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Pubbl. Ven, 3 Feb 2023

Gli incentivi fiscali nell´era della Global Minimum Tax

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Stefano Pesiri
Praticante AvvocatoLUISS Guido Carli



L’elaborato prende le mosse dalla crisi della fiscalità internazionale, analizzandone sommariamente le cause, per poi concentrarsi sull’analisi del nuovo tentativo di riforma promosso dall’OCSE e dal G-20, intorno al quale è stato raccolto il consenso di 137 Stati e che si spera possa dotare le autorità fiscali di strumenti finalmente in grado di rispondere ai nuovi modelli imprenditoriali. In particolare, l’attenzione verrà posta sui potenziali effetti che la riforma potrà avere non solo sul binomio Stati-multinazionali, ma anche sulla libertà degli Stati stessi di continuare a perseguire politiche fiscali del tutto autonome, soprattutto in relazione al tema degli incentivi fiscali, spesso componenti determinanti nel generale abbassamento della tassazione effettiva da scontare.


ENG

Tax incentives in the Global Minimum Tax era

The paper will start from the international taxation crisis, summarily analyzing its causes and then focusing on the analysis of the new reform attempt promoted by the OECD and the G-20, around which the consensus of no less than 137 states has been gathered and which may finally provide tax authorities with instruments capable of responding to the new business models. In particular, the focus will be on the potential effects that the reform may have not only on the state-multinational binomial, but also on the freedom of states themselves to continue to pursue fully autonomous tax policies, especially in relation to the issue of tax incentives, which often lead to a considerable lowering of the effective taxation to be paid.

Sommario: 1. Introduzione; 2. I problemi della fiscalità internazionale e la necessità di una riforma; 3. Pillar One e Pillar Two: un meccanismo innovativo per tassare le multinazionali; 4. L’Impatto della riforma sugli incentivi fiscali; 5. Conclusioni finali

1. Introduzione 

Il sistema tributario internazionale nasce per rispondere a specifiche esigenze che, nel corso del tempo, mutano al punto tale da richiedere nuovi e sostanziali adattamenti: con l’evolversi dei modelli imprenditoriali, infatti, le Convenzioni contro le doppie imposizioni, le quali per anni avevano retto il funzionamento del sottile equilibrio che presiede alla ripartizione dei diritti impositivi fra Stati, iniziarono a mostrare una serie di limiti. È stata per prima la globalizzazione, con la progressiva e inesorabile apertura dei commerci internazionali, che ha portato al centro dell’economia internazionale dei nuovi attori, le multinazionali, le quali si sono subito imposte come protagoniste indiscusse del nuovo secolo.

Il legame che ha unito i grandi gruppi di imprese alle politiche statali si è tradotto negli anni in un intreccio sempre più fitto, che ha visto le multinazionali imporsi come regolatori indiretti grazie alla capacità, ampiamente dimostrata nella pratica, di condizionare scelte e comportamenti di chi, in teoria, sarebbe chiamato a decidere “le regole del gioco”. Tale legame è stato reso ancor più evidente da quanto accaduto alle politiche fiscali: negli ultimi trent’anni, l’azione dell’OCSE e della Commissione Europea è stata rivolta al contrasto di quelle pratiche elaborate dagli Stati e meglio note come “pratiche concorrenziali dannose"; con tale appellativo si definiscono le condotte adottate dai regolatori, i quali, sfruttando l’assunto di base secondo il quale in materia di imposte ogni Stato è libero di determinare la propria politica fiscale, hanno sviluppato una serie di tentativi volti a rendere il proprio sistema attrattivo agli occhi degli investitori, nella speranza di trasformare il proprio territorio nel centro delle attività multinazionali.

La tendenza a ricorrere sempre più frequentemente a tali pratiche, nonché ad abbassare le aliquote impositive legate al reddito societario sempre di più, ha portato a parlare di “race to the bottom”, proprio per evidenziare la progressiva decrescita dei parametri legati alla tassazione delle imprese, e più in generale di “harmful tax competition”[3].

Infine, con l’avvento della digitalizzazione si è determinata una frattura insanabile rispetto al classico modello imprenditoriale: ciò ha determinato l’inevitabile crisi degli istituti che avevano guidato la ripartizione dei diritti impositivi fra Stati e dunque l’odierna incapacità di riallineare il luogo in cui i redditi vengono prodotti e quello in cui effettivamente vengono poi tassati. Da attività imprescindibilmente legate ad insediamenti materiali si è passati, infatti, al commercio a distanza ed al modello “e-commerce”, di cui le imprese della c.d. “New Economy” si sono fatte portavoce; in base al nuovo modello, ogni operazione viene realizzata sfruttando gli strumenti del mondo digitale, i quali ben permettono all’impresa di prescindere dall’avere una presenza tangibile nel territorio dello Stato ove sono localizzati i consumatori finali della propria attività.

Da tale situazione, unita alla pressoché totale assenza di armonizzazione intorno alle imposte dirette, è derivato il fenomeno del “profit shifting” di cui si sono rese protagoniste proprio le multinazionali, le quali, elaborando tecniche sempre più sofisticate di pianificazione fiscale, hanno iniziato a spostare artificiosamente i propri profitti da un luogo all’altro, seguendo l’andamento della variabile fiscale[4].

Su tali premesse le istituzioni internazionali, guidate dall’OCSE, hanno tentato di intraprendere un processo di riforma con l’obiettivo dichiarato arginare le tendenze in atto ormai da troppo tempo, introducendo una soglia minima alla competizione fiscale fra Stati e ideando meccanismi in grado di obbligare le multinazionali a pagare una “fair share of taxes”. Tale percorso, iniziato nel 2015 col progetto BEPS, trova (forse) oggi il suo compimento con la nuova riforma a due pilastri.

2. I problemi della fiscalità internazionale e la necessità di una riforma

Ad ottobre 2021, i leader di oltre 130 Stati si sono definitivamente impegnati a portare avanti il progetto di riforma della fiscalità internazionale promosso dall’OCSE e dal G20 e meglio noto come “Two Pillars Approach”[1]. Il pacchetto di misure previste propone una soluzione ad alcuni dei problemi che, stante l’incapacità dei regolatori nazionali e sovranazionali di dotarsi di strumenti idonei a fronteggiare i cambiamenti occorsi al modo di condurre le attività produttive e imprenditoriali, hanno minato il corretto funzionamento dei meccanismi ideati dall’OCSE a presidio della corretta ripartizione dei diritti impositivi fra gli Stati coinvolti.

Come si è avuto modo di accennare, gli effetti combinati di digitalizzazione e globalizzazione, uniti alla carenza di coordinamento fra le varie giurisdizioni, hanno finito per creare un clima favorevole all'elusione fiscale, di cui le multinazionali si sono dimostrate padrone attraverso la realizzazione di sapienti tecniche di pianificazione fiscale aggressiva.

Attraverso l'utilizzo delle suddette tecniche, le imprese hanno perseguito l'obbiettivo del continuo e reiterato spostamento dei profitti da giurisdizioni connotate da una pressione fiscale più elevata ad altre dimostratesi invece più compiacenti. Il risultato ultimo di tale processo è duplice: da un lato le multinazionali hanno tentato di minimizzare il più possibile il carico impositivo gravante sul gruppo, dall'altro, invece, le stesse hanno contribuito a destabilizzare il sistema fiscale internazionale, scatenando la concorrenza fiscale fra gli Stati coinvolti.

Volendo individuare il problema principale alla base del fenomeno appena descritto, sicuramente esso potrebbe risiedere nell'atteggiamento dei regolatori, i quali, piuttosto che fronteggiare la tendenza delle multinazionali a delocalizzare i profitti in base a valutazioni di costo/opportunità connesse alla variabile fiscale, hanno inteso adeguarsi alle esigenze delle imprese stesse, offrendo livelli di imposizione sempre più bassi e vantaggiosi nel tentativo di rendere il proprio sistema maggiormente attrattivo[2]

Da quanto sopra esposto emerge chiaramente che le vere beneficiarie della situazione attuale in cui versa la fiscalità internazionale siano proprio le multinazionali: queste, per anni, hanno realizzato condotte elusive che, sfruttando i mismatch esistenti tra i vari regimi impositivi, hanno condotto il gruppo a realizzare elevati risparmi di imposta. Per questo motivo, la riforma proposta dall’OCSE e dal G-20 intende introdurre meccanismi che permettano di neutralizzare la pianificazione fiscale aggressiva e, al contempo, limitare la “race to the bottom”, introducendo un limite al di sotto del quale nemmeno agli Stati più compiacenti è consentito andare. O meglio, volendo specificare tale ultima affermazione, è possibile affermare che uno dei pregi della riforma risieda proprio nell'aver ideato un sottile meccanismo di "azione e reazione": infatti, come si avrà modo di esporre nei paragrafi seguenti, la riforma non impedisce ai partecipanti di continuare ad offrire regimi impositivi al di sotto del minimo stabilito, ma idea un nuovo modo di ripartire i diritti impositivi prevedendo che, nell'ipotesi in cui uno Stato decida di imporre un livello di tassazione inferiore a quello accordato dalla nuova normativa, ci sia sempre un'altra giurisdizione pronta a tassare in via sussidiaria la parte di reddito non sufficientemente tassata.

Quanto esposto, nell'ottica di chi ha ideato tale sistema, dovrebbe conferire maggiore stabilità alla fiscalità internazionale, evitando che le future scelte di alcuni vanifichino gli effetti di un accordo globale. Infine, la riforma, nell’ambito del Pillar One, intende anche dotare le amministrazioni fiscali di strumenti idonei a recuperare il legame esistente fra luogo in cui la ricchezza viene prodotta e quello in cui la stessa deve essere tassata, evitando che le imprese dell’economia digitale continuino a sfruttare la dematerializzazione delle proprie attività come escamotage per spostare artificiosamente i propri profitti da una giurisdizione all’altra.

3. Pillar One e Pillar Two: un meccanismo innovativo per tassare le multinazionali

La riforma, dunque, propone un approccio alternativo che, poggiando proprio sui “Two Pillars”, intende non solo ammodernare il sistema tributario internazionale, ma anche garantire, fissare un limite alla tax competition e neutralizzare le tecniche più comuni di aggressive tax planning ideate dai gruppi multinazionali. Pur senza addentrarsi eccessivamente nei tecnicismi e nelle complessità che, inevitabilmente, un progetto come quello in esame comporta, è bene evidenziare, almeno sommariamente, il funzionamento dei due pilastri, al fine di poterne trarre poi le dovute conclusioni.

Il cosiddetto “Pillar One”, in particolare, viene suddiviso al suo interno in due sottoinsiemi (i cosiddetti “Amount A” e “Amount B”), ognuno dotato di propri specifici meccanismi di funzionamento e teso dunque al raggiungimento di altrettanti obbiettivi: l’Amount A, attraverso il criterio del “Nexus”, tenta di fornire alle amministrazioni finanziare uno strumento in grado di rilevare la “presenza digitale significativa dell’impresa”, cioè quella presenza economica continuativa e rilevante che ben si manifesta anche in assenza di insediamenti fisici. Dopo aver individuato tale presenza con una serie di regole sapientemente elaborate (c.d. “revenue sourcing rules”) e che variano in base alla tipologia di attività esercitata, lo stesso Amount A prevede la redistribuzione del 25% dei diritti impositivi relativi al reddito prodotto dalle multinazionali nelle giurisdizioni in cui il gruppo realizza ricavi pari almeno ad 1 milione di euro (che scendono a 250.00 euro per i Paesi con PIL inferiore a 40 miliardi)[5].

Se l’Amount A interviene a rimediare alla dematerializzazione delle attività produttive di cui le imprese dell’economia digitale si sono rese protagoniste, l’Amount B, invece, intende fornire criteri per l’individuazione del margine di redditività ordinario di operazioni connesse alla fornitura di beni e servizi digitali. Il criterio previsto dalla riforma interviene ex ante ad individuare la redditività ipotetica di un’operazione, evitando che, ex post, le suddette transazioni possano essere realizzate nell’ambito di gruppi multinazionali al fine di spostare artificiosamente i profitti realizzati. L’altro lato della riforma è invece rappresentato dal “Pillar Two”, il quale prevede l’introduzione di quella che è stata definita “global minimum tax”: trattasi della realizzazione del duplice obbiettivo descritto dall’OCSE nei vari Rapporti che negli anni si sono susseguiti e dalle stesse istituzioni europee, ossia dell’introduzione di un meccanismo in grado non solo di limitare la competizione fiscale fra Stati ma anche di far sì che le multinazionali paghino la dovuta quota di profitti, a prescindere dal luogo in cui decidono di insediare le proprie attività produttive.

La soglia minima di tassazione effettiva (“Effective Tax Rate” o ETR) che ogni gruppo multinazionale è chiamato a scontare in ciascuna delle giurisdizioni in cui esercita la propria attività, sempre che realizzi almeno 750 milioni di euro di fatturato globale, viene dunque fissata al 15%. Il funzionamento del meccanismo appena descritto viene assicurato attraverso la predisposizione di tre regole, tra loro interconnesse, di cui l’”Income Inclusion Rule” (IIR) rappresenta lo strumento principe, concretizzandosi nella possibilità di imporre una forma di tassazione complementare (top-up tax) sul delta reddituale non sufficientemente tassato[6]. Le altre due regole, ossia l’”Undertaxed Payment Rule” (UTPR) e la “Subject to Tax Rule” (STTR), il cui funzionamento viene opportunamente descritto nelle “GloBE Rules” pubblicate dall’OCSE, intervengono invece a salvaguardare il funzionamento del Pillar Two, assicurandosi che, anche nel caso in cui uno o più Stati non aderiscano alla riforma o decidano di disattenderla improvvisamente, sussista sempre e comunque un meccanismo di sicurezza in grado di impedire che il funzionamento dei nuovi criteri venga vanificato dalle scelte di un singolo Stato[7]

4. L’Impatto della riforma sugli incentivi fiscali

Alla base dei problemi della fiscalità internazionale vi è, ovviamente, l’idea che la tassazione rappresenti uno strumento dall’importanza critica nella realizzazione delle politiche fiscali dei singoli Stati: lo sfruttamento della leva fiscale, di fatti, è uno dei classici strumenti utilizzato dai governi per tentare di attrarre nuovi investimenti, rimediando alla carenza di risorse naturali o alle difficoltà che a livello industriale (e non solo) possono connotare quel territorio. Da tali premesse non può che discendere la necessità di predisporre un sistema che risulti il più attrattivo possibile agli occhi degli investitori, in modo da attrarre capitali che possano finanziare la spesa pubblica e dare impulso alla propria economia. È questa l’idea di base che si cela dietro alla concorrenza fiscale. Tuttavia, negli anni, quello che è un fenomeno fisiologico, per le ragioni appena esposte, si è trasformato in ricorso sfrenato a pratiche concorrenziali, tanto da far parlare, come ampiamente anticipato, di “harmful tax competition”.

Tra gli strumenti più utilizzati, oltre alle classiche esenzioni e all’imposizione di aliquote esclusivamente nominali, gli incentivi fiscali si sono fatti strada come strumento più che idoneo al perseguimento delle varie politiche fiscali.

Lo scopo per cui un governo decide di prevedere forme di tassazione agevolata, o per l’appunto di incentivi, possono essere le più disparate: è infatti possibile ravvisare nei vari sistemi tributari strumenti predisposti con il preciso fine di attrarre investimenti provenienti dall’estero, ma anche altrettanti espedienti per realizzare politiche più “nobili”, come quelli volti ad accelerare la transizione energetica o a promuovere lo sviluppo di aree geografiche arretrate sia da un punto di vista sociale che economico[8]. In tal senso, il vero problema della riforma in relazione a questo particolare argomento è che, allo stato attuale, non distingue gli incentivi fiscali in base allo scopo per il quale sono stati introdotti, valutando semplicemente l’effective tax rate scontato dal gruppo multinazionale in ogni singola giurisdizione in cui è presente.

In un certo senso, sembra che i regolatori internazionali, ravvisando l’urgenza di promuovere una riforma in grado di ridisegnare i connotati del sistema tributario internazionale e temendo allo stesso tempo che sollevare ulteriori perplessità al riguardo avrebbe provocato un inevitabile slittamento dell’accordo, abbiano inteso rinviare ad un momento successivo le ulteriori discussioni sul tema, decidendo dunque di trattare tutti gli incentivi fiscali allo stesso modo. Tuttavia, optando per tale soluzione, si è finiti per ignorare (più o meno volutamente) le conseguenze che la riforma potrebbe avere non solo sulle politiche fiscali degli Stati, ma anche, se non soprattutto, sulle scelte di investimento degli operatori economici.

A titolo esemplificativo, è sufficiente riportare alla mente del lettore gli incentivi fiscali volti alla promozione di politiche “green” da parte delle imprese, particolarmente diffusi negli ultimi anni poiché altrettanto urgente è la necessità che si perseguano condotte dirette ad attuare la transizione energetica; non vanno poi dimenticate tutte quelle misure che sono state ideate per promuovere aree connotate da una certa arretratezza economica o dalla carenza di un adeguato sviluppo industriale, e dunque sprovvisti dell’attrattività tipica dei Paesi fortemente sviluppati. Se l’attuale testo della riforma dovesse dunque essere confermato gli Stati sarebbero costretti a ridisegnare le proprie politiche fiscali, eliminando anche gli incentivi fiscali “più nobili” poiché controproducenti rispetto all’obbiettivo di attrarre capitali e investimenti entro i propri confini.

In base alle GloBE Rules, infatti, qualsiasi incentivo determinerebbe infatti una riduzione dell’ETR scontato dal gruppo e, conseguentemente, determinerebbe l’attivazione del meccanismo di tassazione complementare previsto nella forma della top-up tax.

Per intenderci meglio, è plausibile che i gruppi multinazionali smettano di perseguire determinati obbiettivi spinti dagli incentivi fiscali offerti, poiché gli stessi incentivi finirebbero per essere solo “apparenti”: qualora infatti grazie ad essi il gruppo dovesse riuscire a scontare una tassazione inferiore al minimo previsto dalla riforma, allora si attiverebbero le regole previste dal Pillar Two e l’impresa sarebbe comunque soggetta alla tassazione aggiuntiva. In nessun caso, dunque, all’impresa sarebbe consentito scendere al di sotto del 15%.

Conseguentemente, anche gli Stati perderebbero quella spinta a promuovere determinate politiche: in effetti, l’offerta di incentivi fiscali finirebbe per sostanziarsi non in una agevolazione per l’impresa, ma in una forma di rinuncia ad una fetta di base imponibile, la quale verrebbe poi comunque tassata dalla giurisdizione dove è attiva l’ultimate parent entity del gruppo in ossequio al meccanismo previsto dalla Income Inclusion Rule (IIR). Pertanto, risulta del tutto evidente come la questione relativa alla mancata differenziazione all’interno dell’ampio genus degli incentivi fiscali rappresenti una delle problematiche principali della riforma: allo stato attuale, come anticipato, nel Pillar Two non si prevedono strumenti idonei a differenziare gli incentivi fiscali in base alle ragioni per le quali sono stati introdotti e questo, guardando agli effetti nel lungo periodo, potrebbe vanificare molte delle politiche promosse dagli Stati europei (e non solo) negli ultimi anni.

5. Conclusioni

La riforma proposta dall'OCSE ha una serie innegabile di pregi. In primis, attraverso di essa si porta a compimento il percorso inaugurato con il progetto BEPS ormai quasi dieci anni fa, introducendo finalmente un limite alla competizione fiscale fra Stati e facendo in modo che le multinazionali, a prescindere dal luogo in cui scelgono di localizzare la propria sede, paghino la dovuta "fair share of taxes".

La riforma, in definitiva, segna al contempo la definitiva presa di coscienza parte dei regolatori dei problemi della fiscalità internazionale e un punto di non ritorno: una volta delineate le criticità e ideato un meccanismo apposito, tornare al caos generato dalle pratiche concorrenziali dannose sarà estremamente difficile. Tuttavia, è evidente che per capire se le scelte fatte saranno efficaci dovremo ancora aspettare l'effettiva attuazione della riforma stessa, la quale, come è ovvio che sia, non è affatto scevra da punti deboli.

In particolare, alla luce delle considerazioni esposte nel precedente paragrafo, è ragionevole ritenere che, seppur lo sforzo di promuovere una riforma in tempi (più o meno) brevi sia altamente apprezzabile, in futuro assisteremo ad ulteriori interventi tesi a ritoccare il testo della normativa, stante soprattutto la necessità di continuare il percorso di politiche virtuose intrapreso negli ultimi anni e dovendo dunque necessariamente predisporre strumenti in grado di differenziare gli incentivi fiscali in base alla ragione che si cela dietro la loro introduzione. Nel frattempo, non resta che attendere con forte curiosità la pubblicazione delle prime normative interne di attuazione delle regole contenute nei due pilastri.


Note e riferimenti bibliografici

[1] DOS SANTOS C., LOPES M., Tax Sovereignty, Tax Competition and the Base Erosion and Profit Shifting Concept of Permanent Establishment, EC Tax review, vol 5-6, 2016

[2] ASEN E., BUNN D., What European OECD Countries Are Doing about Digital Services Taxes, International Tax Foundation, 2021

[3 OECD, Report on Pillar One Blueprint, 2020 and OECD, Report on Pillar Two Blueprint, 2020. OECD, Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy,2021

[4]EUROPEAN COMMISSION, Fair Taxation of the Digital Economy, 2018 and DELIS M., DELIS F., LAEVEN L., ONGENA S., Global evidence on profit shifting: The role of intangible assets, CEPR, 2021.

[5] OECD/G20 Base Erosion and Profit Shifting Project, Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy, Global Anti-base erosion Model Rules, 2021.

[6] OECD, Tax Challenges Arising from the Digitalisation of the Economy – Global Anti-Base Erosion Model Rules (Pillar Two), 2022 and OECD, Overview of the Key operating provisions of the GloBE rules, 2021

[7] SCHMIDT P., A General Income Inclusion Rule as a Tool for Improving the International Tax Regime – Challenges Arising from EU PrimaryLaw, Intertax, vol.48, issue 11, 2020

[8] REDONDA A., The Global Tax Deal and Tax Incentives: What if the Cure Is Worse Than the Disease?, Council on Economic Policies, 2022.