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Pubbl. Mar, 5 Set 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Sulla sospensione del procedimento con messa alla prova e la responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato: profili di compatibilità

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Massimo Coppolino
Università degli Studi di Reggio Calabria Mediterr



Da qualche anno a questa parte la giurisprudenza di merito è stata animata da un dibattito interpretativo di non poco momento: le disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova sono applicabili alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. 231 del 2001? Il contributo mira, da un lato, ad analizzare i diversi orientamenti formatisi sulla questione e la soluzione prospettata dalle Sezioni Unite e, dall´altro, a fornire una chiave di lettura alternativa sulla questione.


ENG

The suspension of the trial procedure and the administrative liability of entities resulting from the offence: compatibility profiles

For some years now, the jurisprudence of merit has been animated by an interpretative debate of many moments: the provisions on suspension of the trial procedure are applicable to the regulation of liability of the entities referred to the D. Lgs. 231 of 2001? The contribution aims to analyse, on the one hand, the different orientations formed on the issue and the solution proposed by United Sections and, on the other, to provide an alternative reading key on the issue.

Sommario: 1. Una necessaria premessa sistematica; 2. Il nodo interpretativo sulla compatibilità tra messa alla prova e responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001; 3. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito a confronto; 4. Il dictum delle Sezioni Unite; 5. L’inversione di rotta: il Tribunale di Bari contesta la Corte di Cassazione; 6. Considerazioni critiche a margine della pronuncia delle Sezioni Unite.

1. Una necessaria premessa sistematica

Con L. 28 aprile 2014, n. 67, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, ispirata al probation, le cui origini risalgono alla prassi dei tribunali nordamericani del XIX secolo e che affonda le sue radici nella pratica del common law inglese del XII - XIII secolo[1].

Vale la pena, in ottica comparatistica e senza alcuna pretesa di esaustività, tracciare i tratti essenziali dell’istituto di origine anglosassone, al fine di individuare i punti di contatto con la disciplina della messa alla prova vigente nel nostro ordinamento. Il probation era così strutturato: alla sospensione di una condanna a pena detentiva, seguiva un periodo di prova in cui l’imputato – di cui era stata accertata la responsabilità penale, ma a cui non era stata ancora inflitta una condanna – era lasciato libero sotto la supervisione di un probation officer, il quale era tenuto a controllare che l’imputato si attenesse agli obblighi comportamentali imposti dall’autorità giudiziaria. In caso di inosservanza delle prescrizioni, il giudice revocava la misura e pronunciava la sentenza di condanna a pena detentiva; l’esito positivo della prova, invece, determinava l’assoluzione dell’imputato. Da quanto appena detto, si evince chiaramente che la caratteristica principale del probation era l’imposizione da parte del giudice di obblighi comportamentali (probation conditions) nei confronti dei condannati, a cui essi dovevano soggiacere perché potessero usufruire dei benefici derivanti dalla misura. Tale schema, invero, è stato riproposto, seppur non pedissequamente, dal Legislatore quando, con L. 67 del 2014, ha introdotto nel nostro ordinamento la disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Con maggior sforzo ricostruttivo, per quanto riguarda i presupposti applicativi dell’istituto de quo, giova preliminarmente rilevare che, in virtù del combinato disposto degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis c.p.p., l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova qualora si proceda per reati per i quali è prevista la sola pena edittale pecuniaria o la pena edittale detentiva non superiore a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, ovvero per i reati in relazione ai quali l’art. 550, co. 2, c.p.p. prevede espressamente la citazione diretta a giudizio nel rito monocratico.

Quanto alle implicazioni pratiche, invece, la messa alla prova comporta in capo all’imputato, da un lato, la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato, e, dall’altro, l'affidamento al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La concessione della messa alla prova è poi subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione non retribuita e che viene imposta tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Con la precisazione che tale prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.

Inoltre, la sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato non può essere concessa più di una volta e non si applica ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

Da un punto di vista squisitamente processuale, la richiesta può essere presentata, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni nello svolgimento ordinario o eccezionale dell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio.

All'istanza è allegato un programma di trattamento, elaborato d'intesa con l'ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile l'elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto programma. Il programma in ogni caso prevede: le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale; le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa e lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa.

Decorso dunque il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice, tenuto conto del comportamento dell'imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, se ritiene che la prova abbia avuto esito positivo, dichiara estinto il reato; in caso di esito negativo della prova, il giudice dispone che il procedimento riprenda il suo corso.

Ebbene, da quanto sin qui detto, appaiono evidenti gli elementi di somiglianza tra il probation e la sospensione del procedimento con messa alla prova, sebbene tale ultimo istituto conservi le proprie peculiarità.

Tanto chiarito, giova soffermarsi sulla natura e sulla finalità assolta dall’istituto ispirato al probation. In particolare, la ratio sottesa alla sospensione del procedimento con messa alla prova è quella, per un verso, di deflazionare il carico giudiziario e, per altro verso, di perseguire il reinserimento sociale “anticipato” degli imputati di reati di minore gravità. Quanto alla natura giuridica, sotto il profilo processuale, si tratta di un procedimento speciale; dal punto di vista sostanziale, in caso di esito positivo della prova, l’istituto si configura come una causa di estinzione del reato.

Più nel dettaglio, la peculiarità della messa alla prova è che essa comporta necessariamente la prestazione di lavoro di pubblica utilità, che nel nostro ordinamento è caratterizzato da una singolare natura sanzionatoria. Al riguardo, la Consulta, con sentenza n. 91 del 2018, ha precisato che il tratto distintivo dell’istituto in parola consiste nel dato per cui l’esecuzione del trattamento è rimessa alla volontà dell’imputato, che liberamente può farla cessare, con l’unica conseguenza che il processo riprende il suo corso. In altre parole, il tratto saliente dell’istituto de quo consiste nel riservare alla volontà dell’imputato non soltanto la decisione sulla messa alla prova, ma anche la sua esecuzione. Ne discende che, rispetto alla sanzione, difetta l’elemento della coercività.

Avuto dunque riguardo dei tratti, sostanziali e processuali, che caratterizzano la sospensione del procedimento con messa alla prova, si rende necessario volgere lo sguardo all’animato dibattito, cui si è assistito negli ultimi anni, in seno alla giurisprudenza di merito, avente ad oggetto l’applicabilità delle norme riguardanti l’istituto di cui si è sinora trattato nell’ambito della disciplina della responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001.

2. Il nodo interpretativo sulla compatibilità tra messa alla prova e responsabilità degli enti di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001

Il dubbio ermeneutico ruota attorno alla natura giuridica della sospensione del procedimento con messa alla prova. In effetti, la dottrina suole definire la messa alla prova come un istituto a duplice natura giuridica, avente natura sostanziale, quale causa di estinzione del reato, e natura processuale, quale modalità di sospensione del procedimento penale[2].

Tale impostazione, tuttavia, non fornisce una risposta adeguata all’esigenza di dirimere il contrasto interpretativo circa la compatibilità della messa alla prova e la disciplina contenuta nel D. Lgs. 231 del 2001.

Con maggior grado di dettaglio, sulla questione si sono formati due orientamenti.

Secondo un primo orientamento, sposato dalla Corte costituzionale, l’istituto della messa alla prova avrebbe natura processuale. In particolare, pur avendo effetti sostanziali, tra cui l’estinzione del reato, la messa alla prova si caratterizzerebbe per un’intrinseca dimensione processuale, in quanto il Legislatore ha inteso introdurre nel codice di rito un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio[3]. Da tale impostazione discende la natura di norme processuali delle norme disciplinanti l’istituto de quo, valendo così il principio del tempus regit actum, secondo cui queste sarebbero inapplicabili retroattivamente. In altre parole, tali norme non troverebbero applicazione nell’ambito della disciplina della responsabilità degli enti derivante da reato.

Secondo un’altra impostazione ermeneutica, non può revocarsi in dubbio che la messa alla prova abbia natura sostanziale, trovando perciò applicazione l’art. 2, co. 4, c.p. e il principio di retroattività della lex mitior.

Tuttavia, nell’ambito di tale ricostruzione si sono formate due contrapposte teorie: secondo taluno, l’istituto dovrebbe interpretarsi in senso favorevole al reo, tenuto conto che l’esito positivo della prova porta all’estinzione del reato[4]; secondo un’altra teoria, invece, l’istituto dovrebbe interpretarsi in senso sfavorevole al reo, stante l’incertezza dell’esito del trattamento[5].

Nondimeno, sebbene oggi appaia pacifico che la messa alla prova debba essere qualificata come istituto ibrido, avente natura processuale con effetti sostanziali, resta comunque vivo il dibattito sulla natura degli effetti dell’istituto de quo. Infatti, se da un lato vi è chi sostiene che la messa alla prova produca effetti sfavorevoli, perché da essa deriva l’adozione di determinate prescrizioni obbligatorie aventi finalità specialpreventiva e repressiva; dall’altro non manca chi ne esclude la natura sanzionatoria, assumendo dirimente rilievo gli effetti in bonam partem che ne derivano.

È chiaro comunque che la risposta al quesito di cui si è appena dato atto non è sufficiente a cogliere in termini assoluti se vi sia, o meno, un rapporto di compatibilità tra la messa alla prova e la disciplina di cui al D. Lgs. 231 del 2001, dovendo essere presi in considerazione altri fattori, di cui si dirà a breve.

Ad ogni modo, vale la pena rilevare fin da subito che, di recente, la Corte di Cassazione, riunita nella sua più autorevole formazione, ha espressamente sancito il principio secondo il quale l’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168 bis c.p. non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti derivanti da reato[6].

3. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito a confronto

Prima di dar conto delle ragioni sottese alla decisione della Suprema Corte, giova prendere atto del contrasto sorto in materia in seno alla giurisprudenza di merito[7].

Invero, secondo un primo filone ricostruttivo l’ente collettivo non può essere destinatario delle disposizioni disciplinanti la sospensione del procedimento con messa alla prova.

In tal senso, depone la natura sostanziale e, ancor di più, sanzionatoria del rito della sospensione del procedimento con messa alla prova. Con maggior sforzo ricostruttivo, è stato detto che il carattere dell’afflittività, proprio del programma di trattamento, sub specie del lavoro di pubblica utilità, elaborato di intesa con l’ufficio di esecuzione penale, come vuole l’art. 464 bis c.p.p., assume dirimente rilievo affinché possa farsi rientrare a pieno titolo il rito speciale nella categoria delle sanzioni penali. Con la precisazione, si rammenta, che queste ultime sono applicabili solo ai casi tassativamente previsti dalla legge, con esclusione, stante l’assenza di qualsivoglia espresso riferimento normativo, dell’illecito punitivo degli enti. In altre parole, si è ritenuto che, estendendo l’applicabilità delle norme in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova anche nei confronti degli enti collettivi, si invererebbe una violazione del disposto costituzionale di cui all’art. 25 della Carta fondamentale, che sancisce il principio di riserva di legge in materia penale. Ma v’è di più. Quanto appena detto costituirebbe altresì una violazione, a livello sovranazionale, dell’art. 7 CEDU, costituente un parametro interposto di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117 Cost.[8].

A sostegno della tesi in parola, è stato poi rilevato che il mancato coordinamento del d.lgs. n. 231/2001 con le norme inerenti la sospensione del procedimento con messa alla prova rappresenterebbe una lacuna disciplinare intenzionale del Legislatore del 2014; la ratio della responsabilità da reato degli enti sarebbe altresì incompatibile con le finalità sottese al meccanismo sospensivo in questione, specialmente perché il lavoro di pubblica utilità, elemento essenziale del percorso di risocializzazione dell’imputato, finirebbe per risolversi in un mero risarcimento a favore della collettività[9].

Su tale scia interpretativa, si pone una recente decisione del Tribunale di Spoleto, che ha ritenuto impossibile l’applicazione analogica all’ente della disciplina della messa alla prova, non tanto perché questa contrasta con il principio di tassatività della legge penale, trattandosi di analogia in bonam partem, quanto perché l’operazione analogica sarebbe ostacolata da incertezze operative, nella misura in cui rimarrebbe imprecisato l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti, non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità.

È stato inoltre precisato che l’operazione analogica determinerebbe una sostanziale elusione dell’art. 17 del D. Lgs. 231/2001, tenuto conto che la norma già prende in considerazione le attività che costituiscono l’oggetto della messa alla prova, riconducendovi, però, un effetto giuridico diverso dall’estinzione dell’illecito, consistente nell’applicazione di un trattamento sanzionatorio più mite.

Su un piano diametralmente opposto, si pongono due recenti ordinanze del Tribunale di Modena, con le quali, da un lato, ha ritenuto applicabili le disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova anche alle persone giuridiche[10] e, dall’altro, ha precisato che l’ammissibilità dell’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova è subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società: essersi dotata, prima del fatto, di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché solo per tal via sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente, che dimostrerebbe, così, di essere stato diligente e di avere adottato un modello fatto su misura in ordine alle proprie esigenze specifiche, per quanto valutato non idoneo dal giudice[11].

4. Il dictum delle Sezioni Unite

Al fine di dirimere il contrasto sorto in seno alla giurisprudenza di merito, le Sezioni Unite della Suprema Corte sono intervenute stabilendo che l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti derivante da reato[12].

La soluzione prospettata dal Supremo Consesso muove dalla premessa della natura sanzionatoria della sospensione del procedimento con messa alla prova e di tertium genus della responsabilità degli enti.

Con maggior sforzo ricostruttivo, in ordine alla messa alla prova, ne è stata evidenziata la natura di trattamento sanzionatorio penale, oltre che di rito speciale e di causa estintiva. In particolare, la natura sanzionatoria si ricaverebbe dalla previsione dell’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, dalla valutazione dell’idoneità del programma di prova alla stregua dell’art. 133 c.p. e dallo scomputo del periodo di esecuzione della prova dalla pena da eseguire, in caso di condanna successiva alla revoca o all’esito negativo della messa alla prova, come stabilito dall’art. 657 bis c.p. Con riferimento, invece, al secondo aspetto, giova rilevare che, secondo l’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità[13], la responsabilità da reato degli enti costituisce un tertium genus di paradigma punitivo, che, volendo usare un’espressione di hegeliana memoria, sintetizza i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.

Ebbene, proprio alla luce di tali premesse, i Giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto che il principio della riserva di legge impone che non possa essere applicato un trattamento sanzionatorio alle persone giuridiche in relazione agli illeciti di cui al D. Lgs. 231/2001 che non siano espressamente contemplati dalla legge penale.

A ciò si aggiunga, poi, che non può farsi ricorso allo strumento dell’analogia, ancorché in bonam partem, considerato che la responsabilità da reato degli enti non è né assimilabile, né omogenea al sistema penale.

Sotto altro aspetto rileva la natura di tertium genus della responsabilità degli enti, da cui si sarebbe voluto far discendere solo le garanzie che assistono il sistema penale, e non anche un trattamento sanzionatorio non previsto dalla legge, inverandosi, altrimenti, una chiara violazione dell’art. 25, co. 2, Cost.

Si è altresì evidenziata la difficoltà di concepire una rieducazione e una risocializzazione della persona giuridica, soggetto non imputato, privo di sostrato psicofisico, nonché l’impossibilità di disporre nei confronti degli enti misure quali il divieto di frequentare determinati luoghi ovvero che impongono l’obbligo di dimora o limitano la libertà di movimento.

La Suprema Corte ha, infine, rilevato come la disciplina sanzionatoria degli enti già contempli forme di riparazione delle conseguenze del reato, con effetti differenti da quello estintivo della sanzione, e la sospensione con messa alla prova non può essere annoverata tra le cause estintive dell’illecito indicate nell’art. 67, D. Lgs. 231/2001.

5. L’inversione di rotta: il Tribunale di Bari contesta la Corte di Cassazione

La decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sembrava aver messo la parola fine in ordine al contrasto sorto sulla questione oggetto di esame. Ma così non è stato.

Più di recente, infatti, il Tribunale di Bari, con sentenza n. 3601 del 15 giugno 2023, discostandosi dal dictum della Suprema Corte, ha accolto la tesi secondo la quale l’ente collettivo può essere destinatario delle disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova.

D’altronde, come rileva il Giudice di merito, «nell’ordinamento italiano, il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione, pur a Sezioni Unite, non è fonte del diritto, rappresentando piuttosto, la generalizzazione dell’interpretazione di una disposizione in relazione ad una fattispecie concreta. La sua formulazione è il risultato di un’operazione interpretativa, attraverso cui la decisione individuale viene ricondotta sotto una regola generale valida per casi uguali, simili o assimilabili. In altri termini, il principio di diritto assolve la funzione di universalizzare la decisione individuale e, consolidandosi nel tempo, esso realizza la funzione nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione».

Tanto premesso, andando al cuore della questione, il Tribunale ha anzitutto sottolineato che, pur volendo ritenere che l’ammissione dell’ente alla messa alla prova sia il frutto non già di un’interpretazione estensiva, ma di un’applicazione analogica in bonam partem della legge penale, ciò non sembrerebbe contrastare con il principio di riserva di legge, corollario del principio di legalità sancito all’art. 25, co. 2, Cost.

Invero, il ricorso all’analogia non collide mai, in maniera diretta, con il principio di riserva di legge, atteso che è pur sempre da una disposizione di legge che si prendono le mosse per la regolamentazione del caso non espressamente previsto; piuttosto, si ritiene opportuno verificare se il ricorso all’analogia non violi il diverso principio di tassatività della legge penale, ulteriore corollario del principio di legalità.

Come noto, infatti, prosegue il Giudice di prime cure, l’analogia in bonam partem non contrasta con il principio di tassatività, in quanto conforme alla ratio di quest’ultimo, che è quella di garantire la libertà personale del cittadino contro ogni possibile arbitrio dei poteri esecutivo e giudiziario.

Sotto altro punto prospettico, giova considerare che se è vero che le Sezioni Unite aderiscono alla impostazione ermeneutica della natura di sanzione penale della messa alla prova, è anche vero che, secondo lo stesso orientamento, l’istituto ha, al contempo, anche natura di causa di estinzione del reato, per la quale, attesa la sua incontestabile portata generale, l’ammissibilità dell’analogia in bonam partem non è revocabile in dubbio.

Giova altresì considerare che affermare, come professato dalle Sezioni Unite nel 2014 nella nota sentenza ThyssenKrupp, che la responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 coniuga elementi dell’ordinamento penale e di quello amministrativo non significa che i primi siano incompatibili con i secondi; al contrario, tali elementi si pongono in un rapporto di complementarietà, avuto riguardo alla loro ratio, poiché si collocano nel solco del finalismo rieducativo.

In ragione, poi, dell’espresso rinvio degli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001 alle norme del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili, potrebbe ritenersi che l’applicabilità delle disposizioni inerenti la sospensione del procedimento con messa alla prova sia frutto di una mera interpretazione estensiva della legislazione vigente, in luogo di una fattispecie ad analogia espressa; del resto, pure in quest’ultimo caso, l’analogia, in quanto espressa, sarebbe, allora espressamente consentita dal legislatore, con il solo limite della compatibilità.

Infine, vale la pena rammentare che anche la dottrina ha manifestato il suo favore circa l’applicabilità delle disposizioni in materia di messa alla prova all’ente. Invero, è stato sostenuto che «la trasposizione dell’alternativa di cui agli artt. 464 bis ss. c.p.p. nel peculiare contesto in esame non comporta chissà quali forzature ermeneutiche. L’istituto deflattivo premiale palesa infatti una spiccata affinità con le svariate occasioni di ravvedimento che si ripetono lungo tutto l’arco processuale di cui la persona giuridica è protagonista; affinità, questa, destinata a emergere ancor più chiaramente se si considera che il decreto già contempla situazioni che comportano, al pari del probation, una momentanea paralisi del rito funzionale al perfezionamento di condotte di operosa resipiscenza (artt. 49 e 65)»[14]. Pertanto, «ove mai si negasse all’ente la facoltà di richiedere la messa alla prova, si finirebbe, in fondo, per rinnegare la stessa natura intimamente rieducativa del processo per gli illeciti de societate»[15].

6. Considerazioni critiche a margine della pronuncia delle Sezioni Unite

Sebbene la questione presenti profili ermeneutici di particolare complessità, non sembra azzardato affermare che la pronuncia del Tribunale di Bari sia incontestabile. Fermo restando, dunque, quanto statuito dal Giudice di prime cure, è tuttavia opportuno, a parere di chi scrive, considerare ulteriori elementi.

Ebbene, giova anzitutto rilevare che è pur vero che le persone giuridiche siano prive di un sostrato psicofisico, ma è anche vero che tale elemento non possa ritenersi sufficiente per precludere l’applicabilità delle disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova con riferimento alla disciplina del D. Lgs. 231/2001. Infatti, a partire dall’entrata in vigore della Carta Fondamentale, in virtù del combinato disposto degli artt. 2 e 18 Cost., si è assistito ad un processo di congiungimento, seppur attenuato, per i motivi di cui si dirà a breve, tra persone fisiche e persone giuridiche. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al riconoscimento, seppur in termini relativi, in favore delle persone giuridiche dei diritti della personalità. Ciò significa che è anche possibile che l’ente sia offeso nel proprio onore o nella propria reputazione o prestigio, con conseguente risarcimento ex art. 2059 c.c., quale riparazione equitativa della lesione di diritti non patrimoniali, dovendosi accertare e provare, anche presuntivamente, con riferimento alla diminuita considerazione nell’agire dell’ente e dei suoi rappresentanti, i quali ne risentono personalmente. Egualmente è a dirsi per la lesione del diritto alla denominazione, all’identità personale, restando esclusi solo i diritti alla vita, all’integrità fisica, alla libertà morale, collegati in via immediata e diretta alla singola persona fisica[16]. Ne discende che nessuna difficoltà si ravviserebbe nel concepire una rieducazione e una risocializzazione della persona giuridica, atteso che, stante quanto appena detto, si ritiene che essa debba avere diritto a riacquisire l’originaria considerazione del suo agire e dell’agire dei propri rappresentanti. In tal senso, poi, appare convincente quanto sostenuto da attenta dottrina: se l’ente può delinquere allora non si comprende perché esso non possa redimersi mediante l’elaborazione di un programma ad hoc, specificamente costruito e pensato per la struttura societaria, atteso che, sebbene il D. Lgs. 231/2001 qualifichi la responsabilità dell’ente come amministrativa, trovano applicazione le norme processualpenalistiche e le garanzie del processo penale, tra cui si annoverano la natura rieducativa del processo e la possibilità per l’ente di compiere condotte riparative e ripristinatorie[17].

Nello stesso senso depone la disposizione di cui all’art. 168 bis, co. 3, c.p., che, utilizzando l’espressione “tra l’altro”, individua solo a titolo esemplificativo le implicazioni del programma di trattamento, lasciando spazio a prescrizioni di diversa natura rispetto a quelle indicate nella norma de qua e che meglio possono adattarsi alle esigenze di rieducazione e risocializzazione dell’ente.

Il finalismo rieducativo troverebbe peraltro concreta attuazione attraverso il sistema dei compliance programs, di origine nordamericana, ed ormai noto nel nostro ordinamento, id est con l’adozione di modelli di organizzazione e di gestione volti a prevenire i reati tassativamente indicati nel D. Lgs. 231 del 2001 ed una inadeguata vigilanza da parte degli organismi di controllo. Per tal via, perciò, tale modello rappresenterebbe l’elemento di congiunzione tra la logica di prevenzione del crimine, su cui si fonda il sistema delineato dal D. Lgs. 231 del 2001, e le finalità proprie della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Si ritiene poi che siano prive di fondamento le ragioni addotte dalle Sezioni Unite sulla incompatibilità tra la disciplina del D. Lgs. 231 del 2001 e le disposizioni inerenti la sospensione del procedimento con messa alla prova che poggiano precipuamente sulla natura sanzionatoria di quest’ultimo e di tertium genus della responsabilità degli enti. I rilievi operati dal Tribunale di Bari nella sentenza sopra citata sono, infatti, a parere dello scrivente, ineccepibili. Invero, da un lato, deve ritenersi prevalente la finalità del procedimento speciale in parola, in virtù del principio del favor rei, su cui poggia, tra gli altri, il nostro ordinamento, tenendo a mente che, in caso di esito positivo della prova, il reato è dichiarato estinto; dall’altro, deve rilevarsi che la natura peculiare della responsabilità degli enti derivante da reato, coniugando elementi propri dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, conduce a ritenere che gli istituti in parola si pongono in termini di compatibilità, sub specie di complementarietà.

Non si invererebbe, poi, alcuna violazione del principio di riserva di legge, corollario del principio di legalità sancito all’art. 25, co. 2, Cost., né tantomeno del principio di tassatività, anche laddove si volesse ritenere che l’ammissione dell’ente alla prova sia il frutto non già di un’interpretazione estensiva, ma di un’applicazione analogica in bonam partem della legge penale. Per tal via, sarebbe superato anche quanto sostenuto dalle Sezioni Unite, laddove affermano che la disciplina sanzionatoria degli enti già contempli forme di riparazione delle conseguenze del reato, con effetti differenti da quello estintivo della sanzione, e la sospensione con messa alla prova non può essere annoverata tra le cause estintive dell’illecito indicate nel D. Lgs. 231/2001.

Inoltre, viene in rilievo il richiamo espresso operato dagli artt. 34 e 35 del D. Lgs. 231/2001, in virtù dei quali, in quanto compatibili, per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le disposizioni del codice di procedura penale e si applicano all’ente le disposizioni processuali relative all’imputato.

In definitiva, tale ultimo elemento, congiuntamente agli altri di cui si è dato conto, non può che condurre, a giudizio di chi scrive, alla conclusione per la quale tra il sistema delineato dal D. Lgs. 231 del 2001 e la disciplina dettata in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova sussista un rapporto di assoluta compatibilità.


Note e riferimenti bibliografici

[1] T. PADOVANI, L'utopia punitiva, Milano, 1981, 52.

[2] V. BATTISTELLI, La probation: l’estensione della messa alla prova dei minorenni ai maggiorenni, in Diritto.it, 4 aprile 2018.

[3] Corte Costituzionale n. 240 del 7 ottobre 2015.

[4] F. FILICE, Messa alla prova: un vademecum da Vercelli, in www.questionegiustizia.it, 2 luglio 2014; MURRO O., Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014, in Stud. Iuris, 2014.

[5] G. L. FANULI, L’istituto della messa alla prova ex lege 28 aprile n. 67. Inquadramento teorico e problematiche applicative, in Archivio della nuova procedura penale, 2014, 441.

[6] Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2022 – 6 aprile 2023, n. 14840.

[7] Sul punto v. M. MOSSA VERRE, La “messa alla prova” degli enti collettivi è esclusa anche dalla Cassazione a Sezioni Unite, in Sist. Pen., 5/2023; A. NOCERA, C. ZUCCARO, Processo penale: la messa alla prova per le persone giuridiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Riv. Cammino Diritto, Fasc. 06/2023.

[8] In questi termini si è espresso il Tribunale di Milano, ordinanza del 27 marzo 2017.

[9] Tribunale di Bologna, ordinanza del 10 dicembre 2020.

[10] Tribunale di Modena, ordinanza dell’11 dicembre 2019.

[11] Tribunale di Modena, ordinanza del 15 dicembre 2020.

[12] Cass., Sez. Un., cit.

[13] Ex multis Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343, ThyssenKrupp.

[14] G. GARUTI, C. TRABACE, Qualche nota a margine della esemplare decisione con cui il Tribunale di Modena ha ammesso la persona giuridica al probation, in Giurisprudenza Penale, 4/2020, 123.

[15] F. CENTORAME, Enti sotto processo e nuovi orizzonti difensivi. Il diritto al probation dell'imputato-persona giuridica. In L.M. LUCA LUPARIA (a cura di), Diritti fondamentali e processo all'ente. L'accertamento della responsabilità d'impresa nella giustizia penale italiana e spagnola, Torino, 2018, 200.

[16] GAZZONI F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, 158.

[17] Così NOCERA A., ZUCCARO C., cit., 15.