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Pubbl. Ven, 7 Lug 2023

L´obbligo di repêchage e i posti di lavoro liberi nell´immediato futuro

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Nicola Balsamo
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Con la sentenza della Cass. civ. Sez. lavoro 8 maggio 2023, n. 12132, la Suprema corte ha fornito una pronuncia innovativa con cui ha precisato l’estensione dell’obbligo di repêchage nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte di legittimità ha stabilito che l’obbligo predetto potrà dirsi adempiuto solo nel momento in cui il datore di lavoro ha tenuto in considerazione anche i posti prossimi ad essere liberati, di possibile assegnazione per il lavoratore che sta per essere licenziato.


Sommario: 1. Premessa; 2. Cos’è il repêchage; 3. La quaestio facti; 4. La pronuncia della Cassazione; 5. Conclusioni

1. Premessa

Con la sentenza 8 maggio 2023, n.12132, la Corte di Cassazione si è pronunciata su di un aspetto particolare rientrante nel tema del repêchage, fornendo una precisazione circa la sua estensibilità in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che il giudice di merito dovrà considerare adempiuto il suddetto obbligo, solo nel momento in cui il datore di lavoro abbia tenuto in considerazione l’assenza di posti di lavoro prossimi alla liberazione e assegnabili al lavoratore licenziando.

La pronuncia si inserisce nella sempre maggiore rilevanza attribuita al repêchage nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

2. Cos’è il repêchage

Prima di procedere all’analisi della richiamata sentenza, si rende necessaria una breve analisi dell’obbligo di repêchage.

Si tratta dell’obbligo del datore di lavoro di esaminare la possibilità di ricollocare all’interno dell’azienda il dipendente in esubero o divenuto inidoneo alle mansioni, prima di procedere con il suo licenziamento.

Di conseguenza, è connesso, come prima descritto, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che sussiste in motivazioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (art. 3, l. 604/1966[1]).

Questa tipologia di licenziamento è la chiara conseguenza della tutela della libertà di iniziativa economica privata, principio sancito dall’art. 41 della Costituzione.

Al contempo, alla libertà del datore di lavoro di eliminare le risorse divenute in eccesso, si contrappone l’interesse opposto del dipendente alla conservazione del proprio posto di lavoro.

In quest’ottica, si inserisce l’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro, da espletare ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pena l'illegittimità del recesso.

Tale obbligo è sottoposto ad una serie di limiti.

Innanzitutto, non può richiedere al datore di lavoro uno sforzo irragionevole, che possa comportare un’alterazione dell’organizzazione aziendale o oneri economici e organizzativi eccessivi.

In altri termini, l’obbligo trova un suo limite nella ragionevolezza dell’operazione da effettuare, dal momento che «la ragionevolezza dell’operazione non deve comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore» (vd. Cass. Sez. lav. 3 dicembre 2019, n. 31521).

Altro limite risiede nelle mansioni svolte dal lavoratore. Il datore dovrà verificare che in azienda non siano presenti mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte (art. 2103 c.c.[2]), essendo queste coperte dall’obbligo di repêchage.

Si ritiene opportuno sorvolare sull’applicazione del repêchage alle mansioni inferiori, tema che richiederebbe uno specifico approfondimento impossibile in questa sede.

Infine, prima di analizzare la sentenza, si rende necessario chiarire il quadro dell’onere probatorio.

Per l’opinione tradizionale, la prova dell’impossibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni è a carico del datore di lavoro, ma questa non deve essere intesa in senso rigido, potendo e dovendo il lavoratore contribuire all’accertamento del repêchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro in cui avrebbe potuto essere ricollocato (tra le altre, vd. Corte App. Catania 27 gennaio 2020).

Per un secondo indirizzo, la prova dell’impossibilità di adempiere all’obbligo di repêchage grava solo sul datore di lavoro.

Secondo questa teoria, non vi è alcun obbligo di collaborazione in capo al lavoratore licenziato, che non è tenuto ad indicare eventuali posti vacanti a lui assegnabili (vd. Cass. 4 marzo 2021, n. 6084).

Infine, un ulteriore orientamento indica che, sebbene non sussista un onere di collaborazione, il dipendente può comunque indicare le posizioni che dovrebbero essere state oggetto di repêchage e il datore di lavoro può assolvere tale obbligo, dimostrando la loro insussistenza (sul tema, Cass. 16 marzo 2021, n. 7360; Cass. 22 febbraio 2021, n. 4673).

3. La quaestio facti

La fattispecie oggetto della pronuncia analizzata origina dall’impugnazione, da parte dell’ex dipendente, del licenziamento irrogatogli per giustificato motivo oggettivo.

Nei due gradi di merito è stata confermata la legittimità del suddetto licenziamento, esito poi ribaltato dalla Suprema Corte, che ha ritenuto assente la prova, da parte del datore di lavoro, relativa all’assenza di posizioni analoghe a quella soppressa «alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo».

La Corte ha, inoltre, specificato che sarebbe stato necessario «dimostrare che per un congruo periodo di tempo successivo al recesso non era stata effettuata alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato». Oneri non rispettati dalla società datrice di lavoro.

Di conseguenza, riassunto il giudizio innanzi alla Corte di Appello, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo e la Corte ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro.

In tale sede è emerso più chiaramente che due dipendenti della società, che svolgevano mansioni analoghe al lavoratore licenziato, avevano rassegnato le dimissioni «con un termine di preavviso destinato a scadere in un arco temporale brevissimo dall'intimazione del licenziamento e con necessità di provvedere alla loro sostituzione».

Dunque, il datore di lavoro, seguendo i canoni della correttezza e della buona fede, avrebbe dovuto tenere conto di ciò nel valutare la ricollocabilità del lavoratore, anziché affermare che non vi era, al momento del licenziamento, alcuna posizione libera.

4. La pronuncia della Cassazione

La Suprema Corte ha chiarito la correttezza dell’operato del Giudice del rinvio, il quale, a seguito della prima sentenza della Corte di legittimità, doveva accertare se la società era incorsa o meno nella violazione dell'obbligo di repêchage e che il datore di lavoro avrebbe dovuto provare la mancanza di posizioni di lavoro analoghe a quella soppressa.

In più, era stato demandato alla Corte del rinvio di verificare che il datore di lavoro non avesse effettuato alcuna nuova assunzione in qualifiche analoghe a quella rivestita dal lavoratore licenziato.

La Corte di legittimità ha poi sottolineato – ed è questo il passaggio di maggiore importanza della sentenza – la correttezza della scelta effettuata dalla Corte di merito «che ha ritenuto che il datore di lavoro, nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, debba prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso ».

Essendo la circostanza, nel caso in esame, nota al datore di lavoro, questi ne deve tenere conto, diversamente, il suo comportamento risulterà in contrasto con i principi di correttezza e buona fede.

In sostanza, l’affermazione della Corte trova il proprio fondamento nei doveri di correttezza e buona fede, dovendo il datore di lavoro considerare la situazione complessiva dell’azienda, ivi comprese le posizioni sul punto di essere liberate e le assunzioni previste nell’immediato futuro.

Non possono non essere considerate le posizioni che si libereranno nell’immediato futuro a seguito di dimissioni (quindi ben note al datore di lavoro), non esaurendosi l’obbligo di repêchage nelle posizioni esistenti solo nell’esatto momento in cui avviene il licenziamento.

In definitiva, in presenza di lavoratori destinati a lasciare il proprio posto di lavoro, il datore di lavoro sarà tenuto ad astenersi dall’irrogazione del licenziamento, potendo ben assegnare quella posizione lavorativa nell’immediato futuro al lavoratore licenziando, pena la insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (almeno secondo parte della giurisprudenza, vd. Cass. 2 dicembre 2022, n. 35496; Cass. 2 maggio 2018 n. 10435).

Infine, nell’ultimo passaggio sella pronuncia, la Corte di Cassazione sottolinea come la società datrice di lavoro abbia cercato di sconfessare la ricostruzione della Corte di merito introducendo fatti nuovi (che non potevano trovare accesso in quello che peraltro era la seconda pronuncia della Corte d’Appello), rilevando come nel corso dei precedenti gradi la società abbia sostenuto che le posizioni fossero “coperte” al momento del licenziamento.

5. Conclusioni

La pronuncia della Suprema Corte fornisce un’importante estensione dell'obbligo di repêchage, ampliandolo ai posti destinati a liberarsi nell’immediato futuro, esigendo, da parte del datore di lavoro, un comportamento del tutto rispondente ai principi di correttezza e buona fede.

L'applicazione dell’obbligo in questa fattispecie risulta molto estensivo, anche in considerazione della circostanza che la Corte di legittimità non ha considerato la mancanza di assunzioni successive al licenziamento del lavoratore - elemento sul quale si erano basate le prime decisioni delle corti di merito - ma solo la futura liberazione dei posti.


Note e riferimenti bibliografici

[1] L’art. 3 della l. 604/1966 stabilisce quanto segue «Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso  è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa ».

[2] Art. 2103 c.c. rubricato “Prestazione del lavoro” al comma 1 e al comma 2 prevede che: «Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale».