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Pubbl. Mer, 16 Dic 2015
Sottoposto a PEER REVIEW

La sospensione del procedimento con messa alla prova

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Fabio Zambuto


A poco più di un anno dall´entrata in vigore della l. n. 47 del 2014, abbiamo raccolto gli approdi giurisprudenziali più recenti cui è giunta la Suprema Corte di Cassazione fornendo un più completo quadro sinottico dell´istituto, garantendo maggiore chiarezza all´interprete onde meglio orientarsi nel nuovo panorama normativo e giurisprudenziale. L´elaborato è stato dattiloscritto dagli autori: Natale Pietrafitta e Fabio Zambuto, i quali hanno seguito gli orientamenti della magistratura di merito formatasi nell´anno solare trascorso grazie all´analisi di questioni pratiche con le quali si sono confrontati nel periodo di formazione teorico pratica presso gli Uffici Giudiziari della V sezione Penale del Tribunale di Palermo.


Alla ricerca di “certezze” nel più ampio scenario delle “incertezze”

La sospensione del procedimento con messa alla prova
Aggiornato con la più recente giurisprudenza di legittimità
(A cura di Natale Pietrafitta e Fabio Zambuto)

Sommario: 
– Premessa
– 1. Generalità dell’istituto
– 1.1. finalità
– 1.2. fisionomia dell’istituto
– 1.3. profilo sostanziale
– 1.4. profilo processuale
– 2. Criticità
– 2.1. la natura della messa alla prova e questioni di diritto intertemporale
– 2.2. la clausola di invarianza finanziaria
– 2.3. il programma di trattamento
– 2.4.  Inammissibilità della sospensione parziale
– 2.5. il ruolo della persona offesa.

 

Premessa (a cura di Natale Pietrafitta)

Il 2 maggio 2014 è stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale, la legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili».

Sotto la veste formale di una apparente esclusiva delega legislativa al Governo, la legge sopracitata interviene, in via principale, introducendo nella sua seconda parte l’istituto della messa alla prova dei maggiorenni, con la previsione e l’inserimento nel codice penale degli artt. 168 bis, 168 ter e 168 quater, nonchè escogitando disposizioni processuali che sono ricomprese dal nuovo Titolo V bis del codice di rito e che sono previste agli artt. 464 bis, 464 ter, 464 quater, 464 quinquies, 464 sexies, 464 septies, 464 octies e 464 novies[1].

Si deve subito anticipare che l’attività novellistica dell’attuale legislatura è sembrata, negli ultimi tempi, frenetica e frettolosa. Ciò ha portato alla stesura di disposizioni a volte non ben coordinate.

Si può affermare che l’entrata in vigore dell’istituto della messa alla prova, anche all’interno del processo penale ordinario, di certo, non ha colto di sorpresa. In effetti, si è trattato di una novità preannunciata ormai da diversi anni: numerose sono state le discussioni parlamentari che hanno anticipato la promulgazione della legge n. 67 del 2014.

La possibilità di introdurre l’istituto de quo anche per l’imputato maggiorenne è stata più volte presa in considerazione in diversi disegni di legge, che costituiscono la base ideologica ed ermeneutica su cui poggia la disciplina oggi in esame[2].  

L’istituto della messa alla prova, pervero, non costituisce una novità nell’ordinamento italiano: il d.p.r. 448 del 1988, infatti, prevede l’applicazione di una simile disciplina ad una platea di destinatari non ancora maggiorenni, poi estesa a quei soggetti che, infradiciottenni al tempus commissi delicti, siano divenuti maggiorenni nelle more del giudizio.

Ispirandosi alla sola precedente esperienza di probation processuale nota all’ordinamento, la legge in commento la trasferisce acriticamente in un’area della giustizia penale ben più estesa ed ispirata a principi e ad un’ “ideologia” processuale totalmente differente.

Il fatto di non essersi posti il problema di come rendere l’istituto compatibile con questo diverso contesto normativo e di non farsi carico della consapevolezza di alcuni problemi e criticità che l’esperienza del rito minorile ha oramai evidenziato, fa e farà sorgere diversi problemi che esigono ed esigeranno una riflessione seria ed articolata.

Questi i motivi per i quali la disciplina de qua ha impegnato, e impegna, inevitabilmente, magistrati, avvocati e operatori Uepe in modo affannoso, nella ostica ricerca di soluzioni, almeno plausibili, idonee a consentire una adeguata applicazione dell’istituto in esame.

La sospensione del processo, a seguito di messa alla prova dell’indagato o dell’imputato, infatti, presenta dei connotati dal carattere trasversale, capaci di invadere plurime sfere di competenza: gli avvocati si trovano, oggi, in dovere di collaborare con l’ufficio di esecuzione penale esterna, al fine di strutturare, di concerto, un programma trattamentale quanto più congruo possibile e votato alla ratio normativa; i magistrati, si trovano in dovere di fondare una decisione circa il rispetto dei limiti di accesso, la bontà del programma e il successo di quest’ultimo quanto più adeguata e meno superficiale possibile e, infine, gli operatori dell’Uepe si devono cimentare nella stesura di programmi idonei ai destinatari adulti, non essendo sufficientemente sfruttabile l’esperienza maturata nei confronti dei minori. Il tutto nonostante, come si vedrà, la cd. “clausola di non varianza”.

Va detto che lo studio attento della nuova disciplina ha, prima facie, quantomeno preoccupato gli operatori giuridici, impegnati nell’applicazione del “nuovo” istituto. La sospensione del procedimento, infatti, ha immediatamente evidenziato delle falle che, seppur superabili nella prassi applicativa, ancora non consentono una lettura serena delle disposizioni contenute nel testo di legge.

1. Generalità dell’istituto.

1.1. Finalità (a cura di Fabio Zambuto).

Due scopi con un solo mezzo: l’impianto normativo della legge n. 67/2014 è strutturato sull’esigenza di individuare soluzioni alternative al carcere e, allo stesso tempo, deflattive del processo, ispirandosi al principio di residualità della sanzione penale e di minor sacrificio possibile della libertà personale[3]. Si tratta, pertanto, di disposizioni che conciliano non solo i principi di proporzionalità e legalità della pena, ma anche di rieducazione ed umanizzazione della stessa, in linea con quanto stabilito dall’art. 27 della Costituzione.

Un simile intervento era inevitabile, soprattutto alla luce degli ultimi “approdi” europei[4]. Accanto all’esigenza di ovviare alla drammaticità del sovraffollamento carcerario, poi, vi è quella, sollecitata dai documenti provenienti dall’Unione[5], di individuare istituti alternativi al processo penale, idonei a dare una diversa risposta a determinate categorie di reati.

Risulta evidente, dunque, la volontà di iniziare ad introdurre nell’ordinamento italiano un nuovo modello di giustizia penale, meno repressivo, rieducativo e, contemporaneamente, attento alle esigenze della vittima.

In prima approssimazione, in effetti, può affermarsi che l’istituto realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita, riallacciandosi alla tradizione anglosassone del probation[6].

Più precisamente, come enunciato nella relazione illustrativa, le finalità perseguite dal legislatore consistono nell’offerta di un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale, accompagnata dalla funzione deflattiva dei procedimenti penali, attuata attraverso l’estinzione del reato dichiarata dal giudice nell’ipotesi di esito positivo della prova. L’intervento, allora, mira a realizzare una equilibrata de-carcerizzazione, conferendo effettività al principio del minor sacrificio possibile per la libertà personale e incidendo su un contesto caratterizzato dalla mancata valorizzazione dei percorsi alternativi rispetto a quelli strettamente processuali per la soddisfazione di esigenze special-preventive e da fenomeni di inflazione del carico dei giudizi penali, forieri di incertezza e sfiducia collettiva[7].

L’intento del legislatore era quello di adeguare la disciplina prevista per la messa alla prova alle esigenze tipiche del processo penale, in modo da coadiuvare le finalità rieducative e risocializzanti con quelle preventive, evitando una semplice trasposizione dell’istituto dal processo minorile al rito ordinario.

Un’attenzione particolare, nelle intenzioni del legislatore, doveva essere dedicata alla vittima del reato, alla riparazione e alla mediazione penale, permettendo, così, all’istituto di inserirsi nel solco della giustizia riparativa, ossia di quel modello di giustizia più mite e meno repressivo, alternativo al processo e basato su un paradigma rieducativo, riabilitativo e conciliativo. Come si avrà modo di notare in seguito, invece, i poteri della persona offesa (cioè, della vittima) di partecipare e di incidere sulla messa alla prova sono delineati in modo eccessivamente generico.

In linea di principio, si può affermare che l’introduzione della messa alla prova per gli indagati o imputati maggiorenni risponde ad una nuova logica di mitezza e umanità del sistema penale: il cambiamento di rotta in materia di politica criminale è dovuto alla constatazione che l’enfasi parossistica posta sulla sicurezza, con l’aumento a tutti i costi delle pene e dei reati, con il pugno di ferro applicato ai recidivi, ha prodotto effetti deleteri sul sistema penitenziario.

Se la filosofia di fondo è apprezzabile, i dubbi si annidano invece sugli aspetti più tecnici della disciplina introdotta: è sotto questo profilo che si deve valutare in quale misura gli obiettivi perseguiti possano effettivamente essere raggiunti.

 

1.2.  Fisionomia dell’istituto (a cura di Natale Pietrafitta).

La nuova disciplina riprende le caratteristiche dell’istituto già previsto nel rito minorile, seppure con i dovuti distinguo.

La normativa contenuta nel d.p.r. 448/1988 prevede, all’art. 28, che il giudice, sentite le parti, possa disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova[8].

Salta subito agli occhi la prima fondamentale differenza, ovvero quella relativa all’ambito di applicazione della “nuova” messa alla prova (art. 168 bis c.p.), limitato ai soli reati puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché ai delitti indicati dall’art. 550, co. 2, c.p.p..

Inoltre, la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta e non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108 c.p., ovvero ai delinquenti e contravventori abituali, professionali e ai delinquenti per tendenza.

La messa alla prova minorile, invece, non soffre alcun tipo di limite (connesso alla gravità del reato commesso o alla personalità dell’imputato) alla possibilità di accesso del minore.

Ciò appare pacifico se si pensa al duplice scopo perseguito dall’art. 28 del d.p.r.: recupero personale e futura prevenzione sociale della misura, finalizzata a favorire ed a soddisfare – senza esclusioni di sorta, né oggettive, né soggettive – le esigenze di reinserimento del reo.

Oltre ad una prospettiva di fondo radicalmente diversa, inoltre, risultano ben differenti qualitativamente e quantitativamente sia la progettualità globale, quanto la tipologia delle prestazioni, improntate al ravvedimento, dei due istituti.

Come diretta conseguenza di ciò, all’interno della disciplina del nuovo istituto, il consenso dell’imputato risulta avere una funzione condizionante l’intera dinamica della sospensione del processo con messa alla prova. A differenza che nel processo minorile, infatti, la richiesta di sospensione può essere avanzata solo dall’imputato (art. 464 bis, comma 1 c.p.p.); le prescrizioni oggetto del programma di trattamento costituiscono impegni specifici assunti da costui (art. 464 bis, comma 4, c.p.p.); e quando il giudice decide sulla sospensione del procedimento e sull’ammissione alla prova, le predette prescrizioni trattamentali sono modificabili dal giudice stesso solo con il consenso del soggetto ammesso alla prova (art. 464 quater c.p.p.).

In questa sede giova evidenziare che il ruolo attribuito al consenso dell’imputato è finalizzato sia ad evitare problemi di compatibilità con l’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – in ordine al divieto di lavoro forzato – sia a giustificare un trattamento sanzionatorio, per quanto a contenuto afflittivo attenuato, in assenza di una sentenza di condanna.

Da questo punto di vista, risulta difficoltosa la individuazione della corretta fisionomia della messa alla prova per i soggetti maggiorenni.

Ciò che caratterizza l’istituto introdotto dalla l. n. 67/2014 dal punto di vista afflittivo è il lavoro di pubblica utilità. Si tratta di qualcosa già esistente nell’ordinamento nazionale. Al riguardo vengono in rilievo, in primo luogo, le disposizioni del d.lgs. n. 274 del 2000, sulla competenza penale del giudice di pace. Il lavoro di pubblica utilità costituisce infatti una delle sanzioni principali previste per i reati attribuiti alla competenza penale del giudice di pace. In tale ambito l’applicazione dello stesso può avvenire «solo su richiesta dell’imputato» (ai sensi dell’articolo 54 del medesimo decreto). Salta subito agli occhi la differenza esistente tra le due ipotesi: nella messa alla prova il lavoro di pubblica utilità diventa la prescrizione principale di una ordinanza che non accerta la responsabilità dell’imputato, né applica alcuna pena.

L’ordinamento prevede poi alcuni ulteriori e specifici casi di applicazione della sanzione del lavoro di pubblica utilità. In proposito si rammenta che il d.l. n. 272 del 2005 aveva introdotto una modifica all’articolo 73 d.p.r. 309/1990, prevedendo, al comma 5 bis di tale articolo, che nelle ipotesi di produzione, traffico e detenzione illeciti delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nei casi di lieve entità, il giudice può applicare la sanzione del lavoro di pubblica utilità, in luogo delle pene detentive o pecuniarie, «su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero». Il lavoro di pubblica utilità ha in tale ipotesi una durata corrispondente a quella della pena detentiva irrogata[9].

Inoltre, nel codice della strada di cui al d.lgs. n. 285 del 1992, agli articoli 186 e 187, rispettivamente dedicati alla guida sotto l’effetto dell’alcool e di stupefacenti, in seguito alle modifiche recate dalla legge n. 120 del 2010, si prevede la possibilità di sostituzione della pena detentiva o pecuniaria, in alcuni casi, con lavori di pubblica utilità «se non vi è opposizione da parte dell’imputato». Anche in questo caso il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata.

Ebbene, il neo istituto della messa alla prova differisce sostanzialmente dalle ipotesi contemplate nelle disposizioni da ultimo citate.

In questi casi, infatti, si presuppone il passaggio necessario attraverso l’inflizione all’imputato di una condanna,  la quale viene convertita nella forma alternativa di espiazione, data dai lavori socialmente utili, posto che si è in presenza di un meccanismo di conversione della sanzione, che, in quanto tale (a totale differenza della messa in prova) interveniva solo ex post .

Analoghe argomentazioni valgono per la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, ex art. 47, comma 3 bis, l. n. 354/75. Appare del tutto evidente che, a differenza dell’affidamento, che interviene nella fase dell’esecuzione della pena passata in giudicato, la messa alla prova costituisce istituto di diritto sostanziale, inserito radicalmente nel contesto del procedimento di cognizione penale, quale strumento per evitare – una tantum (concedibile, infatti, una volta sola, in base al comma 4 dell’art. 168 bis) – la celebrazione di un giudizio che possa portare ineluttabilmente alla condanna dell’imputato.

Essenza della messa alla prova introdotta dall’art. 168 bis c.p. sembra essere il suo carattere di strumento di composizione preventiva e pre-giudiziale del conflitto penale, insorto con la formulazione dell’accusa verso l’imputato o con l’inizio dell’indagine da parte del P.M..

Da questo punto di vista, un’importante novità, prevista dagli artt. 168 bis c.p. e 464 bis c.p.p., attiene alla disciplina dei contenuti dell’istituto. Questi vengono previsti dal legislatore ex ante – a differenza di quanto accade nella disciplina del probation minorile – e possono essere suddivisi in quattro macro categorie: reinserimento sociale dell’imputato; prescrizioni riparatorie; affidamento al servizio sociale; condotte finalizzate alla promozione della mediazione con la persona offesa.

1.3.  Profilo sostanziale (a cura di Fabio Zambuto).

Passando alla trattazione dei contenuti della nuova “misura” è bene approfondire, in primo luogo, gli approdi sostanziali cui è giunto il legislatore, nella edificazione del novello impianto normativo.

Come già anticipato, l’art. 168 bis c.p. sancisce che l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova nei seguenti casi: nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa  alla  pena pecuniaria; nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di  procedura  penale[10].

I commi secondo e terzo, individuano i contenuti della messa alla prova. L’applicazione della misura comporta:

  • condotte riparatorie volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato;
  • ove possibile, misure risarcitorie del danno;
  • l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può comprendere attività di volontariato sociale, l’osservanza di prescrizioni sui rapporti col servizio sociale o con una struttura sanitaria oltre a possibili limitazioni della libertà di dimora, di movimento o di frequentazione di determinati locali;
  • la prestazione di lavoro di pubblica utilità[11].

Tale attività lavorativa presenta le seguenti caratteristiche: si deve trattare di prestazione non retribuita; da determinare tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato; prestazione della durata di minimo 10 giorni (erano 30 nel testo approvato dalla Camera dei deputati), anche non continuativi; prestazione da svolgere in favore della collettività presso Stato, Regioni, Province, Comuni o onlus, ma anche, come aggiunto da Senato, presso aziende sanitarie o organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, anche internazionali; prestazione la cui durata giornaliera non può superare le 8 ore; prestazione da svolgere con modalità tali da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato.

Il legislatore, a fronte delle garanzie previste a favore del probando, si è preoccupato di limitare la concedibilità dell’istituto, onde evitare si trasformasse in una valvola di sfogo dal carattere clemenziale.

Questione assai delicata, dunque, è quella concernente la esatta individuazione dei limiti oggettivi di accesso alla messa alla prova. La formulazione letterale del testo della norma esclude che abbiano qualsiasi rilievo, ai fini dell’applicabilità dell’istituto della sospensione, tutte le circostanze aggravanti, incluse quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale.

In proposito, si deve osservare, dal punto di vista sistematico, che i riferimenti ai limiti edittali sono, in genere, integrati da previsioni che tengono conto in modo specifico degli effetti delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto speciale (si veda, a titolo esemplificativo, il disposto dell’articolo 157 del codice penale in tema di prescrizione ovvero quello dell’articolo 4 del codice di procedura penale o ancora quello dell’articolo 278 dello stesso codice in materia di misure cautelari). A fonte di una iniziale incertezza sul punto, da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che «nella individuazione dei reati attratti alla disciplina del probation di cui agli artt. 168-bis ss. c.p. in ragione del mero riferimento edittale, deve guardarsi unicamente alla pena massima prevista per ciascuna ipotesi di reato, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale». In applicazione del principio, la Suprema Corte, in un caso analogo, ha infatti annullato con rinvio il provvedimento impugnato con il quale il giudice del merito aveva rigettato la proposta istanza di sospensione del processo con messa alla prova in relazione al reato di cui all’art. 73 comma 5 del d.P.R. n. 309/1990 aggravato ai sensi dell’art. 80 del medesimo d.P.R.[12] [13] E’ di tutta evidenza come la portata di tale pronuncia della Suprema Corte sia idonea ad aprire scenari di non poca rilevanza. L’apertura all’art. 550, comma 2 c.p.p., comporta invero un’estensione non solo ai reati elencati dal dato letterale della disposizione citata, ma anche a quelli ad essa ricondotti per via giurisprudenziale.

Peraltro, quando si procede per reati diversi da quelli nominativamente individuati per effetto del combinato disposto dagli artt. 168 bis, primo comma, cod. pen., e 550, comma secondo, cod. proc. pen., il limite edittale, al cui superamento consegue l'inapplicabilità dell'istituto, si determina tenendo conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. (In motivazione, la Corte ha precisato che tale criterio risponde ad una interpretazione sistematica che rispetta la "voluntas legis" - desumibile dal rinvio operato dall'art. 168 bis, comma primo, cod. pen. all'art.550, comma secondo, c.p.p.. - di rendere applicabile la messa alla prova a tutti quei reati per i quali si procede con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice in composizione monocratica)[14].

La soluzione migliore, ciononostante, sarebbe stata l’estensione alla disciplina de qua del criterio di determinazione della pena ex art. 278 c.p.p., in base al quale «Agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell’articolo 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale». Tuttavia, la scelta operata dal legislatore sembra dettata dalla volontà di conferire alla messa alla prova la massima estensione applicativa possibile. Ciò che conta è il massimo edittale, non rilevando nessuna tipologia di circostanze (aggravanti o attenuanti, ad efficacia comune o speciale) eventualmente contestate[15]. Da notare che il limite sanzionatorio, massimo ed astratto, appare comune a quello che, recentemente stabilito dall’art. 3, lett. c) del d.l. 146/13, conv. nella l. n. 10/2014, costituisce presupposto per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47, comma 3 bis, l. n. 75/354). Le analogie tra i due istituti, come visto, finiscono qui.

La legge, infine, prevede che la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non possa essere concessa più di una volta. Il Senato ha infatti modificato la disposizione approvata dalla Camera che consentiva l’accesso alla messa alla prova per due volte, a meno che non si trattasse di un procedimento per reato della stessa indole rispetto a quello per il quale si era già beneficiato della messa alla prova. Come già visto, poi, l’istituto non trova applicazione nei confronti dei delinquenti o contravventori abituali, professionali o per tendenza.

Il legislatore, poi, di elevata probità, prevedendo che nella sospensione del procedimento potesse reincarnarsi una legale forma di impunità, a seguito del fruire del tempus prescritionis, ha previsto, all’art. 168 ter c.p., che durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso, non applicandosi così le disposizioni del primo comma dell’articolo 161 c.p.

L’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede. Ciò nonostante, l’estinzione del reato non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge.

Il nuovo articolo 168 quater c.p., infine, concerne la revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova. La disposizione – modificata dal Senato –individua le seguenti circostanze che conducono alla revoca:

  • la trasgressione grave del programma di trattamento o delle prescrizioni imposte dal giudice. Da notare incidentalmente che nel testo approvato dalla Camera la trasgressione doveva essere «di non lieve entità»;
  • la reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni imposte dal giudice;
  • il rifiuto di prestare il lavoro di pubblica utilità (questa ipotesi di revoca è coerente con l’impostazione del Senato che ha fatto del lavoro un presupposto della messa alla prova);
  • la commissione, durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede. Il testo approvato dalla Camera non prevedeva questa ipotesi, che era comunque in astratto riconducibile alla trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, ma tale rilevanza sarebbe stata in ogni caso filtrata dalla valutazione del giudice, che il Senato ha deciso di evitare.

1.4.  Profilo processuale (a cura di Natale Pietrafitta).

Sotto il profilo processuale la novella del 2014 ha introdotto una sostanziale rettifica del codice di procedura penale, prevedendo un vero e proprio impianto normativo che si interseca con quello già esistente. Preliminarmente è bene, allora, ripercorrere in modo sintetico l’iter normativo costruito dalla legge n. 67/2014.

Va, così, presa in considerazione anzitutto la fase propulsiva di tale procedimento affidata interamente all’interessato. Ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p., infatti, è prescritto che l’imputato, personalmente[16] o a mezzo del proprio difensore (mediante procura speciale), al fine di avvalersi dell’istituto in analisi, deve formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Il codice di rito, così novellato, statuisce, sul punto, che la richiesta può essere formulata oralmente o per iscritto[17], imponendo che pervenga all’autorità procedente entro taluni termini variabili in relazione alla fase e al tipo di procedimento.

La richiesta può essere proposta anzitutto nel corso delle indagini preliminari, sicché in tale ipotesi il Giudice dovrebbe trasmettere gli atti al Pubblico Ministero, affinché questo possa esprimere il proprio parere – privo di qualsivoglia efficacia ostativa - nel termine di cinque giorni[18], il quale deve risultare da atto scritto e sinteticamente motivato, unitamente alla formulazione dell’imputazione. Ancora, la disposizione sancisce che è possibile proporre l’istanza fino a quando non siano formulate le conclusioni[19] in sede di udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio; se è stato, invece, notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta può essere formulata presso la cancelleria del giudice per le indagini preliminari entro il termine di quindici giorni dalla notifica del medesimo decreto[20]; nel procedimento per decreto penale di condanna, invece, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione.

Va precisato che proposta l’istanza, il Giudice provvede mediante ordinanza o di rigetto o di accoglimento. Trattandosi, però di scelte particolarmente delicate, dai risvolti assolutamente influenti sulla posizione dell’indagato o dell’imputato, la novella del 2014 ha prescritto che durante la sospensione del procedimento il Giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell’imputato (art. 464 sexies c.p.p.). Tale dettato normativo, dunque, riecheggia quello previsto dall’art. 467 c.p.p., essendo previsto, in questa disposizione che, nei casi previsti dall’art. 392 c.p.p., il Presidente del Tribunale o della Corte d’Assise dispone, a richiesta di parte, l’assunzione di prove non rinviabili, osservando le forme per il dibattimento[21]. Sul punto è bene precisare, allora, che la norma impone al Giudice una valutazione di prognosi postuma essendo necessario che egli valuti, in una fase antecedente al dibattimento, che le prove siano di tale rilevanza, ai fini del giudizio, da non poter essere rinviate, ad esempio per timore che queste periscano in futuro o mutino nel corso del tempo.

Ciò posto, nell’ipotesi in cui il Giudice si determinasse al rigetto, la novella consente di proporre ricorso per Cassazione per violazione di legge. Trattasi, però, di un’impugnazione che non sospende il procedimento. Tale mezzo di impugnazione, dunque, consente di sindacare l’ordinanza di rigetto non per ragioni di merito, sicché il Giudice di primo grado rimane l’unico a vagliare le condizioni non legittimanti la concessione di un simile beneficio. In ordine alla citata ordinanza si è posta in giurisprudenza più recente una questione di notevole risonanza applicativa attinente alla autonoma impugnabilità della medesima per questioni di legittimità. Proprio in conseguenza della districata problematica si sono confrontati sul punto due opposti orientamenti il cui contrasto on è stato ancora composto dal Supremo Consesso di legittimità. Il primo orientamento, infatti, ha sostenuto che l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento rigetta l’istanza di sospensione del processo per la messa alla prova dell’imputato e impugnabile ai sensi dell’articolo 586 c.p., solo unitamente alla sentenza[22]. Altro orientamento, piuttosto, ha affermato che l'ordinanza di rigetto dell'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato è autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione, in quanto il tenore letterale dell'art. 464 quater, co. 7, c.pp., che include nella disciplina dell'autonoma ricorribilità qualsiasi provvedimento decisorio, sia esso ammissivo o reiettivo della richiesta in questione, sottrae questo alla previsione generale di cui all'art. 586 cod. proc. pen.[23] A bene  vedere, però, trattandosi di ordinanza che – sotto certi punti di vista – incida notevolmente sulla libertà personale, pare maggiormente pregevole l’orientamento che consenta l’autonoma impugnabilità dell’ordinanza di rigetto, stante la pericolosità che l’attesa del completamento di un faticoso iter processuale di merito mini notevolmente il diritto alla libertà personale di un soggetto che possibilmente, fin dal principio, avrebbe  meritato la concessione del beneficio della sospensione del processo con contestuale messa alla prova.

Nell’ipotesi in cui, invece, il Giudice si determinasse all’accoglimento dell’istanza, egli dovrà disporre la sospensione del procedimento con  messa alla prova, stabilendo il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposte devono essere adempiuti. Tale termine, altresì, potrà essere prorogato, su istanza dell’imputato, non più di una volta e solo per gravi motivi. Si precisi, peraltro, che nei giudizi di impugnazione davanti alla corte d’appello e davanti alla corte di cassazione l’imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con una messa alla prova di cui all’articolo 168 bis c.p., né può altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con l’invio al giudice di merito, attesa incompatibilità dell’istituto introdotto dalla l. n. 67 del 2014 con i precedenti giudizi impugnazione, perché il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone  lo svolgimento di un iter processuale alternativo alla celebrazione del processo[24].

L’ordinanza viene immediatamente trasmessa all’Uepe, il quale ufficio deve prendere in carico l’imputato. Tale istituzione, dunque, dovrà curare l’aspetto prettamente esecutivo degli oneri e degli obblighi prescritti all’interno del programma trattamentale. L’Uepe, in buona sostanza, dovrà fungere da osservatore esterno, valutando il comportamento del probando, osservandolo nel tenore di vita e nel rispetto de gli obblighi imposti, comunicando all’autorità giurisdizionale procedente eventuali inottemperanze. Durante la sospensione del procedimento con messa alla prova, altresì, il Giudice, sentiti l’imputato e il Pubblico Ministero, può modificare con ordinanza le prescrizioni originarie, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità del probation.

Una volta concessa la sospensione, dunque, l’Uepe dovrà monitorare, come già detto, il comportamento di aderenza del probando al programma formulato, valutando se si sia attenuto in modo irreprensibile ai dettami di esso. Così, in tale circostanza, trascorso fruttuosamente il termine di sospensione il Giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo. A tale fine acquisisce la relazione conclusiva dell’Uepe che ha preso in carico l’imputato e fissa l’udienza per la valutazione, dandone avviso alle parti e alla p.o..

Nell’ipotesi in cui, invece, l’imputato fuoriuscisse dalla “retta via” prescritta dal programma rieducativo l’Uepe dovrà immediatamente comunicare un simile contegno all’organo procedente. Così il Giudice, informato di tali defaillances, procede alla revoca dell’ordinanza sospensiva, anche d’ufficio, mediante ordinanza. Il Giudicante deve fissare un’udienza camerale, al fine di valutare i presupposti della revoca, dandone avviso alle parti e alla persona offesa, almeno dieci giorni prima, di talché il processo riprende il suo corso dal momento in cui era rimasto sospeso cessando, così, l’esecuzione delle prescrizioni e degli obblighi imposti.

Quello trascorso in prova, però, non è tempo sprecato! Il legislatore, infatti, a garanzia del diritto di libertà, così come previsto nelle ipotesi applicative delle misure cautelari, anche in relazione alla messa alla prova ha sancito che, ove si giungesse alla revoca dell’ordinanza o allorquando la prova approdasse ad un esito negativo, il Pubblico Ministero, nel determinare la pena da eseguire, dovrà detrarre un periodo corrispondente a quello della prova eseguita. A fini di calcolo, quindi, tre giorni di prova sono stati equiparati a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a 250 euro di multa o di ammenda.

Esaurita la succinta disamina dell’istituto neonato, risulta opportuno chiarire alcune delle questioni critiche di cui il legislatore si è “dimenticato” o che sono state affrontate in modo tanto impreciso da risultare foriere di notevole confusione tra gli interpreti.

 

2. Criticità.

2.1. La natura della messa alla prova e questioni di diritto intertemporale (a cura di Fabio Zambuto).

Una prima questione fondamentale, che si pone innanzi agli occhi dell’interprete, attiene alla catalogazione dell’istituto in esame all’interno dell’alveo dei riti alternativi, delle cause estintive del reato o, piuttosto, all’interno di un tertium genus. Si tratta di un nodo problematico da sciogliere urgentemente, stante la rilevanza della questione in relazione alla sorte dei procedimenti che alla data di entrata in vigore della legge in esame hanno superato le fasi processuali entro le quali è possibile richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.

La legge 67/2014, infatti, presenta evidenti difficoltà interpretative in assenza di una disciplina transitoria diretta a regolare i procedimenti instaurati per i delitti previsti dall’art. 168 bis c.p. che, alla data del 17 maggio 2014, abbiano superato le fasi processuali di cui all’art. 464 bis c.p.p..

La IV Sezione Penale della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 30559/14, del 9 luglio 2014, si è trovata ad affrontare la delicata questione: la mancanza di una disciplina transitoria, dedicata alla soluzione di questa problematica, ha indotto i Giudici di legittimità a rimettere la questione alle Sezioni Unite, attesa la «delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, afferenti il regolamento di diritti di rilievo costituzionale»[25]. Come specificato anche dalla Corte di Cassazione, la soluzione alla questione di diritto intertemporale non può non passare attraverso l’inquadramento sistematico dell’istituto in esame, nel quale sono individuabili sia profili di carattere sostanziale, sia profili di carattere processuale, e l’esame delle finalità che con esso si vogliono perseguire[26].

Nell’ordinanza, la Corte prende posizione a favore della natura sostanziale dell’istituto. In proposito si afferma che gli effetti sostanziali legittimerebbero un’«interpretazione estensiva della norma anche ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, sia per l’applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p. sia per coerenza alla significativa evoluzione della giurisprudenza sul principio di retroattività della lex mitior, alla luce delle fonti internazionali e comunitarie e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo»[27]. I Giudici, tuttavia, sono consapevoli della possibilità di interpretare diversamente la natura dell’istituto della messa alla prova. Essi ricordano che il principio della retroattività della lex mitior non può essere pedissequamente trasferito nell’ordinamento processuale, in cui domina invece il principio del tempus regit actum.

Si può «legittimamente sostenere – dunque – la tesi che il novum normativo, riguardando anche l’ambito processuale non determini di per sé l’applicazione dell’istituto della messa alla prova ai fatti pregressi e per i procedimenti pendenti, pregiudicando tale interpretazione il canone tempus regit actum, che corrisponde ad esigenze di certezza, razionalità, e logicità, che sono alla radice della funzione regolatrice della norma giuridica».

A parere della Corte tale interpretazione avrebbe l’effetto di discriminare irragionevolmente gli imputati il cui processo si trova ancora nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento rispetto agli imputati per i quali il processo si trova in una fase più avanzata. «La soluzione più garantista, che meglio coniuga le esigenze difensive con un portato normativo non leggibile in modo inequivoco, è ovviamente quella dell’immediata applicabilità dell’istituto della messa alla prova anche ai fatti pregressi e per i processi pendenti, pur in assenza di una disciplina transitoria, in applicazione delle regole generali previste dall’art. 2, comma 4, c.p. e dei principi sopra indicati». Una settimana dopo l’ordinanza di rimessione, il Primo Presidente ha cancellato la questione dal ruolo delle Sezioni unite poiché il termine di prescrizione del reato oggetto del ricorso si prescriveva nelle settimane successive.

Non si dubita circa la necessità di un intervento delle Sezioni Unite per dipanare la matassa[28]. Considerato soprattutto che qualche giorno dopo il deposito dell’ordinanza di rimessione sopra esaminata, la Sezione Feriale Penale ha smentito clamorosamente gli approdi della quarta Sezione, esprimendosi in senso contrario alla tesi garantista[29]. La Corte pone a fondamento del proprio ragionamento la sentenza n. 236 del 2011 della Corte costituzionale, che ha ritenuto infondata la questione di incostituzionalità, sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, relativa alla inapplicabilità dei più favorevoli termini di prescrizione, introdotti dalla legge n. 251 del 2005, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di cassazione.

I Giudici di legittimità affermano quindi che nel sistema penale attuale deve ritenersi assoluto il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, mentre quello della retroattività della norma favorevole può subire delle limitazioni, a condizione, però, che tali limitazioni siano oggettivamente ragionevoli e giustificate.

Se il principio di retroattività della legge favorevole non può essere considerato incondizionato, allora una limitazione alla retroattività della lex mitior «può trovare ragionevole fondamento nella diversità dei contesti processuali».

Posto che la legge n. 67/2014 è «costituita dalla previsione di una ulteriore causa di estinzione del reato tuttavia caratterizzata dalla stretta connessione con un rito peculiare che ne impedisce ogni rilievo nei giudizi di impugnazione», secondo la Corte «quando il processo è ormai giunto davanti al giudice dell’impugnazione … non vi è spazio sistematico alcuno per dare ingresso ad una procedura che, come e nei termini in cui si è prima argomentato, è strutturalmente alternativa ad ogni tipo di giudizio su una determinata imputazione. Questo ancor più quando il processo pende nel giudizio di legittimità.

In altri termini, solo una disciplina transitoria che prevedesse espressamente l’applicazione retroattiva potrebbe, in questa fattispecie di procedimento, permettere l’apertura di una fase incidentale che dia spazio alle peculiari vicende che possono condurre all’esito positivo di una messa alla prova, fatto che costituisce il presupposto dell’effetto estintivo del reato».

Risulta fondamentale, a questo punto, evidenziare che il principio enunciato dalla Corte, nonché il percorso logico argomentativo che ne è alla base, tuttavia, si riferiscono espressamente solo al giudizio di cassazione.

Resta comunque non condivisibile, a parere degli scriventi, la tesi della inapplicabilità delle nuove regole ai processi di primo grado, in cui magari è stato solo dichiarato aperto il dibattimento, senza l’avvio di alcuna istruttoria. La mancata possibilità di fruire della nuova causa di estinzione del reato creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti di coloro che hanno superato i termini previsti a pena di decadenza per la presentazione della richiesta.

La giurisprudenza di merito, del resto, quasi unanimamente reputa applicabile il nuovo istituto ai processi in corso che abbiano superato le fasi entro le quali richiedere la messa alla prova.

L’orientamento che sembra profilarsi nella prassi, fino ad un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, sembra essere quello di adottare soluzioni diversificate in relazione al grado di giudizio in cui viene effettuata la richiesta di messa alla prova.

Ciononostante la Suprema Corte ha affermato recentemente che l’oggettiva mancanza di norme transitorie comporta inevitabilmente, ove naturalmente si ritenga che tale mancanza non sia significativa, come invece supposto da alcune prime interpretazioni dottrinarie, di una precisa volontà del legislatore di escludere la possibilità di messa alla prova per tutti i processi che abbiano superato, all’atto di entrare in vigore delle nuove norme, i momenti processuali indicati dall’articolo 464 bis c.p., che ogni criterio che venga adottato per individuare, invece di questi, un diverso momento per l’utile proposizione della domanda, finisca, in maggiore o minore misura, per assumere inammissibili connotati, prima che di arbitrarietà, di creatività[30]. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, il ricorrente lamentava l’abnormità del provvedimento impugnato nella parte in cui introduce un limite temporale alla proponibilità della richiesta di messa alla prova in virtù del fatto che la relativa legge fosse entrata in vigore successivamente alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Secondo la tesi del ricorrente, tale limite era in grado di determinare una disparità di trattamento tra imputati il cui processo risultava pendente nella fase anteriore la dichiarazione di apertura del dibattimento e imputati il cui processo si trovava in una fase più avanzata. Rilevava altresì che in assenza di norme transitorie, nei processi a citazione diretta, come quello in esame, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata anteriore all’entrata in vigore della l. n. 67 del 2014, la richiesta di messa alla prova dovrebbe ritenersi ammissibile fino al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 464 bis, comma II, c.p.p. che prevede che “La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 o 422, o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio”. I Giudici della Suprema Corte, nel rilevare preliminarmente che la oggettiva mancanza di norme transitorie in materia “comporta inevitabilmente che ogni criterio che venga adottato per individuare un momento diverso per l’utile preposizione della domanda di messa alla prova, finisca per assumere inammissibili connotati di arbitrarietà...”, hanno affermato che la stessa mancanza di disciplina transitoria rappresenta una scelta non sindacabile del legislatore nella misura in cui non determini conseguenze irragionevoli.

I giudici di legittimità hanno, quindi, ribadito l’orientamento secondo il quale è legittimo il provvedimento del giudice che ritiene tardiva l’istanza di sospensione del processo con messa alla prova proposta successivamente all’apertura del dibattimento, laddove la stessa apertura sia intervenuta prima dell’entrata in vigore della legge introduttiva. Con la Sentenza n. 47587 del 2014, la Sesta Sezione della Suprema Corte aveva infatti affermato la manifesta infondatezza  della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 464 bis c. 2 c.p.p., per contrasto all'art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l'applicazione dell'istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell'entrata in vigore della l. 28 aprile 2014 n. 67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile. Nel caso in esame, quindi, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ritenendo non abnorme la decisione impugnata, conclude affermando che certamente irragionevole parrebbe il criterio da adottare secondo l’interpretazione proposta dal ricorrente che, dando tempo all’interessato di richiedere la messa alla prova sino a che non sia intervenuta la decisione di primo grado, consentirebbe allo stesso di operare le scelte per lui più convenienti a seconda dell’andamento e degli sviluppi dell’istruzione dibattimentale, sino a quel momento tenutasi.

Con riguardo, infine, all’interrogativo circa la natura del nuovo istituto, la tesi di coloro i quali sostengono fervidamente la natura estintiva della sospensione del procedimento con messa alla prova sembra quella più percorribile[31]. Del resto è questo il fine ultimo dell’istituto in esame: la rieducazione del probando, nel tentativo di un suo reinserimento sociale, mettendolo alla prova e concedendogli una “seconda chance”. Il nuovo istituto cumula, come si è detto, connotazioni di carattere processuale e sostanziale; ma il profilo e gli effetti di carattere sostanziale (estinzione del reato conseguente all’adempimento di un programma che implica l’accettazione di misure limitative della libertà del soggetto) sono sicuramente più assorbenti rispetto a qualsiasi inquadramento di carattere processuale. L’istituto introdotto dalla l. n. 67/2014 consente una sospensione del procedimento dando al subietto la possibilità di dimostrare segni tangibili della sua redenzione. Se così però non dovesse essere, a seguito della ricaduta nel reato da parte del “probando”, il processo prenderà nuovamente a correre proprio da dove si era interrotto. Nonostante la pregevole tesi appena evidenziata la Suprema Corte di Cassazione, cogliendo di sorpresa gli interpreti più autorevoli ha sostenuto che l’istituto della messa alla prova abbia natura prettamente processuale e conseguentemente che non sia retroattivamente applicabile. Ciò in quanto il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter procedurale, alternativo alla celebrazione del giudizio, introdotto da nuove disposizioni normative, per le quali, in mancanza di una specifica disciplina transitoria, vige il principio tempus regit actum. Peraltro, non si evidenziano possibili lesioni del principio di retroattività della lex mitior, che per sé imponga l’applicazione dell’istituto a prescindere dall’assenza di una disciplina transitoria”[32].

Pur registrandosi un solo esempio – decreto penale di condanna – antagonista a quest’ultima tesi, riscontrabile nei riti ordinari derivanti da opposizione ai decreti penali di condanna, non va dimenticato che per le peculiarità rispettive dei due riti non può osservarsi alcuna similitudine tra gli stessi, secondo il profilo della riconversione. Va infatti notato che in quest’ultima ipotesi si tratta di un rito alternativo, convertibile in ordinario, sol perché non scelto dal destinatario. Non si registrano, cioè, ipotesi in cui un rito alternativo, adottato su impulso di parte “convenuta”, possa trasformarsi ancora una volta in rito ordinario. Del resto se così potesse farsi, si registrerebbe una profonda elusione della ratio di celerità giustificatrice dell’introduzione dei riti alternativi.

 

2.2. La clausola di invarianza finanziaria (a cura di Natale Pietrafitta).

La disciplina in esame, così come formulata dal legislatore, sembra aprire scenari di problematicità anche in ordine alla cd. “clausola di invarianza finanziaria”. In base all’art. 16 della l. n. 67/2014, «Le amministrazioni interessate provvedono all’attuazione di ciascuno degli articoli da 2 a 15 nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

Si tratta di una questione di non poco conto, soprattutto sotto il profilo normativo. Va ricordato, a Noi e poi anche al Legislatore, che l’art. 81, comma 3, della Costituzione sancisce espressamente che ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provved[a] ai mezzi per farvi fronte. Si tratta, dunque, di un obbligo imposto da una fonte normativa di rango super-primario che prescrive il dovere, gravante sulle fonti normative di pari rango e di rango inferiore, di provvedere ai nuovi oneri finanziari.

È, così, pienamente ravvisabile una ipotesi di illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 16 l. n. 67/2014, in aperto contrasto con il principio contenuto nell’art. 81, comma 3, Cost..

Quella introdotta con la nuova legge, infatti, è una disciplina che importa l’impego di capitale umano e, de relato, finanziario maggiore il quale, seppur già inserito in seno all’organigramma di competenza, affronta un maggiore dispendio di tempo al fine di far fronte alle numerose istanze e ai successivi adempimenti con cui presto dovrà confrontarsi.

La disciplina de qua, di certo, non è esente dalla necessità di investire risorse economiche. L’impegno che coinvolge l’intero sistema giustizia, compresi gli organi dell’Uepe, comporta l’impiego di denaro che il legislatore non ha pensato, piuttosto, di destinare a tale scopo. L’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna formula il programma trattamentale per coloro i quali propongono istanza di ammissione all’affidamento in prova; controlla l’esecuzione dei suddetti programmi e ne riferisce all’autorità giudiziaria, proponendo eventuali interventi di revoca, oltre a prestare consulenza per favorire il buon esito del trattamento.

Si tratta, in buona sostanza, di attività che richiedono, necessariamente, la disponibilità di risorse economiche, ad oggi inesistenti. Ci si chiede dunque come potrà mai trovare corretta applicazione una disciplina che, pur necessitando di un impegno finanziario da parte dello Stato, non gode di tali “vantaggi”.

Il funzionamento del nuovo istituto è strettamente legato agli investimenti nel campo dell’assistenza sociale, posto che solo un adeguato serbatoio di mezzi e personale specializzato può realizzare efficacemente la prospettiva di una rieducazione “sul campo” che sostituisca del tutto il processo e la sanzione per il reato commesso. In mancanza di questo, la messa alla prova per i maggiorenni diverrebbe solo un ulteriore paradosso del sistema, inidoneo ad assicurare la risocializzazione di chicchessia, inadeguato a prevenire le recidive, utile solo a compromettere ulteriormente la già precaria credibilità del sistema della giustizia penale e quindi ad ingenerare nuove insicurezze.

 

2.3. Il programma di trattamento (a cura di Natale Pietrafitta).

Altra questione di notevole rilevanza, sottaciuta in sede normativa (fatto per cui dovrebbero dolersi tutti gli uffici giudiziari operanti sul territorio nazionale), consiste nell’assenza di indicazioni certe circa i contenuti del programma di trattamento.

Orbene, la novella del 2014 fa menzione di taluni criteri, non indicando in che termini possa usufruirne il giudice ai fini valutativi. L’art. 464 bis, comma 4, c.p.p. (rubricato sospensione del procedimento con messa alla prova) sancisce, appunto, che «[…] il programma in ogni caso prevede: le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale e le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa»[33].

La questione, allora, che si pone agli occhi degli operatori giuridici attiene anzitutto alla alternatività o cumulatività dei contenuti del programma di trattamento. V’è da chiedersi, in buona sostanza, se basti anche uno solo dei presupposti, su elencati, o sia necessaria la presenza di tutti.

In verità, nella poca precisione della norma sul punto, e nella necessità di dover dare seguito alle prime istanze formulate a seguito della legge 67/2014, si potrebbe sostenere che non tutti i presupposti debbano, necessariamente, essere elencati all’interno del programma di trattamento e che, oltretutto, basterebbe una indicazione sommaria delle prescrizioni, dato il potere integrativo dell’organo giudicante. Del resto, sul punto si potrebbe affermare che la resa ottimale di un simile istituto si valuta anche sotto il profilo della appetibilità, di talché in tali termini potrebbe configurarsi un programma poco pretensioso, vuoto di impegni puntuali e colmo di apodittiche formule di impegno: già questo potrebbe bastare in ottica riparativa.

Di contrario avviso, invece, chi scrive: non solo tutti i presupposti vanno elencati, ma essi devono essere quanto più specifici possibile. Il Giudice, infatti, può integrare il programma, o apportarne delle modifiche, purché non siano di natura sostanziale in modo da stravolgere il programma proposto e previa acquisizione del consenso del probando[34]. Si tratta di una norma ispirata al buon senso che consente di calare, come un “comodo vestito”, il programma trattamentale addosso all’imputato affinché i dati in esso inseriti siano confacenti alle esigenze personali, familiari e sociali del probando[35].

L’imputato, dunque, d’intesa con l’Uepe, deve indicare specifiche prescrizioni nonché orari, prospettando analitiche descrizioni circa le attività che intende svolgere, l’indicazione di eventuali proposte di attività lavorative, luoghi in cui intende dimorare, gli strumenti di cui intende avvalersi al fine di tentare la mediazione con la persona offesa, le modalità con cui intende porre un freno alle conseguenze dannose del reato (mettendosi, ad esempio, a disposizione dell’autorità giudiziaria nelle indicazioni di possibili concorrenti nel reato, delle modalità di consumazione del fatto criminoso, etc…).

Una sommaria e generica elencazione ridondante dei presupposti del programma, già indicati nella disposizione normativa, oltre che rinfrescare la memoria del giudicante, non assolverebbe ad altra funzione.

Ad oggi, l’esperienza professionale di chi scrive ha consentito il confronto con una sola ipotesi di richiesta di messa alla prova, che, per tale ragione, non può e non deve essere utilizzata come dato statistico. Ciò nonostante è interessante cogliere gli aspetti salienti della vicenda al fine di valutare quale sia stato il primo approccio che il Tribunale Palermitano ha avuto nei confronti della novella legge n. 67 del 2014.

Nel caso in esame era coinvolto un individuo, imputato del delitto di cui all’art. 648 c.p., avente ad oggetto un telefono cellulare. La difesa, premurosamente, all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disposizione preannunciava al Giudice l’intenzione di chiedere l’ammissione al beneficio sospensivo, richiesta accompagnata da adeguata istanza di elaborazione del programma, già avanzata al competente Uepe. Nel corso del giudizio l’imputato, per il tramite del suo difensore, depositava il programma elaborato d’intesa con l’Uepe insistendo nella prefata istanza.

Esaminata la proposta rieducativa avanzata dall’imputato, il Giudice notava immediatamente che sotto il profilo formale e sotto il profilo sostanziale questa presentava irrisolvibili lacune. Procedendo per ordine: esaminata la posizione processuale ed endosociale dell’imputato ci si accorgeva ictu oculi che questo vantava un corposo certificato del casellario giudiziale, ivi compresi numerosi reati specifici; che proveniva da un luogo di residenza in cui è notoria la elevatissima esposizione al rischio criminogeno; che mostrava atteggiamento reticente e poco collaborativo con l’organo giudiziario procedente; ancora, vagliato il contenuto del programma di trattamento si evinceva la pochezza dei contenuti, la ridondanza dei presupposti, l’inefficacia degli obblighi e l’irrilevanza degli obiettivi.

La posizione del soggetto, quindi, si mostrava critica, perché nei suoi confronti appariva pressoché fallace una concessione di simile rango, potendosi addivenire, piuttosto, ad una prognosi di recidiva; e incongruente con gli scopi proposti dalla norma, perché il programma non si soffermava su una descrizione puntuale degli impegni giornalieri che il futuro probando si sarebbe dovuto assumere. Non si faceva affatto menzione dei mezzi con i quali il soggetto intendeva ristorare il maltolto nei confronti della presunta persona offesa, ma, sinteticamente, percorreva le indicazioni fornite già in sede normativa. Al termine della Camera di Consiglio, dunque, rilevate le suesposte considerazioni, il giudicante rigettava l’istanza, ordinando di procedere oltre.

Non si deve dimenticare, in proposito, che l’esito positivo della prova è causa estintiva del reato e che, per tale ragione, vista l’ampiezza dei benefici cui potrebbe aspirare il subietto, è da ritenere inaccettabile ogni atteggiamento lassista, così come dimostrato dal funzionario dell’Uepe che si è adoperato all’elaborazione di un simile programma.

A parere di chi scrive è bene chiarire, però, che nella confusione in cui attualmente versano gli uffici di esecuzione penale esterna e gli uffici giudiziari, è possibile che venga redatto un programma di trattamento piuttosto generico (talvolta, però, dovuto anche alla carenza di personale: si consideri che, ad esempio, l’esperienza dei colleghi di Milano ci informa della presenza di quaranta impiegati Uepe a fronte di 4.500 soggetti in carico al predetto ufficio[36]) e che, per questo, pur ricadendo la responsabilità sul funzionario dell’Uepe che ha materialmente redatto il programma, ne tragga degli svantaggi l’istante. Onde evitare, così, che il probando possa davvero venire svantaggiato da un programma da altri redatto il Legislatore ha predisposto la possibilità di riproporre l’istanza prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, segnalando così le criticità del programma e invitando l’Uepe a riformare le irregolarità.

Il problema, però, a nostro avviso è tutt’altro che superabile, allorquando l’imputato presenti l’istanza per la prima volta in limine litis. Il problema, dunque, non va risolto in fase procedimentale o processuale, mediante gli ordinari strumenti fornitici dal legislatore, ma antea.

Al fine di un corretto impiego dell’istituto, si ritiene che il primo vaglio vada svolto dal difensore che, a tutela del proprio assistito, deve valutare l’organicità dei contenuti, la chiarezza degli impegni, la congruità degli obiettivi come, ad esempio, gli orari, le date, l’ammontare del credito riparatorio vantato dalla presunta persona offesa e la relativa rateizzazione[37], i luoghi in cui il probando dovrà svolgere le proprie attività, le generalità degli eventuali datori di lavoro disposti a proporre una valida alternativa lavorativa, le associazioni di volontariato propense ad accogliere il probando, e altre possibili varianti, purché siano il più dettagliate possibile.

Ciò posto, però, il Legislatore, ancora una volta, abbandona le sorti del probando alla più assoluta discrezionalità del Giudice, non relegando il suo operato valutativo, all’interno di schemi normativi che impediscano “colpi di testa” improvvisi. La norma, infatti, dice poco, se non addirittura nulla, circa gli strumenti che il Giudice può utilizzare per valutare l’idoneità del programma e l’utilità che la prova possa avere in capo all’istante. La norma, piuttosto, si limita a conferire un potere d’indagine al Giudice, il quale attraverso la Polizia Giudiziaria, gli enti sociali e altri enti pubblici può valutare la personalità dell’imputato, la sua estrazione sociale, il contesto familiare e la propensione a delinquere. In ultimo, il codice, così come novellato, si spinge a sancire che al fine di valutare l’idoneità del programma di trattamento presentato e la probabilità che l’imputato si astenga dal commettere nuovi reati, il Giudice debba anche valutare che il domicilio indicato nel programma dell’imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato.

Con riguardo al concetto di «idoneità», è da ritenere che questo attenga alla congruità del progetto rispetto alla gravità del fatto, all’entità della condotta, alla finalità rieducativa e risocializzante dell’istituto, nonché alle caratteristiche personali dell’imputato e alla concreta eseguibilità delle prescrizioni indicate. Il legislatore, esaurita questa scarna elencazione di poteri conferiti al Giudice, non si è premurato di introdurre una norma, come quella di cui all’art. 133 c.p., che imponesse al Giudice l’uso di criteri attraverso cui muoversi nella concessione o meno del beneficio sospensivo.

 

2.4. Inammissibilità della sospensione parziale (a cura di Fabio Zambuto).

Altra questione particolarmente delicata attiene alla possibilità di accedere all’istituto de quo allorquando l’interessato sia indagato/imputato per una pluralità di reati dei quali solo taluni contentano l’accesso al rito alternativo in termini. La Suprema Corte, partendo da presupposto che trattasi di istituto di natura deflattiva e rieducati, in accordo ai Supremi Principi costituzionali, ha affermato che nel caso in cui chi è imputato sia chiamato a rispondere allo stesso tempo e nello stesso procedimento di reati per i quali non sia possibile l'accesso all'istituto della messa alla prova di cui all'articolo 168 bis c.p. unitamente ad altri per i quali ciò sia invece possibile, appare stridente con la struttura del sistema nonché con gli stessi presupposti dell'istituto che possa avvenire una parziale risocializzazione del soggetto interessato[38].

Nel caso in esame, il Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Palermo ammetteva con ordinanza al giudizio abbreviato due imputati, respingendo l'istanza di ammissione alla messa alla prova che gli stessi avevano presentato in relazione a solo alcuni dei reati a loro ascritti.

A parere del giudice di merito, che aveva rigettato la richiesta, pur essendo astrattamente ammissibile dal punto di vista ordinamentale la possibilità di presentare una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova solo per alcuni dei reati contestati, per concedere effettivamente il beneficio sarebbe necessario valutare, in concreto, se la singola richiesta sia o meno compatibile con la disposizione di cui all'art. 18, comma 1, prima parte, c.p.p., secondo cui «la separazione di processi è disposta, salvo che il giudice ritenga la riunione assolutamente necessaria per l'accertamento dei fatti».

La Suprema Corte, nell’affrontare la questione, seppur in contrasto con quanto affermato da giudice di merito, nel rigettare la questione, ha evidenziato e posto in luce anche un argomento di natura letterale: il legislatore, nel formulare l'art. 168 bis, non facendo riferimento ai reati ma ai «procedimenti per reati», avrebbe lasciato intendere «una visione unitaria e complessiva della prospettiva di risocializzazione del soggetto che potrà realizzarsi attraverso la messa alla prova previa sospensione dell'intero "procedimento" ma solo quando ciò sia possibile in relazione a tutti i reati in contestazione». Né, continuano i giudici, la messa alla prova parziale sarebbe inammissibile per un problema di mancato effetto deflativo del procedimento, come nel caso del patteggiamento parziale, quanto piuttosto per il fatto che, pur avendo l'imputato un diritto di accesso all'istituto, non «appare pensabile che taluno possa essere "risocializzato" solo per alcuno dei fatti in contestazione e nel contempo continui a rispondere di ben più gravi [...] fatti-reato [connessi] per i quali l'accesso all'istituto [...] non è consentito». Come già affermato, l'ammissibilità della richiesta di messa alla prova presuppone necessariamente una valutazione prognostica positiva sulle possibilità rieducative dell'interessato, per la cui formulazione «non può prescindersi dal tipo di reato commesso, dalle modalità di attuazione dello stesso e dai motivi del delinquere, al fine di valutare se il fatto contestato debba considerarsi [o meno] un episodio del tutto occasionale». Di conseguenza, a parere della Corte, nei casi in cui siano contestati all'imputato anche reati per cui non sia astrattamente concedibile la messa alla prova, non sarebbe possibile effettuare proprio quel vaglio positivo sulla possibilità di risocializzazione del richiedente, «che rappresenta il vero ed unico motivo fondante dell'istituto».

A ben vedere, la decisione del Supremo Collegio desta non poche perplessità.  E’ di tutta evidenza infatti che impedire l'accesso al beneficio a un richiedente, solo perché sia contestata nei suoi confronti anche un'imputazione per cui non sia concedibile la messa alla prova, significherebbe riconoscere l’esistenza di una preclusione assoluta. La Corte, qui, sembra desumere dalla ratio rieducativa e risocializzante dell'istituto una presunzione assoluta di non concedibilità della messa alla prova parziale, ove siano contestati nei confronti del medesimo soggetto anche reati per cui il rito non può essere concesso.  Né sembrano del tutto convincenti, a Nostro parere, le argomentazioni della Cassazione secondo cui l'istituto sarebbe ammissibile solo ove fosse possibile una simultanea e totale risocializzazione dell'imputato. La lettera della legge non fa riferimento a criteri stringenti dai quali si possa trarre in maniera inequivocabile la conclusione per cui non sarebbe possibile accedere all'istituto quando siano contestati anche reati non ricompresi nell'art. 168 bis c.p.

 

2.5. Il ruolo della persona offesa (a cura di Natale Pietrafitta).

L’ennesima questione lasciata in ombra dalla legge n. 67/2014 è quella relativa al ruolo della persona offesa nell’ambito delle scelte, delle valutazioni e delle procedure di cui alla nuova disciplina.

Le finalità dell’istituto, oltre a quelle chiaramente deflattive, sono individuate nei commi 2 e 3 dell’articolo 168 bis c.p. ed hanno natura riparatoria e di recupero: attraverso la messa alla prova si mira ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e ad assicurare, ove ciò sia possibile, il risarcimento del danno[39].

Sulla scia di alcuni ordinamenti europei (si pensi alla Norvegia e alla Spagna) vengono inoltre previste alcune prescrizioni comportamentali limitative della libertà personale e relative alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali che sembrano richiamare, nei contenuti effettivi e nelle finalità, alcune misure cautelari personali, e che risultano inserite  allo scopo di tutelare la persona offesa da eventuali ingerenze da parte dell’imputato. Si tratta di limitazioni pensate specificamente per i reati contro la persona: esse hanno una valenza tanto preventiva quanto rieducativa in riferimento soprattutto ad alcune fattispecie criminose astrattamente assoggettabili all’istituto; si pensi, ad esempio, alle ipotesi delittuose di cui agli artt. 610, 612, 612 bis, 615 bis c.p..

Da evidenziare il seguente dato normativo: nel rispondere all’esigenza di riservare alla persona offesa uno spazio adeguato all’interno della messa alla prova, si prevede che il programma contenga anche «condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa» (art. 464 bis, lett. c). Ecco l’espresso riferimento alla mediazione penale. L’istituto, già noto nella giurisdizione di pace e ampiamente diffuso nelle esperienze d’oltralpe, dovrebbe permettere all’imputato di rapportarsi con le dirette conseguenze dell’illecito, iniziando un percorso di ripensamento e resipiscenza; nel contempo, esso dovrebbe offrire uno spazio di ascolto alla vittima del reato.

Preme sottolineare in questa sede l’importanza della effettiva partecipazione della persona offesa alla “creazione” del programma. E’ di indubbia evidenza, infatti, che se la vittima è direttamente coinvolta nell’individuazione dei contenuti della messa alla prova nei suoi riguardi, allora difficilmente potrà manifestare un parere contrario all’ammissione al beneficio.

E si consideri il ruolo fondamentale di un parere favorevole della persona offesa alla luce di quanto segue.

La possibilità di «una mediazione con la persona offesa» attraverso la partecipazione di questa all’elaborazione del programma di messa alla prova, deve necessariamente tenere in debita considerazione i criteri generali stabiliti dalla direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la precedente decisione quadro 2001/220/GAI), la quale disciplina espressamente i “servizi di giustizia riparativa” ( restorative justice).

La direttiva condiziona l’accoglimento della RJ al pieno rispetto delle esigenze di tutela della persona offesa, in particolare quando questa sia contrassegnata da un particolare grado di vulnerabilità. In altre parole, ciò che si vuole assolutamente evitare è che, attraverso lo schermo della mediazione, la vittima sia coattivamente posta nuovamente a contatto con l’autore del reato, con il rischio di riacutizzazione del disagio (quando non della sofferenza vera e propria) che ciò comporta, se non, addirittura, con il rischio di subire pressioni nel senso della conciliazione o della rimessione della querela (nei casi in cui questa sia consentita).

Se dalle fonti europee si raccomanda l’uso della RJ in esclusiva funzione di tutela della vittima, allora l’interprete che intenda percorrere la via della mediazione penale dovrà necessariamente porsi il problema di un uso della mediazione compatibile con le linee guida europee.

Purtroppo, le norme relative al ruolo effettivo della persona offesa sono eccessivamente vaghe. Degna di nota è la previsione dell’audizione della persona offesa – prima che il giudice decida sull’ammissione alla prova – se questa compare o se ne fa richiesta (art. 464 quater, co. 1, c.p.p.). La mancata audizione, ovvero l’omesso avviso dell’udienza, possono costituire motivo di impugnazione (art. 464quater, co. 7, c.p.p.). La norma non prevede espressamente un potere di veto in capo alla vittima, tuttavia, la previsione dell’ascolto le conferisce un ruolo di protagonista del processo penale e non di soggetto passivo.

A parere di chi scrive, tuttavia, un’interpretazione conforme alla normativa europea imporrebbe di considerare l’eventuale parere contrario della persona offesa ostativo all’acceso al beneficio.

Tanto l’audizione della persona offesa, quanto le prescrizioni riparative e il tentativo di mediazione, lasciano trasparire una maggiore attenzione nei confronti dell’offeso, iniziando così a dare attuazione ai numerosi documenti europei che invitano gli stati membri a potenziare il ruolo processuale della vittima e dare un adeguato spazio a procedure giudiziarie ed extragiudiziarie in grado di agevolare la riparazione del danno, la conciliazione e il soddisfacimento delle esigenze dell’offeso.

Se la tutela della vittima deve essere la finalità principale, nel silenzio delle norme, il giudice non potrà fare a meno di considerare l’accesso all’istituto sbarrato dal dissenso della persona offesa.

 

 

Indice Bibliografico

(a cura di Natale Pietrafitta e Fabio Zambuto)
Bartoli R., Una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014.
Ceretti A. – Mazzucato C., Mediazione e giustizia riparativa tra Consiglio d’Europa e ONU, in Dir. pen. e processo, 2001.
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Marandola A., Ombre e luci di un nuovo rito per una diversa politica criminale, ibidem.
Piccirillo R.; Silvestro P., a cura di Fidelbo G., Novità legislative: Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Rel. n. III/07/2014, 2014.
Zaccaro G., La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in Quest. Gius., 2014.

Indice Giurisprudenziale
(a cura di Natale Pietrafitta e Fabio Zambuto)
Cass. Pen. 13 agosto 2014, n. 35717 in www.italgiure.it, Rv. 259935.
Cass. Pen. 14 aprile 2015, n. 22104 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi cit., Nel diritto editore, 2015.
Cass. Pen. 09 giugno 2015, n. 35721 in www.italgiure.it, Rv. 264259.
Cass. Pen. 9 settembre 2014, n. 42318 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., Nel diritto editore, 2015, p. 858.
Cass. Pen. 26 giugno 2015, n. 27071 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit.
Cass. Pen. 30 giugno 2015, n. 36687, in www.italgiure.it, Rv. 264046,
Cass. Pen. 6 maggio 2015, n. 20602 in www.italgiure.it, Rv. 23787
Cass. Pen. 23 febbraio 2015, n. 24011 in www.italgiure.it, Rv 263777
Cass. Pen. 30 giugno 2015, n. 36687 (dep. 10/09/2015 ) in www.italgiure.it, Rv. 264045.
Cass. Pen. 31 luglio 2014, n. 35717 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., nel diritto editore, 2015.
Cass. Pen. 12 giugno 2015, n. 40397 in www.italgiure.it, Rv. 264574.
Cass. Pen., 13 febbraio 2015, n. 6483 in R. Garofoli, Codice Penale e delle leggi speciali annotato con la giurisprudenza, Nel Diritto Editore, 2015.
Cass. Pen., sez. Feriale, 31.07.2014, n. 35717, depositata il 13.08.2014.
Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 17 gennaio 1994, in Cass. Pen., 1996; Gius. Pen., 1995, III.
Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 18 dicembre 2013, n. 348, in Dir. & Gius., 2014.
Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 23 marzo 2004, n. 15982, in Foro ambr., 2004.
Cass. Pen., Sez. I, sentenza ud. 21 ottobre 2009, n. 42449, in CED Cass. Pen. 2009.
Cass. pen., sez. IV, ordinanza del 09.07.2014 (depositata l’11.07.2014), n. 30559, Dalvit, in Archivio penale 2014, n. 3.
Cass. Pen., sez. VI, sentenza ud. 9 dicembre 1999, n. 4184 in Cass. Pen., 2001.
Cass. Pen.12 marzo 2015 n, 14112, in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., p. 858.
 

Dott. Natale Pietrafitta

Diploma di specializzazione presso la sspl Lumsa Roma - Tirocinio formativo presso la V sez. Penale del Trib. di Palermo

 

Dott. Fabio Zambuto

Diploma di specializzazione presso la sspl Lumsa Roma - Tirocinio formativo presso la V sez. Penale del Trib. di Palermo

 

 


[1] R. Piccirillo; P. Silvestro, a cura di G. Fidelbo, Novità legislative: Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Rel. n. III/07/2014, 2014, 2; G. Fiandaca; A. Giarda, Codice penale – Codice di procedura penale – Leggi complementari, IPSOA, 2014; R. Bartoli, Una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, 661; A. Marandola, Ombre e luci di un nuovo rito per una diversa politica criminale, ibidem, 674;

[2]  Basti pensare al Progetto di riforma della parte generale del codice penale, elaborato dalla Commissione Pisapia, il 27 luglio 2006, in cui, all’art. 42, tra le cause di estinzione del reato, compare l’esito positivo della messa alla prova (anche per l’imputato maggiorenne). Immediatamente successivo è il disegno di legge del Governo n. 2662 del 17 maggio 2007, il quale prevede l’introduzione nel codice di rito dell’art. 420 sexies, intitolato «Sospensione del procedimento con messa alla prova». Si vedano gli artt. 27 e 28 del Disegno legge del Governo, Atto Camera n. 2664 del 17 Maggio 2007, in www.camera.it.

[3] La legge si inserisce nel solco della politica di deflazione carceraria annunciata dal Governo con il piano straordinario penitenziario (CDM del 13.1.2010) che si compone di 4 percorsi (pilastri): interventi di edilizia penitenziaria per il completamento di 47 nuovi padiglioni e realizzazione di nuove strutture con 18 nuovi carceri (primo e secondo pilastro); interventi normativi di riforma del sistema sanzionatorio come l’estensione detenzione domiciliare e la messa alla prova, (terzo pilastro) e assunzione di nuovi agenti di Polizia penitenziaria (quarto pilastro)

[4] Si considerino in primis, le sentenze della Corte di Strasburgo che condannano l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, per non aver garantito ai detenuti uno spazio minimo «considerato accettabile dal Comitato per la prevenzione della tortura».

[5] Fra gli altri si vedano la direttiva 2012/29/UE; la raccomandazione 99/19; la risoluzione 99/26. In dottrina, M. Del Tufo,, La tutela della vittima in una prospettiva europea, in Indice pen. 1999, 889 ss.; A. Ceretti – C. Mazzucato, Mediazione e giustizia riparativa tra Consiglio d’Europa e ONU, in Dir. pen. e processo, 2001, 773 ss.

[6] R. Piccirillo - P. Silvestro, a cura di G. Fidelbo, Novità legislative: Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Rel. n. III/07/2014, 2014, pg. 3.

[7] R. Piccirillo e P. Silvestro, a cura di G. Fidelbo, Novità legislative: Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Rel. n. III/07/2014, 2014, pg. 3.

[8] Sempre in base all’art. 28 del d.p.r., il processo è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso della prescrizione. Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. Contro l’ordinanza possono ricorrere per Cassazione il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore. La sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte. Ai sensi del successivo art. 29 del d.p.r., decorso il periodo di sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo. All’esito negativo della prova, il giudice assume, ex artt. 32 e 33, gli opportuni provvedimenti per la prosecuzione del processo.

[9] Il successivo d.l. n. 78 del 2013, inserendo un comma 5 ter all’articolo 73 citato, ha poi ulteriormente esteso tale disciplina ad altre fattispecie di reato commesso da persona tossicodipendente o da assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, qualora il giudice infligga una pena non superiore ad un anno di detenzione e salvo che si tratti di reato previsto dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale o di reato contro la persona.

[10] Si tratta dei reati in relazione ai quali è prevista la citazione diretta a giudizio, ovvero violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), oltraggio a un magistrato in udienza aggravato (art. 343, secondo comma, c.p.), violazione di sigilli aggravata (art. 349, secondo comma, c.p.), rissa aggravata (art. 588, secondo comma, c.p.) con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime, furto aggravato (art. 625 c.p.) e ricettazione (art. 648 c.p.).

[11] Da notare, in proposito, che la Camera aveva inserito il lavoro di pubblica utilità tra i possibili contenuti del programma elaborato dai servizi sociali, il Senato, invece, ha espressamente subordinato la messa alla prova alla prestazione del lavoro.

[12] Cass. Pen., 13 febbraio 2015, n. 6483 in R. Garofoli, Codice Penale e delle leggi speciali annotato con la giurisprudenza, Nel Diritto Editore, 2015, p. 858.

[13] In tale ultima ipotesi, poi, si noti, come, la riduzione a quattro anni della pena edittale massima per i reati in materia di stupefacenti, quando i fatti siano di lieve entità, determina la possibilità per l’imputato di richiedere la sospensione del processo con messa alla prova (sul punto, cfr. Cass. Pen. 29 Maggio 2014, n. 28548, in R. Garofoli, Codice Penale cit., p. 858).

[14] Cass. Pen. 30 giugno 2015, n. 36687 (dep. 10/09/2015 ) in www.italgiure.it, Rv. 264045.

[15] In quest’ottica, allora, sarebbe stato opportuno includere nel novero dei reati per i quali può essere richiesta la sospensione del procedimento con messa alla prova la fattispecie di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90, quando ricorre la attenuante del quinto comma.

[16] G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in Quest. Gius., 2014, pg. 8.

[17] Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 17 gennaio 1994, in Cass. Pen., 1996; Gius. Pen., 1995, III.

[18] On. Dep. D. Ferranti, Relazione alla seduta n. 196 del giorno 24 marzo 2014, in www.camera.it.

[19] Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 18 dicembre 2013, n. 348, in Dir. & Gius., 2014. In senso conforme Cass. Pen., sez. I, sentenza ud. 23 marzo 2004, n. 15982, in Foro ambr., 2004.

[20] A. Di Tullio D’Elis, La messa alla prova per l’imputato, procedura e formulario, Santarcangelo di Romagna, pg. 47.

[21] Cass. Pen., Sez. I, sentenza ud. 21 ottobre 2009, n. 42449, in CED Cass. Pen. 2009.

[22] Cass. Pen. 31 luglio 2014, n. 35717 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., nel diritto editore, 2015, è. 859 e Cass. Pen. 12 giugno 2015, n. 40397 in www.italgiure.it, Rv. 264574).

[23] Cass. Pen. 30 giugno 2015, n. 36687, in www.italgiure.it, Rv. 264046, conformi 6 maggio 2015, n. 20602 in www.italgiure.it, Rv. 23787 e 23 febbraio 2015, n. 24011 in www.italgiure.it, Rv 263777)

[24] Cass. Pen. 14 aprile 2015, n. 22104 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi cit., Nel diritto editore, 2015, p. 858 e Cass. Pen. 09 giugno 2015, n. 35721 in www.italgiure.it, Rv. 264259 e Cass. Pen. 9 settembre 2014, n. 42318 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., Nel diritto editore, 2015, p. 858.

[25] Cass. pen., sez. IV, ordinanza del 09.07.2014 (depositata l’11.07.2014), n. 30559, Dalvit, in Archivio penale 2014, n. 3, con commento di F. Giunchedi.

[26] Secondo la Corte «con le nuove disposizioni ... il legislatore ha previsto la messa alla prova sia quale causa di estinzione del reato (come esplicitamente previsto dall’art. 168 ter, comma 2, cod. pen. e confermato dalla collocazione della norma nel capo I del Titolo VI del codice penale, subito dopo la disciplina della sospensione condizionale della pena) sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale (come confermato dall’inserimento delle specifiche norme in apposito titolo V bis del libro VI - Procedimenti speciali - del codice di rito». A seguire la Corte esamina le finalità che caratterizzano l’istituto. In particolare, i Giudici di legittimità sottolineano gli obiettivi della riforma: offrire «un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale»; deflazionare il carico dei procedimenti penali «attraverso l’estinzione del reato dichiarata dal giudice in caso di esito positivo della prova»; tenere conto delle esigenze di tutela della persona offesa, tant’è che il legislatore ha previsto che «la messa in prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato (articolo 168 bis, comma 2, c.p.)».

[27] Sull’argomento si veda M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013.

[28] R. Bartoli, Una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, cit., 672; A. Marandola, Ombre e luci

di un nuovo rito per una diversa politica criminale, cit., 684.

[29] Cass. pen., sez. Feriale, 31.07.2014, n. 35717, depositata il 13.08.2014.

[30] Cass. Pen. 26 giugno 2015, n. 27071 in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., p. 859.  Si badi, infatti, che la nuova normativa sulla sospensione messa alla prova, anche per i processi pendenti, non può applicarsi allorquando già sia decorso il termine di decadenza previsto ordinariamente dall'articolo 464 bis c. 2 del codice di rito. (Cass. Pen. 15 gennaio 2015, n. 18265). Da queste premesse, la Corte dichiarando inammissibile il ricorso, ha rinvenuto corretta la decisione del giudice di appello che aveva ritenuto inapplicabile l'istituto in grado di appello, in assenza di norma transitoria che ne avesse consentito l'applicazione ai processi pendenti che avessero già superato gli sbarramenti previsti dall'articolo sopra menzionato.

[31] Sostiene la natura processuale A. Franceschi, Sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti in sede di giudizio di legittimità, commento a Cass. Pen. sez. IV, n. 35717 del 2014, in Giur. Pen. 2014; a favore della tesi più garantista si vedano, tra gli altri, G. Fiandaca; A. Giarda, Codice penale – Codice di procedura penale – Leggi complementari, IPSOA, 2014.

[32] Cass. Pen. 13 agosto 2014, n. 35717 in www.italgiure.it, Rv. 259935

[33] R. Piccirillo e P. Silvestro, a cura di G. Fidelbo, Novità legislative: Deleghe al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Rel. n. III/07/2014, 2014, pg. 12.

[34] Sul punto è bene chiarire, altresì, che le prove assunte a tale scopo possono essere utilizzate in sede decisoria allorquando la prova abbia avuto esito negativo. Invero, nel progetto iniziale la disposizione prevedeva un esplicito divieto in tal senso. Tale veto però non è più stato menzionato nel testo finale, ragion per cui autorevole dottrina ritiene indiscutibile l’utilizzabilità di tali prove anche nel corso del giudizio pendente: cfr. A. Di Tullio D’Elis, La messa alla prova per l’imputato, procedura e formulario, Santarcangelo di Romagna, pg. 74.

[35] A. Di Tullio D’Elis, La messa alla prova per l’imputato, procedura e formulario, Santarcangelo di Romagna, pg. 63.

[36] Dati assunti da: Istituto della messa alla prova in www.tribunale.milano.it..

[37] Cass. Pen., sez. VI, sentenza ud. 9 dicembre 1999, n. 4184 in Cass. Pen., 2001.

[38] Cass. Pen.12 marzo 2015 n, 14112, in R. Garofoli, codice penale e delle leggi speciali cit., p. 858.

[39]  Sotto quest’ultimo profilo, questione aperta è se la persona offesa debba necessariamente essere costituita parte civile per poter condizionare la concessione del beneficio al risarcimento del danno in suo favore, e dunque se anche all’ipotesi in esame trovi applicazione il principio espresso in alcune pronunce della Suprema Corte secondo cui il giudice non possa subordinare il beneficio (nello specifico la Corte si è espressa in tema di concessione della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 165 c.p.12), in difetto della costituzione di parte civile, all’adempimento dell’obbligo delle restituzione di beni conseguiti per effetto del reato, riguardando esse, come il risarcimento, solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale.