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Pubbl. Lun, 18 Set 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Acquisizione illegittima di utenze telefoniche e successiva attività di captazione: esclusa l´operatività dell´inutilizzabilità derivata

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Valentina Ciracì
Praticante AvvocatoUniversità del Salento



Il presente contributo analizza, l’istituto dell’invalidità derivata alla luce della recente Sentenza n. 24492 del 2023 con la quale la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate a seguito di attività operativa illegittima. Il fenomeno della derivazione è al centro di un annoso dibattito e ruota attorno ad un interrogativo: può l’inutilizzabilità propagarsi? Il problema di fondo, dunque, consiste nel comprendere se le prove ottenute mediante il contributo di prove illegittime siano anch’esse invalide o se, al contrario, siano da considerarsi esenti da vizi e pertanto, perfettamente valide.


ENG

Illegitimate acquisition of telephone users and subsequent collection activity: excluding the operation of the derived unusability

This contribution analyzes the institute of derived invalidity in the light of the recent Sentence no. 24492 of 2023 with which the Court of Cassation was called to rule on the issue relating to the unusability of interceptions carried out following illegitimate operational activity. The phenomenon of derivation is at the center of a long-standing debate and revolves around a question: can unusability spread? The basic problem, therefore, consists in understanding whether the evidence obtained through the contribution of illegitimate evidence is also invalid or whether, instead, it should be considered free from defects and therefore perfectly valid.

Sommario: 1. Premessa: la vexata quaestio sull’invalidità derivata; 2. Il paradigma della derivazione tra male captum bene retentum e the fruit of the poisonous tree doctrine; 3. I fatti. 4. La decisione della Corte di Cassazione; 5. Conclusioni.

1. Premessa: la vexata quaestio sull’invalidità derivata

Secondo la nozione comunemente accettata, l’invalidità derivata è quel fenomeno che consente ad un atto viziato di contaminare la regolarità di quelli successivi[1], cosicché l’atto successivo sarà affetto da un vizio di natura derivata. In particolare, per invalidità  derivata si intende «l’invalidità che deriverebbe ad un atto dall’invalidità di un atto precedente»[2]. Numerosi sono i dubbi e le problematiche aperte in materia. E’ possibile la realizzazione del fenomeno diffusivo? E se sì, quali sono le ipotesi in cui la propagazione può concretamente operare?

La perplessità principale deriva dalla presenza di dati normativi limitati: le uniche disposizioni che disciplinano la derivazione sono quelle previste dal codice in materia di nullità, in particolare l’art. 185 cod. proc. pen.  (effetti della dichiarazione di nullità)  e l’art. 604 cod. proc. pen. (questioni di nullità); per le altre specie di invalidità - inutilizzabilità e inammissibilità - il codice tace. 

Nello specifico, si tratta di capire se sia possibile una contaminazione del vizio, tale per cui, l’illegittimità dell’atto precedente possa riflettersi sull’atto successivo anche per le ulteriori tipologie di invalidità e se dunque, possano realizzarsi fenomeni di inammissibilità derivata e di inutilizzabilità derivata, al pari di quanto accade per le nullità.

In assenza di previsioni normative che disciplinano la derivazione per l’inutilizzabilità e per l’inammissibilità, l’art. 185, cod. proc. pen.  – il quale, al comma uno, statuisce che la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo, così cristallizzando la nullità derivata –  viene considerato un importante punto di riferimento.

Difatti, i fautori dell’inutilizzabilità derivata ritengono che il fenomeno diffusivo possa operare anche in tema di inutilizzabilità mediante un’applicazione analogica dell’art. 185, cod. proc. pen., cosicché, l’inutilizzabilità di una prova comporti la conseguente inutilizzabilità delle prove successive e dipendenti.

Al contrario, gli obiettori criticano tale applicazione analogica  dell’art. 185 cod. proc. pen. facendo leva sul principio di tassatività vigente in materia di nullità il cui corollario principale è costituito proprio dal divieto di analogia e sostenendo, in virtù di ciò che, così come non può configurarsi una nullità in ipotesi differenti rispetto a quelle espressamente previste dal codice, allo stesso modo non può essere esteso il principio di diffusività alle ulteriori tipologie di invalidità in assenza di una previsione normativa ad hoc della medesima portata di quella di cui all’art. 185, cod. proc. pen.

Il discorso relativo all’inutilizzabilità derivata si è incentrato in special modo intorno al rapporto tra perquisizione e sequestro, in virtù del legame funzionale[3] sussistente tra l’atto di ricerca della prova e l’atto di materiale apprensione della medesima. Il problema di fondo consiste nel comprendere gli effetti che una perquisizione viziata, realizzata cioè  in assenza o in violazione dei presupposti di legge, genera sul successivo sequestro; la perquisizione sarà sicuramente illegittima, occorre però, interrogarsi sulla sorte dei materiali probatori acquisiti mediante il successivo sequestro. Saranno essi legittimi o l’illegittimità della perquisizione si propagherà contaminando le risultanze probatorie derivanti dal sequestro?

2. Il paradigma della derivazione tra male captum bene retentum e the fruit of the poisonous tree doctrine

La querelle sull’invalidità derivata ruota attorno a due contrapposte correnti di pensiero: la teoria del male captum bene retentum da un lato e la theory of the fruit of the poisonous tree dall’altro.

Il primo orientamento, prevalente nel nostro ordinamento, nega la possibilità di trasmissione del vizio di un atto probatorio su quello successivo, sul presupposto che tra due atti probatori non sussiste alcun legame di dipendenza giuridica ma esistono solo «legami occasionali o dovuti».[4] Secondo tale ricostruzione, sono da ritenersi legittime le prove reperite mediante un sequestro successivo ad una perquisizione illegittima, poiché l’illegittimità della perquisizione non può riflettersi sul sequestro, in ragione dell’assenza di un rapporto di dipendenza di tipo giuridico[5] tra i due mezzi di ricerca della prova.

L’orientamento è stato, peraltro, avallato dalle pronunce della Corte Costituzionale e della Cassazione a Sezioni Unite, negando, in tal modo, ogni chance di riconoscere l’istituto dell’inutilizzabilità derivata, se non a seguito ad un intervento legislativo che, introducendo una norma che la preveda espressamente, possa finalmente risolvere il quesito sulla sorte delle prove derivate e sulla configurabilità di fenomeni di trasmissione del vizio tra atti probatori.

Il secondo orientamento, contrapposto al precedente, è ispirato alla giurisprudenza nordamericana, the theory of the fruit of the poisonous tree, che riconosce la possibilità che i vizi di un atto probatorio siano in grado di propagarsi, a determinate condizioni, su quelli successivi, cosicché la violazione originaria (il vizio da cui era colpito il primo atto) si ripercuota sui frutti della ricerca, contaminandoli a loro volta. La ratio di questa teoria è che così come un albero avvelenato propaga il veleno a tutti i frutti che crescono su di esso, allo stesso modo, i frutti di un atto illegittimo devono ritenersi “avvelenati” e, dunque, a loro volta, illegittimi.

La fruit of the poisonous tree ha suscitato notevole interesse anche all’interno del nostro ordinamento da parte di coloro che auspicano la configurabilità dell’istituto dell’invalidità derivata sulla falsariga del modello americano.

3. Il fatto

La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza datata 1 dicembre 2021, confermava le condanne emesse dal Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Napoli con pronuncia del 19 dicembre 2018. Avverso tale sentenza tutti gli imputati proponevano ricorso per Cassazione.

La difesa sollevava, tra l’altro, la questione relativa all’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni disposte sulle utenze telefoniche degli imputati per illegittima acquisizione dei dati da parte della polizia giudiziaria giacché in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244, 266, 267, 271, 357, cod. proc. pen., 13, 15, 117, Cost., 8 C.E.D.U.

Ed invero, le utenze oggetto di intercettazione nel primo decreto venivano carpite dalla polizia giudiziaria durante un controllo effettuato nei confronti di uno degli imputati e di altri soggetti: in quell’occasione, consultavano il suo dispositivo telefonico e reperivano dalla rubrica i numeri telefonici di interesse investigativo che, successivamente, venivano sottoposti ad attività captativa.

Allo stesso modo, il secondo decreto aveva ad oggetto l’intercettazione dell’utenza telefonica riferibile ad uno degli imputati che la polizia giudiziaria aveva identificato con modalità riservate nonché in assenza di un previo decreto motivato del pubblico ministero.

Per la difesa, dunque, l’intera sequenza che aveva portato all’acquisizione degli elementi probatori doveva ritenersi invalida.

4. La decisione della Corte di Cassazione

Sotto un primo profilo la Corte di Cassazione afferma la legittimità dell’acquisizione dei dati effettuata dalla Polizia Giudiziaria conformandosi all’orientamento già espresso in precedenza[6] secondo il quale l’acquisizione da parte della Polizia Giudiziaria del numero di utenza telefonica mediante l’esame del dispositivo dell’indagato (a sua insaputa) rientra tra gli atti urgenti e innominati demandati agli organi di p.g. ai sensi degli artt. 55 e 348, cod. proc. pen., per i quali non è necessaria una previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. L’esame del dispositivo telefonico finalizzato all’estrazione del numero di utenza non è qualificabile come perquisizione poiché non vi è, alla base, un’attività di ricerca del corpo del reato o di cose pertinenti, né come ispezione atteso che l’utenza telefonica non è considerabile traccia o altro effetto materiale del reato; altresì, non è in alcun modo assimilabile all’attività di acquisizione dei dati del traffico telefonico che necessita una preventiva autorizzazione da parte dell’Autorità Giudiziaria[7].

Dunque, è riconducibile nell’ambito di quelle attività urgenti ed innominate di Polizia Giudiziaria di cui agli articoli 55, 348, cod. proc. pen., finalizzate alla assicurazione delle fonti di prova mediante la raccolta di ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole.[8]

I medesimi principi valgono anche nel caso di attività svolta con le medesime modalità ma finalizzata al reperimento di numeri di utenze telefoniche altrui contattate dal dispositivo telefonico oggetto di esame.

Con queste premesse, la Corte ha affermato la piena legittimità delle operazioni svolte dalla Polizia Giudiziaria e la conseguente utilizzabilità dei risultati probatori sia nell’ipotesi in cui l’esame del dispositivo abbia ad oggetto l’estrazione del singolo numero di utenza del cellulare esaminato, sia nell’ipotesi in cui oggetto di individuazione siano le ulteriori utenze presenti nella memoria del dispositivo poiché precedentemente contattate.

Sotto un secondo profilo, la Cassazione sostiene che pur considerando illegittima l’attività di acquisizione dei dati effettuata nel caso di specie – poiché effettuata in violazione delle norme del codice di rito sopracitate, come sostenuto dai ricorrenti – il risultato non differirebbe in quanto tale invalidità non si propagherebbe sui successivi decreti autorizzativi e non comporterebbe in ogni caso l’inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate.

Dunque, anche a fronte dell’illegittimità delle operazioni effettuate a monte per reperire le utenze telefoniche oggetto di interesse investigativo, resterebbe ferma la piena utilizzabilità dei successivi esiti captativi poiché realizzati in forza di autonomi decreti autorizzativi esenti da vizi e, pertanto, pienamente legittimi.

Questo perché, coma già detto, nel nostro ordinamento non ha mai trovato applicazione il principio dell’invalidità derivata secondo cui, se la fonte della prova o la prova stessa è viziata, ogni cosa successivamente ottenuta tramite essa sarà a sua volta viziata.

Ed invero, nel caso di specie, la Corte di legittimità ribadisce che il principio secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo, non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non altre la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite.[9]

Tale orientamento è stato avallato con ulteriori pronunce che, secondo un indirizzo costante, hanno ritenuto non applicabile il principio dell’invalidità derivata sancito dall’art. 185 cod. proc. pen. per l’inutilizzabilità, sicché la decisione che si basa su una prova vietata (poiché illegittima) non è considerabile di per sé invalida, potendo al più ritenersi nulla per difetto di motivazione, qualora non sussistano prove, ulteriori e diverse da quelle inutilizzabili, idonee a giustificarla.[10]

Ed invero, alle medesime conclusioni è pervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 219 del 2019[11] con la quale è stata chiamata  a pronunciarsi sulla questione inerente l’inutilizzabilità ex art 191 cod. proc. pen. della perquisizione illegittima e del successivo sequestro del corpo del reato o delle cose ad esso pertinenti.  Nello specifico, era stata prospettata una questione di illegittimità costituzionale dell’art. 191 c.p.p. nella parte in cui, secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’autorità giudiziaria con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».

Nell’occasione la Consulta ha affermato che: «è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di "inutilizzabilità derivata", sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall'art. 185, comma 1, cod.  proc. pen., a norma del quale «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo». Derivando il divieto probatorio e la conseguente "sanzione" della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi "estensione" di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa».

Tale ricostruzione è stata confermata con la successiva pronuncia n. 252 del 2020[12], con cui la Corte Costituzionale ha ribadito che le questioni sollevate miravano  a trasferire nella disciplina dell’inutilizzabilità delle prove un regime di invalidità derivata che il sistema prevede, in via generale, solo in rapporto alla figura, ben distinta, della nullità (art. 185, comma 1, cod. proc. pen.) richiedendo, con ciò, una pronuncia «fortemente manipolativa» in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore (quale quella processuale) e con caratteristiche di eccezionalità (quale quella dei divieti probatori e delle clausole di inutilizzabilità processuale).

Da ultimo, con la recente pronuncia n. 247 del 2022 la Consulta ha dichiarato inammissibili “ante portas” le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In particolare, a fronte della riproposizione di questioni inerenti la sussistenza all'interno del nostro ordinamento di fattispecie di inutilizzabilità derivata[13] disciplinate dagli artt. 191 comma 2 bis e 103 cod. proc. pen., ha osservato che: «come, proprio in ragione delle peculiarità "funzionali" che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma "differenziata" di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare”. L'osservazione è riferibile anche alla fattispecie disciplinata dall'art. 103 cod. proc. pen., rispetto alla quale, peraltro, è di immediata evidenza la ragione che ha indotto il legislatore a dettare regole più severe quanto all'inutilizzabilità dei risultati probatori ottenuti contra legem, connettendosi al fatto che le ispezioni e le perquisizioni eseguite presso gli uffici dei difensori incidono non soltanto sull'inviolabilità del domicilio, ma anche sull'inviolabilità del diritto di difesa: diritto che - come nota anche l'Avvocatura dello Stato - di là dalla natura "servente" che il rimettente gli attribuisce, si erge a "principio supremo" dell'ordinamento costituzionale».

Condividendo tali considerazioni, la Corte di Cassazione, nel caso di specie, ha dichiarato l’infondatezza delle doglianze avanzate dalla difesa osservando che non sussistendo un principio generale della inutilizzabilità derivata nel nostro ordinamento, pur ammettendo che l’operazione di acquisizione degli estremi delle utenze telefoniche sia avvenuta illegittimamente, gli esiti della successiva attività captativa rimarrebbero, in ogni caso,  utilizzabili giacché effettuati sulla scorta di autonomi decreti di intercettazione privi di qualsiasi vizio.

5. Conclusioni

In tema di intercettazioni telefoniche, l’illegittimità delle operazioni di acquisizione degli estremi delle utenze telefoniche successivamente sottoposte ad attività captativa ad opera della Polizia Giudiziaria, non determina l'inutilizzabilità delle conseguenti intercettazioni effettuate, non sussistendo – in assenza di una espressa previsione normativa dalla portata equivalente a quella dell’art. 185 cod. proc. pen. – un principio generale di invalidità derivata riferibile anche al vizio dell'inutilizzabilità.

Ai fautori dell’inutilizzabilità derivata, dunque, non resta che sperare in un intervento legislativo chiarificatore che, introducendo una norma che preveda manifestamente la derivazione dell’inutilizzabilità, possa finalmente risolvere la vexata quaestio sulla sorte delle prove successive e dipendenti da una prova ab origine inutilizzabile rafforzando, altresì, l’operatività dell’inutilizzabilità, rimedio posto a tutela della legalità della prova, che sarebbe vanificato ove si consentisse – come di fatto accade – la piena legittimità della prova derivata.


Note e riferimenti bibliografici

[1]  Testualmente, M. Panzavolta, Contributo allo studio dell’invalidità derivata nel processo penale, cit., p. 78.

[2] L’espressione è di G. conso, Il concetto e le specie di invalidità, cit., p. 56,  nello specifico, l’autore analizza dettagliatamente quei fenomeni che vengono prospettati nel corso delle indagini sull’invalidità, introducendo i concetti di “invalidità parziale”, “invalidità derivata” e  “invalidità successiva”. In relazione alla prima sostiene che «la questione consiste nel precisare se l’imperfezione che colpisce un atto in una sua parte investa o no anche le parti restanti».  Mentre, afferma che, per  invalidità successiva si intende «l’invalidità che si riverbererebbe su un atto dall’invalidità di un atto successivo». A detta dell’autore, mentre sarebbero da respingere le tesi sul riconoscimento dei fenomeni dell’invalidità parziale e successiva «del tutto accettabile risulta, viceversa, il concetto di invalidità derivata».

[3] Il riferimento è alla Sentenza Sala, Cass. Sez. un. 27 marzo 1996, Sala, in Cass. pen., 1996, p. 1096,  una celebre sentenza in tema di inutilizzabilità derivata, in cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto la sussistenza di uno stretto nesso funzionale tra la perquisizione ed il sequestro, seppur, in seguito, sia giunta a conclusioni contrapposte e contraddittorie rispetto alle premesse. Nella parte iniziale della Sentenza si legge che «la perquisizione non è soltanto l'antecedente cronologico del sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al sequestro» , «la stessa utilizzabilità della prova è pur sempre subordinata all’ esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili, non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che, attraverso quel procedimento, sia stato conseguito». Tuttavia, prosegue la Corte «allorquando quella ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, è lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti». Ebbene, se da un lato si afferma il rapporto ineludibile tra perquisizione e sequestro e l’idoneità dell’illegittimità della perquisizione a riflettersi contaminando gli esiti del sequestro, dall’altro si precisa che quando il sequestro abbia come esito il rinvenimento del corpo del reato o le cose ad esso pertinenti la polizia giudiziaria ha l’obbligo di sequestrare ai sensi dell’art. 253 c.p.p. Alla luce di ciò, quando quindi si può ipotizzare inutilizzabilità o nullità derivata? Praticamente mai. Ipotizzando che vi sia un decreto di perquisizione illegittimo, nullo o inutilizzabile perché adottato in violazione dei divieti probatori, nel momento in cui si rinvengano cose pertinenti al reato o il corpo del reato il nesso logico-funzionale tra perquisizione e sequestro viene meno perché interviene l’obbligo normativo di sequestrare.

[4] Così, L. Annunziata, Questioni probatorie tra male caputm bene retentum e theory of the fruit of the poisonous tree, cit., p. 79 che nel ricostruire le posizioni della dottrina sulla teoria del male captum, bene retentum afferma che secondo tale orientamento, tra due atti probatori si instaurano del legami meramente “occasionali” o “dovuti” : «quanto all’occasionalità questa si coglierebbe nella circostanza per cui – volendo esemplificare –  non è detto che ad un interrogatorio debba seguire necessariamente un confronto, come non è detto che ad una intercettazione segua un’ispezione; viceversa, la natura di atti dovuti risiederebbe nella constatazione per cui – ancora esemplificando – la perquisizione che consenta di rinvenire il corpo del reato o cose ad esso pertinenti ne impone al perquirente il doveroso sequestro, senza che questi – almeno in linea teorica – possa esercitare un qualsivoglia coefficiente di discrezionalità al riguardo».

[5] Al riguardo, F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, p. 171 secondo il quale, «anzitutto si vuol sapere se la valutazione d’inammissibilità d’una prova si estenda alle successive, di cui la prima ha svegliato l’esistenza: la risposta, a nostro avviso, è nettamente negativa. Tra i vari frammenti del contesto istruttorio intercorre un semplice nesso psicologico (l’illuminazione che ha guidato il giudice a ulteriori svolgimenti dell’opera investigativa): impossibile, quindi, escogitare un fondamento alla tesi rigoristica; l’equivoco sta nel postulare tra le singole iniziative probatorie quel rapporto di dipendenza giuridica, sul quale si basa la nozione del procedimento».  

[6] Il riferimento è alla Sentenza n. 20247 del 27/03/2018 (Sez. 6, Rv. 273273 – 01).

[7] La Corte richiama l’orientamento espresso nella Sentenza Cass. pen., Sez. I, n. 24210 del 13/03/2013, Rv. 255973 – 01 in cui si afferma che la rilevazione del numero di un'utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all’acquisizione dei dati di traffico telefonico conservati presso i gestore dei servizi di telefonia e che, pertanto, non necessita di una previo decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ma può conseguire ad una mera attività ispettiva del dispositivo mobile ad opera della polizia giudiziaria.

[8] Sul punto, già Cass. pen., Sez. IV, n. 3435 del 08/05/2003, Rv. 230060 – 01, Lanzetta, secondo cui inoltre: «l'acquisizione di un cellulare e dei dati segnalati sul display si collocano tra gli atti urgenti demandati alla Polizia giudiziaria e, come tali, non subordinati a preventiva autorizzazione della Autorità giudiziaria»; Cfr., altresì, Cass. pen., Sez, I, 13/3/2013, Romeo, Rv 255973, in cui è stato affermato che «la ulteriore rilevazione del numero di una utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all'acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici e non necessita, quindi, del decreto di autorizzazione dell'autorità giudiziaria, potendo conseguire ad una mera attività di ispezione del telefono da parte della polizia giudiziaria».

[9]  Così, Cass. pen., Sez. II, n. 44877 del 29/11/2011, Rv. 251361 01.

[10] In tal senso, Cass. pen., Sez. VI, n. 5457 del 12/09/2018, Rv. 275029 – 02.

[11] Analizzando nel dettaglio la sentenza, il giudice a quo riteneva che fossero state compiute attività d’indagine particolarmente invasive: il sequestro del corpo del reato (costituito da sostanze stupefacenti) era stato realizzato in seguito ad ispezioni e perquisizioni invalide peoichè effettuate al di fuori dei casi di flagranza ex. art. 352 c.p.p. nonché in assenza di un fondato motivo che potesse indurre a ritenere la sussistenza della detenzione di sostanze stupefacenti ex. art. 103 D.P.R. 309/1990. Secondo il giudice rimettente, dunque, risultava applicabile l’art. 191 c.p.p. poiché la perquisizione compiuta al di fuori dei casi consentiti costituisce un atto vietato e, per tanto alla illegittimità della perquisizione doveva conseguire l’inutilizzabilità del sequestro del corpo del reato, in ossequio alla nota teoria dei "frutti dell'albero avvelenato".

[12] Con tale Sentenza la Consulta ha cristallizzato lo spazio operativo delle inutilizzabilità, statuendo che: «…Distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell'atto. Anche tale vizio resta, peraltro, soggetto - come le nullità - ai paradigmi della tassatività e della legalità. Essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, in quanto componente del giusto processo, è solo la legge a stabilire - con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, «in funzione di scelte di "politica processuale" che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare». Di qui l'impossibilità - ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità - di riferire all'inutilizzabilità il regime del "vizio derivato", che l'art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità" ed aggiungendo che «…Lo stesso assunto del giudice a quo - evocativo della cosiddetta teoria dei "frutti dell'albero avvelenato" - secondo il quale la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole "non paganti"), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore. L'obiettivo di disincentivare possibili abusi risultava, peraltro, perseguito dall'ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta "abusiva" della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità».

[13] Ad avviso del giudice a quo, l’art. 191 cod. proc. pen., secondo l’interpretazione offerta dal diritto vivente, si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost. proprio perché non accoglie la «teoria dei frutti dell’albero avvelenato». Al riguardo, occorre sottolineare che tale teoria - oltre a risultare implicitamente recepita dalle norme costituzionali evocate - non sarebbe affatto estranea al sistema processuale vigente, conoscendo almeno una esplicita applicazione nell’art. 103 cod. proc. pen., in tema di garanzie di libertà del difensore; la disposizione, dapprima  impone delle prescrizioni da osservare per l’esecuzione di ispezioni e perquisizioni negli uffici dei difensori e successivamente statuisce espressamente (al comma 7) che i risultati degli atti eseguiti in violazione di tali prescrizioni «non possono essere utilizzati», così offrendo una dimostrazione concreta di come, in realtà,  l’inutilizzabilità “derivata” non sia un istituto ignoto al nostro ordinamento giuridico e di come essa possa fungere da "modello" ai fini dell’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen. L’argomento viene speso dal rimettente in una duplice prospettiva: per un verso, al fine di dimostrare che la figura dell’inutilizzabilità derivata è già prevista e riconosciuta dall’ordinamento (e che, quindi, alla luce di ciò, mediante declaratoria di illegittimità costituzionale, potrebbe essere estesa alla generalità delle ispezioni e perquisizioni di polizia giudiziaria illegittime); per altro, viene richiamato l’art. 103 cod. proc. pen. come argomento a sostegno dell’asserita violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie disciplinata dalla citata disposizione del codice di rito.