo che avviene anche “dentro” le parti ma che è legato al processo comunicativo e dialogico»[23].

Posto che i programmi di giustizia riparativa riconoscono al linguaggio un ruolo centrale, ci si chiede se tali metodi possano essere utilizzati anche nella risoluzione dei conflitti scaturiti dalla violenza domestica. Infatti, nella domestic violence l’abusante utilizza proprio il linguaggio per annientare la vittima[24]. Dunque: si può curare un conflitto che nasce dalla violenza domestica con il linguaggio, se nella violenza domestica i primi segni di abuso sono proprio inseriti nel linguaggio? La questione è complessa anche perché il legislatore delegato – come si è avuto modo di evidenziare supra — ha scelto all’art. 53 del decreto di prevedere solo programmi declinati sul paradigma dell’incontro, della relazione dialogica tra le parti, modellata sull’archetipo della mediazione diretta, in cui la riparazione si fonda essenzialmente sul lavoro della parola e della possibile comprensione di quanto accaduto[25]. Dunque, a parere di chi scrive occorre assumere un atteggiamento prudente nell’utilizzo della giustizia riparativa nel contesto della violenza domestica al fine di evitare il rischio di vittimizzazione secondaria.

4. Il ruolo della vittima nei programmi di restorative justice

L’art. 42 del decreto definisce la “vittima del reato” tenendo conto di quanto disposto dall’art. 1, comma 18, lett. b), della legge delega, che a sua volta riproduce in toto l’articolo 2, comma 1, lett. a), alinea i) e ii) della Direttiva 2012/29/UE[26]. La definizione fa riferimento a «qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale» subito direttamente dal reato, allo scopo di ricomprendere ogni possibile effetto dannoso del reato stesso. La definizione di “vittima” non coincide esattamente con le figure note all’ordinamento nazionale: la persona offesa, il danneggiato dal reato, la parte civile. Dunque, la nozione di “vittima del reato”, per vincolo di delega, è applicabile solo nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa in materia penale.

Come anticipato nel precedente paragrafo, ai programmi di giustizia riparativa, nello specifico alla mediazione, può chiedere di partecipare o essere invitata anche la persona offesa di un reato diverso da quello per cui si procede o per cui si avvia il programma. Si tratta della “surrogate victim” presente nella letteratura internazionale ovvero, secondo la più opportuna locuzione in uso nella letteratura nazionale, della “vittima aspecifica” o “surrogata”, ossia colui che ha subito le conseguenze di un reato analogo ma diverso da quello per cui si procede[27]. A tal proposito, la Relazione illustrativa al decreto chiarisce che: «la vittima del reato differente non è un “sostituto” della vittima “diretta” e non è meno vittima di quest’ultima. Anche la vittima aspecifica, infatti, è vittima, ancorché vittima di un reato e non del reato. La possibilità di offrire la partecipazione a programmi di giustizia riparativa, sussistendone l’interesse, la volontà ed il consenso libero e informato, anche alla vittima di un reato diverso – magari della stessa specie di quello per cui in ipotesi si procede –, è uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale “convenzionale”: un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi di giustizia riparativa la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia penale “classica” non ha nulla da offrire»[28].

I programmi di giustizia riparativa rappresentano un’opportunità e una risorsa per le vittime di reato, che possono accedere a uno spazio protetto di ascolto in cui poter narrare la propria storia e vedere riconosciuta la propria esperienza di vittimizzazione. Lo storytelling, che consente la narrazione con un linguaggio comune ed emozionale, costituisce un punto cardine dei programmi di giustizia riparativa.

Come sottolineato dalle fonti sovranazionali[29], occorre da un lato garantire l’accesso «a servizi di giustizia ripartiva sicuri e competenti» e, dall’altro, evitare che l’accesso della vittima al programma di giustizia riparativa possa comportare il rischio di intimidazioni, ritorsioni, vittimizzazione ripetuta e vittimizzazione secondaria.

Con riferimento al primo punto, si rileva che nel decreto è assente qualsiasi forma di cooperazione tra i Centri di giustizia riparativa e i servizi di sostegno delle vittime[30]. Invece, nella prospettiva di una più completa tutela delle vittime, proprio la creazione di un sistema di cooperazioni strutturali tra uffici di mediazione e servizi di sostegno alle vittime avrebbe potuto garantire sia il supporto immediato di cui le vittime hanno bisogno sia una serie di informazioni inerenti, ad esempio, alla possibilità di accedere ai percorsi di restorative justice, soprattutto in un contesto come quello della violenza domestica, caratterizzato da un particolare squilibrio di potere[31].

Con riferimento al rischio di intimidazioni, ritorsioni, vittimizzazione ripetuta e vittimizzazione secondaria, al fine di minimizzare tali evenienze, appare fondamentale la figura del mediatore, che deve essere adeguatamente formato in modo da garantire il corretto svolgimento dei programmi di giustizia riparativa a tutela di chi vi partecipa.

5. Il mediatore: una figura di centrale importanza

Nella giustizia riparativa assume una fondamentale importanza la figura del mediatore. Quest’ultimo ha il compito di cogliere le infinite declinazioni delle esperienze individuali di coloro che sono coinvolti in un reato e di guidare gli eventuali incontri delle parti con indipendenza, imparzialità ed equi-prossimità rispetto ai partecipanti.

La Relazione illustrativa, allegata allo Schema di decreto, spiega che «l’equiprossimità del mediatore rispetto ai partecipanti si distingue dalla terzietà “equidistante” del giudice rispetto alle parti: come autorevolmente osservato, mentre il giudice è terzo in quanto “neutrale”, il mediatore è terzo in quanto sta “nel mezzo”, “né più alto né più basso”, bensì accanto a ogni partecipante. A fortiori la scelta operata in favore del termine “mediatore”, anziché “facilitatore”, trova qui una ulteriore conferma anche etimologica (med-ium, re-med-ium, med-iare)»[32].

Il mediatore ha il difficile compito di condurre gli incontri tra le parti, senza favorirne una, ma perseguendo lo scopo di tentare di ricomporre i punti di vista. Infatti, l’art. 43 del decreto, tra i principi generali e obiettivi della giustizia riparativa, menziona «l’equa considerazione dell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa». Tale disposizione è in linea con quanto specificato dalla Regola 15 della Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8)[33]. Secondo quanto riportato dalla Relazione illustrativa, tale previsione sarebbe conforme anche al principio di garanzia previsto dall’articolo 12, comma 1, lett. a), della Direttiva 2012/29/UE, in cui si afferma che «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base a considerazioni di sicurezza». Secondo la Relazione illustrativa, la disposizione – che sarebbe volta a disciplinare l’interesse della sola vittima del reato ratione materiae – dovrebbe essere riletta assumendo la prospettiva necessariamente plurale dei programmi di giustizia riparativa e dunque consentirebbe di prestare equa considerazione sia all’interesse della vittima sia all’interesse della persona indicata come autore dell’offesa[34]. In altre parole, l’art. 12 della Direttiva 2012/29/UE non segnerebbe un connotato funzionale della giustizia riparativa, ma piuttosto ne individuerebbe un limite modale: la giustizia riparativa non può dirsi servente soltanto l’interesse della vittima, con l’effetto di creare una sperequazione rispetto alla posizione dell’accusato, piuttosto, è a dirsi che la giustizia riparativa non può coinvolgere la vittima se questa non vi trova tutela dei propri interessi[35].

Con gli artt. 59 e ss. del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, il legislatore ha scelto di disegnare il percorso formativo del mediatore in modo specifico, consapevole del fatto che solo il mediatore adeguatamente formato è capace di garantire l’ascolto dei percorsi emotivi dei partecipanti, la rielaborazione di eventi traumatici, gli effetti pregiudizievoli causati dall’offesa, tenendo conto delle esigenze di tutti i partecipanti, mantenendo una posizione di equi-prossimità.

In particolare, la formazione del mediatore è iniziale e continua. Inoltre, si distingue la formazione teorica (che mira a far acquisire al mediatore le conoscenze su principi, teorie e metodi della giustizia riparativa, nozioni di diritto penale, processuale penale, penitenziario e minorile, criminologia, vittimologia) dalla formazione pratica (che è finalizzata a sviluppare la capacità di ascolto e di relazione e a fornire le competenze e le abilità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti con specifica attenzione alle vittime, ai minorenni e alle altre persone vulnerabili, in modo da rendere proficuo ogni incontro). La delicatezza del ruolo svolto dal mediatore impone che questa figura professionale sia dotata di competenze multidisciplinari e trasversali. Il mediatore non può improvvisare, ma deve essere in grado di approcciarsi in termini di ascolto e di equi-prossimità, accompagnando i partecipanti nel dialogo e aiutandoli a superare i momenti di ostilità ed emotività – anche decisamente intensi – sapendo intervenire o, al contrario, sapendo lasciare loro spazio[36].

Come emergerà nei successivi paragrafi, in determinati ambiti, come quello dei conflitti scaturiti dalla violenza domestica, la formazione del mediatore – in particolare delle sue non-technical skills – è fondamentale per consentire a tale figura di gestire gli incontri tra i partecipanti, evitando il rischio di vittimizzazione secondaria.

6. Cenni alle modifiche normative volte a garantire la complementarietà tra giustizia riparativa e giustizia tradizionale

Giunti al termine della breve ricognizione inerente all’impianto normativo della cosiddetta “giustizia senza spada”, appare opportuno ricordare che, alla luce della Riforma Cartabia, la giustizia riparativa si pone rispetto alla giustizia tradizionale in termini di complementarietà. Infatti, la restorative justice non può essere considerata un sistema autonomo, alternativo e separato dal sistema processuale penale poiché, in primo luogo, lo strumento riparativo presuppone come elemento centrale la volontarietà della scelta di un simile percorso. Come autorevolmente affermato, la restorative justice non può «assurgere a paradigma autonomo di soluzione dei conflitti aventi rilevanza penale perché laddove le parti non intendano partecipare ad alcun percorso di giustizia riparativa, il conflitto rimarrebbe irrisolto e il reato impunito»[37]. In secondo luogo, mentre il diritto penale definisce l’area del penalmente rilevante attraverso la previsione di precetti, orientando le scelte dei consociati e distinguendo i comportamenti che hanno una rilevanza penale da quelli che invece sono assolutamente leciti; la restorative justice non rappresenta un sistema di precetti, ma una modalità di gestione dei conflitti su base dialogica[38].

Al fine di garantire questa complementarietà tra la giustizia riparativa e la giustizia tradizionale, il legislatore delegato è intervenuto modificando il Codice penale, il Codice di procedura penale, la Legge sull’ordinamento penitenziario e il rito minorile.

Con riferimento al Codice penale, accanto alle modifiche degli artt. 62, 152 e 163 c.p.[39], per quanto interessa al fine del presente contributo, l’art. 131 bis è stato novellato ammettendo la possibilità di attribuire valore giuridico ai percorsi di giustizia riparativa e ai loro esiti in modo indiretto, senza conferirgli direttamente un autonomo effetto estintivo. In particolare, si prevede che i requisiti della particolare tenuità dell’offesa, cioè la «modalità della condotta» ed «esiguità del danno o del pericolo», siano valutati ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p. anche in «considerazione della condotta susseguente al reato», nel cui genus rientrano anche i programmi di restorative justice[40]. A ben vedere, tuttavia, la Riforma Cartabia ha esplicitamente escluso alcune fattispecie contemplate dalla Convenzione di Istanbul in materia di violenza contro le donne e di violenza domestica, che avrebbero potuto ricadere nel campo di applicazione dell’art. 131 bis c.p. e per i quali il legislatore ha voluto esplicitamente impedire l’operatività di meccanismi di esclusione della responsabilità penale.

Con riferimento alle modifiche al Codice di procedura penale, l’innesto del programma riparativo sul procedimento penale è disciplinato dall’art. 129 bis c.p.p., che stabilisce che l’Autorità Giudiziaria debba, su richiesta o anche di propria iniziativa, inviare i soggetti interessati al Centro per la giustizia riparativa di riferimento[41]. Ai sensi del comma 3 dell’anzidetta disposizione è previsto che: «l’invio degli interessati è disposto con ordinanza dal giudice che procede, sentite le parti, i difensori nominati e, se lo ritiene necessario, la vittima del reato di cui all’articolo 42, comma 1, lett. b), del decreto legislativo attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, qualora reputi che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti. Nel corso delle indagini preliminari provvede il pubblico ministero con decreto motivato».

Dunque, il programma riparativo deve essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto, non ci devono essere pericoli per gli interessati e non ci deve essere pregiudizio per il successivo accertamento dei fatti. Posto che in teoria la giustizia riparativa è caratterizzata da una vocazione universale, a ben vedere, nella pratica, il giudice procedente dovrà valutare alcuni elementi. In primo luogo, si dovrà verificare l’adeguatezza dello strumento (la mediazione, il dialogo riparativo e i programmi dialogici) in relazione a quei fatti. In secondo luogo, occorrerà valutare i “pericoli concreti per gli interessati”, ossia il rischio di violenza fisica e psicologica che può scaturire dal contatto tra le parti non adeguatamente calibrato e preparato. È qui che pare che l’Autorità Giudiziaria dovrebbe valutare in modo individualizzato, calandosi nei fatti concreti, il rischio di vittimizzazione secondaria in tutte le sue manifestazioni considerate dalla Direttiva 2012/29/UE. Tale valutazione, infatti, non potrebbe essere rimessa al successivo intervento del mediatore in quanto quest'ultimo dovrà essere equidistante rispetto a tutte le parti coinvolte. Infine, il giudice procedente dovrà valutare il “pericolo per l’accertamento dei fatti”, che, in linea con quanto affermato dalla Relazione, pare possa interpretarsi come il possibile condizionamento della funzione cognitiva del processo penale, causata dall’alterazione dell’eventuale prova dichiarativa processuale della vittima, condizionata dal confronto avuto con l’imputato durante gli incontri[42].

Pertanto, mentre in un primo momento l'Autorità Giudiziaria deve valutare l’ammissibilità del percorso riparativo alla luce dei criteri indicati dall’art. 129 bis, in un secondo momento, il mediatore, nella fase preparatoria del programma di giustizia riparativa, dovrà operare una propria valutazione sulla possibilità o meno di un percorso riparativo dopo aver conosciuto le parti e dopo aver ascoltato le loro narrazioni.

PARTE II

1. Il concetto di «violenza domestica»

Conclusa l’analisi generale della disciplina organica della giustizia riparativa in Italia, occorre ora comprendere se i programmi di restorative justice (RJ) possano in concreto trovare applicazione nella risoluzione dei conflitti sorti nell’ambito della violenza domestica.

Prima di procedere con l’indagine occorre sommariamente ricordare, da un lato, che il legislatore ha scelto di definire la restorative justice mediante un approccio “olistico” (o puro), poiché essa viene concepita come un insieme di programmi nei quali l’articolarsi della comunicazione tra autore e vittima è un elemento fondamentale[43]; dall’altro, che, come si è evidenziato (infra, § 3, Parte I), la mediazione autore-vittima (o, in inglese, victim-offender mediation, da cui deriva l’acronimo VOM) assume un rilievo centrale tra i programmi annoverati[44].

A partire, dunque, dai menzionati presupposti si ritiene necessario soffermarsi su che cosa si debba intendere con l’espressione «violenza domestica». A tal fine, l’art. 3, lett. b), della Convenzione di Istanbul del 2011[45] – considerabile la fonte principale adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa in materia di violenza domestica e di genere – chiarisce come siano da considerarsi di violenza domestica «tutti gli atti di violenza, fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima». La definizione convenzionale di «violenza domestica» si connota quindi per essere comprensiva non solo dei casi di “violenza di coppia” – ossia di quella che, in lingua inglese, viene definita intimate partner violence (IPV) – ma anche di altre forme di violenze infra-familiari, perpetrate su figli, parenti anziani o fratelli[46]. Rilevato che è possibile considerare la violenza domestica come una species del genus «violenza di genere»[47], guardando al sistema penale, le fattispecie che vengono ricondotte ad entrambi gli ambiti criminogeni, come recentemente ribadito all’interno della l. 19 luglio 2019, n. 69 (nota come di “Codice rosso”), sono, rispettivamente, i delitti di: maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); violenza sessuale, aggravata e di gruppo (artt. 609 bis, 609 ter e 609 octies c.p.); atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.); corruzione di minorenne (art. 609 quinquies c.p.); atti persecutori (art. 612 bis c.p.); diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612 ter c.p.); lesioni personali aggravate e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (artt. 582 e 583 quinquies, aggravati ai sensi dell’art. 576, comma 1, nn. 2, 5 e 5.1 e dell'art. 577, comma 1, n. 1 e comma 2).

Negli ultimi anni, il contrasto alla violenza domestica (che tradizionalmente si accompagna a quello riferito alla violenza di genere) è stato oggetto dell’attenzione sia del legislatore nazionale che di quello sovranazionale, come, peraltro, si evince già dal fatto che per la definizione della seconda si è richiamato un testo convenzionale adottato in seno al Consiglio d’Europa. A ben vedere, inoltre, anche nel contesto dell’Unione europea – pur in mancanza di uno specifico quadro giuridico sul tema – si è assistito al proliferare di documenti, contenenti importanti linee guida sul come intervenire per fronteggiare il fenomeno, le quali sono ancorate alla necessità sia di proteggere le vittime (sulla falsariga dell’approccio sostenuto nell’ambito della già citata Convenzione di Istanbul) sia di richiedere l’intervento della giustizia penale per contrastare la problematica[48].

Per quanto riguarda l’ordinamento interno, sono stati assai copiosi gli interventi legislativi in materia, i quali hanno visto un forte incremento dopo l’entrata in vigore della già più volte menzionata Convenzione[49]. Invero, dal 2013, con la l. 15 ottobre 2013, n. 119, la cosiddetta “legge sul femminicidio”[50] e, in seguito, con la ricezione della Dir. 2012/29/UE, ad opera del d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212[51], vi è stato un costante rafforzamento dei meccanismi a carattere protettivo nei confronti delle vittime “vulnerabili”[52]. Un corpus di interventi che, da ultimo, è stato arricchito tanto dalle norme contenute nel già menzionato “Codice rosso” quanto dalla stessa Riforma Cartabia[53].

Il trend che si è rafforzato a partire dalla c.d. legge sul femminicidio è sostanzialmente ruotato attorno alla volontà di offrire diritti, assistenza e protezione alle vittime “vulnerabili”, attraverso meccanismi di tutela processuale[54] che si vanno a sommare non solo a quelli penali delle misure di prevenzione[55], cautelari (in particolare, le misure di cui agli artt. 282 bis[56] e 282 ter[57]) e precautelari (come l’384 bis c.p.p.[58]), ma anche a strumenti amministrativi (si pensi all’ammonimento del questore[59]) fino ad arrivare a interventi a carattere civilistico (quali gli ordini di protezione ex artt. 342 bis e 342 ter c.c.). Sul versante prettamente penalistico, tale tendenza si riflette, inoltre, dal punto di vista sostanziale, nella scelta di innalzare il rigore sanzionatorio delle fattispecie generalmente richiamate in tali settori criminologici, a cui si è aggiunta quella di disporre l’introduzione di nuove ipotesi delittuose, volte a dare risposte ad hoc per specifiche condotte ricorrenti nell’ambito degli episodi della violenza domestica e/o di genere[60]. Si tratta di un insieme di interventi che vedono intrecciarsi le misure afferenti alla punizione e alla valutazione della pericolosità dell’autore a quelle relative alla sfera della protezione delle vittime di violenza[61]. Tuttavia, come recentemente osservato in dottrina, nei numerosi interventi legislativi dall’andamento che si è detto principalmente “protettivo” nei riguardi delle vittime, il tema della prevenzione sia ex ante che ex post delictum risulta aver trovato uno spazio piuttosto circoscritto; tanto con riferimento alle persone offese, quanto nei confronti degli autori, atteso che l’attenzione riservata alla rieducazione del singolo, anche in un’ottica preventiva, è un profilo che risulta essere stato trattato in via piuttosto residuale[62].

2. Dalla «giustizia riparativa» all’estensione del suo paradigma alla violenza domestica: uno sguardo al contesto italiano

Come anticipato nella prima parte del presente contributo, alla luce della Riforma Cartabia, la giustizia riparativa assume vocazione universale. È quindi pensabile che non vi siano limiti all’applicazione dei programmi previsti anche nell’ambito della violenza di genere e, per quanto attiene alla riflessione attuale, in quello della violenza domestica[63].

A favore dell’ingresso della giustizia riparativa nell’ambito dei procedimenti per violenza domestica, si evidenzia che sarebbe proprio la «cultura riparativa»[64] a costituire una possibile svolta. Il rilievo viene effettuato prendendo atto delle “inefficienze”[65] nel contrasto all’anzidetta problematica – che continuano a persistere, nonostante i plurimi interventi in materia, susseguitisi nel corso del tempo –, le quali sono derivanti tanto dalla sussistenza di importanti cifre oscure e di difficoltà nel riconoscere la violenza[66], quanto dagli alti tassi di recidiva[67]. Gli esiti positivi, inoltre, deriverebbero dal fatto che, diversamente rispetto al contesto processuale tradizionale, nei percorsi dialogici non ha luogo la “spersonalizzazione della vittima”[68] né tantomeno la “rigida contrapposizione tra le parti”, che caratterizza, invece, il primo ambito in questione[69] e risulta essere acuita atteso che, soventemente, nei casi di domestic violence, le dichiarazioni della persona offesa hanno un ruolo determinante[70]. Si evidenza, infatti, che la persona offesa, nel programma riparativo, “riacquisisce” la propria soggettività, potendosi avvalere della possibilità di narrare e descrivere la sua percezione dell’offesa, in un contesto in cui il suo racconto è “ascoltato” e non “giudicato” e nel quale l’autore non si trova ad assumere gli atteggiamenti “difensivi” che sono interconnessi al processo. D’altro canto, il sistema penale-retributivo (classico), per sua stessa natura, è volto ad assicurare la condanna all’autore piuttosto che a riconoscere il danno subito dalle vittime e ad affrontarlo (assistendole durante e dopo la fase processuale)[71].

“Insoddisfazione delle vittime”[72], quindi, e “crisi del mito della rieducazione”, legata all’alto tasso di recidiva[73], sono elementi che potrebbero spingere nel senso di incentivare l’impiego di programmi di restorative justice per far fronte alla violenza domestica, incoraggiando l’abbandono di una prospettiva “castigo-centrica” (incentrata sull’autore) a favore di una “dialogico-riparativa”, basata sull’incontro e la riconciliazione tra le parti. Il tutto sempre tenendo fermo che quello che si prospetta, nell’ottica della Riforma Cartabia, non è la predisposizione della restorative justice come modello alternativo e autonomo rispetto alla giustizia retributiva (o vendicatoria), ma come complementare ad essa[74]. Di conseguenza, a ben vedere, il paradigma di giustizia riparativa introdotto interagisce con la giustizia penale tradizionale finalizzata alla rieducazione[75].

L’impiego dei programmi di giustizia riparativa nel contesto in esame è, tuttavia, un tema fortemente dibattuto posto che non mancano le voci che sostengono potrebbe comportare la “privatizzazione” di una problematica, quella degli abusi infra-familiari, rispetto alla quale solo relativamente di recente si è riconosciuta una valenza pubblica e criminale[76]. Inoltre, ad avviso dei sostenitori delle posizioni maggiormente intransigenti, gli approcci dialogico-riparativi, come si avrà modo di specificare nel discorso a seguire, potrebbero avere ripercussioni negative sulla stessa vittima, la quale correrebbe il pericolo di una sorta di “ri-vittimizzazione” oltre ad essere esposta a rischi di nuovi abusi, specialmente sul piano emotivo, a causa del contatto con l’autore delle violenze[77].

3. La diversità di vedute in materia di compatibilità tra programmi riparativi e violenza domestica nell’ambito comparato ed internazionale

L’impiego di programmi di restorative justice nel peculiare contesto della violenza domestica è giudicato come “controverso”[78] innanzitutto nelle fonti internazionali che si occupano del tema, nelle quali sono annoverate linee guida che, seppur non vincolanti, costituiscono importanti riferimenti per i legislatori nazionali. Nell’onusiano Handbook on Restorative Justice Programmes, infatti, si evidenzia come a fianco alle voci di coloro che ritengono che, nei casi di violenza domestica, sarebbe auspicabile un’applicazione dei programmi di giustizia riparativa, altri rilevino che, al contrario, un approccio di tipo riparativo potrebbe comportare una “ri-vittimizzazione” delle donne (vittime) e portare al rischio di non riconoscere adeguatamente il disvalore del comportamento dell’autore[79]. Si tratta di impostazioni che trovano spazio, storicamente, anche nelle posizioni assunte da taluni teorici della giustizia riparativa, atteso che ad avviso di parte di essi si tratterebbe addirittura di un mezzo improponibile e rischioso nell’ambito in esame[80]. Un atteggiamento di assoluta chiusura viene analogamente caldeggiato nell’Handbook for Legislation on Violence Against Women[81], dove si postula un divieto di mediazione – sia prima che durante il procedimento legale – nei casi di violenza contro le donne, in quanto proprio la prospettiva “paritaria” in cui si trovano a muoversi le parti nell’ottica dialogico-riparativa viene vista come portatrice del rischio di “equiparare” la loro responsabilità nella violenza e, conseguentemente, ridurre la portata di quella dell’autore. Le resistenze presenti nei documenti onusiani si riflettono, con riferimento all’area europea, nella scelta, fatta propria da alcuni Paesi, di prevedere un divieto nella legislazione nazionale[82]: come, ad esempio, è avvenuto in Spagna nel 2004[83]. In altri contesti – si pensi alla Germania, all'Austria e all'Estonia[84] –, tuttavia, si è invece scelto di favorire l’ingresso della restorative justice anche nell’ambito in esame.

Per quanto concerne il quadro sovranazionale è necessario ricordare che la Convenzione di Istanbul prevede all’art. 48 la c.d. «prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes and sentencing», in virtù della quale è fatto divieto agli Stati firmatari di obbligare le parti ad accedere ad una risoluzione alternativa delle controversie che hanno ad oggetto i reati (violenti) concernenti i diritti tutelati dal testo convenzionale; tuttavia, non si nega la possibilità di prevedere che le parti possano scegliere volontariamente di intraprendere tali percorsi[85]. La scelta del percorso deve dunque essere volontaria e, dal punto di vista del legislatore interno, avendo riguardo delle restanti disposizioni convenzionali, si desume che, laddove sia prevista la possibilità di accedere a meccanismi che rientrano in quelli a cui fa riferimento la norma, è auspicabile che ciò avvenga non solo tenendo conto dell’interesse della vittima, ma anche della sua vulnerabilità. In concreto sarà necessario valutare se e come articolare le procedure considerando parametri che non solo si leghino a dati oggettivi (quali la gravità del reato), ma che guardino anche ad elementi soggettivi come la condizione del soggetto passivo (e l’entità del trauma da questo subìto) o il suo rapporto con l’autore della condotta penalmente rilevante[86]. D’altra parte, è sempre il legislatore sovranazionale, stavolta europeo, che pur non manifestando una chiusura totale riguardo all’impiego delle forme di giustizia riparativa nell’ambito in esame, sottolinea la necessità di un grado di attenzione elevato laddove si faccia ricorso a tali programmi. Come anticipato nella Parte I del presente contributo, all’art. 46, Dir. 2012/29/UE, infatti, è espressamente evidenziato che proprio la mediazione autore-vittima (così come il dialogo esteso ai gruppi parentali e ai consigli commisurativi) possono essere di grande beneficio per le persone offese, ma richiedono particolare attenzione affinché siano evitati rischi di «vittimizzazione secondaria e ripetuta, intimidazione e ritorsioni»[87]: pur lasciando ampio margine di discrezionalità agli Stati membri, il legislatore europeo dispone che questi debbano agire nell’interesse preminente delle vittime. Si tratta di pericoli che si accentuano vista l’alta sensibilità del contesto, poiché quando si affrontano casi di violenza domestica ci si trova al cospetto di situazioni dove i comportamenti dell’autore sono soventemente orientati al “controllo” della vittima, la quale è posta in uno stato di paura e/o sottomissione, che le impedisce di reagire attivamente e sottrarsi alla violenza[88].

4. Le sfide della restorative justice dinnanzi al polimorfismo e alla ciclicità della domestic violence: analisi degli argomenti contrari e favorevoli

La necessità di comprendere a fondo quali siano le radici del dibattito che accompagna l’impiego dei programmi riparativi nell’ambito della violenza domestica impone di analizzare le peculiarità delle dinamiche che la caratterizzano. Oltre alla molteplicità delle forme di manifestazione della violenza che possono essere assunte allorquando questa sia perpetrata in ambito domestico – da quella fisica, sessuale e psicologica, sino a quella economica – il suo carattere tipico è la ciclicità o circolarità del fenomeno[89]. I vari meccanismi di “assoggettamento” ad opera dell’autore (partner o ex partner, se parliamo di IPV), infatti, si ripetono nel tempo e alla gradualità dei comportamenti violenti si unisce l’intermittenza degli stessi; un “ciclo” in cui la persona offesa viene ad essere “immessa”[90], senza che da ciò derivi automaticamente una realizzazione da parte sua del proprio status di vittima.

Il susseguirsi dei comportamenti vessatori si caratterizza altresì per la presenza di “intervalli”, ossia periodi di apparente normalità, dove è frequente che si verifichino “falsi pentimenti” o atteggiamenti caratterizzati da promesse da parte dell’autore: si tratta di fasi della stessa violenza, in quanto la loro presenza incide fortemente sul piano dell’incapacità di reazione della vittima. Le fasi appena accennate vengono descritte come segue[91]: (a) una fase di accumulo della tensione, (b) una fase di attacco o di violenza acuta e (c) una fase di falsa riappacificazione, all’interno della quale si distingue il già richiamato periodo di apparente pentimento, a cui fa seguito una temporanea riconciliazione, che spesso viene indicata con l’espressione «luna di miele». Come si anticipava poc’anzi, le fasi di “riappacificazione” e di “pentimento” sono individuate come centrali per la (ulteriore) perdita di indipendenza psichica da parte della donna[92]. Da un punto di vista psicologico, tra autore e vittima, la manifestazione di violenza nell’ambito di una relazione affettiva può comportare l’ingenerarsi di un «legame traumatico»[93], che altro non è se non la «risposta emotiva» della persona che subisce la violenza ad un rapporto caratterizzato da un lato da uno squilibrio di potere e, dall’altro, dalla presenza di comportamenti vessatori e di abuso che si alternano ad atteggiamenti affettuosi e indulgenti[94]. Il legame traumatico implica, inoltre, una forma di adattamento della vittima alla situazione: spesso, infatti, le persone offese assumono un atteggiamento di “accettazione” della propria condizione. Si tratta di una sorta di automatismo che opera nel senso di ridurre le occasioni di scontro con il maltrattante, nella speranza di tutelare la propria incolumità. Non solo, si evidenzia, inoltre, che la vittima di violenza domestica soventemente sviluppa una “ambivalenza di sentimenti” nei confronti del maltrattante[95].

La ciclicità e lo squilibrio tra le parti sono indubbiamente gli elementi principali che sorreggono le posizioni critiche all’estensione dei programmi di restorative justice e, in particolare, della mediazione autore-vittima nell’ambito all’attenzione. Tuttavia, come ricordato nel paragrafo precedente, non solo a livello comparato esistono realtà dove l’ingresso della giustizia riparativa non è stato ostacolato, ma ha portato anche a risultati apprezzabili, implicando che, nonostante gli argomenti contrari, vi sia interesse a comprendere se e come possa essere definito un margine di applicabilità dei predetti percorsi[96].

Gli argomenti a sfavore si reggono sostanzialmente su una serie di constatazioni che concernono tanto la vittima quanto l’autore. Al centro della critica, infatti, vi è proprio la particolarità del rapporto tra i due protagonisti della vicenda e la peculiare conformazione del fenomeno criminogeno all’attenzione. Posto che la riuscita di un percorso di mediazione e, in generale, il corretto funzionamento di qualsiasi programma dialogico può avvenire solo tra due soggetti che si collocano in posizione paritaria, si osserva che l’utilizzo di questi istituti in contesti di squilibrio non fa che riproporre schemi “alterati”, finendo per far riemergere un contesto di sopraffazione[97]. Tendenzialmente si parla di un rischio per la safety (sicurezza) della vittima[98], che si lega al pericolo che l’offender possa – nonostante la presenza del mediatore – manipolare il percorso dialogico[99], “banalizzando” il vissuto della vittima[100] e, di fatto, creando una “ri-vittimizzazione” della persona offesa. Viene infatti evidenziato che si tratta di un fattore di rischio difficilmente controllabile quando si è dinnanzi a vittime che dopo anni di vessazioni hanno perso completamente (o quasi) la consapevolezza di sé (ossia di soggetti che hanno sviluppato la cosiddetta sindrome di impotenza appresa o disperazione appresa)[101].

In casi di questo tipo si sottolinea che se l’autore strumentalizzasse le sedute di confronto potrebbe orientarle verso una “colpevolizzazione” della vittima e operare il tentativo di attribuirle la responsabilità per quanto ha subìto. A ciò si somma il cosiddetto rischio da «double pressure» legato alla contingenza che la persona offesa possa vivere la “pressione” ulteriore di “dover” partecipare al procedimento di mediazione in modo attivo: un atteggiamento che potrebbe condurla anche ad “accettare” in via preliminare scuse[102] o pentimenti da parte del reo, anche se dubita della loro sincerità oppure senza che abbia acquisito un effettivo senso di sicurezza (si parla in proposito di «counterproductive intervention»)[103]. Infine, si ricorda la già accennata critica – estesa più in generale al ricorso alla restorative justice – concernente il rischio di (ri)privatizzazione della violenza domestica, che tuttavia sembra superabile in virtù del fatto che la giustizia riparativa non muove dall’idea di “sottrarre” il conflitto alla giurisdizione, ma piuttosto di proporre un meccanismo complementare.

A tali profili problematici, non mancano tuttavia le risposte da parte di coloro che vedono la possibilità dell’impiego dei programmi riparativi nell’ambito in esame, evidenziando come potrebbe configurarsi alla stregua di una strada da percorrere, potendo incidere sul piano dei “limiti di efficacia” del sistema tradizionale[104] e rilevata altresì la possibilità di focalizzare maggiormente l’attenzione sulle specifiche esigenze di giustizia della vittima, considerata la centralità dell’incontro e dell’ascolto.

In riferimento ai pericoli per la sicurezza della vittima si ribadisce infatti che, traducendosi in un elemento centrale nelle vicende all’attenzione, si tratta di un fattore che può essere controllato e considerato attraverso una serie di meccanismi, che andrebbero a combinarsi con il duplice ruolo ricoperto dal mediatore, il quale, si ricorda: (a) da una parte, deve comporre il dialogo e gestirlo (ruolo di composizione del conflitto); (b) dall’altra, comprendere se, in concreto, la via della mediazione sia concretamente esperibile. Una volta valutata la concreta mediabilità del caso[105], si rileva innanzitutto la possibilità di affiancare al programma suddetto la predisposizione di misure cautelari o di “gestione integrata del percorso”, laddove venga individuata le necessità, a latere degli incontri, che l’autore segua un determinato percorso terapeutico[106]; mentre, con riferimento alla più generale esigenza di “controllo” degli effetti, si sostiene la possibilità di operare un monitoraggio del rischio di recidiva. In merito a quelli che si sono definiti i pericoli di “banalizzazione” e “ri-vittimizzazione” nel corso della mediazione, invece, si evidenzia come si tratti di profili che potrebbero essere oggetto di una valutazione preliminare, afferente proprio alla mediabilità della vicenda specifica. Inoltre, anche sul fronte del pericolo che lo squilibrio tipico della violenza domestica possa “riproporsi” in sede di ricomposizione del conflitto si sottolinea che il ruolo del mediatore diventa fondamentale, atteso che tra i suoi compiti di gestione dell’incontro rientra anche quello di mantenere una condizione di imparzialità e terzietà dinnanzi ad episodi in cui si manifesti uno “squilibrio dialogico”. Di conseguenza, il rafforzamento della vittima (cosiddetto empowerment) risulta essere strettamente interconnesso al “corretto instaurarsi” del percorso dialogico e alla corretta gestione dello stesso da parte del mediatore[107].

Il tutto va necessariamente ad incanalarsi in quelli che sono i principi generali della giustizia riparativa, ossia (a) la volontarietà della scelta di intraprendere un programma[108] (da cui deriva, quindi, la possibilità di interromperlo in qualsiasi momento, art. 48, comma 1, d.lgs. 150/2022) e (b) la necessità di una formazione adeguata della figura del mediatore (spec. artt. 59 e 60)[109]. Se, per quanto riguarda il primo punto, la volontarietà (quindi la non obbligatorietà) è un principio che si ritrova nella disciplina organica recentemente introdotta in Italia, sul secondo profilo si rileva come la normativa in materia di formazione dei mediatori potrebbe richiedere profili peculiari per l’ambito in esame, essendo piuttosto auspicabile una formazione specifica[110] per coloro che diventeranno operatori nell’ambito della violenza domestica, proprio considerata la particolare sensibilità delle vicende all’attenzione e l’insieme dei meccanismi che caratterizzano la ciclicità della violenza. Il mediatore, infatti, dovrà essere in grado di “riconoscere” il tipo di abuso e di comprendere la dinamica relazionale che si è innestata tra le parti sia “prima” – ossia nella fase in cui dovrà essere decisa la “mediabilità” del caso – che “durante” il percorso, in modo da “riequilibrare” il dialogo e mantenere, nel corso di esso, la propria condizione di imparzialità.

A ben vedere, inoltre, in questi casi il monitoraggio attivo del percorso diviene un elemento particolarmente rilevante e dovrà contemplare anche una valutazione del rischio di recidiva; così come, dopo la conclusione dello stesso programma, lo è quello degli effetti nel tempo (il cosiddetto follow up, che si pone non solo a garanzia della vittima diretta, ma anche, laddove presenti, di quelle indirette, come ad esempio i figli), che dipende altresì dalla capacità di creare una rete integrata e operativa, nella quale siano coinvolti anche i servizi territoriali che operano a supporto dei soggetti interessati[111]. Una considerazione di tale tipo apre le porte ad una riflessione che attiene al campo del cosiddetto risk assesment[112] e risk managment, espressioni che afferiscono al complesso di interventi valutativi e protettivi finalizzati ad evitare che l’escalation della violenza possa condurre a conseguenze gravi o, addirittura, irreparabili[113]. Quello della valutazione del rischio è un nodo particolarmente problematico nella gestione delle vicende di violenza domestica da parte dell’ordinamento italiano: oltre a mancare una disciplina trasversale[114], le recenti condanne da parte di Strasburgo attestano come vi siano importanti deficit sul punto[115]. Posto che si tratta di metodi di “controllo” che agiscono in un’ottica preventiva, non è escluso che potrebbero avere una reale funzione strumentale anche nella valutazione sull’an e sul quomodo articolare un percorso di mediazione[116]; così come, successivamente, nella fase che si è detta essere di “monitoraggio”, una loro implementazione potrebbe rivelarsi funzionale, tenendo sempre fermo il fatto che, in ogni caso, non si tratterebbe di “generalizzare” e “standardizzare” aprioristicamente l’analisi del caso concreto, ma all’opposto di rafforzare i mezzi a disposizione degli operatori per condurla.

5. Conclusioni: l’imprescindibile valutazione del caso concreto

Se si è già avuto modo di evidenziare come la cautela e l’effettiva valutazione del caso concreto siano passaggi indispensabili, sembra che la possibilità di impiegare la mediazione autore-vittima, o altri programmi di stampo analogo, a fronte di episodi di violenza domestica, sia strettamente correlata alla necessità di avvalersi di professionisti ad altissima specializzazione, i quali siano portatori di competenze in grado, in primo luogo, di “fare emergere” la violenza, anche dinnanzi a persone offese “reticenti”, comprenderla (distinguendo, ad esempio il caso in cui si tratti di violenza “occasionale” da quello in cui sia “strutturale”, c.d. coercive control) e, poi, se la mediazione avrà luogo, di evitare che nel corso del dialogo possano verificarsi fenomeni di “ri-vittimizzazione” o addirittura di vittimizzazione secondaria[117]. La valutazione individuale, dunque, qui assume una rilevanza peculiare, atteso che laddove si manifesti la presenza di un conflitto fortemente asimmetrico, visto il pericolo di power imbalance, intraprendere percorsi di restorative justice potrebbe comportare alti profili di rischio[118]. La violenza domestica, infatti, non può essere considerata un fenomeno aprioristicamente “standardizzabile”, poiché al suo interno ricomprende storie specifiche, che si diversificano a seconda dell’intensità del livello della violenza, della frequenza degli episodi e delle peculiari dinamiche “interpersonali” e “strutturali” che sussistono[119]. Conoscere la vittima, da un lato, ma anche conoscere l’autore, dall’altro[120]. Il fatto che la restorative justice nasca da una prospettiva “vittimo-centrica”[121], non significa che la figura del reo debba essere scevra da qualsiasi valutazione: un approccio che, peraltro, risulta essere confermato dallo stesso legislatore nella Riforma Cartabia, il quale ha espressamente introdotto il principio di parità tra le parti, evidenziando così che la giustizia riparativa non deve articolarsi sulla base di un’attenzione esclusiva nei riguardi della vittima, ma considerare, appunto, anche l’autore. Pertanto, delineare un profilo chiaro del soggetto agente non solo è fondamentale per giungere a pieno alla realizzazione del principio rieducativo, ma anche per innestare il dialogo riparativo. D’altro canto, da alcuni studi afferenti ai risultati della victim-offender mediation nell’ambito della domestic violence, è emerso che sembra esserci una correlazione tra gli effetti positivi e la sussistenza, a monte, di una situazione in cui il cambiamento è già «under way», ossia vi è, in partenza, una predisposizione sia da parte dell’autore che della vittima ad intraprendere un percorso che sia volto ad assicurare la fine delle violenze[122].

Posto che – come evidenziato sin dai paragrafi introduttivi del presente scritto –  i principi generali della restorative justice nel peculiare contesto in esame si trovano a doversi confrontare con le sfide “del caso concreto”, a livello pratico-applicativo, da ciò non può che derivare l’esigenza di uno specifico livello di attenzione e sensibilità: si dovrà evitare la “minimizzazione” tanto della responsabilità quanto del danno inferto alla persona offesa, derivante non solo dalla violenza, ma anche dalla situazione di controllo a cui questa è stata assoggettata[123]. Emerge tra le righe, dunque, il profilo del cosiddetto «riconoscimento del fatto», su cui la disciplina organica introdotta con la Riforma Cartabia ha scelto di tacere, diversamente dal legislatore sovranazionale, il quale lo ha richiamato tanto nella Raccomandazione in materia di giustizia riparativa del Consiglio d’Europa del 2018[124], in cui si prevede, al par. 30, che in linea generale la partecipazione ai percorsi di giustizia riparativa dovrebbe avere come «punto di partenza […] il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda», quanto, ancor prima, nella Direttiva 2012/29/UE, dove si sancisce che, qualora la vittima decida di partecipare ad un programma di restorative justice, è onere dell’autore riconoscere i fatti essenziali del caso[125]. Invero, se in fase di avvio di un procedimento riparativo è auspicabile, ma non indispensabile, che l’autore riconosca i fatti, è tuttavia fondamentale prestare attenzione ai casi in cui l’autore «neghi la sussistenza stessa di fatti, in senso lato, o la sua partecipazione», poiché da ciò potrebbe derivare – specialmente in casi come quelli all’attenzione in cui ad essere coinvolta è la vittima diretta – un rischio di vittimizzazione per la stessa[126].

In conclusione, l’assenza di un divieto di restorative justice riferito al contesto in esame e, in particolare, – atteso il suo ruolo di prim’ordine tra i programmi – del ricorso alla mediazione autore-vittima non deve condurre a non considerare i profili critici che emergono e che si sono ripercorsi nel presente scritto, posto innanzitutto che, come si è argomentato, non tutti i casi di violenza domestica possono essere “mediabili”. Al contempo, laddove invece si paventino situazioni in cui la mediazione risulti esperibile, i profili di rischio evidenziati da coloro che si oppongono al suo ricorso possono costituire riferimenti per la sua conduzione in concreto, rilevato che da essi emergono gli elementi a cui sarà necessario prestare specifica attenzione nella gestione del procedimento, sia in itinere che con riguardo alla fase di monitoraggio successiva alla sua conclusione.


Note e riferimenti bibliografici

* La Dott.ssa Rebecca Girani è Assegnista di ricerca in Diritto penale presso l’Università di Bologna e Avvocato; la Dott.ssa Matilde Botto è Dottoranda di ricerca presso l’Università di Bologna. L’intero lavoro rappresenta il frutto della riflessione comune delle Autrici. Deve attribuirsi alla Dott.ssa Rebecca Girani la stesura della Parte I e alla Dott.ssa Matilde Botto la stesura della Parte II. Le conclusioni riflettono la posizione di entrambe le Autrici.

[1] H. ZEHR, Changing Lenses. A new Focus on Crime and Justice, Scottsdale, 1990.

[2] L’idea di ricomposizione è spiegata con profondità da A. CERETTI, Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo, Milano, 2020, 128 ss.

[3] G. MANNOZZI, R. MANCINI, La giustizia accogliente, Milano, 2022, 18. In generale, da tempo, la giustizia riparativa è terreno di studi da parte della dottrina penalistica italiana e la letteratura in materia è assai vasta. Ex multis, si vedano G. MANNOZZI, G.A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino, 2017; E. MATTEVI, Una giustizia più riparativa, Napoli, 2017; AA.VV., Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, a cura di A. Ceretti, G. Bertagna, C. Mazzucato, Milano, 2015; AA.VV., Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, a cura di G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, Bologna, 2015; F. REGGIO, Giustizia dialogica, Milano, 2010; C. MAZZUCATO, Consenso alle norme e prevenzione dei reati, Roma, 2005; M. BOUCHARD, G. MIEROLO, Offesa e riparazione, Milano, 2005; G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, Milano, 2003. Con riferimento al rapporto tra giustizia riparativa e pena, si vedano D. PULITANÒ, Riparazione e lotta per il diritto, in Sist. pen., 9 febbraio 2023; G. DE FRANCESCO, Uno sguardo d’insieme sulla giustizia riparativa, in Leg. Pen., 2 febbraio 2023; ID., Il silenzio e il dialogo. Dalla pena alla riparazione dell’illecito, in Leg. Pen., 1 giugno 2021; F. PALAZZO, Plaidoyer per la giustizia riparativa, in Leg. pen., 31 dicembre 2022; ID., Sanzione e riparazione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano: de lege lata e de lege ferenda, in Pol. Dir., 2017, 357 ss.; M. DONINI, Riparazione e pena da Anassimandro alla CGUE, in Sist. pen., 20 dicembre 2022; ID., Le due anime dalla riparazione come alternativa alla pena-castigo: riparazione prestazionale vs. riparazione interpersonale, in Cass. pen., 2022, 2027 ss.; R. BARTOLI, Una breve introduzione alla giustizia riparativa nell’ambito della giustizia punitiva, in Sist. pen., 29 novembre 2022; ID., Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2016, 96 ss.; O. DI GIOVINE, Delitto senza castigo? Il bisogno di pena tra motivazioni razionali ed istinti emotivi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021, 855 ss.; L. EUSEBI, La pena tra necessità di strategie preventive e nuovi modelli di risposta al reato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021, 823 ss.; G. FIANDACA, Note su punizione, riparazione e scienza penalistica, in Sist. pen., 28 novembre 2020; ID., Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari, 2017, 3 ss.

[4] A tal proposito si veda il Documento di Studio e di proposta dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza. La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento minorile, Roma, 2018. Si veda anche F. BELLOCCHIO, La mediazione penale minorile: uno strumento di risoluzione dei conflitti attraverso un percorso relazionale tra la vittima e l’autore del reato, in Riv. Cammino Diritto, 2/2022.

[5] Sul punto si vedano E. MATTEVI, Una giustizia più riparativa, cit., 259 ss. ed E. DOLCINI, Il paradosso della giustizia penale del giudice di pace. Non punire come scelta razionale, non punire per ineffettività della pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2020, 1223.

[6] Per un commento alla legge delega, si vedano M. BOUCHARD, Cura e giustizia dell’offesa ingiusta: riflessioni sulla riparazione, in Questione giustizia, 25 luglio 2022; A. PRESUTTI, Porte aperte al paradigma riparativo nella l. 27 settembre 2021, n. 134 di riforma della giustizia penale, in Sist. pen., 20 luglio 2022; F. PARISI, Giustizia riparativa e sistema penale. Considerazioni a partire dalla «legge Cartabia», in Foro it., 4/2022, 142 ss.; G. MANNOZZI, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, in Arch. pen., 31 maggio 2022; L. EUSEBI, Il cantiere lento della riforma in materia di sanzioni penali. Temi per una discussione, in Arch. pen., 28 marzo 2022; M. BOUCHARD, F. FIORENTIN, Sulla giustizia riparativa, in Questione giustizia, 23 novembre 2021, 18 ss.; G.L. GATTA, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, in Sist. pen., 15 ottobre 2021; F. PALAZZO, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in Sist. pen., 8 settembre 2021.

[7] Ci si riferisce principalmente alle indicazioni che emergono dai Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa in ambito penale, elaborati dalle Nazioni Unite nel 2002 (United Nations, Basic Principles on the Use of Restorative Justice Programmes in Criminal Matters, ECOSOC Res. 12/2002); dalla Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 recante Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, in cui la giustizia riparativa assume rilievo indiretto in quanto è oggetto di regolamentazione nella misura in cui intercetta l’interesse della vittima; dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8) sulla giustizia riparativa in materia penale (consultabile al link https://rm.coe.int/168091ebf7, ultima consultazione 18 ottobre 2023) e dalla Dichiarazione dei Ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale, redatta in occasione della conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa Criminalità e Giustizia penale – il ruolo della giustizia riparativa in Europa, 13 e 14 dicembre 2021, Venezia, Italia (consultabile al link https://rm.coe.int/14-dicembre-ita-dichiarazione-venezia/1680a4e07, ultima consultazione 18 ottobre 2023).

[8] Tra i primi commenti al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, si vedano M. BOUCHARD, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 sulla disciplina organica della giustizia riparativa, in Questione Giustizia, 7 febbraio 2023; A. MADEO, Procedibilità a querela, messa alla prova e non punibilità per particolare tenuità del fatto: una ratio deflativa comune nella “riforma Cartabia”, in Leg. Pen., 28 novembre 2022; M. IANNUZZIELLO, La disciplina organica della giustizia riparativa e l’esito riparativo come circostanza attenuante comune, in Leg. Pen., 28 novembre 2022; D. GUIDI, Profili processuali della giustizia riparativa, in DisCrimen, 16 novembre 2022; A. PRESUTTI, Aspettative e ambizioni del paradigma riparativo codificato, in Sist. pen., 14 novembre 2022; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in Sist. pen., 2 novembre 2022; M. BORTOLATO, La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo, in Questione giustizia, 10 ottobre 2022.

[9] Si precisa che al momento di pubblicazione del presente contributo sono stati approvati solo tre decreti ministeriali. I primi due decreti del Ministero della giustizia sono del 9 giugno 2023: il primo rubricato Disciplina delle forme e dei tempi della formazione finalizzata a conseguire la qualificazione di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa nonché delle modalità di svolgimento e valutazione della prova di ammissione alla formazione ed altresì della prova conclusiva della stessa; il secondo rubricato Istituzione presso il Ministero della giustizia dell’elenco dei mediatori esperti in giustizia riparativa. Disciplina dei requisiti per l’iscrizione e la cancellazione dall’elenco, del contributo per l’iscrizione allo stesso, delle cause di incompatibilità, dell’attribuzione della qualificazione di formatore, delle modalità di revisione e vigilanza sull’elenco, ed infine della data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione costituisce requisito obbligatorio per l’esercizio dell’attività, entrambi pubblicati nella Gazzetta ufficiale n. 155 del 5 luglio 2023Infine, si veda il decreto del Ministero della giustizia rubricato Regolamento relativo alla disciplina del trattamento dei dati personali da parte dei Centri per la giustizia riparativa, ai sensi dell’articolo 65, comma 3, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 174 del 27 luglio 2023.

[10] Per una critica nei confronti della formula utilizzata dal legislatore delegato all’art. 42, si veda M. BOUCHARD, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 4 e 5: «La funzione della giustizia riparativa è descritta con la pessima formula della “risoluzione delle questioni derivanti dal reato”. Dal reato non derivano “questioni”: non siamo di fronte ad una disputa. Dal reato derivano conseguenze. Le più diverse. Ma sempre riferibili al danno patrimoniale o non patrimoniale subito dalla vittima. E le conseguenze si affrontano, non si risolvono. Qui pesa una risalente letteratura che identifica il reato con il conflitto e che, forse, necessita di un qualche approfondimento. […] Valeva la pena individuare una formula meno asettica e più pertinente al campo operativo dei programmi riparativi descritti nell’art. 53 del decreto n. 150».

[11] A livello sovranazionale la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8) sulla giustizia riparativa in materia penale si sofferma sul fatto che i percorsi di giustizia riparativa devono essere assolutamente volontari e non è ammissibile che le parti siano forzate nella decisione iniziale di parteciparvi. Sul punto, si veda la Recommendation CM/Rec(2018)8, III, n. 16: «Restorative justice is voluntary and shall only take place if the parties freely consent, having been fully informed in advance about the nature of the process and its possible outcomes and implications, including what impact, if any, the restorative justice process will have on future criminal proceedings. The parties shall be able to withdraw their consent at any time during the process». Sul carattere volontario cfr. C. JACCOTTET TISSOT, Synthèse des discussion de la 1ère journée de justice restaurative, in Mettre l’humain au centre du droit pénal : les apports de la justice restaurative, a cura di N. Queloz, C. Jaccottet Tissot, N. Kapferer, M. Mona, Ginevra-Zurigo-Basilea, 2018, 101.

[12] Per una critica alla previsione dell’art. 44, comma 3, del decreto, si veda M. BOUCHARD, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 7.

[13] Sul punto, si vedano AA.VV. Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, a cura di G.L. Potestà, C. Mazzucato, A. Cattaneo, Bologna, 2017 e D. TUTU, No Future without Forgiveness, New York, 1999.

[14] Sul punto, si veda AA.VV., Il libro dell’incontro, cit., passim.

[15] A ben vedere, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8) distingue tra veri e propri percorsi di giustizia riparativa che si fondano sul dialogo tra le parti (in particolare tra autore e vittima) e percorsi che, pur prescindendo da un dialogo tra i soggetti coinvolti, si basano comunque sui principi della giustizia riparativa. In questo senso, tutti i programmi che non contemplino il dialogo e l’incontro tra le parti non possono rientrare nell’elenco dei percorsi di giustizia riparativa, ma possono solo essere considerati ispirati in senso lato ai valori della giustizia riparativa. Il considerando 59 della Raccomandazione in particolare osserva: «mentre la giustizia riparativa è tipicamente caratterizzata da un dialogo tra le parti, molti interventi che non implicano un dialogo tra la vittima e l’autore dell’illecito possono essere costruiti e portati avanti secondo modalità che aderiscono strettamente ai principi della giustizia riparativa. Ciò include approcci innovativi alla riparazione, al recupero della vittima e al reinserimento dell’autore dell’illecito. Ad esempio, programmi riparativi di comunità, consigli di riparazione, restituzioni dirette alla vittima, programmi di supporto alle vittime e ai testimoni, circoli di supporto alle vittime, gruppi terapeutici, corsi di sensibilizzazione per le vittime, educazione di detenuti e autori dell’illecito, tribunali di problem solving, circoli di supporto e responsabilità, cerimonie di reinserimento degli autori dell’illecito e progetti che coinvolgono gli autori dell’illecito e le loro famiglie o altre vittime di reato, tutte queste iniziative, tra le altre, possono essere realizzate in un’ottica riparativa, se vengono svolte in conformità ai principi fondamentali della giustizia riparativa».

[16] Ossia tra una vittima e una persona che ha commesso un reato analogo ma diverso rispetto a quello per cui si procede. Sul punto, si veda il Paragrafo 4, Parte I.

[17] Critico nei confronti della lettera della disposizione M. BOUCHARD, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 15, che afferma: «Non credo sia condivisibile questa incertezza e indeterminatezza nella definizione degli strumenti e delle metodologie dei programmi riparativi. Un conto è la necessaria “flessibilità” per concepire dei programmi individualizzati e riconoscere ai mediatori una certa autonomia, altro è dilatare la scelta apparentemente rigorosa della riparazione interpersonale – fondata sull’archetipo della mediazione diretta victim-offender – per approdare a schemi operativi sfuggenti che non risultano neppure elaborati sulla base di una seria ricognizione della sperimentazione compiuta in oltre trent’anni di storia di giustizia riparativa italiana, nei suoi aspetti positivi e in quelli fallimentari». Per un approfondimento dei singoli modelli: G. MANNOZZI, G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, cit., 239 ss.

[18] Sul punto, si veda il Paragrafo 4, Parte I.

[19] G. MANNOZZI, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, cit., 1 ss.

[20] Questo linguaggio della giustizia riparativa fa da contraltare al linguaggio intrinsecamente autoritario e funzionalmente impositivo tipico della giustizia penale tradizionale. Sul punto si veda G. MANNOZZI, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, cit., 12. In particolare, l’Autrice afferma che «per il tramite di un linguaggio che rinuncia ai tecnicismi del diritto penale e processuale – e che consente di guardare al di là dei ruoli ipostatizzati di imputato, condannato o vittima per accedere alla dimensione piena della dignità della persona – si può promuovere un agire che chiama in causa le categorie della decisione condivisa, del dialogo e dell’incontro come momenti generativi di condotte a contenuto spiccatamente riparatorio».

[21] G. MANNOZZI, R. MANCINI, La giustizia accogliente, cit., 64.

[22] M.B. ROSENBERG, Le parole sono finestre oppure muri, Reggio Emilia, 2003, 198, osserva che per mediare e risolvere i conflitti è indispensabile creare una prima connessione tra le parti: «infatti è soltanto dopo che avremo creato questa connessione che ognuna delle parti in pausa cercherà di capire quello che l’altra sente e ciò di cui ha bisogno».

[23] S. GRECO, Dal conflitto al dialogo. Un approccio comunicativo alla mediazione, Milano, 2020, 132.

[24] Per un’analisi approfondita del linguaggio nell’ambito della violenza domestica, si veda R. SCARPA, Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio, Roma, 2021. Secondo l’Autrice la scelta e l’uso delle parole, la loro combinazione, lo “stile del discorso” costituiscono il mezzo fondamentale con cui l’abusante riduce e mantiene la vittima in uno stato di soggezione e soccombenza.

[25] M. BOUCHARD, Commento al Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 3.

[26] Direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012 recante “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”.

[27]  L’Handbook on restorative Justice delle Nazioni Unite colloca i programmi di giustizia riparativa con vittima aspecifica o surrogata tra i “quasi-restorative programmes” proprio per il fatto che essi non si indirizzano alla vittima per cui si procede.

[28] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 245 del 19 ottobre 2022 - Suppl. Straordinario n. 5, p. 366. Critico sul punto M. BOUCHARD, op. cit., 17.

[29] Si veda l’art. 12 della Direttiva 2012/29/UE: «Diritto a garanzie nel contesto dei servizi di giustizia riparativa. 1. Gli Stati membri adottano misure che garantiscono la protezione delle vittime dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta, dall'intimidazione e dalle ritorsioni, applicabili in caso di ricorso a eventuali servizi di giustizia riparativa. Siffatte misure assicurano che una vittima che sceglie di partecipare a procedi­ menti di giustizia riparativa abbia accesso a servizi di giustizia riparativa sicuri e competenti, e almeno alle seguenti condizioni: a) si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima, in base ad eventuali considera­ zioni di sicurezza, e se sono basati sul suo consenso libero e informato, che può essere revocato in qualsiasi momento; b) prima di acconsentire a partecipare al procedimento di giustizia riparativa, la vittima riceve informazioni complete e obiettive in merito al procedimento stesso e al suo potenziale esito, così come informazioni sulle modalità di controllo dell’esecuzione di un eventuale accordo; c) l’autore del reato ha riconosciuto i fatti essenziali del caso; d) ogni accordo è raggiunto volontariamente e può essere preso in considerazione in ogni eventuale procedimento penale ulteriore; e) le discussioni non pubbliche che hanno luogo nell’ambito di procedimenti di giustizia riparativa sono riservate e possono essere successivamente divulgate solo con l’accordo delle parti o se lo richiede il diritto nazionale per preminenti motivi di interesse pubblico. 2. Gli Stati membri facilitano il rinvio dei casi, se opportuno, ai servizi di giustizia riparativa, anche stabilendo procedure o orientamenti relativi alle condizioni di tale rinvio».

[30] G. MANNOZZI, Nuovi scenari per la giustizia riparativa. Riflessioni a partire dalla legge delega 134/2021, cit., 9.

[31] Sul punto si veda F. PARISI, Giustizia riparativa e sistema penale nel decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Parte I. «Disciplina organica» e aspetti di diritto sostanziale, in Sist. pen., 27 febbraio 2023, 15, in cui l’Autore denuncia, da un lato, l’assenza di cooperazione tra Centri di giustizia riparativa e servizi di sostegno alle vittime e, dall’altro, afferma che «è vero che talvolta proprio il coinvolgimento di servizi, associazioni, gruppi di sostegno specificamente dedicati alla tutela di una sola delle due parti rischia di produrre fenomeni di esasperazione anziché di mitigazione dei conflitti», precisando, a p. 14, nt. 37, che vi è «prevalente tendenza delle associazioni in favore della vittime, non solo in Italia, a richiedere rigorose strategie punitive piuttosto che opzioni di giustizia dialogica». Su questa tendenza si vedano F. PARISI, La restorative justice alla ricerca di identità e legittimazione. Considerazioni a partire dai risultati intermedi di un progetto di ricerca europeo sulla protezione della vittima, in Dir. pen. cont., 24 dicembre 2014, 20 e D. GARLAND, (trad.it.) La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Milano, 2007, 71.

[32] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 369 e 370.

[33] La Regola 15 della Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec/2018(8) prevede che: «Restorative justice should not be designed or delivered to promote the interests of either the victim or offender ahead of the other».

[34] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 369

[35] V. BONINI, Le linee programmatiche in tema di giustizia riparativa: il quadro e la cornice, in Leg. Pen., 15 giugno 2021, 21.

[36] Sul punto, cfr. gli artt. 59 e ss. del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Inoltre, si veda il decreto del ministro della giustizia del 9 giugno 2023, rubricato Disciplina delle forme e dei tempi della formazione finalizzata a conseguire la qualificazione di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa nonché delle modalità di svolgimento e valutazione della prova di ammissione alla formazione ed altresì della prova conclusiva della stessa, pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 155 del 5 luglio 2023, con cui si è data attuazione agli artt. 59 e ss. del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150.

[37] G. MANNOZZI, G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, cit., 369.

[38] Ibidem, 370.

[39] Per una ricognizione delle modifiche introdotte al Codice penale, si veda F. PARISI, Giustizia riparativa e sistema penale nel decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Parte I. «Disciplina organica» e aspetti di diritto sostanziale, cit., 8 ss.

[40] Denuncia il fatto che l’art. 131 bis c.p. non costituirà la chiave di volta della relazione tra giustizia riparativa e giustizia tradizionale F. PARISI, Giustizia riparativa e sistema penale nel decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150. Parte I. «Disciplina organica» e aspetti di diritto sostanziale, cit., 8 ss. L’Autore afferma che «non è un caso che il decreto non menzioni espressamente i programmi di GR quali strumenti di per sé in grado di giustificare l’applicazione dell’istituto: la nuova formulazione non è “pensata” per una specifica valorizzazione dei programmi di GR; ragione per la quale il legislatore si esprime con una «formula generale, senza specificare tipologie di condotte ad essa riconducibili (es. restituzioni, risarcimento del danno, condotte riparatorie, accesso a programmi di GR, ecc.)» («Relazione», p. 345). In secondo luogo, la condotta susseguente al reato acquisisce rilievo non come autonomo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell’offesa, bensì come criterio aggiuntivo rispetto a quelli cui all’art. 133, comma 1, c.p., da impiegare nell’ambito di un complessivo giudizio circa le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo: il termine «anche» sta cioè a indicare che le condotte post delictum, se non concorrono altri elementi, non potranno di per sé rendere l’offesa di particolare tenuità».

[41] Il potere dell’Autorità giudiziaria di disporre anche d’ufficio l’invio ai Centri di giustizia riparativa della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa è identificato come «nudge» o spinta gentile da M. BOUCHARD, Commento al titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 9. Sul punto si vedano anche le considerazioni di D. PULITANÒ, Riparazione e lotta per il diritto, in Sist. pen., 9 febbraio 2023, 12 che si chiede «se attribuire al giudice il potere di disporre d’ufficio un contatto interpersonale fra offeso e offensore sia coerente con i principi e con l’ethos di una società aperta a concezioni morali diverse e di pari dignità. È un interrogativo che ha a che fare con il confine della potestà del Leviatano, di fronte alla libertà delle persone nelle loro valutazioni morali e nelle scelte di vita».

[42] Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., p. 411.

[43] L’alternativa sarebbe stata quella di elaborare una nozione maggiormente estensiva di RJ, atta a ricomprendere, più in generale, qualsiasi attività “riparativa” posta in essere dell’autore del reato, pertanto riferibile anche al risarcimento del danno ovvero ai lavori di pubblica utilità o, ancora, alle condotte riparatorie nel processo agli enti sino alla collaborazione processuale, v. sul punto e anche per un confronto tra una definizione di giustizia riparativa ispirata da un approccio “olistico” e una di stampo “massimalista”, A. PRESUTTI, Aspettative e ambizioni, cit., passim. Cfr. altresì M. DONINI, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Pol. dir., 2021, 606, il quale rileva che il legislatore nella legge delega ha avuto in mente «la restorative justice spontanea dei rapporti autore-vittima tipici della mediazione penale».

[44] D’altra parte, il ruolo cardine della mediazione non può dirsi un elemento di sorpresa, in quanto, già prima della pubblicazione del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, si era evidenziato che non solo storicamente costituisce il «percorso di giustizia riparativa più utilizzato», ma anche quello «più affinato metodologicamente», G. MANNOZZI, (voce) Giustizia riparativa, in Enc. dir., Ann., X, Milano, 2017, 480; ID., Nuovi scenari per la giustizia riparativa, cit., 3, la quale pone in evidenza che in passato si tendeva addirittura ad utilizzare il termine «mediazione» come sinonimo di «giustizia riparativa». V. altresì, C. GRANDI, Mediazione e deflazione penale: spunti per l’inquadramento di una relazione problematica, in Arch. pen. (web), 2020, 1, 5, che descrive la mediazione penale come la «quintessenza della riparazione».

[45] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011, ratificata dall’Italia con la l. 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in vigore l’1 agosto 2014.

[46] Dunque, il legislatore convenzionale fa ricorso ad una declinazione del concetto non restrittiva (circoscritta alla sola violenza di coppia), ma estensiva, v. S. CORTI, Giustizia riparativa e violenza domestica in Italia. Quali prospettive applicative?, in Dir. pen. cont., 2018, 9, 5 s. e A.C. BALDRY, Mediazione e violenza domestica. Risorsa o limiti di applicabilità?, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1, 2000, 32, dove si rileva altresì che la nozione più ampia è quella più diffusa.

[47] In tal senso, M. BERTOLINO, Violenza e famiglia: attualità di un fenomeno antico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, 4, 1711, la quale, alla nt. 1 del contributo citato, riporta anche la posizione contraria alla concettualizzazione della violenza domestica come forma di manifestazione della violenza di genere, secondo cui, diversamente, sarebbe più opportuno considerarla come un fenomeno strettamente connesso alle dinamiche sociali (e culturali).

[48] Si veda, di recente, la European Commission 2022/0066, Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on combating violence against women and domestic violence. Per una riflessione in proposito, v. C. RIGOTTI, C. McGLYNN, Towards an EU criminal law on violence against women: the ambitions and limitations of the Commission’s proposal to criminalise image-based sexual abused, in New Journal of European Criminal Law, 13 (4), 2022, 452 ss. Nella letteratura italiana, per una panoramica sugli interventi nazionali e sovranazionali, cfr. V. BONINI, Protezione della vittima e valutazione del rischio nei procedimenti per violenza domestica tra indicazioni sovranazionali e deficit interni, in Sist. pen., 23 marzo 2023, 2. Deve altresì segnalarsi che il 1 giugno 2023 si è concluso il processo di adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul; sul punto, sia consentito il rinvio a S. DE VIDO, L'adesione dell'Unione europea alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa: il ruolo delle organizzazioni della società civile a tutela delle donne, in Sist. pen., 13 luglio 2023.

[49] A seguito della ratifica avvenuta con la l. 27 giugno 2013, n. 77. Per un inquadramento dei contenuti del testo convenzionale, v. A. DI STEFANO, La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in Dir. pen. cont., 11 ottobre 2012.

[50] Con cui si è convertito il d.l. 14 agosto 2013, n. 93. Cfr., per una panoramica sulle novità introdotte a seguito dell’entrata in vigore della “legge sul femminicidio”, G. BELLANTONI, Tutela della donna e processo penale a proposito della legge n. 119/2013, in Dir. pen. e proc., 2014, 645 ss.; P. DE MARTINO, Le innovazioni introdotte nel codice di rito dal decreto legge sulla violenza di genere alla luce della direttiva 2012/29/UE, in Dir. pen. cont., 8 ottobre 2013; ivi, L. PISTORELLI, Prime note sulla legge di conversione, con modificazioni, del d.l. n. 93 del 2013, in materia tra l’altro di “violenza di genere” e di reati che coinvolgano i minori. Relazione a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di cassazione, 18 ottobre 2013; R.A. RUGGIERO, La tutela processuale della violenza di genere, in Cass. pen., 2014, 2352 ss.

[51] Cfr. sul punto, M. BOUCHARD, Prime osservazioni al decreto legislativo sulle vittime di reato, in Questione giustizia, 14 gennaio 2016 e M. CAGOSSI, Nuove prospettive per le vittime di reato nel procedimento penale italiano, in Dir. pen. cont., 19 gennaio 2016.

[52] V. le recenti considerazioni di M. BERTOLINO, La violenza di genere e su minori tra vittimologia e vittimismo: notazioni brevi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2021, 1, 65 ss., la quale osserva che le logiche panpenalistiche soventemente utilizzate al fine di garantire una tutela rafforzata alle vittime considerate vulnerabili, rischiano, nei fatti, da un lato di «innalzare un’escalation sanzionatoria» e, dall’altro, di «acuire il conflitto autore-vittima senza peraltro riuscire a garantire a quest’ultima la giusta tutela». Nell’ambito della protezione delle vittime vulnerabili devono essere inoltre ricordati gli interventi che si rivolgono al minore di età (ibid.).

[53] Per una sintesi aggiornata degli interventi legislativi che si sono susseguiti nel corso dell’ultimo decennio si rinvia al dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati (XVIII Legislatura), Violenza contro le donne, del 17 giugno 2022.

[54] Cfr. sul punto, G. DALIA, La risposta del sistema processuale penale per la tutela delle vittime di violenza di genere, in Arch. pen. (web), 2020, 1, spec. 7 ss.

[55] A tal proposito, si ricorda che ai sensi dell’art. 9, comma 4, l. 69/2019, è stata prevista la possibilità di ricorrere alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, prevista nel cosiddetto codice antimafia, nei confronti dell’indiziato del delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) oltre che di quello (già richiamato) di atti persecutori (art. 612 bis c.p.).

[56] Ossia della misura dell’allontanamento dalla casa familiare, introdotta con l’art. 1, l. 14 aprile 2001, n. 154.

[57] La misura del divieto di avvicinamento è stata recentemente oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass., Sez. un., 29 aprile 2021, n. 39005), le quali sono state chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale che si era creato in merito alla determinatezza dell’oggetto dell’ordinanza con cui il provvedimento è adottato. La Suprema Corte, ribadendo che il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dall’offeso può essere disposto anche cumulativamente a quello di avvicinarsi alla sua persona, ha scelto di aderire all’impostazione più tassativa dell’espressione «luoghi abitualmente frequentati», affermando che – nell’ordinanza con cui si stabilisce il divieto – è necessaria l’individuazione dei luoghi in modo specifico, non essendo sufficiente un indeterminato riferimento ad un qualsiasi luogo in cui la persona offesa è solita recarsi. V. sul punto, la nota a sentenza di L. BONGIORNO, Il divieto di avvicinamento alla persona offesa tra esigenze di protezione della vittima e tutela delle garanzie dell’accusato: il punto di equilibrio individuato dalle Sezioni unite, in Sist. pen., 2022, 3, 103 ss. Per un commento dell’istituto si rinvia inoltre a G. SPANGHER, La determinazione funzionale del divieto di avvicinamento alla vittima ex art. 282 ter c.p.p., in Giur. it., 2015, 3, 730 ss.

[58] In cui è prevista la misura dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare, la quale è stata introdotta dalla “legge sul femminicidio”. Si rileva che, con la l. 69/2019, è stato altresì introdotto l’art. 387 bis c.p., in cui si incrimina, con la sanzione della reclusione da sei mesi a tre anni, la condotta di colui che agisce in violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. In generale sulle misure precautelari, cfr. F. BELLOCCHIO, Le misure cautelari e precautelari per un efficace contrasto alla violenza intrafamiliare, in Riv. Cammino Diritto, 7/2022.

[59] Di cui all’art. 8, d.l. 29 febbraio 2009, n. 11 e successivamente, con specifico riferimento alla violenza domestica, art. 3 d.l. 14 agosto 2013, n. 93. Si veda altresì, tra le altre cose, per la peculiare declinazione dell'istituto nell'ambito del cyberbullismo, M.O. MANTOVANI, Profili penali del cyberbullismo: la l. 71 del 2017, in Ind. pen., 2018, 475 ss. Per un recente commento della misura in parola, cfr. le considerazioni di V. BADALAMENTI, Pregi e opportunità dell’ammonimento del questore. Riflessioni a margine del disegno di legge n. 2530/2021, in DisCrimen, 6 dicembre 2022, e la posizione, maggiormente critica, di E.A. DINI, Ammonimento del questore e violenza di genere: un anello debole nella catena protettiva?, in Sist. pen., 11 ottobre 2022.

[60] Si pensi, ad esempio, agli interventi sul fronte del diritto sostanziale posti in essere con il già più volte menzionato Codice rosso. Sul punto, v. A. VALSECCHI, “Codice rosso” e diritto penale sostanziale: le principali novità, in Dir. pen. e proc., 2020, 2, 165 ss. Per una panoramica generale sulle novità introdotte con la richiamata normativa si rinvia a B. ROMANO, A. MARANDOLA, Codice rosso. commento alla l. 19 luglio 2019, n. 69, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, Pisa, 2020.

[61] Cfr. V. BONINI, Protezione della vittima e valutazione del rischio, cit., 2.

[62] In tal senso, M. BERTOLINO, La violenza di genere e su minori, cit., 68, la quale osserva che il fronte della prevenzione trova poco spazio con riferimento agli autori poiché è carente dal punto di vista degli «interventi mirati sulle loro particolari condizioni che non si limitino, sul versante ad esempio della prevenzione ante delictum, a meri strumenti preventivi come quelli offerti dal sistema delle misure di prevenzione».

[63] Non mancano, a ben vedere, i primi commenti da parte di sostenitori di posizioni particolarmente contrarie rispetto all’eventualità che la RJ, in particolare la mediazione, possa operare nell’ambito della violenza domestica. Così, si veda il recente articolo – pubblicato su IlSole24Ore (online) il 20 febbraio 2023 – di S. ROSSITTO, La giustizia riparativa nei casi di violenza contro le donne è contro legge, in cui si riporta la posizione assunta dalla senatrice Valente, la quale rileva espressamente che le parti coinvolte non potrebbero intraprendere un percorso di mediazione «dal momento in cui c’è lo sbilanciamento totale della relazione, perché una persona è violenta e l’altra no» e quella dell’avv. Coviello, che osserva come «le relazioni di legame affettivo che hanno portato alla violenza vedono la donna in posizione subalterna» e, di conseguenza, «(s)e queste posizioni sono a monte, per cui una donna come sappiamo ci mette del tempo a uscire dalla spirale di violenza, la vittima nella giustizia riparativa non troverà uno spazio giusto e una giusta collocazione».

[64] Ossia la filosofia di gestione e prevenzione dei conflitti fondata su ascolto, dialogo e corresponsabilizzazione. Mediante un approccio riparativo, infatti, le azioni a carattere e dalla portata correttiva e riabilitativa nei riguardi dell’offender sono condotte e sviluppate attraverso il dialogo tra quest’ultimo e la vittima, da una parte, e, dall’altra, con quello tra la vittima e soggetti/esperti (professionisti). V. altresì, le considerazioni sul punto di V. BONINI, Protezione della vittima e valutazione del rischio, cit., 12.

[65] Cfr. G. DE FRANCESCO, Il silenzio e il dialogo, cit., 17 s., il quale evidenzia che, nonostante il progressivo diffondersi di interventi a beneficio delle vittime (concretatisi in interventi “a difesa della loro vulnerabilità”), da più parti si osservi che questi, sul piano della efficacia o del tempismo, non risultano essere “sufficienti”.

[66] Il tema della “cifra oscura” si combina a quello concernente la difficoltà di “riconoscere” la violenza domestica, che si riconnette a fenomeni di vittimizzazione secondaria. Cfr. sul punto la relazione della Commissione di inchiesta sul femminicidio relativa al documento La risposta giudiziaria ai femminicidi in Italia. Analisi delle indagini e delle sentenze. Il biennio 2017-2018, XVIII Legislatura, DOC. XXII-bis, n. 7 e il commento alla pronuncia Trib. Roma, Sez. V, sent. 4 ottobre 2021, n. 11019, a cura di P. DI NICOLA TRAVAGLINI, Pregiudizi giudiziari nei reati di violenza di genere: un caso tipico, in Sist. pen., 11 gennaio 2022. Lo stesso Parlamento europeo, recentemente, ha evidenziato «preoccupazione per l’impatto dei pregiudizi e degli stereotipi di genere che spesso portano a una risposta inadeguata alla violenza di genere contro le donne e a una mancanza di fiducia nei loro confronti, in particolare per quanto riguarda le accuse ritenute false di abusi sui minori e di violenza domestica», Risoluzione del Parlamento europeo del 6 ottobre 2021 sull’impatto della violenza da parte dei partner e dei diritti di affidamento su donne e bambini (2019/2166(INI)), par. 41. Relativamente alla problematica della “cifra oscura”, afferente al fatto che la gran parte degli episodi di domestic violence sono «under reported to law enforcement», sia consentito il rinvio ai dati riportati da E.A. RONI, Restorative Justice in Domestic Violence Cases, in DePaul Journal for Social Justice, 2016, 9(1), 69 ss. e, relativamente alla realtà italiana, all’indagine ISTAT, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, 2014.

[67] Cfr. sul punto S. CORTI, Giustizia riparativa e violenza domestica, cit., 13.

[68] V. le considerazioni di E.A. RONI, op. cit., 76, laddove rileva espressamente che «the offender-focused approach of traditional criminal law can exacerbate the problems of domestic violence in the sense that it involves a disregard or even a negation of the victim’s identity – and this is one of the most psychologically injurious aspects of domestic violence».

[69] Si evidenzia, infatti, che uno dei maggiori benefici che viene collegato all’impiego di programmi di giustizia riparativa è quello che la vittima possa perseguire vantaggi tanto sul piano simbolico che su quello materiale e morale, qualora il percorso si concluda in senso positivo. Come rilevato in J. STUBBS, Beyond Apology? Domestic Violence and Critical Questions for Restorative Justice, in Criminology & Criminal Justice, 7(2), 2007, 170; in generale, sulla riparazione simbolica e materiale, v.  G. MANNOZZI, (voce) Giustizia riparativa, cit., 474 ss.

[70] Cfr. C. PECORELLA, P. FARINA, La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), in Dir. pen. cont., 10 aprile 2018 e, più di recente, C. PECORELLA, M. DOVA, La violenza nelle relazioni affettive: uno sguardo sulle prassi giudiziarie in Lombardia, in Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie, a cura di C. Pecorella, Lavis (TN), 2021, 83 ss.

[71] G. MANNOZZI, (voce) Giustizia riparativa, cit., 473 s.

[72] Cfr. relativamente agli studi nordamericani che concernono il “gradimento” di un percorso di mediazione vittima autore in una prospettiva trasversale, quindi senza uno specifico riferimento a particolari categorie di reati, la recente analisi di C. GRANDI, op. cit., 12.

[73] Invero, se l’applicazione di una pena – quantomeno in linea teorica – è orientata a garantire le esigenze di protezione delle vittime, sembra non sempre riuscire ad imprimere nel reo «un monito profondo che ne favorisca la (reale) rieducazione» (S. CORTI, Giustizia riparativa e violenza domestica, cit., 11, parentesi aggiunta), né, d’altro canto, di avere effetti positivi sul contenimento del rischio di recidiva (sia nei riguardi della vittima che della collettività).

[74] V. infra, § 6, Parte I; e, senza alcuna presunzione di completezza, L. PARLATO, Verso un dialogo tra giustizia riparativa e penale? Bisognerà “mediare”, in Giustiziainsieme.it, 4 luglio 2022 e M. BOUCHARD, Commento al titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 2 ss.; prima della riforma, v. L. EUSEBI, La svolta riparativa del paradigma sanzionatorio. Vademecum per un’evoluzione necessaria e la posizione di M. DONINI, Il delitto riparato. Una disequazione che può trasformare il sistema sanzionatorio, il quale elabora una peculiare teoria sulla possibilità di introdurre uno specifico regime sanzionatorio per il “delitto riparato” (analogamente a quanto già previsto per il delitto tentato), entrambi in Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, cit., rispettivamente alle pagine 97-119 e 135-151.

[75] La possibilità di integrazione tra il modello retributivo e quello riparativo affonda le sue radici negli stessi principi costituzionali e, in particolare, nella finalità rieducativa della pena (art. 27, comma 3), cfr. le osservazioni di F. PALAZZO, Giustizia riparativa e giustizia punitiva, in Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, cit., 74 s.

[76] Cfr. D. COKER, Transformative justice: anti-subordination processes in cases of domestic violence, in Restorative justice and family violence, a cura di H. Strang, J. Braithwaite, Cambridge, 2002, 128 ss., che riserva ampio spazio alla critica femminista incentrata sul rischio di “privatizzazione”.

[77] Cfr. per tutti, J. STUBBS, Domestic violence and women’s safety. Feminist challenges to restorative justice, in Restorative justice and family violence, cit., 56 ss.

[78] J. BRAITHWAITE, H. STRANG, Restorative Justice, in Restorative justice and family violence, cit., 8 ss.

[79] U.N. Office on Drugs and Crime, Handbook on Restorative Justice Programmes, New York, 2006, 45.

[80] Come riportato in A.C. BALDRY, Mediazione e violenza domestica, cit., 39, con rinvio a M.S. UMBREIT, Restorative justice conferencing: guidelines for victim sensitive practice, Centre for Restorative Justice and Peacemaking, School of Social Work, University of Minnesota, 1999. Più di recente, A. STAHLMAN, Restorative justice in the context of intimate partner violence: suggestions for its qualified usage as supplementary to the criminal justice system, in University of Florida Journal of Law & Public Policy, 2017, 28(1), 210 ss., evidenzia come la VOM sia un programma non appropriato per i casi di intimate partner violence, essendo preferibile, in tali contesti, il ricorso a peace-making circles o family group conferences (entrambi percorsi di incontro che, seppur con le relative differenze, si caratterizzano per essere a “partecipazione allargata”).

[81] U.N. Department of Economic and Social Affairs Division for the Advancement of Women, Handbook for Legilsation on Violence Against Women, New York, 2010, ST/ESA/329, 38 ss.

[82] Come segnalato, anche di recente, nella relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere del Senato (XVIII Legislatura), datata 14 settembre 2021 (Relazione su “contrasto alla violenza di genere: una prospettiva comparata”, Doc. XXII-BIS, N.5).

[83] Art. 44, legge organica 1 dicembre 2004, n. 1 («Ley Organica 1/2004, de 28 de diciembre de Medidas de Protección Integral contra la Violencia de Género»), in cui si è previsto il divieto di adottare procedure di mediazione per tutti i casi di violenza di genere (inclusa la mediazione penale, quale programma di giustizia riparativa). Spostando l’attenzione sulla mediazione familiare civile, si rinvengono divieti e limitazioni, ad esempio: in Francia, dove, con l’art. 6 della legge 18 novembre 2016, n. 1547, si è riformulato l’art. 373-2-10 del codice civile (da ultimo modificato ai sensi dell’art. 5, l. 30 luglio 2020, n.  936), inserendovi l’espresso divieto di mediazione familiare nei casi di violenza all’interno della coppia o contro il bambino, e in Italia, posto che, con la stessa Riforma Cartabia (civile), di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, si è disposta l’introduzione dell’art. 473 bis.43 c.p.c., dove si proibisce il ricorso a tale procedura sia nel caso di condanna che in quello in cui vi sia un procedimento in corso per episodi di violenza domestica, di genere o di abusi familiari (la norma fa infatti rinvio al precedente art. 473 bis.40). Sui rischi dell’impiego di procedure conciliative o di mediazione nell’ambito delle controversie familiari (in specie, l’analisi si occupa di casi di divorzio), si rinvia ad A. EDWARDS, S. SHARPE, Restorative justice in the context of domestic violence: a literature review, Edmonton (Alberta), 2004, 9 ss.

[84] Cfr., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici relativi ai Paesi menzionati, S. CORTI, Giustizia riparativa e violenza domestica, cit., 19 ss. Per una panoramica sul quadro comparato, si rinvia altresì al report conclusivo del progetto, finanziato dalla Commissione europea, JUST/2013/JPEN/AG/4587 WS1. Restorative Justice in Cases of Domestic Violence. Best practice examples between increasing mutual understanding and awareness of specific protection needs. Comparative Report, nella parte in cui si analizza l’impiego di programmi di giustizia riparativa nell’ambito dei casi di violenza domestica e, più nello specifico, di intimate partner violence (nel quale i Paesi di riferimento sono: Austria, Danimarca, Grecia, Finlandia, Paesi Bassi e Regno Unito). Inoltre, per un’analisi in chiave problematica afferente al ricorso alla RJ (e più diffusamente delle “out of court resolutions”) da parte della polizia del Regno Unito nell’ambito criminogeno in esame, si vedano: N. WESTMARLAND, K. JOHNSON, C. McGLYNN, Policing domestic abuse what are ‘out of court resolutions’ and when are they being used?, SASS Research Briefing no. 17, 2021, in www.durham.ac.uk; oltre che N. WESTMARLAND, C. McGLYNN, C. HUMPHREYS, Using restorative justice approaches to police domestic violence, in Journal of Gender-Based Violence, 2018, 2(2), 339 ss. e, per un commento relativo al progetto pilota in materia Domestic Violence and Protective Orders (riferito al biennio 2011/2012), L. KELLY et al., Evaluation of the Pilot of Domestic Violence Protection Orders, London, Home Office, 2013, liberamente consultabile sul sito del governo inglese www.gov.uk. Infine, per il tema limitrofo, seppur dotato di una sua autonomia, del ricorso alla RJ nell’ambito di casi afferenti ai crimini sessuali v. C. McGLYNN, N. WESTMARLAND, Kaleidoscopic Justice: Sexual Violence and Victim-Survivors’ Perceptions of Justice, in Social & Legal Studies, 2019, 28(2), 179 ss. oltre che le osservazioni di G.M. CALETTI, Dalla violenza al consenso nei delitti sessuali. Profili storici, comparati e di diritto vivente, Bologna, 2023, 415 ss.

[85] Si deve rilevare che l’Italia, nella legge di ratifica, aveva esteso la proibizione, disponendo un divieto assoluto di accesso a tale meccanismo. Tuttavia, nel 2017, con un comunicato, il testo della legge è stato rettificato (in quanto la proibizione assoluta era derivata da un errore di traduzione della fonte sovranazionale); dunque, oggi, la disposizione risulta essere perfettamente coincidente quella convenzionale (G.U. n. 278, 28 novembre 2017).

[86] Cfr. in tal senso le considerazioni riferite, in generale, alle procedure conciliative di M. BERTOLINO, Violenza e famiglia, cit., 1719.

[87] Con riferimento al tema della mediazione nella direttiva 2012/29/UE, v. A. PISAPIA, La protezione europea garantita alle vittime della violenza domestica, in Cass. Pen., 2014, 5, 1866 ss. e M. BERTOLINO, Violenza e famiglia, cit., 1719.

[88] Definire il problema della violenza domestica come un problema di “genere” non risulta essere fuorviante, anche se esistono casi in cui le vittime di violenza domestica sono uomini, cfr. A.C. BALDRY, Mediazione e violenza domestica, cit., 32.

[89] Altri autori evidenziano la quotidianità della violenza domestica (ossia il suo essere una modalità relazionale cronica e, appunto, quotidiana). Cfr. S. CORTI, op. cit., 16 che fa espresso rinvio all’inquadramento di M.F. HIRIGOYEN, Sottomesse. La violenza sulle donne nella coppia, (trad. it.), Torino, 2006, 59 ss.

[90] Nella letteratura giusfemminista si evidenzia la dimensione “strategica” della violenza domestica, sottolineando che non può essere compresa scorporando i singoli episodi ma leggendoli attraverso una control-based theoretical analysis, che consideri la pluralità dei comportamenti e le varie “tattiche” di sottomissione che si susseguono (coercive tactics), v., per tutti, J. STUBBS, Domestic violence and women’s safety, cit., 43.

[91] Seguendo la partizione individuata da L.E. WALKER, The battered woman, New York, 1979, passim; ripresa, nella letteratura italiana, da E. CORN, Non parlarmi, non ti sento. Il perdurante disallineamento tra i bisogni delle donne maltrattate e le tutele offerte dalle norme penali, in Riv. it. dir. e med. leg., 2018, 2, 603.

[92] In tal senso, cfr. U. PACE, M. CACIOPPO, C. ZAPPULLA, G. D’URSO, V. CARETTI, Fattori psicologici che procrastinano la richiesta d’aiuto nella violenza domestica: il ruolo delle dinamiche familiari, in Maltrattamento e abuso all’infanzia, 2018, 20(3), 75 ss., dove si evidenzia che «(n)el modello del ciclo della violenza proposto da Walker emerge come, soprattutto nei momenti di falsa riappacificazione, per la vittima sia difficile interrompere la relazione disfunzionale, perché la violenza è considerata transitoria e, quindi, da dimenticare».

[93] D. DUTTON, S.L. PAINTER, Traumatic bonding: the development of emotional attachments in battered women and other relationships of intermittent abuse, in Victimology (an International Journal), 1981, 6 (1-4), 139 ss.

[94] Così, E. CORN, Non parlarmi non ti sento, cit., 602.

[95] Sia che si tratti di «sindrome di Stoccolma», che della meno nota in dottrina «sindrome della donna maltrattata», (battered women syndrome, individuata e descritta da L.E. WALKER, The battered woman syndrome, New York, 1984).

[96] A tal proposito si richiama la già menzionata analisi confluita nel rapporto Restorative Justice in Cases of Domestic Violence. Best practice examples between increasing mutual understanding and awareness of specific protection needs, cit., passim.

[97] Cfr. A.C. BALDRY, op. cit., 40 s. secondo cui è indispensabile, per il mediatore, conoscere la storia della violenza, in quanto dinnanzi ad un caso di violenza conclamata, in cui si è sviluppata la già menzionata sindrome di impotenza appresa, la mediazione potrebbe rivelarsi addirittura controproducente; diverso, invece, sarebbe il caso della violenza non conclamata (nella quale è presente ancora uno stato di conflitto tra le parti).

[98] Cfr., anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, J. STUBBS, Domestic violence and women’s safety, cit., 56 ss. Si rinvia altresì al report Restorative Justice in Cases of Domestic Violence, cit., 11.

[99] J. STUBBS, Beyond Apology?, cit., 179, parla di un rischio di «subtle (or less subtle) coercion or manipulation».

[100] Questo può avvenire anche quando siano coinvolte le comunità o il nucleo familiare, atteso non solo che la considerazione della violenza domestica come un problema di interesse pubblico, non da relegare sfera privata, è un processo di natura relativamente recente, ma anche che persistono, a livello sociale, retaggi culturali che tendono a favorire la presenza di atteggiamenti “giustificativi”, cfr. D. COKER, Transformative justice, cit., 129; v. altresì, J. STUBBS, Beyond Apology?, cit., 173.

[101] V. L.E. WALKER, The battered woman syndrome, cit., passim e C. SCAGLIOSO, Narrazioni di violenza domestica. Il diritto ad essere riconosciuta e riconoscersi “persona competente”, in Civitas educations. Education, Politics and Culture, 2020, 234.

[102] La centralità delle apologies nell’ambito dei programmi riparativi e della loro particolare “funzione” nei casi di violenza domestica fa sì che, con riferimento all’enfasi che viene attribuita al loro ruolo, c’è addirittura chi è arrivato a definirle un «cheap justice problem», D. COKER, Enhancing Autonomy for Battered Women: Lessons from Navajo Peacemaking, in UCLA Law Review, 1999, 47(1), 15.

[103] Sul punto, il già menzionato report Restorative Justice in cases of domestic violence, cit., 11.

[104] Cfr. D. COKER, Transformative justice, cit., 133.

[105] Anche mediante la disposizione di colloqui separati dei mediatori con le parti, prima della vera e propria mediazione (ossia l’occasione di incontro), la c.d. shuttle mediation.

[106] Sul punto, F. GARBARINO, P. GIULINI, La violenza nelle relazioni strette. L’esperienza di giustizia riparativa del CIPM (Centro italiano per la promozione della mediazione), in La violenza di genere dal Codice Rocco al Codice rosso. Un itinerario di riflessione plurale attraverso la complessità del fenomeno, a cura di B. Pezzini, A. Lorenzetti, Torino, 2020, 198. Si rileva, inoltre, la possibilità di avvalersi anche di eventuali incontri con vittime aspecifiche, al fine di avvalorare e implementare il processo di empatia dell’autore nei confronti della vittima (ivi, 210).

[107] Come esempio virtuoso S. CORTI, Giustizia riparativa e violenza domestica, cit., 21, richiama il cosiddetto modello «del doppio misto» adottato in Austria, in virtù del quale si procede prima per colloqui separati, poi con un colloquio congiunto; nel colloquio “congiunto” sono i mediatori a riferire le versioni delle parti precedentemente raccolte (che concernono sia le “aspettative sul contenuto della mediazione” che le posizioni sul “futuro” della relazione).

[108] Il riferimento è al principio della partecipazione attiva e volontaria. Sul punto, si veda la Parte I del presente contributo.

[109] Posto che, come rilevato recentemente da G. MANNOZZI, Nuovi scenari per la giustizia riparativa, cit., 15 ss. «(u)na formazione povera o parziale dei mediatori è, in definitiva, una tra le “minacce” più importanti per la giustizia riparativa». In generale, sulla centralità della figura del mediatore, si veda la Parte I del presente contributo.

[110] A. EDWARDS, S. SHARPE, Restorative justice in the context of domestic violence, cit., 16, parlano espressamente di «specialized training»; analogamente, R. BUSCH, Domestic violence and restorative justice initiatives: who pays if we get it wrong?, in Restorative justice and family violence, cit., 223 ss. ribadisce che i facilitators «must be highly skilled in the dynamics of domestic violence, lethality risk assessment, and domestic violence screening techniques in order to recognize the warning signs for further violence and address the high levels of emotion and duress which might be involved».

[111] Come recentemente sottolineato da R. WARDEN, Humanize, Don't Paternalize: Victim-Offender Mediation After Intimate Partner Violence, in University of Richmond Law Review, 56(4), 127 ss., il corretto articolarsi della VOM nei casi di IPV dovrà quindi prevedere una serie di fasi, rispettivamente: (a) l’initial intake (ossia il momento di in cui le parti affermano la volontà di intraprendere il percorso riparativo e di parteciparvi attivamente); (b) i preconference individual meetings (ossia gli incontri preliminari e separati tra il mediatore e le parti, in cui si definirà il programma da seguire: è qui, quindi, che dovrà essere valutato se la VOM sia concretamente esperibile o meno); (c) qualora la valutazione della fase precedente sia positiva, si potrà procedere agli incontri di mediazione; infine (d) la fase di monitoraggio. Inoltre, qualora, dopo la fase (b), si rilevi che la mediazione non è concretamente idonea per il caso specifico, non è escluso che si possa ricorrere ad altri programmi, quali le family group conferences o i community peacemaking circles.

[112] Cfr. l'art. 51 della Convenzione di Istanbul.

[113] Per un approfondimento sul ruolo di prim’ordine assunto dalla valutazione del rischio nell’ambito del contrasto alla violenza domestica e contro le donne, si rinvia a V. BONINI, Protezione della vittima e valutazione del rischio, cit., spec. 6 ss.

[114] Seppur l’assenza di una disciplina generale sul punto non è di per sé ritenuta motivo di censura da parte degli organismi di controllo del Consiglio d’Europa (in particolare del GREVIO, il Group of Experts on action against Violence against Women and Domestic Violence, che si occupa di monitorare l’implementazione della Convenzione di Istanbul da parte degli Stati membri), si rileva altresì che vi sono carenze sia sul piano dell’implementazione che su quello della diffusione di tali strumenti nel territorio nazionale, cfr. V. BONINI, Protezione della vittima e valutazione del rischio, cit., 15.

[115] V. sul punto, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, V. BONINI, op cit., spec. 13. Con riferimento alla giurisprudenza della Corte Edu, basti menzionare le recenti pronunce di condanna allo Stato italiano, in cui sono emerse significative carenze nella gestione del c.d. risk assesment, relative alle cause M.S. c/Italia, 7 luglio 2022, ric. n. 32715/19; De Giorgi c/Italia, 16 giugno 2022, ric. n. 23735/19 e Landi c/Italia, 7 aprile 2022, ric. n. 10929/19; cfr. altresì, Corte Edu, Talpis c/Italia, 2 marzo 2017, ric. n. 41237/14.

[116] Cfr. per un loro impiego, ad esempio, nella realtà austriaca, il già citato rapporto conclusivo Restorative Justice in cases of domestic violence, cit, 25.

[117] Cfr. le considerazioni di G. FIANDACA, Quale “rieducazione” per gli autori di violenze di genere?, in dirittodidifesa.eu, 21 febbraio 2020, che sottolinea che seppur la vittima «almeno in teoria, trova maggiore riconoscimento e maggiore spazio appunto nell’ambito della prassi mediativa» rispetto al contesto processuale, «[…] per altro verso, il ricorso alla mediazione penale reca con sé rischi di vittimizzazione secondaria, nei casi in cui la violenza criminosa ai danni della donna si inquadra in un contesto di rapporti di forza fortemente sbilanciati».

[118] V. G. MANNOZZI, Sapienza del diritto e saggezza della giustizia. L’attenzione alle emozioni nella normativa sovranazionale in materia di restorative justice, in Criminalia, 2019, 175 s. Taluni suggeriscono, nei casi di violenza strutturale, in cui la ripetitività e cronica manifestazione dei comportamenti implica il “controllo” del soggetto passivo da parte dell’autore, che l’accesso alle pratiche di giustizia riparativa sia affiancato ad un «previo lavoro trattamentale» riferito alla persona del reo, F. GARBARINO, P. GIULINI, op. cit., 203 s.

[119] In senso conforme, J. BRAITHWAITE, H. STRANG, Restorative Justice, in Restorative justice and family violence, cit., 2.

[120] Sul punto si veda la recente opera di A. CERETTI, L. NATALI, Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro, Milano, 2022, relativa ad un approccio all’agire violento che tenga conto di quella che dagli stessi autori è definita la «cosmologia personale di un individuo».

[121] Cfr. G. MANNOZZI, (voce) Giustizia riparativa, cit., 468 ss.

[122] V. A. EDWARDS, S. SHARPE, Restorative justice in the context of domestic violence, cit., 6, che fa espresso riferimento allo studio austriaco di C. PELIKAN, Victim-Offender-Mediation in domestic violence cases. A comparison of the effects of criminal law intervention: the penal process and mediation. Doing qualitative research, in Forum: Qualitative Social Research, 2002, 3(1), passim e più di recente ID., We know a lot! A contribution from Austria to the never-ending debate on RJ and domestic violence, in European Forum for Restorative Justice, 2015, 16, 6 ss. Inoltre, come recentemente ribadito, con riferimento alle prassi seguite all’interno dei centri di mediazione italiani, in F. GARBARINO, P. GIULINI, op. loc. ult. cit., «(n)el caso in cui vi sia una vittimizzazione nei confronti di una sola parte, la nostra esperienza evidenzia l’aspetto determinante del riconoscimento del torto subito dalla persona offesa e della sofferenza della stessa».

[123] V. D. COKER, Enhancing Autonomy, cit., 89, la quale osserva che potrebbe rinforzare «the batterer’s belief in the rightness of his behavior», minimizzare «the harm of his violence and control» e minare a «the victim’s belief in her right not to be beaten».

[124] CM/Rec(2018)8.

[125] Si tratta di un’opzione la quale viene ad essere giustificata sulla base del principio di presunzione di innocenza e che è stata posta in linea con quella di prevedere, nella disciplina organica, la separazione della sfera di azione della giustizia riparativa rispetto a quella retributiva. Cfr. sul punto le considerazioni di M. BOUCHARD, Commento al titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, cit., 10 ss. Relativamente all’importanza del «riconoscimento del fatto» per addivenire al «riconoscimento dell’altro», cfr. altresì G. MANNOZZI, (voce) Giustizia riparativa, cit., 478 ss.

[126] M. BOUCHARD, op. loc. ult. cit.; L. PARLATO, Verso un dialogo tra giustizia riparativa e penale?, cit., evidenzia come – assumendo la prospettiva del rispetto della presunzione di innocenza –  l’importanza del cosiddetto riconoscimento del fatto (o di responsabilità), quale presupposto per la stessa esperibilità del programma, rischia di mettere in crisi la predetta presunzione, specialmente se l’intervento di RJ avviene durante il procedimento di cognizione.