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Pubbl. Mar, 21 Mar 2023

La revoca del testamento per sopravvenienza di figli anche in relazione ai casi di maternità surrogata

Giuseppe Casimo
AvvocatoUniversità degli Studi di Messina



Il presente contributo mira a fornire un’analisi sull’operare della revocazione di diritto del testamento in caso di sopravvenienza di figli, effettuando un raffronto anche con quanto previsto in tema di donazione. Sul piano funzionale inoltre ci si soffermerà sulle novità che sta offrendo il progresso scientifico circa le ipotesi di maternità surrogata e i limiti che questa incontra nell’ordinamento italiano.


Sommario: 1. Il testamento come espressione della libertà del testatore; 2. Casi di revoca del testamento; 3. Revoca ope legis ex art. 687 c.c.; 4. Differenze dalla revoca di donazioni, anche indirette; 5. La disciplina sulla surrogazione di maternità surrogata, tra tecniche offerte dalla scienza e limiti interni; 6. Incidenza della giurisprudenza europea sull’asset testamentario italiano e considerazioni conclusive.  

Sommario: 1. Il testamento come espressione della libertà del testatore; 2. Casi di revoca del testamento; 3. Revoca ope legis ex art. 687 c.c.; 4. Differenze dalla revoca di donazioni, anche indirette; 5. La disciplina sulla surrogazione di maternità surrogata, tra tecniche offerte dalla scienza e limiti interni; 6. Incidenza della giurisprudenza europea sull’asset testamentario italiano e considerazioni conclusive.  

1.Il testamento come espressione della libertà del testatore

La successione a causa di morte è quel fenomeno in forza del quale al momento della morte di un soggetto, subentrano nella titolarità dei suoi rapporti giuridici gli eredi e gli altri aventi causa.  

La successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto e l’ordinamento italiano prevede che la stessa possa essere regolata per legge o per testamento, così come sancito dagli artt. 457 c.c. e 42 comma 3 della Carta Costituzionale.

Il testamento costituisce difatti lo strumento tramite il quale il de cuius può impedire l’operare di una delazione ex lege dei cespiti ereditari, attribuendo in tal modo le proprie sostanze anche a soggetti non ricompresi nella cerchia familiare.

Nel caso in cui il testatore istituisca un soggetto come erede, vi sarà una successione nell’universum ius, comprendente il trasferimento di diritti assoluti e relativi, ad eccezione di quelli strettamente personali; è possibile prevedere altresì disposizioni aventi carattere non patrimoniale, ex art. 587 c.c. comma 2, quali ad esempio il riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio, quelle relative alla sepoltura, e perfino a contenuto negativo come la diseredazione.

In dottrina[1] è stato sostenuto che le disposizioni presenti nell’atto di ultima volontà siano dotate di natura negoziale e costituiscano espressione dell’autonomia privata, pur trovando applicazione delle regole parzialmente diverse rispetto alla disciplina generale del contratto: si pensi alla possibilità concessa alle parti di confermare un testamento nullo ex art. 590 c.c., mentre la nullità contrattuale non può mai essere oggetto di sanatoria.

Il favor testamenti è un principio cardine del nostro sistema successorio, non solo da un punto di vista oggettivo ma anche soggettivo, tanto che viene astrattamente concessa la capacità di testare anche a soggetti che presentano incapacità, quali l’inabilitato[2] e il beneficiario dell’amministrazione di sostegno[3].

In merito, il legislatore restringe solo ad alcuni casi tassativi l’impossibilità di testare, in modo da consentire al maggior numero possibile di distribuire le proprie sostanze post mortem.

Analizzando la libertà del testatore sotto il profilo prettamente documentale, si può scorgere come il testamento possa rivestire diverse forme: quella più solenne è costituita dal testamento pubblico per atto di notaio, disciplinato dall’art. 603 c.c., per il quale sono richieste specifiche formalità, come la presenza di due testimoni, e qualora il testatore sia sordomuto e anche incapace di leggere, di quattro testimoni.

Il testamento olografo e il testamento segreto sono invece le altre due forme che permettono al testatore di procedere alla redazione del documento senza l’ausilio di un pubblico ufficiale; unica eccezione statuita dall’art. 604 c.c. è relativa al testamento segreto, che non deve essere necessariamente dotato del requisito dell’autografia ma può essere scritto anche da un terzo.

Il vantaggio del testamento pubblico rispetto alle altre forme consiste nel garantire la possibilità di testare anche a soggetti incapaci di leggere, scrivere, e/o sottoscrivere.

Stante le molteplici aperture legislative circa la possibilità di garantire al testatore la libertà di testare, un limite ancora presente nell’ordinamento italiano si riscontra nella c.d. successione necessaria, che non costituisce una terza forma di successione, ma rappresenta unicamente un paletto alla successione testamentaria.

Il sistema successorio italiano è infatti da sempre improntato sulla tutela della famiglia quale istituto di importanza sociale, avente come caposaldo il c.d. “principio dell’intangibilità della quota di legittima”, col quale la legge riserva una quota a determinati soggetti, individuati ex art. 536 c.c., ritenuti particolarmente meritevoli di tutela.

Ulteriore istituto posto a tutela dei più stretti familiari è la revoca del testamento per sopravvenienza di figli che, come si approfondirà meglio infra, potrebbe scompaginare una situazione successoria prefigurata dal testatore al momento della sua morte.

In dottrina[4] si sostiene che tale revoca miri a tutelare i parenti più prossimi, presupponendo che l’intenzione del testatore fosse quella di disporre in favore di questi, ove ne avesse conosciuto l’esistenza.   

2. Casi di revoca del testamento

Facendo seguito a quanto detto circa la libertà del testatore di disporre dei propri beni mediante l’atto di ultima volontà, allo stesso modo il medesimo soggetto sarà libero di revocare quanto scritto fino al momento della propria morte.

Il potere di revoca costituisce dunque, come sostenuto da una parte della dottrina[5], un’esplicazione dell’autonomia privata analoga a quella che ha permesso il nascere del documento cui si intende far cessare gli effetti.

Altra parte della dottrina[6] ha accostato il negozio di revoca ad un atto con cui l’autore dello stesso intende ripristinare una precedente situazione giuridica, o comunque impedirne il sorgere di una nuova.

Lo stesso legislatore all’art. 679 c.c. sancisce l’irrinunziabilità della revoca o della modifica delle disposizioni testamentarie, prevedendone altresì l’inefficacia di ogni clausola o condizione contraria.

La ratio di tale scelta si fonda sulla possibilità riservata al testatore di incidere sul regolamento successorio fino all’ultimo momento; tale principio è sotteso anche a una serie di altre disposizioni, quali il divieto di patti successori o il divieto di testamento reciproco[7], che andrebbero a condizionare la libertà del disponente.

In particolare, il patto successorio istitutivo, vietato ex art. 458 c.c., consiste in una nomina di erede che avviene contrattualmente e con la quale un soggetto anticipatamente attribuisce ad un altro, le proprie sostanze, precludendosi la possibilità di una futura revoca o modifica.

In merito a tale divieto ricorrono delle eccezioni che si prefigurano in dei congegni negoziali trans mortem, nei quali un soggetto si riserva la nomina del beneficiario nel testamento; in tal modo la perdurante facoltà di revoca in capo al disponente permette di sottrarre tale categoria al divieto suddetto. Si pensi ad esempio al contratto a favore del terzo con prestazioni da eseguire dopo la morte o all’assicurazione a favore del terzo.

Sebbene il testatore sia libero di esercitare la facoltà di revoca, tuttavia vi sono delle forme tassative entro le quali deve attenersi: una revoca espressa, tacita, o per legge.

La revoca espressa avviene o con atto ricevuto dal notaio alla presenza dei testimoni, o mediante un nuovo testamento contenente una clausola espressa di revoca dei precedenti.

Nel primo caso, la dottrina[8] prevalente ritiene che sebbene la revoca in esame abbia una struttura inter vivos, la disciplina da applicare sia quella degli atti mortis causa in quanto la revoca, pur non essendo un testamento in senso sostanziale, produrrà effetti solo dopo la morte del dichiarante.

L’orientamento giurisprudenziale costante in materia[9] prefigura per il perfezionamento della revoca una dichiarazione di volontà unilaterale e non recettizia, finalizzata a eliminare l’efficacia delle precedenti disposizioni testamentarie.

Nello specifico, con le suddette pronunce si sostiene che ai fini della revoca sia sufficiente una formula “revoco ogni mia precedente disposizione testamentaria”, senza che vi siano disposizioni attributive per altri soggetti, con il conseguente aprirsi della successione ab intestato al momento della sua morte.

In conclusione, indipendentemente dalle espressioni formalmente impiegate, con l’atto unilaterale di revoca vi sarà un ripristino della precedente situazione giuridica.

Nel caso di revoca mediante nuovo testamento, si rende opportuno evidenziare l’irrilevanza della forma rispetto al precedente: stante il principio di uguaglianza dei testamenti, la forma con cui sono posti in essere è ininfluente ai fini della revoca. È infatti configurabile l’ipotesi di un testamento pubblico reso inefficace da un olografo avente data successiva.

La revoca tacita si estrinseca invece in quattro diverse forme:

  • un testamento successivo avente un contenuto incompatibile con quello precedente;
  •  la lacerazione, cancellazione o distruzione del testamento olografo;
  •  il ritiro del testamento segreto;
  •  l’alienazione o distruzione del bene oggetto di disposizione.

In merito al primo caso di revoca bisogna sottolineare come, sebbene l’art. 682 c.c. parli testualmente di “incompatibilità”, in dottrina[10] si è discusso se in tale concetto possa rientrare anche la contrarietà delle disposizioni.

Con quest’ultima locuzione ci si riferisce più a un dato oggettivo che si estrinseca in una impossibilità materiale di eseguire entrambe le disposizioni, non trattandosi di una revoca in concreto voluta dal testatore.

La dottrina[11] preferibile sostiene invece che l’incompatibilità debba essere vista in chiave soggettiva, in quanto si desume una volontà del testatore che, col nuovo testamento, intende regolare diversamente la propria successione.

Il secondo programma successorio va infatti visto come una volontà attributiva - negativa, con il quale il testatore disconosce efficacia al suo precedente testamento indipendentemente dall’esito positivo delle nuove attribuzioni patrimoniali che lo stesso porrà in essere (si pensi al caso in cui nel testamento posteriore il testatore istituisca erede un soggetto che però gli premuore).  

Nel caso in cui il testamento posteriore contenente la revoca dell’anteriore sia nullo, autorevole dottrina[12] sostiene che la successione sarà regolata dal testamento formato in data precedente, in quanto la nullità del testamento più recente colpisce l’atto nella sua interezza e non è ammissibile fare salva la revoca.   

Nel panorama giurisprudenziale[13] è presente un’ampia casistica di fattispecie ove non sempre ricorre una revoca immediata del testamento precedente a seguito della redazione di uno successivo; secondo il principio di conservazione del testamento, infatti, nei casi in cui non si revochi espressamente il precedente, la caducazione di questo rimarrà circoscritta nei limiti di compatibilità delle disposizioni con quello successivo. 

Un’ipotesi particolare affrontata dalla giurisprudenza[14] riguarda il caso in cui un soggetto abbia inizialmente disposto a mezzo di testamento olografo, seguito da un testamento pubblico con uguali disposizioni in favore del beneficiario. Nel momento in cui interviene la revoca di questo secondo documento, il testamento olografo precedente, solo se meramente riproduttivo a livello di contenuto, perderà efficacia.

 La ratio di tale scelta consiste nel valutare non tanto il documento come tale, ma le attribuzioni patrimoniali che in esso sono contenute.

Non mancano le discordanze tra dottrina[15] e giurisprudenza[16] circa la seconda ipotesi di revoca tacita: la prima qualifica come tassative le condotte previste dall’art. 684 c.c., mentre la seconda tende ad ampliare tali cause, inserendo anche l’irreperibilità al momento dell’apertura della successione. Tale scelta viene giustificata sulla presunzione iuris tantum che il testatore abbia voluto revocare l’atto di ultima volontà, sottraendolo alla disponibilità di qualunque soggetto dopo la sua morte.

La validità di tutto ciò rimane ferma fino a prova contraria, offrendo la possibilità ai terzi di dimostrare che non sia stata volontà del testatore revocare il testamento, ma che la sua distruzione fosse motivata da circostanze diverse.

Anche per il caso in cui il testatore incarichi un nuncius di distruggere il testamento, la volontà di revoca deve ritenersi presente, nonostante il de cuius non sia l’autore materiale del fatto in sé.   

La terza ipotesi di revoca, consistente nel ritiro del testamento segreto, presenta una caratteristica particolare, che potrebbe consentire la permanenza in vita della volontà testamentaria; se infatti il documento è munito dei requisiti di autografia, data e sottoscrizione, muterebbe veste giuridica divenendo a tutti gli effetti un testamento olografo valido.

In dottrina[17] si ritiene che in tale specifica ipotesi si vada incontro ad un atto neutro, quale il ritiro della scheda,  non privando tuttavia di efficacia il contenuto negoziale.  

La quarta e ultima ipotesi di revoca tacita consiste nell’alienazione o trasformazione della cosa legata, con cui il testatore si priva del bene oggetto di disposizione o ne modifica il contenuto, in modo tale da renderlo significativamente difforme da quello antecedentemente attribuito.

Infine, un caso particolare in tema di revoca tacita è collegato alla separazione e/o al divorzio tra coniugi; una giurisprudenza[18] risalente, escludeva che queste due fattispecie potessero costituire una forma di revoca tacita del testamento, in quanto non incidenti sulla validità del documento stesso. Si può discutere al riguardo su una eventuale e possibile mancanza di causa nel momento in cui muta lo status di un legittimario (si pensi ad una disposizione attributiva della quota di legittima in favore del coniuge separato con addebito o divorziato); in tali ipotesi bisognerebbe indagare la mens testantis circa una permanenza del volere del de cuius in merito a tali attribuzioni, nonostante vi sia stato un mutamento della situazione di fatto.

Quanto alla natura giuridica della revoca, si discute se si tratti di un atto unilaterale mortis causa oppure un negozio inter vivos; parte della dottrina[19] sostiene questa seconda tesi, poiché la revoca incide immediatamente sul testamento, nonostante divenga privo di effetti solo alla morte del testatore.

La dottrina[20] preferibile, qualificando la revoca come un contrarius actus, ritiene che la stessa debba rivestire uguale natura dell’atto eliminato e nel caso del testamento si tratta di atto mortis causa.     

Ulteriori elementi caratterizzanti la revoca sono: la patrimonialità, dal momento che, come meglio si vedrà infra, impedisce la produzione di effetti di disposizioni attributive, e l’accessorietà al negozio principale che è il testamento.

Inoltre, indipendentemente dalle ricostruzioni dottrinali circa la funzione, lo stesso legislatore, con l’art. 680 c.c., assegna alla revoca il carattere della personalità, in quanto solo il testatore può procedere con una tale dichiarazione[21].     

3. Revoca ope legis ex art. 687 c.c.

Un caso di revoca del testamento ex lege, svincolato dalla facoltà del testatore, è previsto dal legislatore italiano all’art. 687 c.c., ove vi sia sopravvenienza di figli e dunque un mutamento della situazione familiare del de cuius rispetto al momento in cui aveva testato[22].

Detta ipotesi opera al fine di neutralizzare un testamento in cui non viene contemplato il caso della nascita di un nuovo figlio e trova un fondamento oggettivo[23] che va oltre qualsiasi volontà del testatore, estendendosi anche al caso di accertamento giudiziale della filiazione.

La ratio di tale scelta si rinviene in parte nella tutela della sfera familiare, molto cara al legislatore del 1942 e, come sostenuto dalla giurisprudenza[24], altro non sarebbe che presumere una volontà del testatore, circa l’attribuzione del proprio patrimonio in favore dei figli, di cui ne ignorava l’esistenza.  

Nella categoria dei figli rientrano anche i postumi, gli adottivi, i figli nati fuori dal matrimonio successivamente riconosciuti, i figli putativi; opera altresì la revoca ove il figlio sia solo concepito al tempo del testamento.

Dottrina[25] e giurisprudenza[26] sembrano concordi nell’affermare che sia irrilevante, ai fini della revoca, l’esistenza di figli biologici non riconosciuti, in quanto la revoca avviene solo nei casi di figlio riconosciuto dal genitore o quando sia stato giudizialmente dichiarato come tale: non opera dunque la regola dell’art. 687 c.c. quando non siano contemplati nel testamento figli biologici volutamente non riconosciuti.

Relativamente invece al riconoscimento di un figlio intervenuto a seguito di accoglimento di una domanda giudiziale di accertamento di paternità o maternità, fermandosi al dato letterale dell’art. 277 c.c., sembrerebbe che a seguito della sentenza di riconoscimento gli effetti sull’operare della revoca sarebbero immediati. Sul punto vi sono due diversi orientamenti: parte della giurisprudenza[27] ritiene che l’equiparazione della dichiarazione giudiziale di filiazione e riconoscimento volontario del testatore sia possibile solo se la domanda sia introdotta prima della morte del de cuius, in modo che il testatore possa sostituire il testamento revocato per legge con un altro.

Secondo autorevole dottrina[28], invece, bisogna guardare al momento in cui passa in giudicato la sentenza dichiarativa di filiazione, che sarà possibile equiparare al riconoscimento, se intervenga prima della morte del testatore, in quanto solo “in quel caso il de cuius può confezionare un nuovo testamento”.

Una recente giurisprudenza[29] osserva che la modifica della situazione familiare che giustifica la revocazione del testamento sussiste “non solo quando il testatore riconosca un figlio ma anche quando venga esperita nei suoi confronti vittoriosamente l’azione di accertamento della filiazione, il testamento è revocato anche nel caso in cui si verifichi il secondo di tali eventi in virtù del combinato disposto dell’art. 277 c.c., comma 1, e art. 687 c.c., senza che abbia alcun rilievo che la dichiarazione giudiziale di paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte del de cuius, né che quest’ultimo, quando era in vita, non abbia voluto riconoscere il figlio, pur essendo a conoscenza della sua esistenza”. Muovendo delle osservazioni critiche rispetto a quest’ultimo orientamento sembra che, ancora una volta, il legislatore italiano rimanga ancorato a quell’idea di famiglia, come istituto da tutelare in ogni modo, ponendo così in secondo piano la libertà del testatore rispetto alla possibilità di disporre dei propri beni nel modo ritenuto più opportuno.

La natura giuridica dell’istituto in oggetto è di dubbia qualificazione: secondo una parte della dottrina[30] si tratterebbe di una invalidità, secondo altra parte[31] si avrebbe un’inefficacia successiva del testamento, infine un’ulteriore tesi[32] ritiene che la sopravvenienza di figli sia solo un evento dedotto in condizione legale risolutiva.

L’art. 687 c.c. prevede un’eccezione alla revoca ex lege suddetta: questa non ha luogo, infatti, ove il testatore abbia “provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli”.

Il termine “provvedere” ha portato a più interpretazioni: una parte della dottrina[33] lo intende come l’attribuzione di beni in favore dei figli ignorati o sopravvenuti. Altra dottrina[34], che si ritiene preferibile, amplia il significato del provvedere, intendendolo anche solo come prevedere; in tal modo sarebbe sufficiente una prefigurazione del testatore, non equivoca, della possibilità di avere futuri figli o discendenti senza che vi siano attribuzioni patrimoniali nei loro confronti.

Tali soggetti, ove effettivamente dovessero sopravvenire, al momento della morte del testatore potrebbero promuovere un’impugnazione del testamento per lesione di legittima, ma comunque l’atto nel suo complesso non sarà soggetto a revoca, perché il testatore si è comunque espresso per l’ipotesi di nascita di un nuovo figlio.

L’ultimo comma del suddetto articolo va valutato come un principio di economicità dei mezzi giuridici, in quanto, se i figli o discendenti sopravvenuti, pur vantando diritti, non vengono alla successione nemmeno per rappresentazione, il quadro stabilito dal testatore rimarrà immutato. Tale scelta è concorde col principio di sussidiarietà della successione legittima rispetto a quella testamentaria, ragion per cui non avrà luogo l’apertura di una successione legittima ove manchi una manifestazione di interesse dei figli sopravvenuti.

La giurisprudenza[35], inoltre, ha previsto che se il testatore al momento della riduzione in iscritto delle sue ultime volontà fosse a conoscenza della presenza di figli e decidesse di non contemplarli comunque nel testamento, la revoca non opererebbe anche in caso di sopravvenienza di un ulteriore figlio. La ratio di tale scelta si fonda sulla natura eccezionale dell’art. 687 c.c. e pertanto insuscettibile di applicazione analogica. 

4. Differenze dalla revoca di donazione, anche indiretta

La revoca del testamento per sopravvenienza di figli costituisce una forma totale di revoca, con la conseguenza che nessuna disposizione presente nel testamento continuerà a produrre effetti. Autorevole dottrina[36] tuttavia ritiene che ciò non incida sulla validità ed efficacia di quelle disposizioni non aventi carattere patrimoniale, che anche nelle altre forme di revoca (espressa e tacita), sono fatte salve.  

Nel codice civile del 1942 è possibile rinvenire una figura di donazione apparentemente analoga a quella prevista in ambito successorio; il riferimento normativo è rappresentato dall’art. 803 c.c., in particolare, per il caso di revoca di donazione per sopravvenienza di figli o discendenti del donante.

In base a una prima lettura sembrerebbe che l’unica differenza sia esclusivamente a livello di collocazione codicistica, in quanto la disciplina legata al testamento si trova in una sezione diversa del libro secondo. Tuttavia è bene notare come per il contratto di donazione, forse anche per la sua natura di atto inter vivos, non operi una revoca ope legis per il caso di sopravvenienza di figli.

In tale ipotesi, infatti, è lo stesso legislatore che con la locuzione “possono essere revocate”, mette in risalto non tanto l’esigenza di dover tutelare i figli di cui il donante ne ignorava l’esistenza, come accade per il testamento, bensì fornire al donante stesso la possibilità di effettuare una rivalutazione in un momento successivo all’atto con cui si è spogliato dei propri beni.

La stessa giurisprudenza[37] ha sostenuto che la revoca della donazione per sopravvenienza di figli risponda a un interesse del donante di “riconsiderare l’opportunità della donazione a fronte della sopravvenienza di un figlio, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento”. Anche in questo caso la ratio dell’istituto sembra quella di tutelare l’interesse superiore della famiglia, che si esplicita nel legame affettivo tra padre e figlio.

Più discusso, invece, è il riferimento ai soggetti per i quali possa intervenire la revocazione: ci si chiede, infatti, se la sopravvenienza ricomprenda i figli generati o anche gli adottati, e all’interno di quest’ultima ipotesi se l’adozione riguardi i minori di età o anche i maggiorenni e, in ultima ipotesi, i figli putativi.

Parte della dottrina[38] ritiene che sia opportuno non effettuare alcuna distinzione nel caso di adozione, pertanto sarebbe sempre ammesso un ripensamento da parte del donante. La giurisprudenza[39], invece, è contraria a ricomprendere l’adozione del maggiorenne tra le cause di revoca ex art. 803 c.c., in quanto l’obiettivo dell’istituto non è quello di proteggere la prole, ma di assicurare all’adottante la trasmissione del nome e del patrimonio.

Al riguardo si potrebbe obiettare che, proprio perché l’intenzione del donante/adottante sia quella di trasmettere il proprio patrimonio all’adottato maggiore di età, non sembra coerente che allo stesso non venga concessa la possibilità di revocare una precedente donazione, così da destinare il suo intero patrimonio al soggetto che ha scelto di adottare.

Altro punto su cui si discute e sul quale già nell’ipotesi prefigurata dall’art. 687 c.c. non sono mancati dubbi, riguarda la possibilità di equiparare il riconoscimento di figlio nato fuori dal matrimonio alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.

Anche in questo caso non mancano opinioni contrastanti: una parte della dottrina[40] ritiene che non possa esservi un’equiparazione, in quanto l’obiettivo è solo di tutelare la volontà del donante; altra dottrina[41] sostiene invece che la tutela dei figli nati fuori dal matrimonio, indipendentemente se riconosciuti volontariamente o giudizialmente, abbia un ruolo prioritario.

Relativamente ai figli nati dal matrimonio putativo, ex art. 128 c.c., sembra che la revoca sia ammissibile in quanto, nonostante l’annullamento del matrimonio, gli effetti favorevoli dello stesso si producono sempre rispetto ai figli[42].  

Infine ci si chiede se possa essere ammessa la revoca nell’ipotesi in cui il donante scopra l’esistenza di altri figli, potendo definire tale situazione come una “sopravvenienza parziale”.

A tal proposito la giurisprudenza[43] ha escluso la possibilità che il donante possa avere dei ripensamenti nel caso di nascita di ulteriori figli, in quanto non vi è un mutamento della veste genitoriale che il donante stesso già ricopriva nel momento in cui ha effettuato la donazione; in conclusione per poter operare la revoca è necessario che il donante sconosca la sua qualità di genitore tout court al momento della donazione. 

Ulteriore orientamento[44] ha precisato che, in tema di revocazione della donazione, la sopravvenienza di un nipote successiva a quella del genitore stesso, non opera come nuova causa di revocazione.

Quanto alle donazioni indirette, disciplinate dall’art. 809 c.c., si applicano le stesse regole in tema di donazione e pertanto anche relativamente a queste ultime, non può essere garantita una stabilità per il caso di sopravvenienza di figli[45].

Al riguardo, a differenza di quella diretta, bisogna porre l’attenzione sull’oggetto: ad esempio, qualora un figlio dichiara nell’atto di acquisto che il prezzo è stato pagato dai genitori, l’oggetto della donazione indiretta non sarà il denaro bensì l’immobile. In tale ipotesi il bene entrerà a far parte del patrimonio del donatario e in caso di azione di riduzione della donazione per lesione di legittima e successiva azione di restituzione, dovrebbe essere ricompreso nell’asse ereditario.

Ove invece il genitore versi una somma in favore del figlio e in un tempo successivo intervenga l’acquisto di un immobile da parte di quest’ultimo, la giurisprudenza[46] ritiene che non sarà possibile il recupero del bene dall’avente causa del donatario, in quanto oggetto della donazione sono le ingenti somme di denaro che possono essere utilizzate per diversi fini.

5. La disciplina sulla surrogazione di maternità surrogata, tra tecniche offerte dalla scienza e limiti interni

La maternità surrogata, definita dagli interpreti anche come surrogazione di maternità in base alla terminologia ricavata ex art. 12, comma 6 l. n. 40/2004, rappresenta un tema delicato che ancora oggi in Italia, oltre a essere in parte mancante di una disciplina garantista, in determinate ipotesi viene considerata una condotta penalmente perseguibile.

A fronte delle nuove esigenze della società e del progresso scientifico, grazie anche alle pronunce della Corte Costituzionale che saranno oggetto di successiva disamina, vi è stato un temperamento della legge n. 40/2004, che vietava qualunque tipo di forma di surrogazione.

Si rende necessario effettuare, in via preliminare, un’introduzione sulle tecniche di procreazione medicalmente assistita in quanto, sebbene il procedimento medico sia sempre il medesimo, le conseguenze giuridiche variano in base alla pluralità dei soggetti coinvolti prima, durante e dopo la gravidanza.

La fecondazione in vitro, sperimentata nel Regno Unito, ha per la prima volta permesso una scissione tra la figura della madre genetica e della gestante; da allora le tecniche giuridiche che permettono tale meccanismo sono molteplici e rientrano nel concetto di maternità surrogata[47]:

  • la fecondazione eterologa: nei casi in cui la donna riceve una donazione di ovociti o spermatozoi per la gestazione;
  • gestazione per altri “tradizionale”: nei casi in cui un bambino viene commissionato da genitori intenzionali, ma la gravidanza viene portata avanti da un’altra donna tramite un embrione formato (naturalmente o artificialmente) con materiale genetico di quest’ultima o di una donatrice, mentre gli spermatozoi provengono dal padre intenzionale oppure da un donatore;
  • gestazione per altri “gestazionale”: quando i genitori genetici fanno impiantare i loro embrioni su un’altra donna che porta avanti la gravidanza;
  • reception of oocytes from partner (r.o.pa.): che rappresenta un’ipotesi intermedia tra i due tipi di gestazione per altri: questa tecnica è destinata solamente alle coppie omosessuali di sesso femminile e consente a entrambe le componenti di condividere la maternità, in quanto la gestazione viene portata avanti da una donna tramite un embrione formato con il patrimonio genetico della moglie o compagna, dopo che l'ovulo è stato fecondato dallo sperma di un donatore.

Di rilevante importanza è distinguere se la donna gestante intende essere madre del bambino e la madre genetica non vuole esserlo: in tal caso abbiamo una PMA eterologa ex latere matris che, a seguito di una pronuncia giurisprudenziale[48], trova legittimità anche nell’ordinamento italiano, venendo così rimosso il divieto di fecondazione eterologa, qualora sia stata diagnosticata una patologia che provochi sterilità o infertilità assolute ed irreversibili. Anche se non è stato specificato in modo espresso, sembra che il divieto sia stato rimosso, sia in caso di donazione di seme maschile che di gamete femminile.

Nell’esaminare la pronuncia suddetta si può immediatamente scorgere come l’apertura del legislatore avvenga nei casi in cui vi siano situazioni che non permettono a una coppia di avere prole per cause patologiche e non volontarie, sebbene la possibilità dell’utilizzo della procreazione medicalmente assistita sia stata estesa dalla Consulta[49] anche a quelle coppie fertili, ma affette da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni.

Ciò comunque consente in Italia di poter accedere alla fecondazione eterologa, configurando un rapporto di genitorialità non fondato sul legame genetico con i figli e alternativo all’istituto dell’adozione.

In dottrina[50] si ritiene che in tale ipotesi il consenso rappresenti l’elemento determinante per far assumere ai genitori la responsabilità genitoriale nei confronti dei nascituri sin dal momento del loro concepimento.

L’ampliamento delle possibilità di praticare alcune tecniche di procreazione medicalmente assistita, a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, non ha comunque riguardato la gestazione “per altri”, per la quale permane un divieto legislativo accompagnato da sanzioni penali.

Alcune pronunce giurisprudenziali[51] hanno tuttavia posto dei limiti alle sanzioni: sotto un profilo soggettivo non sono penalmente perseguibili la donna gestante e la madre, in quanto non sono considerate soggetti attivi del reato; mentre sotto un profilo oggettivo, non si ritengono punibili le condotte poste in essere all’estero.

Per gli operatori sanitari è invece prevista una sanzione amministrativa per ogni ipotesi di procreazione medicalmente assistita applicata a coppie di donne o ad una donna single; in particolare, l’art. 12 comma 2 l. n. 40/2004 vieta l’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno dei cui componenti sia minorenne ovvero che siano composte da soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi. 

6. Incidenza della giurisprudenza europea sull’asset testamentario italiano e considerazioni conclusive.  

Nonostante a livello europeo molte di queste pratiche siano ammesse, tuttavia sussiste in Italia il divieto di porre in essere gran parte delle tecniche legate al fenomeno della maternità surrogata. Difatti i cittadini italiani potrebbero recarsi in uno stato estero e scegliere di avere figli tramite la surrogazione di maternità, con conseguenze giuridiche anche interne.

Il panorama internazionale, tuttavia, non offre una linearità sulla legittimità del ricorso alla gestazione per altri: sono infatti presenti delle discrasie in merito ai limiti di liceità di tale pratica, con particolare riguardo sia ai luoghi dove essa è vietata, sia alla possibile applicazione di sanzioni, che variano dall’ambito penale a quello amministrativo.

L’esigenza di tutela dello status di minori nati tramite la maternità surrogata è sempre maggiore e potrebbe portare una nuova concezione di filiazione, che si allontana dai più tradizionali metodi conosciuti.

Di notevole importanza è una pronuncia della Corte di Strasburgo[52] la quale ha stabilito che gli Stati sono tenuti a garantire il riconoscimento legale del rapporto tra madre intenzionale e figlio nato da maternità surrogata.

Altro dato normativo da tenere in considerazione è l’art. 8 della CEDU, fonte di tutela dell’identità personale e della vita privata del minore, che si realizza tramite il riconoscimento da parte delle autorità nazionali del legame con i genitori che, malgrado il divieto legislativo interno, ricorrono all’estero alla maternità surrogata.

Alla luce di ciò, sebbene ogni ordinamento può limitare o escludere la possibilità di ricorrere alla surrogazione di maternità, per gli Stati facenti parte dell’Unione Europea il margine di discrezionalità rimane ridotto, in quanto deve assumere un ruolo primario l’interesse del minore.

Il mancato riconoscimento della filiazione avrebbe infatti notevoli risvolti negativi anche in ambito successorio. A tal proposito il ruolo della giurisprudenza europea è quello di monitorare le condotte dei singoli stati membri: la Corte EDU ha sottolineato, ad esempio, che eccede il margine di apprezzamento statale il rifiuto delle autorità francesi di riconoscere il rapporto di filiazione fra padre biologico e figli nati mediante procedimenti di maternità surrogata all’estero.

In dottrina[53] è stato evidenziato che allo stato attuale, in base alla legge italiana il nato da maternità surrogata sarebbe considerato figlio della madre gestante e non dei committenti, e pertanto sarebbe arduo poter procedere al riconoscimento.

Quando si procede con la maternità surrogata sarà dunque necessario valutare che la normativa dello Stato in cui viene praticata attribuisca il rapporto di genitorialità ai committenti; successivamente, per stabilire il rapporto di filiazione, si dovrà procedere con una verifica di compatibilità con i principi di ordine pubblico interno tenendo in considerazione l’art. 18 del D.P.R. n. 396/2000, che prevede un limite alla trascrizione degli atti dello stato civile formati all’estero, ove contrari all’ordine pubblico.

Sulla base di tale normativa, gli ufficiali di stato civile tendevano a negare il riconoscimento del rapporto di genitorialità e la trascrizione dei certificati di nascita dei figli nati all’estero tramite la maternità surrogata.

A sostegno di tale atteggiamento ostativo è intervenuta una prima pronuncia di legittimità[54] con la quale si esclude la possibilità di dare efficacia ad un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore d’intenzione; tale orientamento trova il suo fondamento legislativo nel divieto, ex art. 12, comma 6 l. n. 40 del 2004,  che rappresenta un principio di ordine pubblico, posto a salvaguardia di valori fondamentali quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione. Nello specifico, la tutela del bambino nato da maternità surrogata si realizzerebbe solo col ricorso del genitore d’intenzione all’adozione, prevista dalla l. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), e non mediante l’automatica trascrizione dei provvedimenti stranieri che riconoscono lo stato di filiazione.

Tale tecnica, tuttavia, presenta una serie di criticità: primariamente all’adottando non spetta mai l’iniziativa per ottenere lo status di figlio, e ciò si differenzia dal riconoscimento che può avvenire su richiesta del figlio, giudizialmente ex art. 269 c.c., a seguito della quale può ottenere una sentenza avente natura dichiarativa con efficacia ex tunc. Secondariamente, il conseguimento del rapporto di filiazione non essendo collegato alla nascita ma ad un provvedimento giudiziale, presenta sempre un carattere di incertezza legato a una valutazione discrezionale di un terzo soggetto. 

Una recentissima giurisprudenza[55] di legittimità è intervenuta in materia sostenendo che la maternità surrogata, anche se in forma gratuita, sia offensiva per la dignità della donna e pertanto non sarà possibile ottenere il riconoscimento del nato come figlio della coppia; dunque, per l’ordinamento italiano, sarà considerato genitore unicamente quello che ha dato il proprio apporto biologico e non anche il partner che ha condiviso il percorso che ha condotto al concepimento.

In particolare gli Ermellini sanciscono che: “l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a “reclamare diritti” sul bambino che nascerà, non ha cittadinanza nel nostro ordinamento. Di conseguenza, l’ufficiale di stato civile è tenuto a rifiutare la trascrizione degli atti di nascita stranieri che riconoscono il rapporto di genitorialità tra un bambino nato a seguito di maternità surrogata e il genitore d’intenzione (che non ha alcun rapporto biologico con il minore) per contrarietà all’ordine pubblico internazionale.”

Ad oggi dunque, in attesa di un intervento da parte del legislatore, l’unica possibile soluzione è procedere con la c.d. stepchild adoption: tale tipologia di adozione permette al genitore non biologico di adottare il figlio, naturale o adottivo, del partner, al fine di tutelare il diritto del minore al mantenimento dello status di figlio.

La ratio di tale scelta si fonda sul superiore interesse del minore, che l’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza indica come “preminente rispetto a qualsiasi altro aspetto, quando devono essere prese delle decisioni che riguardano minori di età.

Per quel che riguarda l’incidenza della maternità surrogata nel diritto successorio italiano e in particolare sulla revocazione per sopravvenienza di figli nati attraverso tale strumento, bisogna effettuare delle distinzioni: se non vi è dubbio che i figli nati con la fecondazione eterologa siano considerati eredi legittimi a tutti gli effetti e pertanto rientrano nei soggetti per i quali è ammessa la revocazione ex art. 687 e 803 c.c., negli altri casi non mancano gli interrogativi.

Il mancato riconoscimento della filiazione all’estero comporterebbe che i figli nati tramite un contratto di maternità surrogata non possano essere eredi legittimi, né tantomeno necessari, dei genitori intenzionali e della loro famiglia; dunque, solo se beneficiari di disposizioni testamentarie, avrebbero la possibilità di ricevere sostanze ereditarie ma comunque sarebbero “estranei” rispetto ai genitori. Una tale disparità si estenderebbe altresì sul piano fiscale per l’impossibilità di applicare le franchigie previste in favore dei parenti in linea retta, i quali godono di agevolazioni fino a una determinata soglia che al momento è pari a un milione di euro per coniuge e discendenti, e di un milione e mezzo in caso di discendenti affetti da disabilità.    

Pertanto, allo stato attuale, per disciplinare il trattamento successorio dei figli nati da maternità surrogata è necessario ricorrere alle norme in tema di adozione; al riguardo, è recentemente intervenuta una pronuncia della Corte Costituzionale[56], con la quale è stato rimosso l’impedimento al riconoscimento dei rapporti civili con i parenti dell’adottante, abrogando così l’art. 55 l. n. 184 del 1983, in casi particolari quali l’adozione del figlio nato da maternità surrogata.

In tal modo, così come nell’adozione ordinaria ex art. 6 della suddetta legge, l’adozione permette a tutti gli effetti l’ingresso dell’adottato nella famiglia dell’adottante, mirando a dare piena attuazione al principio di unità dello stato di figlio. Ciò rappresenta una “svolta” in quanto attribuisce all’adottante diritti successori verso l’adottato; inoltre, a seguito dell’applicazione della normativa dell’adozione ai casi di maternità surrogata, anche in queste ipotesi la revoca del testamento o della donazione per sopravvenienza di figli sarà attuabile.         

In conclusione una soluzione potrebbe essere rappresentata da un intervento legislativo volto a garantire una maggiore tutela, al fine di evitare situazioni paradossali, come l’impossibilità di riconoscimento di bambini nati all’estero da committenti italiani, che si ritroverebbero ad essere considerati giuridicamente estranei a questi ultimi, pur essendo presente sul piano pratico l’affectio familiaris. In tal modo si darebbe preminenza al rispetto dei valori della persona universalmente riconosciuti, come il benessere del minore, l’uguaglianza di genere e la libertà riproduttiva.


Note e riferimenti bibliografici

[1] M. BIANCA, Diritto civile, Le successioni, Milano, 2015, 381.

[2] Cass. sentenza 9 aprile 2008, n. 9274.

[3] G. BONILINI – F. TOMMASEO, Dell’amministrazione di sostegno, Artt. 404-413, Milano, 2008, 437. 

[4] G. D’AMICO, Revoca delle disposizioni testamentarie, Milano, 1989, 284.

[5] L. FERRI, Revoca (dir. priv.), in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 197.

[6] S. ROMANO, Revoca (dir. priv.), in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, 809.

[7] A. CICU, Testamento, Milano, 1951, 17.

[8] M. TALAMANCA, Successioni testamentarie, Art. 679 - 712 c.c., in Comm. Cod. Civ. Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1965, 20.

[9] Cass., sentenza 20 marzo 1986, n. 1964; Cass., sentenza 9 ottobre 2013, n. 22983.

[10] M. ALLARA, La revocazione delle disposizioni testamentarie, Napoli, 2012, 116.

[11] G. AZZARITI, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, 637.

[12] G. CAPOZZI, Successioni e donazioni, Milano, 2015, 988.

[13] Cass., sentenza 22 marzo 2012, n. 4617.

[14] Cass., sentenza 10 ottobre 2012, n. 17267.

[15] G. AZZARITI, op. cit., 641.

[16] Cass., sentenza 22 novembre 1995, n. 12098 e Cass., sentenza 24 febbraio 2004, n. 3636.

[17] G. GIAMPICCOLO, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, 369.

[18] Cass., sentenza 20 luglio 1962, n. 1950.

[19] C. GANGI, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1952, 341.

[20] M. BIANCA, La famiglia e le successioni, Milano, 1985, 631.

[21] M. TALAMANCA, op. cit., 5.

[22] G. BONILINI, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2014, 296.

[23] Cass, sentenza 5 gennaio 2018, n. 169.

[24] Cass., sentenza 9 marzo 1996, n. 1935.

[25] A. ALBANESE, Della revocazione delle disposizioni testamentarie, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna, 2015, 138.

[26] Cass. civ., sentenza 5 gennaio 2018, n. 169.

[27] Corte App. di Roma, sentenza 18 settembre 2013, n. 4889.

[28] F. GAZZONI, Una sentenza con “motivazione suicida” da inumare (figlio naturale dichiarato, cadavere esumato e testamento revocato), in Dir. fam. 2008, 1835.

[29] Cass. civ., sentenza 21 maggio 2019, n. 13680.

[30] F. SANTORO – PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 246.

[31] M. TALAMANCA, op. cit., 205.

[32] A. PALAZZO, Le successioni, Milano, 2000, 831.

[33] A. BUTERA, Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Torino, 1940, 608.

[34] A. PALAZZO, op. cit., 832.

[35] Cass. civ. sez. II, sentenza 28 luglio 2017, n. 18893.

[36] G. CAPOZZI, op. cit., 1001.

[37] Cass., sentenza 2 marzo 2017, n. 5345.

[38]G. BONILINI, Le donazioni, Milano, 2009, 1251.

[39]Cass., sentenza 4 maggio 2012, n. 6761.

[40]G. BRUNELLI - C. ZAPPULLI, Il libro delle successioni e donazioni, Milano, 1951, 680.

[41]C. GIANATTASIO, Delle successioni, Torino, 1980, 345.

[42]G. AZZARITI, op. cit., 857.

[43]Cass., sentenza 2 marzo 2017, n. 5345.

[44] Cass., sentenza 1 marzo 1994, n. 2031.

[45]Cass. civ. Sez. II, 5 maggio 2000, n. 5664.

[46]Cass. sentenza 12 maggio 2010 n. 11496.

[48] Corte cost., sentenza 10 giugno 2014, n. 162.

[49] Corte cost., sentenza 5 giugno 2015, n. 96.

[50]G. D’AMICO, La Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014, in Quaderni costituzionali, 2014, 663 ss.

[51] Corte App. di Messina, sentenza 18 luglio 2016; Cass. civ., 10 marzo 2016, n. 13525.

[52] Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson c. Francia.

[53] E. BERGAMINI, Problemi di diritto internazionale privato collegati alla riforma dello status di figlio e questioni aperte, 2015, 325.

[54] Cass. sez. un., sentenza 8 maggio 2019, n. 12193.

[55] Cass. sez. un., sentenza 30 dicembre 2022 n. 38162.

[56] Corte cost., sentenza 28 marzo 2022 n. 79.