• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Sab, 13 Mag 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Osservatorio Notarile - Gennaio/Marzo 2023

Modifica pagina

autori Giulia Fadda , Giorgianni Marco Filippo , Scatena Salerno Mauro



Osservatorio trimestrale su temi di interesse notarile. A cura del Notaio dottor Marco Filippo Giorgianni, del Notaio dottor Mauro Scatena Salerno e della dott.ssa Giulia Fadda. In questo numero sono presenti: un contributo del dottor Davide Ianni sulla tematica del compenso dell´esecutore testamentario; un contributo della dott.ssa Elisabetta Errigo, assegnista di ricerca in diritto privato, sulla tematica del contratto di locazione ad uso abitativo ed, infine, un contributo dell´avvocato ed assegnista di ricerca in diritto privato dottor Jacopo Alcini sulla possibilità per il condomino in regola con il pagamento degli oneri condominiali di opporsi al precetto eccependo la preventiva escussione dei soggetti morosi.


ENG

Notary Observatory - January/March

Quarterly observatory on issues related to the notarial profession. January-March 2023. Edited by the public Notary dott. Marco Filippo Giorgianni, the public Notary dott. Mauro Scatena Salerno and the dott.ssa Giulia Fadda. In this issue there are: a contribution by dott. Davide Ianni on the issue of the compensation of the executor of the will; a contribution by dott.ssa Elisabetta Errigo, research fellow in private law, on the issue of lease contract for residential use and, finally, a contribution by the law layer and the search fellow in private law dott. Jacopo Alcini on the possibility for the condominium in good standing with the payment of the condominium charges to oppose the precept excepting the prior examination of defaulting subjects.

Tutti gli articoli pubblicati nell'Osservatorio Notarile sono stati sottoposti a revisione a doppio cieco e approvati da almeno un membro del Comitato scientifico della Rivista competente per il settore disciplinare di riferimento.

NOTA A SENTENZA

COMPENSO A FAVORE DELL’ESECUTORE TESTAMENTARIO[1]

(Cass., Sez. II, 12 agosto 2022, dep. 12 agosto 2022, n.24798 - Pres. Manna - Rel. Tedesco - G.M. e altri c. G.A e altri)

La retribuzione a favore dell'esecutore testamentario non soltanto può essere disposta dal testatore, come prevede l'art. 711 c.c., ma è altrettanto possibile, in assenza di disposizione testamentaria ad hoc, che il compenso per l'opera prestata sia convenuto tra gli eredi e l'esecutore; tuttavia, mentre la retribuzione prevista dal testatore è a carico dell'eredità secondo quanto dispone l'art. 711 cit., l'impegno autonomamente assunto dagli eredi non è idoneo a diminuire l'attivo ereditario in pregiudizio dei creditori ereditari e dei legatari, ma vincola soltanto i successori che l'abbiano stretto, nei cui confronti l'esecutore dispone di un diritto azionabile per ottenere quanto promessogli.

Indice: 1) Premessa; 2) Lo sviluppo della figura dell’esecutore testamentario; 3) I tratti caratterizzanti l’esecutore testamentario; 4) La retribuzione dell’esecutore testamentario; 5) Lo scrutinio della Cassazione; 6) Conclusioni.

1) Premessa

Con la pronuncia n. 24798 del 12 agosto 2022, la Cassazione si è espressa con un nuovo principio di diritto in materia di compenso dell’esecutore testamentario.

Prima di analizzare ed esaminare dettagliatamente l’ordinanza adottata dalla Suprema Corte, è opportuno ripercorrere le tappe logico-giuridiche attraverso le quali i giudici di legittimità sono giunti alla statuizione oggetto del presente articolo, ponendo particolare attenzione agli istituti giuridici sottesi al caso di specie.

2) Lo sviluppo della figura dell’esecutore testamentario

In materia successoria, l’ordinamento italiano dimostra una peculiare attenzione alla tutela della volontà del testatore mediante l’adozione di una serie di disposizioni aventi il comune scopo di garantire l’esatta realizzazione del programma dettato dal de cuius nel suo testamento.

Innanzitutto, è possibile rinvenire all’interno della normativa in materia successoria il riconoscimento dell’autonomia e della libertà testamentaria attraverso la previsione della revocabilità del testamento e della segretezza di quest’ultimo.

Inoltre, il favor testamenti si concretizza non solo nella fase genetica della volontà testamentaria, ma anche nella fase dell’esecuzione del testamento.

In particolare, tra i diversi meccanismi normativi che perseguono un simile obiettivo, è presente la figura dell’esecutore testamentario[2].

Normalmente, l’esecuzione delle ultime volontà del de cuius è demandata agli eredi stessi.

Tuttavia, al fine di rendere più agevole e sicuro l’effettivo compimento delle sue ultime volontà, il testatore può individuare un soggetto, al quale è affidato ed attribuito un compito specifico, volto a curare e vigilare sull’esatta esecuzione delle disposizioni di ultima volontà del defunto.

Quanto alle origini di tale istituto, la dottrina appare concorde nel ritenere che esso non fosse così diffuso nel diritto romano, dato che era presente un forte sentimento morale e religioso che caratterizzava i soggetti legati tra loro da un vincolo di sangue.

Infatti, la previsione di un soggetto terzo ed estraneo che si occupasse dell’esecuzione delle ultime volontà del de cuius era ritenuto incompatibile con il sentimento di solidarietà familiare, dato che gli unici legittimati ad eseguire la volontà del testatore erano i suoi eredi.

Diversamente, nel diritto germanico, la previsione di un soggetto ad hoc per l’esecuzione delle disposizioni testamentarie era ritenuta legittima, in quanto quest’ultime si riducevano alla previsione di alcuni legati, essendo l’eredità confinata alla mera legittima

Infine, tale figura ha avuto un effettivo impulso soprattutto nell’era del diritto canonico, laddove vi era l’opportunità di garantire una corretta esecuzione dei lasciti effettuati a favore delle istituzioni religiose.

Con l’era della codificazione, ed in particolare con il Codice Civile del Regno d’Italia del 1865[3], la figura dell’esecutore testamentario ha trovato una sua collocazione all’interno delle norme in materia di successione.

Tuttavia, il compito riservato a tale figura era confinato ad un’attività di mero ausilio degli eredi, senza prevedere veri e propri poteri di gestione.

In particolare, l’art. 906 del suddetto codice civile statuiva che il testatore poteva attribuire all’esecutore il possesso immediato dei suoi beni ma che gli eredi, aperta la successione, avrebbero potuto far cessare tale possesso offrendo una somma di denaro o altre garanzie.

Ancora, l’art. 908 del citato codice prevedeva la possibilità per l’esecutore testamentario di procedere all’apposizione dei sigilli, di redigere l’inventario, di fare istanza di vendita se l’eredità fosse stata incapiente, di vigilare sull’esecuzione del testamento e di poter intervenire nei giudizi aventi ad oggetto lo stesso.

E’ possibile, quindi, osservare che i poteri attribuiti all’esecutore testamentario riguardavano un piano più superficiale, dato che tale figura si configurava come semplice ausiliario degli eredi.

Di conseguenza, tale concezione relativa all’esecutore testamentario ha comportato lo scarso utilizzo di tale figura nella prassi.

L’attuale disciplina contenuta nel codice civile vigente[4] ha ridisegnato la figura dell’esecutore testamentario, conferendo allo stesso una nuova e più moderna funzione - a metà tra la visione romanista e quella germanica - da un lato, ampliandone i poteri e, dall’altro, riconoscendo anche una maggiore responsabilità nei confronti dei beneficiari del testamento (eredi e legatari).

3) I tratti caratterizzanti l’esecutore testamentario

Innanzitutto, nell’attuale disciplina la nomina dell’esecutore testamentario è configurata  come mera facoltà e non come obbligo del testatore.

Più in particolare, laddove il testatore decida di affidare l’esecuzione delle proprie disposizioni di ultima volontà ad un esecutore testamentario, l’atto di nomina è qualificabile come un atto di volontà unilaterale, personale, intuitu personae, solenne e revocabile, avente carattere accessorio rispetto alle ulteriori disposizioni testamentarie contenute nel negozio mortis causa.

Al fine di essere nominato esecutore testamentario, il legislatore richiede la capacità di obbligarsi ovvero la capacità d’agire del soggetto.

Come avviene per ogni incarico, anche in tal caso è necessario che l’esecutore designato accetti mediante un atto espresso, nel rispetto delle formalità previste dall’art. 702 c.c.

Infine, le funzioni dell’esecutore testamentario sono state implementate, rispetto alla disciplina previgente, mediante l’inserimento della possibilità di amministrare i beni ereditari con il potere di procedere alla vendita degli stessi, previo rilascio dell’autorizzazione giudiziale.

Lungamente dibattuta è la questione concernente la natura giuridica dell’istituto dell’esecutore testamentario.

In primo luogo, infatti, vi è una parte della dottrina che, specialmente in passato, riconduceva tale figura a quella del c.d. mandato post mortem, ritenendo che costituisse un’ipotesi legittima di quest’ultimo perché prevista dal legislatore espressamente.

Tale tesi è stata criticata in base alla circostanza che il mandato è un negozio bilaterale, mentre l’atto di nomina e quello di accettazione dell’esecutore testamentario sono entrambi unilaterali ed autonomi tra loro.

Alla luce di tale critica, si è allora supposto in dottrina che si trattasse di una particolare forma di procura.

Anche tale teoria è stata criticata sulla base della circostanza che l’esecutore testamentario non agisce in nome e per conto del defunto, bensì agisce per l’espletamento di una propria funzione.

Infine, parte della dottrina ha affermato che il compito assegnato all’esecutore testamentario si configuri come un ufficio di diritto privato, vale a dire come un’amministrazione pubblica di interessi prevalentemente privati[5].

Di conseguenza, secondo quest’ultima teoria, l’esecutore testamentario agisce in nome proprio e senza alcun potere di rappresentanza né verso il defunto né verso gli eredi, bensì nell’ambito dei poteri riconosciuti in suo favore dall’atto di autonomia privata (la nomina del testatore) con cui il de cuius ha costituito l’ufficio di diritto privato di esecutore testamentario.

Come affermato precedentemente, nel diritto romano la figura di esecutore testamentario è stata spesso considerata come una promanazione di un rapporto affettivo che legava il soggetto designato al de cuius.

Nell’epoca moderna, tuttavia, la nomina dell’esecutore testamentario si è oramai affrancata quasi del tutto da legami amicali o di stima e si è invece concentrata maggiormente intorno ad una specifica previsione volta a sopperire ad un’esigenza crescente nella fase esecutiva delle volontà testamentarie.

In particolar modo, il complesso mondo del diritto e la moltitudine di cavilli burocratici conduce spesso alla redazione di disposizioni testamentarie molto complesse, la cui esecuzione richiede pertanto l’opera di soggetti qualificati ed aventi competenze professionali.

Di conseguenza, il testatore si trova costretto ad individuare la figura dell’esecutore testamentario in un professionista e molto spesso si tratta di un notaio.

Tale precisazione fornisce l’occasione per affrontare un’altra questione, ancora oggi molto dibattuta, relativa alla liceità della nomina del notaio quale esecutore testamentario.

Specificamente, la dottrina notarile si è infatti a lungo interrogata se il notaio che riceve il testamento possa essere nominato dal testatore esecutore testamentario.

L’interrogativo sorge dalla circostanza che l’art. 28, comma 1, n. 3 della legge 16 febbraio 1913 n.89 prevede il divieto per il notaio di ricevere o autenticare atti qualora essi contengano disposizioni che interessino lui o i propri congiunti (coniuge, parenti o affini in linea retta in qualunque grado), salvo che si tratti di testamento segreto non scritto dal notaio (o dai suoi congiunti sopra citati).

Tale norma deve essere sempre bilanciata con il disposto dell’art. 27 della medesima legge notarile, il quale invece prescrive l’obbligo per il notaio di prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto.

Al riguardo, il Consiglio Nazionale del Notariato[6] ha espresso non pochi dubbi e perplessità laddove la nomina del notaio ad esecutore testamentario sia contenuta in un testamento olografo.

Nel caso in esame, infatti, il notaio è chiamato alla c.d. pubblicazione della scheda testamentaria olografa, senza aver partecipato alla formazione della volontà testamentaria.

Alla luce di tale atteggiamento prudenziale - sostenuto in un’ipotesi (come quella di pubblicazione del testamento olografo) in cui il notaio si limita ad una mera ricezione successiva della scheda testamentaria - la dottrina ha pertanto ritenuto altresì illegittima la clausola di nomina del notaio rogante ad esecutore testamentario contenuta in un testamento pubblico dal momento che in tal caso, nonostante il compito del notaio sia quello di ridurre per iscritto le volontà del testatore, il notaio partecipa comunque direttamente ed in prima persona alla redazione dell’atto e al ricevimento delle volontà del de cuius.

Inoltre, si pone un ulteriore problema laddove il testatore abbia previsto espressamente un compenso a favore del notaio per l’esecuzione dell’ufficio di esecutore testamentario ai sensi dell’art. 711 c.c.

In tal caso, infatti, la previsione prevista all’art. 28 della legge notarile sarebbe pienamente integrata in maniera ancor più palese, emergendo dunque una evidente necessità di astensione del notaio dal ricevimento dell’atto.

La dottrina si è spinta oltre, avanzando poi perplessità anche laddove il compenso non sia stato previsto e dunque nei casi in cui l’ufficio di esecutore testamentario sia caratterizzato da gratuità.

Si è infatti ritenuto che, anche in assenza di compenso, il notaio-esecutore testamentario abbia comunque un interesse personale che esula dalla mera ricezione dell’atto e, pertanto, rientrerebbe anche in questo caso nell’ambito applicativo del divieto posto dal citato art. 28.

4) La retribuzione dell'esecutore testamentario

Dopo aver analizzato le peculiarità giuridiche riguardanti la figura dell’esecutore testamentario - dalla ratio ispiratrice alla natura giuridica fino alla continua evoluzione delle sue funzioni - è necessario soffermarsi ed interrogarsi su un altro aspetto centrale che assume particolare rilievo nella pronuncia in commento: la retribuzione dell’esecutore testamentario[7].

Il codice civile del 1865 taceva sul punto, disponendo esclusivamente all’art. 911 che le spese sostenute dall’esecutore per l’esercizio delle sue funzioni fossero a carico dell’eredità.

Diversamente, il codice civile vigente affronta direttamente la questione all’art. 711 disponendo che, di norma, l’ufficio dell’esecutore testamentario è gratuito ma è sempre fatta salva la possibilità di stabilire una retribuzione a carico dell’eredità da parte del testatore.

In particolare, si è diffusamente sostenuto che la gratuità dell’incarico è insita nella possibilità per l’esecutore di poter rinunciare allo stesso, senza pericolo di subire gli oneri della gestione ereditaria.

Tuttavia, la gratuità non è obbligatoria poiché il testatore potrà liberamente, qualora lo vorrà, disporre un compenso in favore dell’esecutore ed a carico dell’eredità.

Sul punto giova precisare che il testatore dovrà predisporre un compenso che sia proporzionato all’attività propria dell’esecutore, altrimenti la disposizione andrà a configurare una attribuzione a titolo di legato.

Tale ultima precisazione ha un rilevante impatto pratico poiché, in tal caso, l’esecutore testamentario - divenendo al contempo legatario in relazione alle somme ricevute dal testatore a titolo di compenso non proporzionato - non potrà essere incaricato della divisione dei beni ereditari ai sensi del disposto normativo di cui all’art. 706, comma 1 c.c.

Chiariti tali aspetti preliminari, il legislatore ha espressamente disciplinato soltanto la previsione da parte del testatore di una retribuzione proporzionata alle incombenze che l’esecutore testamentario dovrà eseguire.

In assenza, invece, di una previsione specifica da parte del testatore e nel silenzio della legge, l’ufficio dovrà essere adempiuto gratuitamente.

A questo punto si pone dunque l’interrogativo che è alla base del caso oggetto dell’odierna disamina, vale a dire quale sia la sorte della retribuzione dell’esecutore testamentario nel caso in cui il testatore non abbia previsto nulla all’interno del negozio testamentario, ma laddove invece i suoi eredi si siano obbligati, mediante un’autonoma dichiarazione successiva all’apertura della successione del de cuius, a corrispondente il compenso dell’esecutore, specificando che tale pagamento verrà effettuato a carico dell’eredità.

La risposta è stata fornita dalla stessa Cassazione, come si avrà modo di esporre nel paragrafo che segue.

5) Lo scrutinio della Cassazione

In primo luogo, la Cassazione aderisce pienamente a quanto già affermato in precedenza, ossia al dibattito circa la natura giuridica dell’istituto dell’esecutore testamentario, riconoscendo lo stesso quale ufficio di diritto privato.

La Suprema Corte, infatti, precisa che all'esecutore testamentario è attribuito direttamente dal testatore un incarico intuitu personae in forza del quale egli è investito del potere di compiere, in nome proprio, determinati atti, i cui effetti ricadono direttamente sul patrimonio ereditario, come se li avessero compiuti gli eredi.

L’analisi prosegue poi affrontando il tema della retribuzione dell’esecutore testamentario.

In particolare, i giudici di legittimità, ripercorrendo l’evoluzione della normativa dal codice previgente del 1865 ad oggi, osservano che l’art. 711 del vigente codice civile, letto in combinato disposto con l’art. 712 c.c., riconosce all’esecutore, anche in assenza di una espressa previsione di compenso da parte del testatore, la possibilità di ottenere la ripetizione delle spese sostenute per l’esecuzione del suo ufficio a carico dell’eredità, così come già ribadito da un precedente giurisprudenziale della Corte medesima[8].

Citando un altro proprio precedente[9], inoltre, la Cassazione ribadisce che la gratuità dell’ufficio di esecutore trova la sua ratio nella possibilità dello stesso di poter lecitamente rifiutare l’incarico, senza dover sopportare gli oneri della gestione dei beni ereditari.

Fino ad ora dunque la Cassazione ripercorre pedissequamente l’orientamento ad oggi cristallizzato nelle sue precedenti pronunce, senza innovarne la portata.

Si aggiunge inoltre che, laddove vi sia stata espressa previsione testamentaria, la retribuzione dell’esecutore grava esclusivamente sulla massa ereditaria con la conseguenza che, in caso di accettazione con beneficio d’inventario, gli eredi non saranno tenuti al pagamento dello stesso oltre i limiti di valore dei beni relitti.

Tale credito, inoltre, è assistito da privilegio ai sensi dell’art. 2755 c.c. e dell’art. 2756 c.c.

Il Supremo Collegio afferma che anche in assenza di una espressa previsione da parte del testatore, l’art. 711 c.c. non impedisce che la previsione di un compenso sia pattuita autonomamente in forza di un negozio di autonomia privata direttamente tra eredi ed esecutore testamentario.

Tale apertura è di fondamentale importanza perché prima d’ora la Cassazione non aveva mai preso posizione sul punto.

Non a caso, sia nel giudizio di primo grado che nella successiva fase di appello, i giudici hanno al contrario espresso un orientamento opaco e differente, riconoscendo indirettamente nella sola volontà testamentaria l’unica ed esclusiva fonte negoziale legittima per la statuizione del compenso dell’esecutore.

A sostegno di tale visione vi è sicuramente la circostanza, pacifica ed incontestata, dell’idoneità dello strumento testamentario quale fonte negoziale.

Tuttavia, con l’odierna pronuncia, si è voluto precisare che in tema di retribuzione dell’esecutore testamentario il testamento non esaurisce, bensì completa l’elenco delle fonti negoziali dell’obbligazione.

Accanto alla previsione testamentaria, infatti, può esistere anche un autonomo accordo negoziale con cui gli eredi, in prima persona, si obbligano nei confronti dell’esecutore al pagamento del relativo compenso.

Ciò posto, la Corte chiarisce però un altro aspetto cruciale: nel caso di specie infatti gli eredi si erano obbligati in proprio ma avevano altresì stabilito che la retribuzione sarebbe stata a carico dell’eredità.

Proprio su questo ultimo aspetto si concentra la maggior portata innovativa della presente ordinanza.

I giudici di legittimità, infatti, precisano che la natura della retribuzione è differente a seconda se la stessa sia prevista direttamente dal testatore nel negozio mortis causa oppure sia stata pattuita autonomamente in via successiva dagli eredi mediante un atto inter vivos.

Nel dettaglio, si precisa che in presenza di una manifestazione di volontà del testatore che stabilisca un compenso a vantaggio dell'esecutore costui, in forza del testamento, vede riconoscersi un credito verso la massa, dotato di azione ed assistito da privilegio

Al contrario, quando in assenza di disposizione testamentaria in merito l'obbligazione di corrispondere un compenso sia stata assunta dagli eredi, l'esecutore testamentario maturerà il diritto al compenso in virtù di un impegno che vincola soltanto gli eredi che l'abbiano stretto, dal momento che la prestazione non trova fondamento nella volontà del testatore.

L'impegno assunto dai successori, sebbene non idoneo a diminuire l'attivo ereditario in pregiudizio dei creditori ereditari e dei legatari, è però sorretto da una causa lecita, facendo pertanto sorgere in capo all'esecutore un diritto azionabile per ottenere quanto promessogli.

La Suprema Corte inoltre, riprendendo il precedente citato[10] dalla Corte d’Appello di Genova, ne offre una lettura autentica, contestando l’interpretazione fornita dal Giudice del gravame a sostegno della propria decisione.

Segnatamente, viene precisato che - nella fattispecie oggetto di quel giudizio - il giudice di merito aveva riconosciuto in favore dell’esecutore un compenso per l’attività svolta in forza del mandato attribuito direttamente e congiuntamente dagli eredi.

Tra i motivi di ricorso inoltre vi era la non assoluta incompatibilità della retribuibilità dell’esecutore testamentario, soprattutto laddove nell’espletamento delle proprie funzioni egli si fosse servito di competenze squisitamente tecniche, le quali andrebbero liquidate secondo i parametri dell’ordine professionale di appartenenza.

Alla luce di ciò, la Corte di Cassazione del 2004[11] tuttavia affermava che la ratio della disposizione in esame (l’art. 711 c.c.) si poneva apparentemente non in linea con altre analoghe, relative ad istituti affini, che prevedono viceversa la retribuibilità dell'incarico come ad esempio per il curatore dell'eredità giacente, l'art. 508 c.c., per il mandatario, l'art. 1709 c.c., per il sequestratario, l'art. 1802 c.c., per gli amministratori e i sindaci di società, gli artt. 2389 e 2402 c.c.

Si precisa però che, se per un verso, la gratuità dell'ufficio di esecutore testamentario appare difficilmente conciliabile con la più che probabile e verosimile onerosità e gravosità dell'espletamento delle attività, a volte non semplici, ad esso connesse (cfr. artt. 703 -709 c.c.), e se, per altro verso, ed evidentemente proprio per questo, è data la possibilità a chi è stato investito di un compito basato, oltre che sull'intuitu personae, sulla stima e sulla fiducia che il testatore ha avuto per il designato, di rinunciarvi (art. 702 c.c.), deve ritenersi che proprio siffatta alternativa, offerta dalla legge all'esecutore nominato dal testatore (art.700 c.c.), consente di interpretare univocamente e ragionevolmente la disposizione de qua: la gratuità dell'ufficio prevista dal codice si giustifica con la possibilità per il soggetto che ne è investito di non accettare l'incarico, sottraendosi, in tal modo, agli oneri derivanti dall'espletamento dello stesso, ovvero di espletarlo e di sobbarcarsi viceversa a tutte le incombenze che vi sono connesse, senza poter reclamare alcun compenso, salvo che questo non sia stato stabilito dal testatore e salvo, comunque, il suo diritto a ripetere le spese sostenute per l'esercizio dell'ufficio (art. 712 c.c.).

In tal senso si esclude che la retribuzione dell’esecutore abbia fonte nella legge, la quale invece ne prescrive la gratuità, e si conferma quanto già disposto dal legislator,e ovvero la possibilità di fare salva una diversa volontà del testatore.

Dunque l’autonomia testamentaria diventa unica fonte di retribuzione dell’esecutore.

Da tale assunto parrebbe che la Corte avesse inteso la norma in maniera estremamente letterale, prevedendo un doppio binario: gratuità dell’incarico e possibilità di rifiuto oppure previsione espressa del testatore del compenso; diversamente, nel silenzio del testamento, l’incarico sarebbe gratuito, salvo il diritto alla ripetizione delle spese sostenute.

D’altronde, la Suprema Corte evidenzia l’esistenza di un’altra ratio decidendi, che si aggiunge a quella appena esplicata, vale a dire che nel caso di specie non si rinviene alcuna attività che possa essere ricompresa nelle attività di esecutore testamentario e pertanto, in assenza di qualunque indicazione sul punto, neppure l’atto di autonomia privata intercorso tra eredi ed esecutore costituirebbe titolo valido ed idoneo al riconoscimento della retribuzione.

La Cassazione aggiunge che la pretesa retributiva non potrebbe essere neppure sollevata in forza del generale potere di mandato conferito all’esecutore testamentario  ai sensi dell’art. 1709 c.c. poiché neppure tali attività sono state precisate.

La Corte d’Appello non avrebbe dato debito conto delle ragioni per cui, a suo giudizio, l’esecutore - al quale non spetta, come si è detto, la retribuzione per l'attività svolta per il suo ufficio - avrebbe diritto, in ogni caso, al compenso in virtù del mandato conferitogli dagli eredi e, quindi, per gli atti o le attività compiuti in esecuzione del mandato medesimo.

Pertanto, la Corte interpreta la pronuncia in parola nel senso che, nel caso in cui il testatore non abbia contemplato alcuna retribuzione in favore dell'esecutore testamentario, l'ufficio di esecutore testamentario - circoscritto all'attuazione della volontà del de cuius - rimane gratuito, quando anche fosse stato stipulato un contratto di mandato dagli eredi.

Spetterà poi al giudice del merito valutare se, oltre agli atti che rientrano nella normale competenza dell'esecutore testamentario (e, come tali, non retribuibili ove sia assente la volontà mortis causa in favore della retribuzione), questi abbia effettivamente compiuto atti diversi, che debbano essere compensati ad altro titolo.

Chiarito ciò, la Corte si concentra nell’esame della fattispecie oggetto del proprio scrutinio affermando come la stessa ponga invece questioni del tutto diverse e peculiari.

Diversa ed impregiudicata rimane la questione circa la validità dell'impegno, autonomamente assunto dagli eredi in assenza di disposizione testamentaria ad hoc, di corrispondere un compenso all'esecutore testamentario designato dal testatore.

Nel caso di specie vi è uno sdoppiamento.

L’ufficio di esecutore nasce dalla disposizione testamentaria senza previsione di alcun compenso e pertanto gratuitamente, mentre il diritto alla retribuzione dell’esecutore trova la sua fonte in un atto di autonomia privata degli eredi, separato e successivo al testamento.

Sul punto, la Cassazione apre ad una terza via, riconoscendo l’integrale liceità dell’accordo intercorso tra eredi ed esecutore, ma ponendo tuttavia delle precisazioni.

Mediante un’analisi ermeneutica, i giudici di legittimità giungono a sostenere che l’art. 711 c.c. non vieta che, in assenza di una espressa previsione del testatore circa la retribuzione, gli eredi possano autonomamente obbligarsi con un atto di autonomia negoziale successivo.

Al contrario, ciò che il legislatore ha voluto impedire concerne un’altra circostanza, vale a dire che solo la volontà testamentaria può porre a carico dell’eredità la retribuzione dell’esecutore, mentre agli eredi non è concessa tale facoltà poiché andrebbero a ledere i diritti dei creditori ereditari e dei legatari.

Pertanto, nel caso di specie, l’impegno assunto autonomamente dagli eredi del testatore assurge a fonte di obbligazione idonea e lecita con la conseguenza che gli stessi (e solo coloro che si sono espressamente impegnati) saranno tenuti al pagamento del compenso dell’esecutore testamentario in proprio, e non anche ponendo lo stesso a carico dell’eredità.

6) Conclusioni

Alla luce di tale pronuncia, la Cassazione afferma pertanto due principi: da un lato, riconosce piena liceità all’autonomo negozio con cui gli eredi del testatore, in assenza di espressa previsione testamentaria, si impegnano alla retribuzione dell’esecutore testamentario; dall’altro, pone un limite a tale accordo a tutela dei creditori ereditari e dei legatari affermando tuttavia che l’adempimento di tale obbligazione, proprio per il suo carattere autonomo ed avulso dalla volontà testamentaria, non potrà gravare sull’asse ereditario, bensì costituirà una autonoma fonte negoziale per coloro che lo hanno stipulato e come tale graverà sulle rispettive posizioni giuridiche patrimoniali.

La portata innovativa è data dunque dall’aver chiarito, per la prima volta, l’effettiva ratio sottesa all’art. 711 c.c.

In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che l’articolo in commento, nell’affermare la gratuità dell’ufficio di esecutore testamentario e nel riconoscere la volontà derogatoria del testatore nel prevedere una retribuzione, non esclude la possibilità circa l’esistenza di un patto intercorrente tra eredi ed esecutore testamentario, avente anzi una causa lecita e valida, proprio ai sensi della medesima normativa codicistica.

In tal senso dunque, nell’ambito dell’autonomia privata, gli eredi potranno derogare sia al silenzio del testatore circa la mancata previsione di compenso, sia alla presunzione di gratuità disposta espressamente dalla legge.

L’unico limite che il legislatore ha posto come invalicabile è, tuttavia, costituito dalla tutela dei creditori ereditari e dei legatari, i quali - nell’ipotesi in cui la retribuzione autonomamente prevista dagli eredi fosse posta a carico dell’eredità - potrebbero subire un pregiudizio per le loro ragioni e per i loro diritti facenti capo alla massa relitta dal de cuius.

La Corte non si esprime circa un’ulteriore questione, vale a dire la possibilità di convalidare il negozio nullo posto in essere dagli eredi in esecuzione della previsione testamentaria di nomina dell’esecutore testamentario.

Sul punto giova precisare che il legislatore ha previsto, per gli atti inter vivos il divieto di convalida degli atti negoziali affetti da nullità, ai sensi dell’art. 1423 c.c.

Tuttavia, in materia successoria ed in ossequio al principio generale del favor testamenti, la stessa norma prevede la possibilità di eccezioni espressamente ammesse dalla legge.

Non a caso, l’art. 590 c.c. delinea la c.d. conferma delle disposizioni testamentarie nulle.

E’ dunque dirimente capire la natura giuridica dell’accordo intercorso tra eredi e esecutore testamentario.

Sul punto, si osserva che, a prescindere dal dibattito circa il carattere unilaterale o bilaterale del negozio, il patto stipulato tra eredi ed esecutore testamentario sia pacificamente un atto avente natura giudica di negozio inter vivos, sebbene sia collegato o si atteggi come esecuzione di una volontà espressa all’interno del negozio testamentario da parte del de cuius.

Saranno infatti gli eredi che autonomamente porranno in essere il negozio con l’esecutore testamentario.

Tuttavia, è opportuno rilevare che tale fattispecie non risulta isolata nel nostro ordinamento dal momento che al testatore è pacificamente riconosciuta la possibilità di prevedere nel proprio testamento disposizioni di ultima volontà aventi ad oggetto la stipulazione di un contratto o di posizioni a contenuto contrattuale.

Il testatore può infatti prevedere, attraverso l’attribuzione di un legato obbligatorio, la possibilità di porre a carico dell’onerato l’obbligo di stipulare un contratto a favore di determinati soggetti.

Il limite è, tuttavia, riconosciuto in tutti quei contratti che richiedono il c.d. intuitu personae (quali ed esempio il mandato, il contratto d’opera o il contratto in materia di società di persone).

In tal caso, il negozio giuridico che gli eredi porranno in essere in esecuzione del suddetto legato avrà comunque natura giuridica di autonomo atto inter vivos.

Sebbene la fattispecie descritta sia differente rispetto al caso in oggetto (ovvero del patto stipulato autonomamente tra eredi ed esecutore testamentario), tale precisazione è opportuna al fine di chiarire come, anche se il testatore abbia nominato un esecutore testamentario nel proprio testamento senza prevederne la retribuzione, il successivo patto tra eredi ed esecutore assurge ad autonoma fonte di obbligazione avente carattere di negozio inter vivos, il quale obbliga direttamente coloro che vi hanno preso parte e si pone esclusivamente a carico dei loro rispettivi patrimoni.

Alla luce di tale statuizione sarà dunque opportuno prestare attenzione ad eventuali accordi intercorsi tra eredi ed esecutori testamentari, potendo gli stessi integrare un’autonoma fonte di obbligazione per i successori, anche se il testatore non abbia disposto nulla a riguardo ed in presenza di una presunzione legale di gratuità dell’ufficio.

SAGGIO

LA LOCAZIONE ABITATIVA TRA AUTONOMIA NEGOZIALE ASSISTITA E RINNOVAZIONE DEL CONTRATTO: BREVI NOTE A MARGINE DI UN SEMINARIO DI STUDI[12]

Indice: 1) Premessa. La locazione abitativa tra tutela del conduttore ed esigenza della proprietà; 2) Cenni sull’evoluzione normativa delle locazioni ad uso abitativo: dalla legge sull’equo canone alla legge n. 431/1998; 3) I contratti a canone agevolato tra rinnovo alla scadenza e durata del contratto. Sulla questione dell’onere motivazionale imposto al proprietario per la disdetta; 4) L’iterazione della stipula: la differente valenza concettuale della proroga e della rinnovazione (temporale) del vincolo; 5) Dall’interpretazione autentica dell’art. 2 comma 5 l. 431/1998 all’affievolimento dell’affidamento del conduttore nella prosecuzione del contratto; 6) Considerazioni conclusive.

1) Premessa. La locazione abitativa tra tutela del conduttore ed esigenza della proprietà

Recenti indirizzi giurisprudenziali[13] rinnovano l’interesse verso talune vicende della locazione ad uso abitativo[14], e specialmente della locazione a canone concordato, la quale, nell’ultima fase dell’esperienza giuridica, sembra costituire strumento per prediligere a priori le posizioni dei conduttori rispetto a quelle della c.d. proprietà edilizia.

Ed invero, a fronte di ragioni di garanzia di stabilità del rapporto e dell’asserita esistenza di un affidamento in capo al conduttore, alcune decisioni hanno mitigato in misura assai significativa i poteri attribuiti al proprietario, secondo conclusioni slegate, però, dalle coordinate positive.

Una conferma è offerta dalla questione in ordine all’estensione dell’obbligo di motivazione, in capo al locatore, per comunicare la disdetta ed evitare il rinnovo del contratto a canone concordato.

Ora, le più immediate direttive del dettato legislativo sembrerebbero per vero indirizzare il quesito segnalato verso esiti inevitabili. Ed invero, il tenore testuale dell’art. 2 comma 5, L. 431/1998 parrebbe imporre uno specifico obbligo di motivazione soltanto per la disdetta intimata alla scadenza del primo triennio di contratto. E tuttavia, gli esiti espressi da una interpretazione fedele al dato testuale sembrano disdettati in virtù di una prospettiva funzionale, la quale, nell’ottica di preservare gli interessi della c.d. parte debole, parrebbe legittimare una interpretazione delle norme tutt’affatto differente.

Senza ovviamente voler negare l’esigenza di salvaguardare le prerogative del conduttore, l’evoluzione normativa della locazione ha tentato di comporre le esigenze contrapposte del conduttore e della proprietà immobiliare - di cui l’autonomia negoziale assistita è espressione - sì da esprimere oggi un equilibrio non sempre così sbilanciato in favore del conduttore.

Sì che, al fine di comporre gli interessi delle parti, è davvero ineliminabile l’analisi della funzione economico-individuale del negozio, certamente illuminata dalla diversa accezione assunta dall’autonomia negoziale in questo settore, unitamente alla, sempre doverosa, interpretazione teleologica[15] delle norme di riferimento: entrambi siffatti elementi sono infatti necessari per valorizzare il ruolo che i vari schemi negoziali assolvono nel mercato, la cui funzione, nel caso della locazione abitativa, è orientata alla realizzazione delle esigenze della collettività, senza sacrificio per gli interessi contrapposti.  

2) Cenni sull’evoluzione normativa delle locazioni ad uso abitativo: dalla legge sull’equo canone alla legge n. 431/1998

La disciplina riservata alla locazione ad uso abitativo si presenta stratificata e tutt’altro che unitaria, il che rende doveroso indirizzare il ragionamento muovendo da un excursus normativo del negozio, ancorché per cenni.

La notevole valenza sociale[16] che ha assunto, nel tempo, il negozio ha reclamato l’adozione di una normativa speciale da affiancare (e spesso da sovrapporre) a quella codicistica[17], caratterizzata da una singolare incompletezza[18].

Storicamente la regolamentazione del mercato locatizio, specialmente nell’ambito della destinazione abitativa, si è rivelata di particolare complessità per ragioni legate soprattutto alla difficoltà di emendare la sproporzione intrinseca sussistente tra il valore dei canoni offerti e quello dei beni locati[19]. In questa logica si spiegano le pratiche interventistiche sulla proprietà sfociate nella c.d. legislazione vincolistica[20], finalizzate a sottrarre, non senza notevoli perplessità, le locazioni immobiliari al mercato e alla volontà delle parti[21].

La materia ha trovato una prima sistemazione organica nella legge n. 392 del 27 luglio 1978 (c.d. legge sull’equo canone)[22] nell’intento di realizzare un meccanismo di determinazione legale del contenuto del contratto e, in particolare, del canone calcolato sulla base di una serie di parametri oggettivi. Ispirato ad un generico favor conductoris, tale intervento normativo mirava a tutelare l’esigenza primaria del diritto all’abitazione tramite una serie di presidi quale l’imposizione della durata quadriennale del rapporto, l’introduzione del canone legale - ovvero equo - e il divieto di deroghe pattizie meno favorevoli per il conduttore[23].

Sebbene tale primo intervento organico abbia parzialmente preservato anche la posizione dei proprietari-locatori, restituendo loro - tramite lo strumento dell’azione di sfratto per finita locazione - la possibilità di rientrare in possesso del bene locato, tuttavia, l’evidente impossibilità, per i locatori, di trarre una valida fonte di reddito derivante dagli immobili locati ad equo canone, ha inciso sulla stessa efficienza del mercato locatizio, tanto da renderne necessario un intervento riformatore[24].

Le esigenze di liberalizzare il canone, da una parte, e di rendere più stabile il rapporto contrattuale, dall’altra, hanno condotto, invero, alla scelta di abbandonare definitivamente, tramite la legge n. 431 del 1998, il canone equo, pur mantenendo una disciplina individualizzante connessa alla primaria funzione notoriamente riconosciuta al bene-casa[25].

L’attuale corpus normativo, nel tentativo di rispondere alle esigenze della collettività, consegna un sistema unitario per il settore delle locazioni abitative costruito sulla base di due differenti modalità di contrattazione, comunque sottratte all’autonomia privata.

Sommariamente, il primo modello di contratto (cd. libero o ordinario, art. 2, co. 1, l. n. 431/1998) affida ai contraenti la possibilità di definire liberamente la misura del canone ed i relativi aumenti periodici, rimuovendo quella compressione dell’autonomia privata caldeggiata dalla normativa precedente. La tutela dell’inquilino, in tal caso, si realizza attraverso la previsione imperativa di una durata minima del contratto pari a quattro anni, a cui segue un rinnovo automatico alla prima scadenza per un nuovo termine quadriennale[26].

Nel secondo modello (cd. convenzionato o alternativo, art. 2, co. 3, l. n. 431/1998) le parti aderiscono ad un contratto-tipo le cui condizioni (compresa la misura del canone) sono definite in sede locale sulla base di accordi territoriali stipulati tra le associazioni maggiormente rappresentative della proprietà edilizia e dei conduttori.

Per questi contratti[27], a fronte di una serie di agevolazioni fiscali, il canone è convenzionalmente imposto nel senso che è individuato sulla base di una serie di elementi oggettivi, quali le caratteristiche della zona in cui l’immobile è ubicato, lo stato di manutenzione, la categoria catastale, l’arredamento[28]: elementi oggettivi valevoli per tutti i contratti appartenenti al tipo di contratto considerato[29].

Lo schema legale seguito per la contrattazione a canone concertato prevede una durata non inferiore a tre anni a cui segue, nel silenzio delle parti, una proroga di diritto per altri due anni, ai sensi dell’art. 3 della L. 431/1998. Alla scadenza dei due anni di proroga, entrambe le parti possono attivarsi per il rinnovo o per la rinuncia, inviando una comunicazione scritta, almeno sei mesi prima, con lettera raccomandata, in assenza della quale il contratto si rinnova tacitamente alle stesse condizioni[30].

Nel calmierare la «riespansione»[31] dell’autonomia negoziale, la dimensione collettiva della contrattazione di cui l’autonomia assistita, in questo settore, è espressione, certamente risponde all’esigenza di tutelare la parte debole del rapporto[32].

Nondimeno, è parimenti evidente come siffatta contrattazione, assistita anche dalla parte, per così dire, forte del rapporto asseconda le esigenze del mercato senza trascurare gli interessi concreti in capo ai locatori: da una parte, infatti, il canone concertato agevola l’incontro tra la domanda e l’offerta nell’ottica di una maggiore promozione del mercato locatizio e, dall’altra, il termine di scadenza più breve - rispetto alla libera contrattazione - prorogabile di diritto, mantiene stabile il rapporto senza immobilizzare le prerogative del proprietario, potendo lo stesso rientrare più rapidamente in possesso dell’immobile.

3) I contratti a canone agevolato tra rinnovo alla scadenza e durata del contratto. Sulla questione dell’onere motivazionale imposto al proprietario per la disdetta

Al netto degli scopi pratici che l’impianto normativo è teso a perseguire, sintetizzabili nella promozione del mercato locatizio senza sacrificio per i contrapposti interessi in gioco, nella prassi si sono registrate talune difficoltà operative derivanti dall’esecuzione di siffatto modello contrattuale, il quale è apparso comunque vincolato e ben poco innovativo rispetto al precedente regime[33].

Anche il tenore di alcune disposizioni normative ha destato taluni problemi ermeneutici, specie in merito al rinnovo e alla durata dei contratti a canone concordato[34], risolti dalla giurisprudenza in modo non sempre del tutto convincente.

In particolare, la ricognizione di recenti pronunce consegnano un uso dei concetti di «proroga» e «rinnovo» del contratto foriero di dubbi nella misura in cui i due termini vengono impiegati in modo fungibile: a titolo esemplificativo, si consideri una pronuncia, in tema di disdetta, ove si è attribuito al conduttore la facoltà di non avvalersi della proroga biennale qualora non abbia interesse al rinnovo[35].

Tali incertezze hanno, forse, indotto taluni ad adottare soluzioni tutt’affatto che persuasive, con conseguenze di non poco momento specie in punto di effettiva tutela delle situazioni sottese.

Il riferimento corre ad un orientamento del Tribunale di Bologna[36] il quale ha ritenuto che la disdetta del locatore alla scadenza del primo biennio di proroga del contratto a canone concordato, stipulato ai sensi dell’art. 2 comma 3 della Legge 431/1998 - biennio che, si ripete, segue di diritto la scadenza del primo triennio locativo - per avere valenza risolutiva del rapporto debba contenere a pena di nullità l’indicazione dei presupposti previsti dall’art. 2 comma 5, L. 431/1998, ovvero a) l’intenzione di adibire l’immobile agli usi o effettuare le opere di cui all’art. 3; b) l’intenzione di vendere l’immobile alle condizioni e con le modalità di cui alla medesima disposizione.

Tale orientamento di merito vorrebbe inaugurare, non senza fondate ragioni di dubbio, una nuova stagione del rapporto locatizio, a conferma della diffusa tendenza a tutelare la parte, per così dire, debole del rapporto.

A questi fini, la pronuncia ha imposto uno stringente onere motivazionale in capo al locatore che voglia disdire il contratto alla scadenza del biennio di proroga - e pertanto dopo ben cinque anni di esecuzione del rapporto (tre anni di durata normale del rapporto ai quali si sommano due anni di proroga di diritto) - a pena di far proseguire l’esecuzione del contratto, alle medesime condizioni, per ulteriori due anni.

L’interpretazione, però, non convince, giacché, sì ragionando soltanto alla scadenza di tale ulteriore periodo biennale (quindi dopo ben sette anni di durata complessiva del rapporto) il locatore si troverebbe finalmente libero di poter disdire il contratto senza onere di provare alcuna esigenza connessa all’utilizzo dell’immobile.

Ora, l’onere motivazionale, che certamente limita il potere del proprietario di rientrare più agevolmente in possesso del bene, si fonda sulla necessità di provare la serietà delle ragioni del rifiuto di rinnovare il contratto, le quali, se non enunciate, fanno sorgere il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione, alle stesse condizioni del contratto disdettato[37].

Ma, nel caso di specie, tenuto conto della funzione economico-individuale del contratto a canone concordato, la cui durata ne è espressione e conferma, è evidente che la previsione di uno stringente onere motivazionale in capo al proprietario alla scadenza del biennio di proroga di diritto già eseguito non possa essere giustificata né alla luce dell’economica complessiva del negozio né della ratio legis che ha spinto il legislatore ad intervenire sulla locazione ad uso abitativo.

4) L’iterazione della stipula: la differente valenza concettuale della proroga e della rinnovazione (temporale) del vincolo

La ricostruzione ermeneutica seguita dalla giurisprudenza in commento non soltanto mal si attaglia al tenore delle disposizioni settoriali che prevedono il rinnovo e la proroga del contratto, ma non è neppure coerente con la scelta legislativa di prevedere, in deroga al sistema ordinario delle locazioni con scadenza quadriennale, contratti di durata più breve.

Procedendo per ordine, i concetti di «proroga» e «rinnovo» del contratto, di là dall’essere tra loro fungibili, meritano una più «giusta» sistemazione, proprio in ragione della notevole valenza pratica che assumono nella concreta dinamica contrattuale.

Ore, entrambe le formule, nell’evocare meccanismi di protrazione temporale del vincolo contrattuale, sono piuttosto estranee al dato positivo ed invece più comuni alla prassi e al discorso dottrinale e giurisprudenziale.

Ciò però non deve indurre a desistere nella ricerca di un significato autonomo attribuibile ai due termini, che di fatto li rende tra loro non sovrapponibili.

La differente valenza concettuale della proroga e del rinnovo del contratto si inserisce, pertanto, nel solco della distinzione, di matrice dottrinale, delle fattispecie che implicano una replica della stipulazione e che possono essere ricondotte, senza esaustività, alle ipotesi di rinnovazione, ripetizione, rinegoziazione del contratto, le quali, si identificano e si distinguono in ragione di una componente di fatto ravvisabile in una nuova attività delle parti in ordine ad una regola pattizia assunta come preesistente[38].

Pur consci della scarsa significatività dei problemi connessi alla rinnovazione soltanto temporale del vincolo, certamente, siffatta iterazione della contrattazione solleva questioni incisive di natura pratica, non soltanto nella locazione abitativa ma, altresì, nei contratti agrari quali la mezzadria di cui all’art. 2144, comma 2 c.c. piuttosto che la soccida art. 2172, comma 2 c.c., e in talune vicende che interessano la somministrazione ex art. 1566 c.c. Tali questioni, dunque, non possono essere trascurate in ragione della sola settorialità della regolamentazione dei tipi contrattuali di riferimento.

Orbene, nel forse unico riferimento normativo di carattere generale riconducibile all’art. 1341, comma 2 c.c., la rinnovazione, inserita nell’elenco di clausole vessatorie che richiedono una approvazione per iscritto, è intesa nel senso di protrazione temporale del rapporto. Ciò consente di distinguere la rinnovazione dalle altre fattispecie di iterazione della stipula, in quanto soltanto tramite quest’ultima si perviene ad un nuovo contratto in luogo di quello precedente ritenuto esaurito[39].

In altri termini la rinnovazione, nell’evocare un elemento di novità della contrattazione[40], fornisce un ulteriore titolo ai reciproci diritti e doveri - titolo in tutto e per tutto uguale al precedente oppure solo in parte, in ragione del diverso periodo di tempo[41]; con la conseguenza che il contratto rinnovativo, nuovo rispetto al precedente in ragione della variazione della dimensione temporale del vincolo, sostituisce il contratto rinnovato, succedendogli.

A conferma, si consideri il tenore letterale dell’art. 1597 c.c., rubricato «Rinnovazione tacita del contratto», il quale prevede che alla scadenza del termine fissato nel contratto di locazione, il rapporto si intende rinnovato se il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata o se non è stata comunicata disdetta. La nuova locazione, prosegue l’articolo, è regolata alle stesse condizioni della precedente. Orbene, l’aggettivazione impiegata nel secondo comma dell’articolo avvalora l’idea per cui la rinnovazione tacita dà avvio ad una nuova fattispecie contrattuale, analoga alla precedente nel contenuto ma dotata di un diverso termine di scadenza. La novità della contrattazione è suffragata dall’accordo tacito, espresso nella forma del comportamento concludente, là dove il conduttore, il quale alla scadenza del contratto rimane nella detenzione dell’immobile, e il locatore, che non comunica disdetta, ritornano sulla stipula originaria nel senso che valutano come ancora opportuna e conveniente la contrattazione, sì da dare nuovo titolo ai reciproci diritti ed obblighi.

Siffatta interpretazione è, peraltro, confortata dalla circostanza per cui la rinnovazione tacita di cui all’art. 1597 c.c. è esclusa qualora parte del contratto sia una pubblica amministrazione, là dove la volontà negoziale della stessa non può desumersi da comportamenti concludenti, dovendo la relativa volontà di obbligarsi essere espressa nelle forme di legge[42].

5) Dall’interpretazione autentica dell’art. 2 comma 5 l. 431/1998 all’affievolimento dell’affidamento del conduttore nella prosecuzione del contratto

Se, pertanto, il meccanismo della rinnovazione consente l’iterazione della stipula in ragione di un nuovo contratto all’esito dell’esaurimento del precedente, lo stesso non può dirsi per il meccanismo della proroga.

Ed invero, già l’interpretazione autentica dell’art. 2 comma 5 l. 431/1998 ad opera dell’art. 19 bis del D.l. 34/2019, inserito in sede di conversione dalla legge n. 58/2019 conferma la diversa accezione ascrivibile ai due concetti, nella misura in cui l’art. 3 della l. 431/1998 fissa in tre anni (più due) la durata del contratto e l’art. 2 comma 5 prevede che solo al termine della proroga biennale di diritto le parti possono convenire sul rinnovo del contratto[43].

Sì ragionando, è evidente che le due tecniche di prosecuzione del regolamento contrattuale si inseriscono in momenti necessariamente diversi del rapporto ed implicano, quindi, la produzione di effetti differenti.

Segnatamente, tramite la proroga si assiste ad una sorta di «slittamento» del termine di scadenza del contratto, il quale, dopo i primi tre anni non è ancora consumato, essendo quindi in corso di esecuzione.

Diversamente, con il rinnovo, come già argomentato sopra, si deve intendere un nuovo contratto a termine tra le medesime parti a seguito dell’avvenuta cessazione del precedente rapporto, quindi dopo l’esaurimento dei tre anni (più due) fissati dalla legge.

In altri termini, la proroga offre un «allungamento» - per così dire - automatico di un biennio della iniziale durata contrattuale fissata in tre anni del contratto ancora in corso di esecuzione. Allungamento automatico escluso soltanto qualora locatore e conduttore non giungano ad un accordo in tal senso.

Mentre, il rinnovo comporta la successiva ulteriore rinnovazione biennale del contratto stesso, alle medesime condizioni e alla definitiva scadenza quinquennale.

Le due situazioni sono destinate, pertanto, ad intervenire in momenti necessariamente diversi del regolamento contrattuale (l’una in corso di esecuzione e l’altro alla scadenza) e impongono considerazioni differenti sul contegno che può pretendersi dalle parti.

Segnatamente, l’automatismo connesso alla proroga biennale, di là dall’essere meramente legato a ragioni pratiche, sottende l’esistenza di un affidamento in capo al conduttore nella stabilità e nella prosecuzione del rapporto proprio in ragione del termine breve di durata del contratto e dell’esecuzione, ancora in corso, del rapporto.

Il che impone al locatore di motivare minuziosamente, ex art. 3, il fondamento della disdetta qualora non intenda dar corso alla proroga di diritto[44].

In questo caso, infatti, un rigoroso onere motivazionale in capo al locatore, che si traduce nella prova della serietà del rifiuto, è giustificato proprio in ragione del pregiudizio che potenzialmente il conduttore finirebbe per sopportare qualora, dopo appena tre anni dall’instaurazione del rapporto ancora in corso di esecuzione, il locatore decidesse di riprendere il possesso dell’immobile.

Non così nel caso di rinnovo del contratto alla scadenza del biennio di proroga, ove l’affidamento del conduttore nella rinnovazione di un contratto già eseguito (e scaduto dopo ben cinque anni) sarebbe naturalmente affievolito dall’esaurimento del contratto e dalle ragionevoli pretese del locatore di smobilizzare il bene, riappropriandosene per le più svariate ragioni, non necessariamente connesse ai rigorosi motivi[45] ricondotti all’art. 3 l. 431 del 1998.

6) Considerazioni conclusive

Qualche conclusione può essere tratta. La distinzione ontologica tra i due meccanismi di protrazione del vincolo non soltanto non giustifica, in sede di rinnovo, la necessità, in caso di diniego, di quello stesso onere motivazionale che è, invece, richiesto alla «prima» scadenza triennale del contratto.

Ma, proprio l’affievolimento dell’affidamento in capo al conduttore che ne consegue, giustifica invece la possibilità, per il locatore, al termine della proroga biennale, di comunicare sic et simpliciter la rinuncia al rinnovo, senza motivare alcunché.

Una conclusione differente, oltre a evocare una sorta di insofferenza al vincolo di legge[46], finisce per frustrare gli scopi stessi posti alla base della previsione dei contratti oggetto di autonomia negoziale assistita.

Ed invero, nel disdettare le esigenze sottese alla promozione del mercato locatizio, la scelta di ancorare l’onere motivazione alla seconda scadenza del contratto paralizza inutilmente le prerogative di una parte - quella del locatore – condizionandole ad una regolamentazione vincolata e per nulla in linea con la dimensione pratica del negozio. Dimensione pratica che, nell’involgere una valutazione economica del rapporto in termini di convenienza della fruizione dell’immobile al pari di un diritto di godimento[47], è invece valorizzata dalla soluzione di agganciare lo stringente onere motivazionale alla scadenza del primo triennio locativo e non già alla scadenza del successivo biennio di proroga, il quale, esaurendo il rapporto, apre semmai alla possibilità che le parti ritornino sulla stipula al solo fine di rinnovare il contratto.

SAGGIO

IL CONDOMINO IN REGOLA CON I PAGAMENTI PUÒ OPPORSI AL PRECETTO ECCEPENDO LA PREVENTIVA ESCUSSIONE DEI MOROSI[48]

Indice: 1) La questione controversa; 2) La tesi maggioritaria della solidarietà passiva; 3) L’orientamento favorevole alla parziarietà delle obbligazioni condominiali; 3.1) La cruciale pronuncia delle Sezioni Unite 8 aprile 2008 n. 9148; 3.2) Critiche e prospettive; 4) Le problematiche connesse all’art. 63 disp. att. c.c. riformato; 5) Conclusioni.

1) La questione controversa

La Cassazione con l’ordinanza in commento confermava la decisione del Tribunale di Foggia che, in sede di appello, aveva ritenuto mancante la prova della preventiva escussione da parte della creditrice nei confronti dei condomini morosi.

La vicenda principiava dal ricorso di una condomina al giudice di pace per il recupero di un credito nei confronti del proprio condominio, notificando gli atti di precetto a due inquilini perfettamente in regola.

Questi ultimi reagivano con formale atto di opposizione deducendo la violazione dell’art. 63, comma 2 disp. att. c.c.

L’organo di primo grado, tuttavia, rigettava l’opposizione, rilevando la morosità degli opponenti.

Il Tribunale in appello accoglieva le doglianze degli opponenti in primo grado, in quanto gli stessi non risultavano morosi, come evidenziato da una lettera raccomandata a firma dell’amministratori di condominio.

La Suprema Corte, investita della questione, confermava la decisione di secondo grado, fornendo una lettura sistematica della normativa di attuazione del codice civile, in base alla quale il creditore debba in primo luogo agire nei confronti dei condomini morosi, previo accertamento della morosità mediante informazioni assunte dall’amministratore del condominio.

Di conseguenza i condomini solventi possono opporre due benefici: quello d’ordine ed il beneficium excussionis (da far valere ex art. 615 c.p.c.).

Sulla base di queste premesse, prima di pretendere il saldo insoddisfatto del proprio credito, l’attore deve esaurire la procedura esecutiva individuale nei confronti del moroso, promuovendo e continuando tutte le azioni del caso secondo i canoni di diligenza e buona fede (includendo anche qualsiasi eventuale procedimento cautelare).

Del pari, la morosità del condomino deve permanere per tutta la durata del giudizio fino alla decisione, dovendosi in caso contrario ritenere il creditore soddisfatto.

A giudizio della Cassazione, infatti, «la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei primi due commi dell’art. 63 disp. att. c.c., introdotti dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220.

L’art. 63, comma 1, dispone che l’amministratore «è tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi», mentre il comma 2 stabilisce che «i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini».

È dunque prescritto dalla legge che l’obbligo di pagamento delle quote dovute dai morosi, posto in capo ai condomini in regola nella contribuzione alle spese, è subordinato alla preventiva escussione di questi ultimi, sicché l’obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta limitato in proporzione alla rispettiva quota del moroso.

L’art. 63, comma 2, disp. att., c.c. configura, pertanto, in capo ai condomini che abbiano regolarmente pagato la loro quota di contribuzione alle spese condominiali, ed in favore del terzo che sia rimasto creditore (per non avergli l’amministratore versato l’importo necessario a soddisfarne le pretese), un’obbligazione sussidiaria ed eventuale, favorita dal beneficium excussionis, avente ad oggetto non l’intera prestazione imputabile al condominio, quanto unicamente le somme dovute dai morosi.

Non è stata, perciò, superata dal legislatore del 2012 la ricostruzione operata da Cass., sez. un., 8 aprile 2008, n.9148, nel senso che, in riferimento alle obbligazioni assunte dall’amministratore, o comunque, nell’interesse del condominio, nei confronti di terzi la responsabilità diretta dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote. A ciò si è unito, piuttosto, per le obbligazioni sorte dopo l’entrata in vigore della legge n. 220 del 2012, il debito sussidiario di garanzia del condomino solvente, subordinato alla preventiva escussione del moroso e pur sempre limitato alla rispettiva quota di quest’ultimo, e non invece riferibile all’intero debito verso il terzo creditore».

2) La tesi maggioritaria della solidarietà passiva

La questione in commento ha riportato in auge l’annosa querelle circa la natura solidale ovvero parziaria delle obbligazioni che gravano sui condomini.

Il tema assume una rilevanza pratica notevole, dal momento che la portata applicativa del principio scelto si riflette incisivamente sulle modalità con cui il creditore del condominio può soddisfare le proprie pretese.

Un conto è la possibilità di chiedere l’adempimento dell’intero credito a ciascun condomino, altro è limitare la pretesa proporzionalmente alle quote di competenza dei singoli.

A tal riguardo, la tendenza interpretativa maggioritaria[49] promuove il principio della solidarietà[50] condominiale ai sensi dell’art. 1294 c.c., che pone una presunzione in virtù del favor creditoris[51].

Il concetto trae origine dal diritto romano[52], secondo cui più soggetti passivi sono obbligati ad adempiere per l’intero una medesima prestazione.

In altri termini, sussiste l’obbligo per ciascuno dei condebitori di eseguire per intero la prestazione rispetto al comune creditore, il quale a sua volta può pretendere da ciascuno la totalità dell’obbligazione.

Inoltre, dal punto di vista esterno, l’adempimento integrale del debito da parte di uno dei condebitori comporta la liberazione degli altri co-obbligati verso il creditore, salvo il diritto di regresso pro quota del debitore adempiente[53] nel rapporto interno tra gli stessi[54].

Così il creditore si vede dispensato dal dovere esercitare una pretesa distinta per ogni debitore, richiedendo a ciascuno un adempimento pro quota, con evidente semplificazione delle operazioni di riscossione, potendo contare sui patrimoni di una pluralità di soggetti che potrebbero trovarsi a rispondere anche di quelle porzioni di debito che diversamente sarebbero state a carico di altri[55].

Attraverso questo meccanismo il rischio di insolvenza è traslato dal creditore agli altri condebitori, salvaguardando così l’integrale soddisfazione del credito.

La disciplina codicistica[56], tuttavia, non escluderebbe una volontà diversa palesata dalle parti del rapporto obbligatorio, in deroga alla regola generale[57], conservando un possibile spazio applicativo anche alla regola della parziarietà[58].

Le fonti dell’obbligazione in solido sono quelle indicate dall’art. 1173 c.c.[59], vale a dire il contratto, il fatto illecito[60] ed ogni altro atto o fatto idoneo a produrle.

In riferimento alle obbligazioni di dare e di consegnare, la prestazione è identica nel caso di identità di oggetto. Qualora si tratti di dare o consegnare beni specifici, la solidarietà risulta superata dall’indivisibilità dell’obbligazione[61].

In particolare, sembra che l’obbligazione del fideiussore, anche quando sia priva del beneficium excussionis, non sia qualificabile come solidale in senso tecnico in quanto non sempre l’obbligazione fideiussoria ha il medesimo oggetto dell’obbligazione principale.

Di conseguenza, la facoltà del creditore di chiedere l’adempimento per l’intero a qualsiasi condebitore sarebbe in realtà attenuata dal fatto che l’obbligazione sia eseguibile soltanto dal debitore principale[62].

Si tratterebbe di obbligazioni ad interesse unisoggettivo[63], costituite da più obbligazioni distinte assunte nell’interesse esclusivo di una dei debitori e tra loro connesse.

Secondo parte della dottrina, queste ultime sarebbero prive del requisito della comunione di interessi tra più debitori[64].

Tuttavia, l’argomentazione esposta non pare decisiva, in quanto l’obbligazione solidale nascente dal collegamento tra quella risarcitoria e di garanzia è sottoposta alla condizione sospensiva dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento dell’obbligazione principale originaria gravante sull’unico debitore.

Inoltre, è la stessa normativa a prevedere che il vincolo della solidarietà tra più debitori possa sussistere anche nell’ipotesi in cui l’obbligazione sia contratta nell’interesse esclusivo di alcuno dei debitori (art. 1298 c.c.)[65].

In riferimento precipuo al condominio, l’opinione solidarista muove dalla considerazione delle criticità che emergono dall’applicazione della regola della parziarietà[66].

In particolare, si evidenzia che, se il creditore fosse costretto ad agire nei confronti del singolo condomino per la propria quota, gli si imporrebbe la necessità di acquisire l’elenco dei condomini e le tabelle millesimali, dovendo procedere a complessi calcoli per la ripartizione delle spese, con conseguente aggravio della procedura esecutiva.

Al contrario, l’applicazione del principio di solidarietà non comporterebbe simili evenienze, promuovendo una procedura più snella, unitamente al soddisfacimento delle istanze creditorie[67].

La prima norma funzionale all’elaborazione della solidarietà passiva nei rapporti condominiali, è l’art. 1123 c.c.

Si sostiene, infatti, che la previsione di un obbligo di contribuzione riguarda il profilo interno, in virtù di una spesa di interesse e competenza comune, coinvolgente ciascun condomino limitatamente alla propria quota ovvero in proporzione all’uso che ciascuno può farne; mentre sul versante esterno, troverebbero applicazione presunzione e regime di solidarietà passiva ex artt. 1292 e 1294 c.c.

Come confermato dal tenore letterale dell’art. 1123 c.c., la ratio sarebbe quella di regolare la divisione interna di oneri, la cui parcellizzazione è coerente con l’assetto proprietario rinvenibile nel condominio.

D’altro canto, la norma enunciata dal comma 2 rintraccia il criterio di ripartizione della spesa nell’uso della parte comune, qualora risulti quantitativamente diversificato tra i proprietari delle unità abitative[68].

Inoltre, la disposizione è collocata tra quelle che, seppur volte a regolare il complesso condominiale e gli organi di rappresentanza esterna, non concernono la disciplina dei rapporti tra condominio e terzi, i quali, in assenza di previsioni specifiche, sarebbero assoggettati ai principi generali[69].

Quindi, l’art. 1123 c.c. rappresenterebbe la riproduzione dell’art. 1298 c.c., che non influisce sull’efficacia generale dell’art. 1294 c.c.

Ulteriore norma da prendere in considerazione è l’art. 1115 c.c., che, nella disciplina delle obbligazioni contratte per la cosa comune, prevede la solidarietà[70].

Pertanto, per quanto non espressamente disposto, al condominio si applicano le norme dettate in materia di comunione ex art. 1139 c.c.[71].

3) L’orientamento favorevole alla parziarietà delle obbligazioni condominiali

Altra parte della dottrina, suffragata da parte della giurisprudenza[72], opta per la parziarietà delle obbligazioni condominiali[73]. Anche le obbligazioni parziarie scaturiscono da un unico fatto giuridico o da fatti che si legano in un complesso unitario, ma hanno ad oggetto una prestazione suscettibile di esecuzione parziaria da parte di più debitori, ciascuno dei quali è obbligato per la propria parte. Il concetto si collega agevolmente a quello di divisibilità ex art. 1314 c.c.

Per ciò che concerne la struttura delle obbligazioni assunte nell’interesse del condominio, in base a tale orientamento, si riscontrano certamente la pluralità dei debitori (i condomini) e la eadem causa obbligandi (la unicità della causa: il contratto da cui l’obbligazione ha origine), mentre sarebbe discutibile la unicità della prestazione (idem debitum), che certamente è unica ed indivisibile per il creditore, il quale effettua una prestazione nell’interesse e in favore di tutti condomini, per i quali rappresenterebbe una prestazione comune, ma naturalisticamente divisibile.

Stando a tale inquadramento concettuale, il singolo condomino potrebbe essere chiamato a rispondere delle somme personali, senza che il creditore possa esigere importi maggiori.

Di conseguenza, le obbligazioni dei condomini sarebbero regolate dai canoni dettati dagli articoli 752 e 1295 c.c., in relazione alla ripartizione dei debiti tra gli eredi ed alla divisibilità tra questi delle obbligazioni di uno dei condebitori o di uno dei creditori in solido.

Secondo tale opinione dottrinale[74], la previsione di cui all’art. 1123 c.c. troverebbe applicazione sia nei rapporti interni che nei rapporti esterni, prevalendo, in tal modo, sulla regola generale riconducibile al combinato disposto degli artt. 1292 e 1294 c.c.

Infatti, affinché operi la solidarietà passiva, descritta nell’art. 1292 c.c., occorre che i vari debitori siano tutti obbligati per la medesima prestazione.

Soltanto al ricorrere di tale condizione può applicarsi la presunzione di responsabilità prevista dall’art. 1294 c.c.[75].

Tuttavia, nel caso delle obbligazioni condominiali, l’art. 1123 c.c., rilevante sul piano esterno, escluderebbe l’esistenza di un’unica prestazione, rivelerebbe la sussistenza di tante prestazioni distinte rapportate al numero dei condomini.

Inoltre, l’amministratore non sarebbe facoltizzato a vincolare i condomini oltre i limiti dei propri poteri che non comprendono la modifica dei criteri di imputazione e di ripartizione delle spese stabiliti dall’art. 1123 c.c.[76].

Un ulteriore argomento è incentrato sul collegamento che intercorre tra le obbligazioni condominiali e la singola quota di proprietà spettante a ciascun condomino sulle parti comuni.

In virtù dell’affinità rinvenuta tra debiti ereditari e debiti condominiali, si è giunti ad annoverare questi ultimi tra le obbligazioni propter rem[77].

3.1) La cruciale pronuncia delle Sezioni Unite 8 aprile 2008 n. 9148

Nonostante gli interrogativi circa la sussistenza di un vero e proprio contrasto tale da sollecitare un intervento nomofilattico da parte delle Sezioni Unite[78] (dal momento che l’indirizzo minoritario riguardava la particolare fattispecie del rimborso delle anticipazioni di somme da parte di un amministratore di condominio durante la sua gestione, emergenti dal rendiconto approvato e fatte valere giudizialmente nei confronti del nuovo amministratore, in epoca successiva alla cessazione dell’incarico), la pronuncia n. 9148/2008, richiamata espressamente dall’ordinanza in commento, ha costituito il caposaldo dell’intero orientamento favorevole alla parziarietà delle obbligazioni condominiali.

La pronuncia riguardava l’adempimento delle obbligazioni derivanti da contratto, che legano il creditore al debitore condominio e ai singoli condomini[79].

In particolare, una società appaltatrice aveva eseguito lavori di manutenzione sulle parti comuni dell’edificio su incarico dell’amministratore, ottenendo l’emanazione di un decreto ingiuntivo per il rimborso spese nei confronti dei condomini, alcuni dei quali già adempienti pro quota.

L’opposizione avanzata da questi ultimi trovava accoglimento in primo grado e veniva confermata in appello.

Avverso tale decisione la creditrice proponeva ricorso per Cassazione, successivamente rimesso alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto.

Secondo la prospettazione della Cassazione[80], l’obbligazione ha natura parziaria nell’ipotesi in cui la prestazione sia comune a ciascuno dei condebitori ed al contempo indivisibile.

Qualora si sia in presenza di prestazione divisibile, è necessario attuare un bilanciamento tra il principio della solidarietà passiva (presumibile) ed il principio della divisibilità (ex art. 1314 c.c.).

Pertanto, in mancanza di un espresso riferimento alla solidarietà, sarà onere dell’interprete accertarne la divisibilità naturalistica e, conseguentemente, la parziarietà.

La pronuncia esclude l’applicabilità dell’art. 1115, comma 1 c.c., nonostante il rinvio operato dall’articolo di chiusura (art. 1139 c.c.) alle norme sulla comunione in generale, sulla base dell’assunto che esso riguarderebbe la comunione di cose soggette a divisione.

Se ne evidenzia il valore meramente descrittivo e non prescrittivo, regolante le obbligazioni concretamente contratte in solido. Inoltre, si argomenta come il c. 1 dell’art. 1115 c.c. non riguardi il condominio negli edifici, bensì la vendita della cosa comune soggetta a divisione.

Il criterio di collegamento tra le ipotesi disciplinate dall’art. 1123 c.c., riguardanti rispettivamente le spese per la conservazione delle cose comuni e quelle per l’uso, è ravvisabile nella titolarità del bene.

Pertanto, profilandosi entrambe le obbligazioni come propter rem, si esclude l’applicabilità del vincolo solidale, prevalendo, secondo l’analisi delle Sezioni Unite, la struttura intrinsecamente parziaria.

In definitiva, nella pur riconosciuta ricorrenza dei requisiti della solidarietà passiva (pluralità di soggetti, unicità della prestazione e stessa causa dell’obbligazione[81]), l’obbligazione contratta dall’amministratore è stata ricondotta alle obbligazioni plurisoggettive parziarie, in quanto:

a) divisibili per l’oggetto;

b) collegate alla proprietà della cosa comune;

c) l’attuazione solidale non risulta da alcuna norma, bensì risulta contraddetta dalla lettera dell’art. 1123 c.c., interpretato in senso stretto senza distinguere i profili esterni da quelli interni (ove l’opposto orientamento ritiene la disposizione applicabile soltanto ai rapporti interni tra i condomini, escludendo quelli esterni tra condominio e terzi creditori);

d) l’amministratore vincola i singoli condomini nei limiti delle proprie attribuzioni e nei limiti del mandato ricevuto in ragione delle quote.

L’obbligazione condominiale dovrebbe, quindi, essere regolata da criteri similari a quelli previsti dagli artt. 752 e 1295 c.c. per le obbligazioni ereditarie, la cui attuazione pro quota deriva dal legame con la res.

3.2) Critiche e prospettive

Il provvedimento nomofilattico non ha mancato di suscitare aspre critiche, oltre ad essere contraddetto da pronunce successive[82].

Innanzitutto gli artt. 753, 754 e 1295 c.c. sono norme eccezionali che si riferiscono esclusivamente al diritto successorio[83].

Il legislatore ha ritenuto opportuno dedicare l’art. 752 c.c. ai rapporti interni (introducendo la ripartizione) e l’art. 754 c.c. a quelli esterni (prevedendo espressamente la parziarietà), mentre nel condominio è stata disciplinata soltanto la ripartizione ex art. 1123 c.c., senza che fosse esplicitamente esclusa la solidarietà anche nei rapporti esterni.

Ulteriori perplessità solleva l’osservazione secondo cui l’indivisibilità della prestazione dovrebbe costituire un requisito della solidarietà, anche se tale inciso non è richiesto da nessuna norma.

L’art. 1294 c.c., infatti, non fa riferimento all’indivisibilità della prestazione e l’art. 1314 c.c. precisa che la relativa disciplina è applicabile solo se l’obbligazione non è solidale.

Ne discende che il problema della divisibilità è diverso e successivo rispetto a quello della solidarietà.

Ai sensi dell’art. 1314 c.c., si rende anzitutto necessario comprendere se una obbligazione sia solidale o meno per l’applicazione della disciplina delle obbligazioni divisibili[84].

Anzi, il codice civile nel prevedere la regolamentazione delle obbligazioni divisibili, dispone che esse siano disciplinate dalle norme relative alle obbligazioni solidali in quanto applicabili.

Ciò pare confermare ulteriormente che solidarietà e divisibilità siano nozioni diverse ed indipendenti[85].

Dal combinato disposto degli artt. 1294 e 1314 c.c., si è dedotto che, se nel rapporto obbligatorio vi sono più soggetti dal lato passivo, l’obbligazione si presume solidale, mentre se la pluralità coinvolge il lato attivo, il rapporto obbligatorio si presume parziario, conseguendone una diversità di trattamento[86].

La sentenza 9148/2008, invece, per far operare la presunzione di solidarietà introduce il requisito dell’indivisibilità della prestazione, esigendo, nel caso in cui la prestazione sia divisibile, una norma ad hoc per l’instaurazione della solidarietà.

Una simile interpretazione in sostanza porta ad una tacita abrogazione dell’art. 1294 c.c.[87], posto che la presunzione in esso contemplata trova la propria ragion d’essere proprio qualora la prestazione oggetto del rapporto obbligatorio sia per sua natura divisibile, giacché, in caso di prestazione indivisibile, la solidarietà scatta senza eccezioni.

Peraltro, sembra trascurata la innegabile diversità ontologica che intercorre tra i principi di solidarietà ed indivisibilità, dal momento che il primo riguarda la modalità di attuazione dell’obbligazione, mentre il secondo è correlato alla natura della prestazione.

L’unica relazione intercettabile tra solidarietà ed indivisibilità può inscriversi in una forma di complementarietà possibile ma non necessaria[88]: infatti, accanto ad obbligazioni indivisibili ad attuazione solidale, sono configurabili obbligazioni indivisibili ad attuazione congiunta.

In ogni caso, la pronuncia delle Sezioni Unite, così come l’ordinanza in commento che dalla stessa trae ispirazione, seppure con argomentazioni eterogenee, paiono principalmente dettate da ragioni di opportunità, consistenti sostanzialmente nell’evitare che ad un singolo condomino possa essere addossato l’onere di pagare l’intero importo oggetto dell’obbligazione condominiale.

L’opzione della parziarietà garantisce di gran lunga i singoli condomini, evitando che un unico soggetto sia chiamato a rispondere dell’intero debito, talvolta anche molto consistente.

Inoltre, questa scelta tutela i condomini responsabili, impedendo a chi abbia già saldato la propria quota di dover adempiere di nuovo.

Del resto la parziarietà non pregiudica affatto la soddisfazione del creditore, il quale, a meno che non si tratti di creditore involontario[89], può contrattare con l’amministratore, avendo un’ampia possibilità di cautelarsi (richiedendo, ad esempio, la prestazione di un congruo anticipo ovvero di garanzie).

Certamente tali strumenti di garanzia presentano comunque un costo che ricade inevitabilmente su tutti i condomini, traducendosi in un aumento del corrispettivo per le prestazioni rese da terzi a favore del condominio.

La solidarietà, invece, parrebbe realizzare la medesima funzione senza costi aggiuntivi.

Tuttavia, nell’ipotesi patologica in cui uno o più condomini si rendano inadempienti, la solidarietà si traduce nell’obbligo per un singolo condomino di farsi carico dell’intera obbligazione, con potenziali rischi per la propria situazione patrimoniale, considerati i tempi ed i rischi dell’azione di regresso.

Sembra allora preferibile sopportare un costo supplementare ripartito pro quota al fine di costituire una forma convenzionale di garanzia, piuttosto che essere esposti al rischio di una escussione in toto.

Vieppiù, la Suprema Corte afferma che la prestazione dovuta dai singoli condomini non deve ritenersi unica, diversamente da quella a cui è tenuto l’appaltatore.

Ogni condomino, infatti, deve adempiere ad una obbligazione pecuniaria, ma l’ammontare della prestazione di ciascuno resta differente e viene calcolata sulla base dei millesimi di proprietà in concreto posseduti.

Per questa via i giudici di piazza Cavour, pur facendo sempre riferimento al concetto di divisibilità, giungono ad escludere l’applicazione della solidarietà per mancanza del requisito dell’idem debitum.

In questo senso può ritenersi che la vera ragione dell’opzione a favore della parziarietà si fondi sul riconoscimento di un’assoluta centralità della quota di proprietà spettante ad ogni singolo condomino, la quale verrebbe ad assumere rilevanza anche nei confronti di terzi, secondo una particolare interpretazione dell’art. 1123 c.c.

Le Sezioni Unite, infatti, precisano che il condominio non è dotato di un patrimonio autonomo, né di diritti od obbligazioni (che fanno capo pro quota ai singoli condomini) e non può essere considerato un soggetto giuridico distinto dai suoi partecipanti[90].

Correlativamente, l’incarico conferito all’amministratore viene qualificato come un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza[91].

Da ciò discende che ciascun condomino conferisce all’amministratore-mandatario un potere di rappresentanza che per definizione è limitato alle singole quote di partecipazione.

Pertanto non si riesce a comprendere come i condomini potrebbero essere vincolati oltre il limite delle stesse, come invece si verificherebbe nel caso in cui alle obbligazioni assunte dall’amministratore in nome e per conto dei singoli condomini fosse applicato il regime della solidarietà.

A tal proposito, l’amministratore non può obbligare i singoli condomini se non nei limiti dei suoi poteri, che non riguardano la modifica del criterio di ripartizione delle spese in deroga alle quote individuali. Conseguentemente, la quota di partecipazione assume rilevanza anche nei confronti dei terzi[92].

4) Le problematiche connesse all’art. 63 disp att. c.c. riformato

La decisione delle Sezioni Unite, al contrario di quanto affermato nell’ordinanza de quo, sembra essere stata superata dalla previsione contenuta nell’art. 63 disp. att. c. 2 c.c. (come modificato ai sensi della l. 11 dicembre 2012 n. 220), che conferma la natura solidale del vincolo condominiale[93] ed allo stesso tempo introduce una deroga, ponendo dei limiti al creditore che agisca per il recupero del credito.

Se da un lato si conferma la solidarietà, essendo indicato che il creditore può comunque agire verso i condomini diversi da quello moroso, anche se in un secondo momento, dall’altro si limita la facoltà di scelta del creditore, che appunto potrà aggredire il patrimonio dei condomini in regola con i pagamenti solo dopo l’escussione degli altri.

Si tratta, dunque, di un’ipotesi di obbligazione solidale nella quale è fissata una sussidiarietà tra le differenti obbligazioni sussistenti nel medesimo condominio.

Anche in riferimento a tale impostazione non sono mancate opinioni contrarie[94].

Si è rilevato che, se le obbligazioni in questione fossero solidali, i condebitori sarebbero tenuti sin da subito ad effettuare la medesima prestazione.

Invece, i condomini, originariamente obbligati in misura proporzionale alla quota, in seguito al loro adempimento sarebbero tenuti soltanto a saldare il residuo, non a corrispondere l’intero.

La prestazione dovuta dai condomini in regola con il pagamento della propria quota di contribuzione alle spese comuni dovrebbe reputarsi sussidiaria ed articolata in riferimento alle somme precedentemente versate[95].

L’ulteriore elemento discretivo tra la fisionomia obbligazioni solidali e quella disegnata dal legislatore della riforma con specifico riferimento alla posizione debitoria degli adempienti è stato individuato nell’asserito difetto dell’eadem causa obligandi, posto che il fatto costitutivo del vincolo che impone ai condomini solventi il pagamento del residuo di spesa comune non saldato dai morosi, è stato rintracciato nell’inadempimento di questi ultimi.

Viene assunto che l’obbligazione di ogni condomino nasce in misura inferiore al totale dovuto al terzo contraente, diversificata e ragguagliata alla quota, dal momento che l’obbligazione di ciascuno dei partecipanti al condominio viene posta in collegamento genetico-funzionale alla comproprietà di beni, impianti e servizi comuni[96].

Se le obbligazioni dei condomini sorgono per legge come conseguenza della situazione soggettiva di comproprietà sulle parti di uso comune ex artt. 1104 comma 1 e 1123 comma 1 c.c., il debito originerebbe dalla deliberazione assembleare di approvazione delle spese e dal contratto stipulato dall’amministratore[97].

Di conseguenza, entro il perimetro della quota dovrebbe essere ricondotta anche la rappresentanza sostanziale e processuale dell’amministratore, che non potrebbe impegnare i condomini oltre i limiti della loro partecipazione all’assemblea.

Altra dottrina[98], avendo scorto nel disposto dell’art. 63 comma 2 disp. att. c.c., il riconoscimento legislativo della legittimazione ad esperire un’azione surrogatoria ex art. 290 c.c. in capo al terzo creditore, ha contestualizzato la medesima nell’ambito di un regime di solidarietà impropria.

Leggendo in combinato disposto il comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c. con il comma 1 e con l’art. 1129 c. 9 c.c., si è desunto che la prima delle norme citate riserva al terzo creditore un’eccezionale legittimazione sostitutiva a riscuotere i contributi in luogo dell’amministratore.

L’obbligazione sussidiaria non può essere intesa come solidale, in quanto resterebbero salvi i criteri di ripartizione ex art. 1123 c.c. nei soli rapporti interni alla pluralità organizzata.

Pertanto, l’obbligo sussidiario di garanzia del condomino solvente risulta legislativamente circoscritto in proporzione alla rispettiva quota del moroso, in base al criterio di doppia parziarietà.

Ne consegue che condomini solventi e morosi, anche se entrambi responsabili verso il creditore per il saldo dovuto, non si collocherebbero in posizione paritetica, a fronte di una graduazione in ordine al relativo pagamento.

In questo senso, anche secondo l’ordinanza 5043/2023, l’obbligazione sussidiaria dovrebbe intendersi come una sorta di fideiussione ex lege che viene a costituirsi pro quota in capo ai condomini diligenti a favore degli obbligati principali morosi.

5) Conclusioni

Le critiche da ultimo riportate appaiono ultronee, in quanto, stando all’attuale impianto normativo, al cui interno nessuna norma fornisce indicazioni inequivoche in tal senso ed in assenza di tradizioni interpretative suggellate da applicazioni di siffatto tenore.

Dal collegamento della disposizione con l’art. 1130 c.c., nonché con le altre norme rilevanti sul tema (art. 1129 c.c., art. 1135 c.c.), non è dato rinvenire limitazioni all’estensione della rappresentanza dei singoli condomini in ragione della misura della quota né tantomeno enucleare generalizzazioni in merito alle relazioni contrattuali con i terzi, relativamente alla conservazione ed al godimento di spazi e servizi comuni.

Invero, l’amministratore, alla stipulazione dei contratti riguardanti la gestione delle cose comuni, agisce quale rappresentante dei membri di un ente privo di soggettività giuridica ed autonomia patrimoniale, allo scopo di realizzare interessi superindividuali ed omogenei.

Come noto, il contratto impegna i singoli condomini in quanto parte di una collettività, sono rappresentati dall’amministratore-mandatario ed eventualmente esposti all’evenienza di dover corrispondere per intero la prestazione che il creditore ha diritto di esigere nel caso di degenerazione patologica del rapporto obbligatorio.

Non sembra neppure risolutivo esprimersi in termini di parziarietà o doppia parziarietà, dal momento che il legislatore non ha stabilito criterio alcuno per un’ipotetica ripartizione del residuo all’interno di una potenziale pluralità di condomini solventi né ha fornito indicazioni circa un’eventuale graduazione tra gli adempienti per la propria quota al fine di identificare colui che, in regola con il pagamento, sia tenuto all’adempimento ulteriore.

Tra l’altro, si tratterebbe di una responsabilità dalla natura ibrida, volta ad evocare una soluzione intermedia tra solidarietà e parziarietà, in ogni caso agganciata più alla seconda che alla prima.

L’art. 63, comma 2 disp. att. c.c., in combinato disposto con l’art. 1123 c.c., nel prevedere l’escussione eventuale e successiva dei condomini adempienti, presuppone la contitolarità dell’obbligo, tratto saliente della solidarietà passiva. Tale solidarietà ribadita ex lege non impedisce comunque di qualificare le obbligazioni condominiali come propter rem[99].

Il limite all’azione del creditore verso i condomini per evitare l’escussione per intero in capo ad un solo condebitore stabilito dalla norma richiamata non pare escludere la natura comunque solidale del vincolo. Infatti, la solidarietà non sembra contrastare con la sussidiarietà[100] implicante (anche nel caso di specie) il beneficio d’ordine ed il beneficium excussionis.

Tuttavia, prima di rivolgersi al condebitore in regola, sembra corretto richiedere al creditore la dimostrazione di aver tentato con ogni ragionevole sforzo l’esecuzione infruttuosa nei confronti dei condomini morosi.

Peraltro, l’esistenza di un beneficio di preventiva escussione non impedisce al creditore di agire in contemporanea contro tutti i condebitori in via di cognizione per ottenere un titolo esecutivo[101], potendo così iscrivere ipoteca anche nei confronti dei condomini per i quali valga la limitazione[102].

Il legislatore della riforma è riuscito così a contemperare gli interessi delle parti (tutelando il creditore ma valorizzando anche la posizione del condomino non moroso[103]) e quelli del mercato, fondati sul favor creditoris.

Non pare, quindi, che l’ordinanza in commento sia riuscita a sciogliere i nodi relativi alla natura delle obbligazioni condominiali, tantomeno richiamando le Sezioni Unite del 2008, confinate nell’alveo dell’indirizzo minoritario.

In alternativa, si potrebbe ipotizzare un margine giuridico per l’applicazione pattizia delle obbligazioni correali[104], di origine romanistica ed estranee al nostro codice civile[105].

Queste ultime sono caratterizzate da un collegamento più pregnante tra le varie posizioni debitorie, tale rendere il rapporto obbligatorio unico ed inscindibile.

Ricorrendo all’autonomia privata, le parti potrebbero prevedere, in deroga alla solidarietà, che il rapporto del creditore nei confronti di uno solo dei condebitori produca l’estinzione dell’obbligazione verso gli altri.

Conseguentemente, i fatti estintivi dell’obbligazione diversi dal pagamento (così come la transazione o la sentenza), produrrebbero i loro effetti in via ulteriore rispetto al soggetto nei cui confronti si siano verificati.

In mancanza di siffatta contrattazione, invece, tornerebbe ad applicarsi il regime delle obbligazioni solidali.


Note e riferimenti bibliografici

[1] L’articolo è stato redatto dal dottor Davide Ianni.

[2] G. Trimarchi, L’esecutore testamentario (diritto privato), in Enc. Dir., XV, Milano, 1966, 390 ss; G. Capozzi, Successioni e Donazioni, quarta edizione, Milano, 2015, a cura di A. Ferrucci e C. Ferrentino, 1057 ss; V. Cuffaro, Gli esecutori testamentari, in Tratt. Dir. Priv., a cura di Rescigno, seconda edizione, Torino, 1997, 320 ss; C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, seconda edizione, 1964, Milano, 537 ss; G. Bonilini, Degli esecutori testamentari, in Codice Civile Commentario fondato da P. Schlesinger, Milano, 2005, 606 ss; R. Brama, Manuale dell’esecutore testamentario, Milano, 1997; M. Talamanca, Successioni testamentarie, art. 679-712, in Comm. Cod. civ., a cura di Scajola e Branca, Bologna-Roma, 1976, 472 ss.

[3] Libro III, Titolo II, capo II, sezione VII: artt. 903 - 911.

[4] Libro II, Titolo III, capo VII: artt. 700 - 712.

[5] Cass., 23 aprile 1965, n.719; Cass., 05 luglio 1996, n.6143.

[6] CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Pubblicazione di testamento olografo e nomina del notaio ad esecutore testamentario, Risposta a Quesito n. 5283/C, in data 14 settembre 2004, a cura di M. LEO.

[7] G. Bonilini, La remunerazione dell’esecutore testamentario, in Famiglia Persona e Successioni, 2005, 441 ss; G. Manca, Degli esecutori testamentari, in Comm. Cod. civ., diretto da D’Amelio e Finzi, Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 620 ss; vicari, L’esecutore testamentario, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, prima edizione, Padova; L. Genghini e C. Carbone, Le successioni per causa di morte, II edizione, in Manuali notarili a cura di L. Genghini, Milano, CEDAM, 2023; A. Del giudice, L’esecutore testamentario, in M.C. Bianca, Le successioni testamentarie, in Giur. Sist. Dir. Civ. e comm., Torino, 1983, 446 ss.

[8] Cass., 26 novembre 2015, n.24147.

[9] Cass., 30 agosto 2004, n.17382.

[10] Cass., 30 agosto 2004, n.17382.

[11] In particolare, la Cassazione ha affermato che «una volta escluso, sulla base delle considerazioni più sopra svolte, che il diritto (...) alla retribuzione, per l'attività svolta quale esecutore testamentario, trovi fondamento nella legge, deve parimenti escludersi che il menzionato mandato possa costituire esso stesso, comunque, titolo idoneo a sorreggere la pretesa di pagamento del compenso da lui avanzata (omissis), non rinvenendosi, nella sentenza impugnata, alcuna indicazione circa gli effettivi atti che, diversi da quelli già rientranti nella normale competenza dell'esecutore testamentario (cfr. artt. 703-709 c.c.) e come tali non retribuibili, egli avrebbe dovuto compiere (e, in effetti, avrebbe compiuti), in esecuzione del mandato e per i quali avrebbe dovuto essere, invece, normalmente retribuito ai sensi dell'art. 1709 c.c. In altri termini, la corte non ha dato debito conto delle ragioni per cui, a suo giudizio (omissis) avrebbe diritto, in ogni caso, al compenso in virtù del mandato conferitogli dagli eredi e, quindi, per gli atti o le attività compiuti in esecuzione del mandato medesimo».

[12] L’articolo è stato redatto dalla dottoressa Elisabetta Errigo, Assegnista di ricerca in Diritto Privato presso l´Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.

Il contributo raccoglie alcune considerazioni critiche suscitate dalla ricognizione e dallo studio di talune pronunce giurisprudenziali oggetto di approfondimento per la stesura di relazioni svolte nell’ambito di un ciclo di seminari formativi organizzati dalla Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia Catanzaro) nell’autunno 2021.

[13] Si veda, sin da ora, per la giurisprudenza di legittimità, Cass., 12 giugno 2020, n.11308, in Resp. civ. prev., 2022, 1-2, 146 (per un precedente conforme Cass., 12 settembre 2019, n.22778, in dejureonline) e per la giurisprudenza di merito, sulla quale si ritornerà più avanti, Trib. Roma, sez. VI, 26 marzo 2019, n.6797 in Condominioelocazione.it, 13 gennaio 2020, con nota di V. Amendolagine, L’operatività della proroga biennale nella locazione a canone concordato e modalità della disdetta; Trib. Bologna, 10 maggio 2021 (R.G. 5798/2021) reperibile sul sito web ASPPI Bologna, con nota di V. Sardini, Nuovamente in discussione la durata dei contratti a canone concordato; Trib. Torino, sez. VIII, 7 dicembre 2020, n. 4349, in Condiminioelocazione.it, 2021, con nota di L. Malfanti, Scaduta la proroga biennale, nell’inerzia delle parti, i contratti di locazione agevolati si rinnovano ogni volta tacitamente per un ulteriore biennio.

[14] Sul tema, ex multis A. Tabet, La locazione-conduzione, in Tratt. Cicu-Messineo, XXV, Milano, 1972, 2; M. Trimarchi, La locazione abitativa nel sistema e nella teoria generale del contratto, Milano, 1988. Per il processo di diversificazione analitica dell’istituto G. Silvio Coco, Locazione, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 918 ss.

Senza pretese di completezza si segnalano i seguenti autori: G. Alpa, Manuale di diritto privato, VII ed., Padova, 2011, 693 ss.; E. Bargelli, Proprietà e locazione. Prelazione e valore di scambio, Torino, 2004; M. Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, XXI ed., Torino, 2015, 790 ss.; A. Bucci, La disciplina delle locazioni abitative dopo le riforme, Padova, 2000; D. Carusi, Avviamento, proprietà e locazione, Milano, 1992; V. Cuffaro (diretta da), La locazione. Disciplina sostanziale e processuale, Bologna, 2009; Id., Locazioni ad uso abitativo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001; M. De Giorgi, - D. Maffei, - C. Marvasi (a cura di), Le locazioni. Profili sostanziali, processuali e della nuova mediazione, Padova, 2015; M. De Tilla - S. Giove, Le locazioni abitative e non abitative, in Tratt. dir. priv. Alpa-Patti, Padova, 2009; M. Dogliotti - A. Figone, La locazione. Disciplina generale. Le locazioni abitative, Milano, 1993; G. Gabrielli - F. Padovini, La locazione di immobili urbani, Padova, 2005; M. Giorgianni, Diritti reali, in Nss. D.I., V., Torino, 1960, 748 ss.; G. Grasselli - M. Masoni, Le locazioni. Contratti e disciplina, Padova, 2013; B. Inzitari, La locazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990; C. Lazzara, Il contratto di locazione: profili dommatici, Milano, 1961; F. Lazzaro - M. Di Marzio, Le locazioni per uso abitativo, IV ed., Milano, 2007; F. Lazzaro – R. Preden, Le locazioni per uso non abitativo, V ed., Milano, 2005; G. Mirabelli, La locazione, in Tratt. Vassalli, Torino, 1972; F. Padovini, La liberalizzazione del mercato delle grandi locazioni ad uso non abitativo, in Nuove leggi civ., Padova, 2015, 429 ss.; M. Sinisi - F. Troncone, Le locazioni ad uso commerciale, III ed., Padova, 2010; Paparo, Disdetta del contratto da parte del locatore, in Le locazioni abitative a cura di Vettori, Padova, 2002; F. Trifone, Locazioni ad uso non abitativo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001.

[15] Nella contrapposizione rispetto all’interpretazione letterale che presuppone che la norma sia una unità logica isolata empiricamente, l’interpretazione è concepita soltanto in chiave logico-sistematica e teleologico-assiologica, in quanto finalizzata all’attuazione dei valori costituzionali.

Ciò dunque conduce a bandire il brocardo in claris non fit interpretatio: P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, 581.

Per la validità dell’art. 12 disp. prel., per le sole leggi di rango ordinario: A. Falzea, La Costituzione e l’ordinamento giuridico, in ID., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Milano, 1999, 464.

[16] L’innegabile rilevanza economica e sociale della locazione di immobili ha fatto sì che la materia fosse oggetto di continui interventi da parte delle leggi speciali, nella preoccupazione di evitare che il contrente contrattualmente più forte, val quanto dire il proprietario abusasse del suo potere a danno del contraente, per così dire, più debole. L’intrinseca debolezza contrattuale deriva evidentemente dalle diverse esigenze eterogenee che spingono le parti a contrarre: l’una, quella del locatore, di mettere a reddito l’immobile, l’altra, quella del conduttore, di «conseguire il godimento di una cosa determinata, strumento necessario per appagare i suoi bisogni più essenziali: casa, bottega, ufficio. Sotto questo aspetto, il conduttore è sempre il contraente più debole perché il bisogno di una cosa determinata è sempre più pressante di quello rivolto ad una cosa fungibile»: A. Tabet, La locazione-conduzione, cit., 44.

[17] In deroga al sistema fondato sulla libera contrattazione delle parti: G. Rinaldi, Locazione, in Enc. giur. Treccani, passim. In generale, può affermarsi che il contratto di locazione classico, quale previsto e regolato dal codice, si adatta alla logica di regimi e interessi differenti in corrispondenza al tipo di rapporto instauratosi tra le parti e soprattutto secondo la destinazione del bene locato: A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, XXVII ed., Padova, 2015, 962.

[18] E ciò soprattutto per gli aspetti di maggiore rilevanza quali la durata del contratto e la misura del corrispettivo da versare al locatore: M. Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, XXI ed., Torino, 2015, 792. Tant’è che la durata del rapporto viene regolata soltanto nel suo termine massimo con disposizioni poste principalmente a tutela della proprietà; mentre con riferimento alla misura del corrispettivo, il codice non reca alcuna disposizione di carattere cogente.

[19] Per un approfondimento si rinvia a Aa. Vv., Evoluzione legislativa in tema di locazioni ad uso abitativo dopo l’entrata in vigore del codice civile, in foroeuropeo.it.

[20] Protrattasi ininterrottamente dal 1915 fino al 1978, attraverso una copiosa serie di disposizioni normative progressivamente reiterate nel tempo che riguardavano essenzialmente la durata del contratto di locazione e l’entità del canone: da un lato si faceva divieto alle parti di aumentare il corrispettivo pattuito o di aumentarlo oltre una certa misura; dall’altro si attribuiva al conduttore il diritto di protrarre il godimento dell’immobile anche dopo la scadenza del termine stabilito.

[21] I progressivi interventi legislativi, tesi a graduare in modo vincolante gli aumenti dei canoni e prorogando d’imperio la durata dei contratti, hanno inevitabilmente ottenuto l’effetto di provocare una profonda crisi dell’intero settore immobiliare, inaridendo gli investimenti e creando un doppio mercato delle locazioni, con gravi sperequazioni fra locatori e conduttori di immobili vincolati e immobili «liberi».

[22] Nell’ottica di superare il regime vincolistico pervenendo ad un generale riassetto del settore, il legislatore del 1978 ha individuato due tipologie di rapporti: la locazione di «immobili adibiti ad uso di abitazione» (capo I, titolo I, artt. 1-26) e la locazione di «immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione» (capo II, titolo I, artt. 27-57), differenziando la disciplina in ragione della diversa destinazione economica ricevuta dall’immobile, contemperando l’esigenza dell’inquilino di prendere in locazione una casa (corrispondendo un canone di importo ragionevole), con l’interesse del proprietario ad ottenere una rendita adeguata dalla sua proprietà.

Si rinvia al disegno di legge sul c.d. equo canone letto alla luce della legislazione vincolistica in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso di abitazione, reperibile su Il Foro italiano, Vol. 101, V.

[23] L’art. 79 prevede, infatti, una rigorosa valutazione delle pattuizioni private, che ne determina la nullità se queste sono dirette a derogare, in sfavore del conduttore, la disciplina del canone e della durata ovvero se, comunque, attribuiscono al locatore vantaggi in contrasto con la legge. Le clausole di contenuto difforme rispetto a quello previsto dalle norme cogenti sono sostituite di diritto: in luogo di esse, si inseriscono nel rapporto contrattuale le condizioni imperative individuate dalla legge (inserzione automatica che si produce per l’effetto della regola generale degli artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c., richiamata dagli artt. 1, 12, 25 e 27 l. n. 392/1978).

Per un approfondimento A. Jannarelli, Art. 27. Durata della locazione, in Equo canone. Disciplina delle locazioni di immobili urbani, a cura di C. M. Bianca, N. Irti, N. Lipari, A. Proto Pisani e G. Tarzia, Padova, 1980, 231 ss.

[24] Anche la tutela dell’inquilino si era rilevata poco efficace, data la frequente violazione o elusione delle norme imperative concernenti la misura del canone: G. Rinaldi, Locazione, cit., passim. Un timido tentativo di risanamento è stato attuato con la c.d. miniriforma dei patti in deroga di cui all’art. 11 d. l. 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica, convertito in legge dall’art. 11 della legge 8 agosto 1992, n. 359), tramite la quale venne disposta l’abrogazione delle disposizioni limitative del canone contenute nella legge del 1978, limitata ai soli contratti di locazione aventi ad oggetto immobili di nuova costruzione.

[25] Ciò si spiega nella rilevanza che assume il bene-casa tanto da teorizzarsi una rilevanza costituzionale di un diritto all’abitazione (in realtà non registrabile nella giurisprudenza costituzionale).

Ciò che emerge da tale rilevanza è una maggiore attenzione non tanto al rapporto contrattuale tra locatore e conduttore, quanto al rapporto reale tra conduttore e bene. In altre parole, per valutare la stabilità dell’uso del bene si assiste ad una sotto ordinazione dell’accordo pattizio rispetto al fatto del godimento: F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, III ed., 1067.

[26] Alla seconda scadenza, ciascuna delle parti ha la facoltà di attivare la procedura per il rinnovo del contratto a nuove condizioni o per la rinuncia al rinnovo, comunicando la propria intenzione almeno sei mesi prima della scadenza.

In mancanza di detta comunicazione il contratto si intende tacitamente rinnovato alle condizioni originariamente pattuite: G. Rinaldi, Locazione, ibidem.

[27] I contratti di locazioni che ricadono nell’ambito applicativo della legge sono i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo che non abbiano ad oggetto beni vincolati o che non siano costruiti nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica o che non siano alloggi locati per finalità esclusivamente turistiche (cfr. art. 1).

[28] Condizioni individuate nel rispetto delle indicazioni fornite da una convenzione nazionale promossa dal Ministero dei lavori pubblici cui spetta, in particolare, l’indicazione dei «criteri generali per la definizione dei canoni» (cfr. art. 4 l. n. 431/1998).

[29] Per una recente giurisprudenza di merito sulla differenza tra i due tipi contrattuali si rinvia a App. Roma, sez. VIII, 13 novembre 2019, n. 6252, in dejureonline, la quale, tra l’altro, pone l’accento sull’asserita maggiore stabilità del rapporto garantita dal tipo ordinario di contrattazione.

[30] In entrambi i modelli contrattuali la legge prevede la possibilità per il locatore di avvalersi della facoltà di diniego del rinnovo del contratto, purché ricorra una delle ipotesi tassative previste dall’art. 3 l. n. 431/1998: vale a dire quando il locatore intenda destinare l’immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o professionale proprio o dei congiunti; quando vi sia la necessità di eseguire lavori indispensabili; quando il conduttore non occupi continuativamente l’immobile senza giustificato motivo; quando il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio libero ed idoneo nello stesso comune.

[31] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, vol. IV, Napoli, 2020, 186.

[32] ID., o.u.c., 187. In questi termini, l’A. precisa che l’autonomia negoziale assistita, la quale ha trovato terreno favorevole soprattutto nella legislazione speciale, fa ricorso a forme di condizionamento dell’autonomia negoziale rivolte ad attribuire alle associazioni professionali un ruolo legittimante o convalidante di atti compiuti da soggetti privati, nell’ottica di tutelare la situazione sostanziale tramite un vero e proprio controllo di convenienza.

Particolarmente significativo è l’esemplificazione dei contratti agrari e segnatamente dell’art. 45 l. 3 maggio 1982, n.203, ma anche nei rapporti di famiglia, il riferimento ai nuovi modelli di separazione e divorzio, tramite la negoziazioni assistita da avvocati, conferma il ricorso all’autonomia assistita come strumento di controllo dell’autonomia negoziale.

[33] Ciò in quanto sembra evidente come la libera contrattazione ripercorra quanto già era previsto dai patti in deroga in punto di libera determinazione del canone, durata obbligata di quattro anni più quattro, diniego di rinnovo alla prima scadenza per necessità abitativa o lavorativa. Diversamente un canone legale «imposto», ancorché concordato, rimane stabilito per i contratti-tipo.

[34] Copiosa la giurisprudenza soprattutto sulle questioni attinenti il regime transitorio.

A titolo esemplificativo si consideri App. Milano sez. III, 25 ottobre 2018, n.4448, in dejureonline, in tema di tacito rinnovo dei contratti di locazione abitativa dopo la legge n. 431/1998.

[35] Cfr. Trib. Roma, sez. VI, 26/03/2019, n.6797: «Il conduttore, dopo la prima scadenza contrattuale, può non avvalersi della proroga biennale di cui all'art. 2, comma 5, l. n. 431/1998, del contratto di locazione, stabilita esclusivamente in suo favore, laddove non abbia interesse al rinnovo, non manifestando la volontà di rimanere nell'immobile, senza necessità di dare comunicazione del proprio recesso al locatore, il quale, a sua volta, per impedire l'operatività della proroga, può inviare disdetta motivata ex art. 3, l. n. 431/1998, fermo restando che sussiste il potere del giudice di accertare la cessazione del contratto di locazione ad una data diversa e successiva rispetto a quella indicata nell'intimazione di sfratto per finita locazione», in Condominioelocazione.it, 13 gennaio 2020, con nota di V. Amendolagine, L’operatività della proroga biennale nella locazione a canone concordato e modalità della disdetta.

[36] Si tratta di una ordinanza emessa da Trib. Bologna, 10 maggio 2021 (R.G. 5798/2021) reperibile sul sito web ASPPI Bologna, con nota di V. Sardini, Nuovamente in discussione la durata dei contratti a canone concordato.

[37] Sulla necessità di provare la serietà delle ragioni del rifiuto, in giurisprudenza si registrano degli orientamenti difformi, i quali però attengono non già all’onere motivazionale previsto per i contratti a canone concordato, bensì ai contratti, per così dire, ordinari.

Il riferimento corre alla pronuncia App. Roma sez. VI, 26 maggio 2020, n.7777, in dejureonline, la quale ha previsto che affinché il locatore possa legittimamente denegare il rinnovo del contratto alla prima scadenza, secondo quanto previsto dall’art. 3 della legge 9 dicembre 1998 n. 431, non è necessario che egli fornisca la prova dell’effettiva necessità di destinare l’immobile ad abitazione propria o di un proprio familiare, ma è sufficiente una semplice manifestazione di volontà in tal senso, fermo restando il diritto del conduttore al ripristino del rapporto di locazione alle medesime condizioni di cui al contratto disdettato o, in alternativa, al risarcimento di cui al comma 3 del citato art. 3, nell’eventualità in cui il locatore non abbia adibito l’immobile all’uso dichiarato nell’atto di diniego del rinnovo nel termine di dodici mesi della data in cui ne abbia riacquistato la disponibilità.

[38] A. Gentili, Riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione, in N. Lipari, P. Rescigno (diretto da) Diritto civile, vol. III, 776. Gli eterogenei istituti, prosegue l’A. - il quale preferisce discorrere di fattispecie, più che di istituti - non conoscono infatti un disciplina costante capace di contraddistinguerli.

Sul tema, ex multis, R. Sacco, Riproduzione, rinnovazione, ripetizione, reiterazione dei contratti, in Dig. Disc. prov., sez. civ., XVIII, Torino, 1998, 13; Granelli, Riproduzione e rinnovazione del contratto, Milano, 1988.

[39] A. Gentili, Riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione, cit., 806.

In particolare la rinnovazione si distingue dalla ripetizione in funzione del fatto che le due stipule, in questa seconda ipotesi, concorrono: quindi la ripetizione è condizionata dall’attualità ed effettività del vincolo, cosa che non accade nella rinnovazione. 

[40] Assente in altre fattispecie quali la rinegoziazione, A. Gentili, o.u.c., 779.

[41] Id., La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contr. e impr., 2003, 668.

In questa prospettiva, una variante della rinnovazione è quella attinenti alla modificazione temporale del vincolo: per tale si intende sia quella ove dalla nuova stipula decorra un eguale periodo di rapporti giuridici, con o senza soluzione di continuità con quelli già decorsi, sia quella ove si fissi una durata diversa: Carnelutti, Documento e negozio giuridico, in Riv. proc. civ., 1926, I, 200.

[42] Cfr. Cass., sez. III, 23 gennaio 2006, n.1223.

Rimane salva la possibilità che la continuazione dell’originario rapporto avvenga in forza di una specifica clausola del contratto precedentemente concluso e perciò in forza della volontà così manifestata di concludere il contratto stesso: cfr. Cass., sez. III, 2 agosto 2002, n.11649 e Cass., sez. III, 23 giugno 2011, n.13886, tutte reperibili in dejureonline.

[43] Pertanto, al termine della proroga biennale - prevista «di diritto» per il caso in cui le parti, alla prima scadenza del contratto, non concordino sul rinnovo del medesimo - ove manchi la comunicazione di disdetta, da effettuarsi a cura di ciascun contraente nei termini previsti dalla normativa ad hoc dettata, il contratto locativo deve intendersi tacitamente rinnovato, a ciascuna scadenza, per un ulteriore biennio; il tutto giusto il disposto dell’art. 19-bis del d.ln. 34/2019 (c.d. decreto Crescita) che, integrando l’art. 2, comma 5, ultimo periodo, della l. n. 431/1998, ne precisa così il significato quanto alla previsione del tacito rinnovo «alle medesime condizioni»: così Trib. Torino, sez. VIII, 7 dicembre 2020, n. 4349, in Condiminioelocazione.it, 2021, con nota di L. Malfanti, Scaduta la proroga biennale, nell’inerzia delle parti, i contratti di locazione agevolati si rinnovano ogni volta tacitamente per un ulteriore biennio.

[44] La Suprema Corte, in una recente pronuncia (12 giugno 2020 n.11308, in Resp. civ. prev., 2022, 1-2, 146, precedente conforme Cass., 12 settembre 2019, n.22778, in dejureonline) ha, infatti, ribadito che, sulla base del comma 5 dell’art. 3 L. 431/1998, alla prima scadenza del contratto (cioè alla scadenza dei tre anni), dopo l’inciso «ove le parti non concordino sul rinnovo del medesimo» è previsto che il contratto sia prorogato di diritto per due anni, fatta (però) salva la facoltà di disdetta motivata da parte del locatore (alla scadenza dei primi tre anni) e che alla scadenza del successivo periodo di proroga biennale (ovverosia alla scadenza dei tre più due) ciascuna delle parti, ove non ne chieda il rinnovo a nuove condizioni, ha diritto di rinunciare al rinnovo del contratto «comunicando la propria intenzione con lettera raccomandata da inviare all’altra parte almeno sei mesi prima della scadenza», senza aggiungere che tale intenzione debba essere in alcun modo motivata.

[45] Cfr.: Cass., sez. III, 16 gennaio 2013, n.936, in dejureonline.

[46] Derivante da un «indebolimento del pensiero dogmatico, e quindi degli strumenti concettuali di verifica di legittimità della prassi», colpevoli altresì di una «instabilità della giurisprudenza»: così L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, 88.

[47] Ed invero, sebbene il contratto di locazione sia un rapporto di carattere personale che lega il proprietario a chi gode il bene, la natura del diritto di godimento cui la locazione dà luogo presenta delle particolarità che hanno indotto parte della dottrina a considerarlo come un rapporto a metà strada tra i rapporti obbligatori e quelli reali: M. Giorgianni, Diritti reali, in Nss. D.I., V, Torino, 1960, 748 ss.

Sul punto anche G. Alpa, Manuale di diritto privato, VII ed., Padova, 2011, 695.

A conferma di tale assunto si argomenta sostenendo che il rapporto non ha effetto solo tra le parti, ma è opponibile ai terzi acquirenti: il riferimento corre al brocardo per cui emptio non tollit locatum, all’obbligo di trascrizione, alla prescrizione che il contratto non possa avere durata superiore ai trenta anni, alla facoltà di sublocazione: sintomi della deviazione dal rigore del criterio collegato al rapporto di puro ordine personale: A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., 963.

[48] L’articolo è stato redatto dall’Avvocato ed assegnista di ricerca dottor Jacopo Alcini.

[49] R. Triola, Il condominio, Milano, 2007, 665 ss; Id., Osservazioni in tema di spese condominiali, in Giust. civ., 1997, 699 ss; A. De Renzis, A. Ferrari, A. Nicoletti, R. Redivo, Trattato del condominio, Padova, 2008, 326 ss; G. Terzago, Il condominio, Milano, 2006, 530 ss; R P. G. Mistò, F. Casarano, Il condominio, II, Torino, 2006, 286; P. Cendon, Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino, 2004, 312; F. Petrolati, E. Vitalone, Il condominio, Milano, 2001, 75; M. Basile, Condominio negli edifici. I, Diritto Civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, VIII, 8; G. Branca, Solidarietà delle obbligazioni dei condomini verso terzi, in Foro pad., 1962, 1211; Id., Obbligazioni solidali dei condomini, in Foro it., 1951, 1029 ss; F. D. Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, 457; V. Colonna, Sulla natura delle obbligazioni del condominio, in Foro it., 1997, 872; M. De Tilla, Sulla solidarietà dei condomini per le obbligazioni contratte dal condominio, in Giust. civ., 1993, 2685; A. Nicoletti, R. Redivo, Ripartizione spese condominiali e tabelle millesimali, Padova, 1990, 7; P. Scalettaris, Il rimborso dell’amministrazione del condominio, dopo la cessazione del suo incarico, delle spese da lui anticipate, in Arch. loc. cond., 1990, 573; C. Nocella, L’obbligo solidale dei condomini di contribuire alle spese d’interesse comune, in Giust. civ., 1957, 655.

[50] Sulle obbligazioni solidali cfr. M. Zinno, Le obbligazioni solidali e le dinamiche della quota, Napoli, 2018, 2 ss.

[51] F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, III, Milano, 1959, 38. A. Gnani, La responsabilità solidale, Milano, 2005, 13. E. Colagrosso, Teoria generale delle obbligazioni e dei contratti, Roma, 1948, 145. A. Giaquinto, Delle obbligazioni in solido, Firenze, 1948, 244.

[52] P. Bonfante, Obbligazioni, comunione e possesso, III, Torino, 1921, 214; P. Melucci, La teoria delle obbligazioni solidali nel diritto civile italiano, Milano, 1884, 7.

Secondo l’opinione maggioritaria (G. De Semo, Le obbligazioni solidali in materia di commercio, Roma, 1916, 79 ss; Serafini, Istituzioni di diritto romano comparato al diritto civile patrio, Firenze, 1897, 44), la solidarietà doveva essere espressamente pattuita e non presunta, costituendo l’eccezione alla parziarietà.

Contra, P. Bonfante, Commentario alle Pandette del Gluck, Milano, 1907, 13 ss; E. Albertario, Corso di diritto romano. Le obbligazioni solidali, Milano, 1948, 61 ss, secondo cui parziarietà risulta frequentemente stabilita da singole disposizioni positive, tale da costituire una eccezione piuttosto che la regola generale.

[53] Sul punto già A. Rota, Note sulla dottrina del regresso nelle obbligazioni solidali presso i glossatori, Città di Castello, 1936, 27.

[54] A. Riccio, Le diverse specie di obbligazioni: pecuniarie, alternative, solidali, indivisibili, in M. Franzoni (a cura di), Le obbligazioni, I, Torino, 2004, 1209 ss; M. Orlandi, La responsabilità solidale, Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, Milano, 1993, 1 ss e 67 ss; L. Bigliazzi Geri, F. Busnelli, U. Breccia, U. Natoli, Diritto Civile, 3, Torino, 1992, 47 ss.

[55] C. M. Bianca, Diritto civile. L’obbligazione, IV, Milano, 1990, 695.

[56] Cfr. Relazione al progetto del quarto libro del codice civile, Obbligazioni e contratti, Roma, 1936, 33.

[57] M. Ticozzi, Le obbligazioni solidali, Padova, 2001, 25; S. Pellegatta, Il dogma della solidarietà e il problema delle obbligazioni condominiali (a un anno da Cass., sez. un., 8.4.2008, n.9148), in Nuova giur. civ. comm., Padova, 2009, 137 ss.

[58]  L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1946, 172 ss.

[59] F. D. Busnelli, Obbligazione. IV) Obbligazioni divisibili, indivisibili e solidali, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, 1 ss.

[60] A. Di Majo, Obbligazioni solidali, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 298 ss; M. De Acutis, La solidarietà nella responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 1975, 525 ss.

[61] D. Rubino, Obbligazioni alternative. Obbligazioni in solido. Obbligazioni divisibili e indivisibili, Bologna, 1968, 138.

[62] M. Giorgianni, Obbligazione solidale e parziaria, in Noviss. Dig. it., XI, Torino, 1965, 677 ss.

[63] F. D. Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa, cit., 57.

[64]  G. Amorth, L’obbligazione solidale, Milano, 1959, 73 ss.

[65] A. Di Majo, Obbligazioni solidali, cit., 306.

[66] Cass., 30 luglio 2004, n.14593, in Giust. civ., 2005, 114.

In giurisprudenza, tra le altre, cfr. Cass., 31 agosto 2005, n.17563, in Arch. loc., 2006, 195; Cass., 23 febbraio 1999, n.1510 in Riv. giur. edil., 1999, 952; Cass., 17 aprile 1993, n.4558, in Giur. it., 1994, 592; Cass. 14 dicembre 1982, n.6866, in Giur. it., 1985, 380; Cass., 05 aprile 1982, n.2085, in Giur. It., 1983, 989; Cass., 18 dicembre 1978, n.6073, in Riv. giur. edil., 1979, 726; Cass., 24 ottobre 1956, n.3897, in Giust. civ., 1957, 654.

In dottrina, L. Salis, Il condominio negli edifici, Torino, 1959, 185 ss.

[67] Cass., 5 aprile 1982, n. 2085, in Giur. it., 1983, 989. G. Terzago, Il condominio, cit., 530.

[68] R. Triola, Osservazioni in tema di spese condominiali, cit., 699 ss.

[69] V. Colonna, Sulla natura delle obbligazioni del condominio, cit., 872 ss; G. Branca, Solidarietà delle obbligazioni dei condomini verso terzi, cit., 1211 ss.

[70]  R. Triola, Il condominio, cit., 665 ss.

[71] C. Nocella, L’obbligo solidale dei condomini di contribuire alle spese d’interesse comune, cit., 655.

[72] Cass., 12 dicembre 1997, n.1268, in Vita not., 1997, 190; Cass., 27 settembre 1996, n.8530, in Foro it., 1997, 872; Cass., 21 maggio 1973, n.1464, in Foro it., 1974, 1513; Cass., 11 giugno 1968, n.1865, in Riv. giur. edil., 1968, 1327; Cass., 5 maggio 1966, 1139, in Foro it., 1967, 73; Cass., 06 giugno 1960, n.147, in Foro it., 1961, 93; Cass., 10 maggio 1951, 1110, in Foro It., 1951, 1029.

Tutte le fattispecie oggetto di giudizio riguardavano il rimborso di somme anticipate dal precedente amministratore, piuttosto che l’applicabilità della solidarietà o della parziarietà alle obbligazioni contratte nell’interesse del condominio.

[73] A. Scarpa, Le obbligazioni del condominio, Milano, 2007, 78; Id., La regola della parziarietà nel condominio e la distinta obbligazione dell’amministrator mandatario, in Rass. loc. cond., 1997, 97; R. Corona, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici, Torino, 2001, 211 ss; Id., Appunti sulla situazione soggettiva di condominio, in Riv. not., 2006, 633; E. V. Napoli, La responsabilità del condominio, in Id. (a cura di), Il condominio negli edifici, Padova, 2000, 347 ss; R. Amagliani, L’amministratore e la rappresentanza degli interessi condominiali, Milano, 1992, 237; D. R. Peretti Griva, Osservazioni in materia dell’obbligazione dei condomini per spese necessarie per la prestazione dei servizi nell’interesse comune, in Giur. it., 1952, 608; A. Nobile, La solidarietà nelle obbligazioni del condominio, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, 384.

Cfr. altresì C. M. Bianca, Nozione di condominio, in Id. (a cura di), Il condominio, Torino, 2007, 29.

[74] R. Triola, La regola della parziarietà nel condominio e la distinta obbligazione dell’amministratore mandatario, cit., 97.

[75] R. Corona, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici, cit., 224.

[76] R. Corona, Proprietà e maggioranza nel condominio degli edifici, cit., 224.

[77] R. Corona, Appunti sulla situazione soggettiva di condominio, cit., 651 ss.

[78] Cass., Sez. Un., 8 aprile 2008, n.9148, in Corr. giur., 2008, 773 ss: «[...] è pur vero che la solidarietà raffigura un principio riguardante i condebitori in genere. Ma il principio generale è valido laddove, in concreto, sussistono tutti i presupposti previsti dalla legge per la attuazione congiunta del condebito. Sicuramente, quando la prestazione comune a ciascuno dei debitori è, allo stesso tempo, indivisibile. Se invece l’obbligazione è divisibile, salvo che dalla legge (espressamente) sia considerata solidale, il principio della solidarietà (passiva) va contemperato con quello della divisibilità stabilito dall’art. 1314 cod. civ., secondo cui se più sono i debitori ed è la stessa la causa dell’obbligazione, ciascuno dei debitori non è tenuto a pagare il debito che per la sua parte. Poiché la solidarietà, spesso, viene ad essere la configurazione ex lege, nei rapporti esterni, di un’obbligazione intrinsecamente parziaria, in difetto di configurazione normativa dell’obbligazione come solidale e, contemporaneamente, in presenza di una obbligazione comune, ma naturalisticamente, divisibile viene meno uno dei requisiti della solidarietà».

Per i commenti alla decisione cfr. N. Izzo, L’attuazione parziaria delle obbligazioni condominiali: una restaurazione ottocentesca del favor debitoris?, in Corr. giur., 2008, 780 ss; A. Celeste, Il singolo risponde solo pro quota per le obbligazioni del condominio verso terzi: il respiro di sollievo dei condomini e lo sconforto operativo dei creditori, in Riv. giur. edil., 2008, 744; R. Viganò, Il dilemma solidarietà-parziarietà dell’obbligazione condominiale. Una lettura (tra le righe) di Cass., Sez. Unite, 8 aprile 2008, n. 9148, in Arch. loc. cond., 2009, 155; B. Grasso, La responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte dal condominio verso terzi (a proposito di una recente decisione delle Sezioni Unite Civili della Cassazione), in Dir. giur., 2008, 225.

[79] L. Tecce, Sulla natura della responsabilità dei condomini per le obbligazioni assunte nell’interesse comune, in Riv. not., 2009, 409 ss.

[80] S. Castro, La natura parziaria dell’obbligazione è più aderente a esigenze di giustizia, in Guida dir., 17, 2008, 43.

[81] A. Di Majo, Solidarietà o parziarietà nelle obbligazioni condominiali: l’eterno ritorno, in Corr. giur., 2008, 777.

[82] Cass., 04 giugno 2008, n.14183, in Foro it., 2008, 3198; Cass., 21 ottobre 2012, n.21907, in Arch. loc. cond., 2012, 39.

Cfr. anche E. Calevi, Un’opinione dissonante sulla solidarietà delle obbligazioni condominiali, in Giur. it., 2011, 1068 ss.

[83] R. Triola, Osservazioni in tema di spese condominiali, cit., 704; D. Rubino, Obbligazioni alternative. Obbligazioni in solido. Obbligazioni divisibili e indivisibili, cit., 188; M. Giorgianni, Obbligazione solidale e parziaria, cit., 678.

[84] C. Miraglia, Pluralità di debitori e solidarietà, Salerno, 1984, 11 ss.

[85] L. Bigliazzi Geri, F. Busnelli, U. Breccia, U. Natoli, Diritto Civile, 3, cit., 66-68.

[86] C. M. Bianca, Diritto civile. L’obbligazione, IV, cit., 764.

[87] A. Bertotto, Sulla natura solidale delle obbligazioni assunte dall’amministratore in rappresentanza dei condomini, in Giur. it., 2008, 2716.

[88] F. D. Busnelli, Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 331 ss e 340 ss; R. Cicala, Concetto di divisibilità ed indivisibilità della prestazione, Napoli, 1953, 56.

[89] B. Tassone, Solidarietà e parziarietà nell’ordinamento italiano: un’analisi operazionale, in Danno resp., 2007, 1102; Id., La ripartizione di responsabilità nell’illecito civile, Napoli, 2007, 217 ss.

[90] C. M. Bianca, Nozione di condominio, in Id. (a cura di), Il condominio, cit., 17 ss, secondo cui «l’organizzazione dei condomini è un ente che ha soggettività giuridica» seppure non può essere considerato una persona giuridica. Esso, infatti, costituisce «un ente titolare di situazioni giuridiche soggettive che non fanno capo ai singoli condomini».

Sulla discussa natura giuridica del condominio cfr. P. Petrelli, Il condominio, 4, Padova, 2013, 164; A. Cerulo, Il condominio in generale, in R. Triola (a cura di), Il nuovo condominio, Torino, 2013, 11 ss; P. Giuggioli, M. Giorgetti, Il nuovo condominio, Milano, 2013, 1 ss.; R. Corona, La natura giuridica del condominio, in M. Basile (a cura di), Condominio e comunione negli edifici, III, Milano, 2012, 59 ss; A. Ferrari, A. Nicoletti, R. Redivo, A. De Renzis, Trattato del condominio, Padova, 2008, 11 ss; A. G. Diana, La proprietà immobiliare urbana, 3, Milano, 2006, 23 ss.

[91] E. V. Napoli, La responsabilità del condominio, in Id. (a cura di), Il condominio negli edifici, cit., 447 ss; M. Dogliotti, A. Figone, Il condominio; Torino, 2001, 377.

Contra, R. Amagliani, L’amministratore e la rappresentanza degli interessi condominiali, cit., 134 ss, che nega la qualificazione in termini di mandato.

[92] Secondo M. Basile, Regime condominiale ed esigenze abitative, Milano, 1979, 31, «la determinazione dei poteri e dei doveri di ogni partecipante in ordine alle cose comuni occupa, nella concezione accolta dell’istituto condominiale, il posto centrale della disciplina positiva. Il principio-guida che il legislatore mostra qui di seguire è quello dell’adeguamento delle situazioni giuridiche di ogni condomino al valore economico del suo alloggio e all’interesse che egli ha sulle cose comuni».

[93] M. C. Giorgetti, P. Giuggioli, Il nuovo condominio, Milano, 2013, 190-191; A. Gallucci, Il condominio negli edifici, Padova, 2013, 143 ss; A. Celeste, A. Scarpa, Riforma del Condominio, Milano, 2013, 195 ss; F. Lazzaro, Il condominio dopo la riforma, Milano, 2013, 221 ss.

[94] R. Corona, Le obbligazioni dei condomini, Milano, 2013, 77 ss.

[95] R. Corona, Le obbligazioni dei condomini, cit., 149.

[96] S. Pellegatta, Il dogma della solidarietà e il problema delle obbligazioni, in Nuova giur. civ. comm., 2009, 145.

[97] Cass., 18 aprile 2003, n.6323, in Riv. giur. edil., 2003, 1489.

[98] A. Scarpa, I debiti del condominio verso terzi, in Giur. mer., 2013, 575 ss.

[99] A. Scarpa, L’obbligazione propter rem dei condomini per le spese di conservazione delle parti comuni, in Riv. giur. edil., 2004, 107.

[100] G. Nozzetti, Solidarietà e parziarietà delle obbligazioni contrattuali dei condomini nel nuovo art. 63 disp. att. c.c., in Arch. loc. cond., 2013, 576; P. Gatto, Le obbligazioni nel condominio dopo la riforma, in Arch. loc. cond., 2013, 284.

[101] A. Celeste, A. Scarpa, Riforma del Condominio, cit., 196.

[102] Cass., 16 gennaio 2009, n.1040, in Foro It., 2010, 214.

[103] G. Laganà, Art. 63 disp. att. c.c. Riscossione contributi. Condomino subentrante. Mora nei pagamenti, in F. Lorenzini (a cura di), Codice commentato del nuovo condominio, Bologna, 2013, 189 ss.

[104] G. Branca, Unum debitum e plures obligationes, in Studi in onore di Pietro De Francisci, III, Milano, 1956, 139.

[105] G. Branca, Correalità e solidarietà, in Giur. It., 1957, 46.