Pubbl. Mer, 8 Feb 2023
L´origine e l´evoluzione della collaborazione di giustizia
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Claudia Migliazza
L’articolo analizza l’istituto della collaborazione di giustizia, quale strumento utile per la lotta alla mafia. Lo scopo, partendo da una breve ricostruzione del fenomeno mafioso come fenomeno culturale, al fine di comprendere al meglio il contesto di riferimento, è quello di delinearne le caratteristiche nonché i limiti. La collaborazione di giustizia, prima della recente riforma, rappresenta l’unico canale di accesso alla concessione dei benefici penitenziari.
The origin and evolution of judicial collaboration
The article analyzes the institution of judicial collaboration, as a useful tool for the fight against the mafia. The aim, starting from a brief reconstruction of the mafia phenomenon as a cultural phenomenon, in order to better understand the context of reference, is to outline its characteristics as well as limits. The collaboration of justice, before the recent reform, represents the only channel of access to the granting of penitentiary benefits.Sommario: 1. Premessa: la mafia come fenomeno culturale; 2. La collaborazione di giustizia: inquadramento; 2.1. Nascita ed evoluzione del fenomeno collaborativo; 3. La disciplina normativa; 4. La collaborazione utile; 4.1. La collaborazione irrilevante o impossibile; 5. Il programma di protezione; 6. I benefici penitenziari; 7. La magistratura di sorveglianza; 8. Il ruolo delle procure antimafia.
1.Premessa: la mafia come fenomeno culturale
Quando si parla di fenomeno mafioso si ha sempre l’impressione di imbattersi in un sistema aleatorio, poco definito o poco definibile: la riconoscibilità della mafia, e di ogni sua sfaccettatura, consente alla legge di salvaguardare la collettività dal disgregamento della democrazia e affermare con forza la legalità[1].
La mafia può immaginarsi come «un insieme di organizzazione criminali […] che agiscono all’interno di un vasto e ramificato contesto relazionale, configurando un sistema di violenza e illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere, che si avvale di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale»[2].
Una tale definizione è frutto di uno studio interdisciplinare che individua il modello criminale nella sintesi del rapporto tra le forme organizzate di criminalità mafiosa e l’ambiente sociale in cui operano[3].
Il fenomeno mafioso, quindi, può essere definito come «un fenomeno complesso, in cui emergono, ovviamente, elementi di tipo giuridico – giudiziario, ma anche aspetti sociali, economici, politici e culturali»[4]. La mafia viene definita come un’organizzazione sui generis per la sua «naturale propensione ad interagire con il contesto ad essa circostante: questa capacità ne rappresenta un vero e proprio patrimonio genetico, che consente all’associazione di radicarsi sul territorio, di consolidare il proprio raggio di influenza, di accrescere il proprio potere, di sviluppare nuovi legami, di tessere rapporti con il mondo legale[5].
Centrale, ai fini dell’analisi sul crimine organizzato di tipo mafioso, risulta la “contiguità”: «la forza della mafia è all’esterno della mafia […] sono le relazioni esterne dei mafiosi che costituiscono in definitiva la loro forza, la loro capacità di adattamento, di radicamento e diffusione (cd. “area grigia”)[6].
Nel nostro ordinamento, l'associazione di tipo mafioso, come ipotesi criminosa, viene introdotta con Legge 13 settembre 1982, n. 646 (nota come Legge Rognoni-La Torre) in particolare al suo articolo 1. Tale legge introduce nel codice penale l’art. 416-bis, rubricato “associazione di tipo mafioso”[7].
Il nuovo modello punitivo è stato considerato come «un punto di svolta nella storia giuridica italiana perché, sul presupposto che le consorterie mafiose integrano, al di là delle forme diverse di cui talora si rivestono, un fenomeno unitariamente apprezzabile di criminalità organizzata, allestisce uno strumento di contrasto penale decisamente innovativo»[8]. L'associazione di stampo mafioso presenta tre caratteristiche principali: il metodo intimidatorio, il quale si avvale della violenza; il finalismo preparatorio delle risorse economiche; la trasformazione incessante della accumulazione della ricchezza ai fini della commissione di nuovi delitti[9]. Tali caratteristiche emergono dalla lettura dell’art. 416-bis c.p., dal quale affiorano, oltre alla forza intimidatrice, la condizione di assoggettamento ed omertà: cd. metodo mafioso.
L’art. 416-bis c.p. è stato introdotto in quanto, il già esistente art. 416 c.p.[10] rubricato “associazione per delinquere” utilizzato fino al 1982, non era sufficiente a combattere la criminalità organizzata; in quanto tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo vi erano anche alcune attività lecite e ciò costituiva un limite alla stessa applicazione. Tuttavia, non diversamente dall’associazione a delinquere comune, anche quella a stampo mafioso presuppone “l'organizzazione”, essendo necessaria l'esistenza stabile e permanente di una struttura capace di perpetuarsi nel tempo, tale da porsi del tutto autonoma rispetto all'attività preparatoria ed esecutiva dei delitti-fine[11] La forza intimidatrice che deriva dal vincolo associativo è un elemento essenziale ai fini della radicazione della mafia nel contesto storico e culturale; tale elemento non si sostituisce alla struttura organizzativa ma va ad aggiungersi a questa12].
Oggi, l’evoluzione della criminalità organizzata e le nuove forme hanno obbligato la normativa esistente ad adeguarsi e riconoscere le formazioni sociali ove si svolge l’attività delittuosa, per tale motivo la precedente rubrica “Associazione di tipo mafioso” è stata soppiantata dalla nuova rubrica “Associazioni di tipo mafioso anche straniere” per poter ricomprendere le ipotesi presenti anche al di fuori del territorio nazionale[13].
La tipicità di tale modello delittuoso è da rinvenire nel “metodo mafioso”, strumento di intimidazione che induce alla sudditanza psicologica e all'omertà[14]. La capacità di intimidazione non deve essere solo potenziale bensì effettiva e riscontrabile[15].
Il metodo mafioso non deve essere confuso con l'autorevolezza dei soggetti nella comunità locale e risulta necessario accertare che l'associazione sia radicata in un determinato territorio.
L' assoggettamento e l’omertà non sono semplici corollari dell’intimidazione bensì effetti a questa ricollegabili attraverso un nesso causale[16].
L' assoggettamento, nel suo significato letterale, denota la «condizione di soggezione psicologica dettata da uno stato di sottomissione posto in essere da una associazione mafiosa, ex art. 416-bis»[17]. Ci si riferisce a soggetti estranei al meccanismo criminale, i quali, per paura e di conseguenza privati del loro potere decisionale, possono essere indotti a comportamenti conformi alla volontà dell’associazione[18].
L’omertà[19], invece, è un profilo peculiare dell'assoggettamento: consiste nell’indisponibilità a prestare collaborazione agli organi di Giustizia e dello Stato per timore di reazioni violente da parte dell’organizzazione criminale[20]. L'assoggettamento e l'omertà devono riscontrarsi all'esterno dell’associazione.
Per quanto attiene, poi, alle finalità perseguite dall’associazione mafiosa, l'articolo 416-bis delinea quattro scopi perseguibili, tra loro cumulabili, che non necessariamente devono essere realizzati ma che possono anche rimanere sul piano programmatico. La norma prevede: la commissione di delitti, basati sulla forza intimidatrice nella loro commissione; la finalità di monopolio, tradotta alla dottrina in “mafia imprenditoriale”; la realizzazione di profili o vantaggi ingiusti per sé o altri e, infine, la finalità politico-elettorale che può esplicarsi in varie direzioni. La finalità politico-elettorale si estrinseca in quattro direzioni; in particolare, i membri di un sodalizio mafioso perseguono tali finalità avvalendosi della carica intimidatoria per: impedire il libero esercizio del voto, ostacolare il libero esercizio del voto, procurare voti a sé stessi, procurare voti ad altri[21].
Una finalità di grande rilievo che merita, seppur in sintesi, particolare attenzione è la “mafia imprenditoriale” che vede il fenomeno mafioso assumere sembianze di una vera e propria organizzazione imprenditoriale.
In via simbolica, l’espressione “impresa mafiosa” rappresenta il passaggio da una visione statica ad una dinamica. La prima si concentra su una visione personale e padronale del potere, la seconda sullo sfruttamento economico[22].
Il paradigma “mafia-impresa” è, quindi, collegato ad una entità di carattere economico che opera sul territorio e negli stessi settori di altre imprese, con una serie di vantaggi derivanti dall’utilizzo della capacità di intimidazione derivante dal metodo mafioso[23]. Quando si parla di impresa mafiosa, però, è opportuno porre una distinzione fondamentale tra impresa mafiosa tradizionale[24] e impresa a partecipazione mafiosa[25]. Vengono, quindi, individuati due differenti modelli di interazione tra il mondo del crimine e quello di impresa; tra le due tipologie la più pericolosa, appare la seconda, in quanto attraverso il sistema della “compartecipazione” aziendale, l’infiltrazione dei gruppi mafiosi nell’economia legale avviene in modo mascherato, conferendo la titolarità dell’attività imprenditoriale ad un mero prestanome, in apparenza estraneo alle logiche criminali dell’associazione mafiosa e formalmente autonomo dal sodalizio[26].
2. La collaborazione di giustizia: inquadramento
Il collaboratore di giustizia è definito come quel soggetto appartenente ad un’organizzazione criminale di tipo mafioso (o terroristico) che decide, a seguito della sua cattura, di rilasciare alle autorità inquirenti confessioni o informazioni utili alle indagini, dissociandosi dall’organizzazione[27].
Prima della sua codificazione, tale figura, dal punto di vista teorico, era già presente nell’ordinamento ma, oggi e solo dal 1984, gli viene riconosciuta una funzione fondamentale nella lotta concreta alla criminalità organizzata.
Lo Stato assicura protezione a coloro i quali scelgono di collaborare con la giustizia ed ai loro familiari, al fine di preservarne l’incolumità personale.
Gli ultimi dati (2018) vedono circa seimila persone sottoposte a programmi di protezione, non facendo riferimento ai soli “pentiti”[28] ma anche ai loro familiari[29]. Nonostante la normativa regolatrice della materia, che verrà esaminata nei prossimi paragrafi, la sottoposizione ad un programma di protezione rende la vita del soggetto impossibile[30]. Entrando in un programma di protezione, infatti, si impone al soggetto un nome di copertura che, non corrispondendo al vero, non è legalmente riconosciuto e, per tale motivo, vi è l’impossibilità, tra gli altri, di utilizzo di titoli di studio a fini lavorativi[31].
Infine, la figura del collaboratore di giustizia non deve essere confusa con quella del testimone di giustizia. Questi ultimi, infatti, a differenza dei primi, non hanno alcun rapporto, se non fortuito o legato a ragioni professionali, con l’organizzazione criminale cui si riferiscono[32]. Nel caso del testimone di giustizia, quindi, non vi è una testimonianza per interessi bensì, vi è, in capo al soggetto, la volontà di ripristinare la legalità mettendo a repentaglio la propria vita in nome della libertà.
2.1. Nascita ed evoluzione del fenomeno collaborativo
«Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. Ma dagli anni ’70 in poi questa associazione, cd. “Cosa Nostra”[33], ha sovvertito l’ideale, poco pulito per la gente che vive dentro la legge, ma tanto bello per noi che viviamo in questa associazione, cominciando con delle cose che non erano più consone all’ideale di “Cosa Nostra”; con delle violenze che non appartenevano più a quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui appartenevo. Quindi non sono un pentito».
Era il 1984 e Tommaso Buscetta diventava il primo grande pentito della storia della mafia.
Nonostante si faccia combaciare la nascita della figura del pentito di mafia alla confessione di Tommaso Buscetta e, quindi al 1984, le radici del fenomeno sono da ricercare in tempi più remoti.
Si può, ad esempio, ricordare il caso di Melchiorre Allegra, appartenente al clan mafioso “Cosa Nostra” che, nel 1937, descrisse, per la prima volta ed in modo organico, la struttura dell’organizzazione criminale. A tale fenomeno isolato, considerata anche la mancanza di una disciplina specifica di contrasto al fenomeno mafioso[34], non si riconobbe rilevanza pratica[35].
Altro episodio isolato si verificò nel 1950 con Stefano Castagna, affiliato della ‘Ndrangheta[36], che consegnò alla polizia un elenco degli appartenenti alla mafia calabrese[37]. Anche in questa occasione la mancanza di una disciplina organica del fenomeno e l’irrilevanza sul potere del clan non portarono al riconoscimento della figura del collaboratore di giustizia.
3. La disciplina normativa
La disciplina normativa sulla figura del collaboratore di giustizia ha origine nel 1980. La prima legge a prevedere sconti di pena, infatti, è la n. 15 del 6 febbraio 1980, cd. Legge Cossiga, la quale, però, veniva applicata ai soli terroristi. Tale norma diede un importante impulso alla lotta contro il terrorismo, prima, e a quella contro la criminalità organizzata, poi, sebbene molto criticata in quanto concedesse benefici a criminali di primo piano[38]. Tra i soggetti che beneficiarono di tale norma possiamo ricordare Patrizio Peci[39] e Roberto Sandalo[40].
Per quanto riguarda la normativa concernente la lotta alla criminalità organizzata a stampo mafioso, la prima norma specifica si deve all’influenza dei giudici Antonino Scopelliti e Giovanni Falcone. Il 15 gennaio 1991, infatti, a seguito dell’omicidio di Rosario Livatino[41] e Rocco Chinnici[42], venne emanato il d. l. n. 8/1991, convertito, con modificazioni, in legge il 15 marzo 1991, n. 82. Questa normò, per la prima volta, la figura del collaboratore di giustizia[43].
La legge introduceva un sistema di protezione per tutelare e assistere i collaboratori, i testimoni di giustizia ed i loro familiari, posti in condizione di grave pericolo per le dichiarazioni rese agli inquirenti. La legge prevedeva anche un programma speciale di protezione[44], contenente misure tutorie, assistenziali e di recupero sociale straordinarie[45]. La peculiarità di tale legge risiede nella particolare scelta del legislatore di utilizzare un decreto legge, ossia quella forma legislativa utilizzata, ex art. 77 Cost., in condizioni di necessità ed urgenza. La scelta, tuttavia, fece discutere in quanto il fenomeno mafioso, espandendosi sul territorio, non presentava, assolutamente, il carattere emergenziale.
La normativa in materia fu, successivamente, modificata dalla legge n. 45 del 13 febbraio 2001 che introdusse la figura del testimone di giustizia, prima, erratamente, assimilata alla figura del collaboratore di giustizia.
La novella ebbe rilievo in quanto modificò i reati in relazione ai quali è, ad oggi, possibile far valere la collaborazione di giustizia, sostituendo l’elenco previsto dall’art. 9 co. 2 l. 82/1991, e rilevando, oltre alle fattispecie criminose dirette all’eversione dell’ordinamento democratico, i reati previsti dall’art. 51 co. 3bis c.p.p.[46].
L’art. 2 l. 45/2001 specifica che «le speciali misure di protezione sono applicate quando risulta l’inadeguatezza delle ordinarie misure di tutela adottabili direttamente dalle autorità di pubblica sicurezza o, se si tratta di persone detenute o internate, o dal Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e risulti altresì che le persone nei cui confronti esse sono proposte versino in grave e attuale pericolo». Vi è, quindi, un duplice livello di protezione: le cd. misure speciali di protezione per cui è competente la Commissione centrale e quelle previste dalla L. 80/1991.
L’art. 5 L. 45/2001 prevede, poi, un principio cardine, ossia il rispetto, da parte dei collaboratori di giustizia, di tutti gli oneri sottoscritti, pena la revoca o la sostituzione delle misure tutorie e assistenziali[47].
Di particolare rilevanza risulta l’indicazione di un rigoroso limite temporale entro cui può dispiegarsi la collaborazione: 180 giorni decorrenti dalla manifestazione di volontà a collaborare.
Alla luce di tali disposizioni possiamo affermare che il legislatore ha voluto suddividere la materia in quattro momenti principali: - il momento tutorio assistenziale[48], - il momento di diritto penale sostanziale[49], - il momento di diritto penale processuale[50], - il momento penitenziario[51]. Tale semplificazione ha valore meramente esplicativo.
La condotta collaborativa viene posta in essere con tre modalità, definite dalla dottrina come tripartizione classica: - la confessione[52], - la testimonianza[53], - la chiamata del correo[54].
4. La collaborazione utile
Con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152 è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario[55] l’art. 58-ter ord. pen., il quale recita testualmente: «i limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’art. 21, dal comma 4 dell’art. 30-ter e dal comma 2 dell’art. 50, concernenti le persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater dell’art. 4-bis, non si applicano a coloro che, dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati. Le condotte indicate dal comma 1 sono accertate dal Tribunale di Sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero, presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione».
Dalla lettura della norma emerge la sua valenza di “clausola di salvezza”, volta, inizialmente, ad esonerare i condannati collaboranti dall’applicazione delle disposizioni che inasprivano i termini per l’accesso ai benefici penitenziari[56].
Rilevante risulta la scelta di ampliare la possibilità di collaborazione anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
L’articolo in commento deve essere letto in combinato disposto con l’art. 4-bis co. 1 e 1bis ord. pen., in quanto la collaborazione risulta “oggettivamente non rilevante”, ossia una collaborazione che si traduca in un contributo utile per lo sviluppo delle indagini e l’accertamento dei fatti e delle responsabilità[57].
La valutazione della sussistenza della condotta spetta al Tribunale di Sorveglianza[58] ed è possibile distinguere, come emergente dalla norma, due tipologie di condotta collaborativa: l’evitare ulteriori conseguenze derivanti dalla condotta delittuosa e l’aiuto concreto all’autorità investigativa, ossia una condotta che porti ad un danno effettivo all’organizzazione[59].
4.1 La collaborazione irrilevante o impossibile
L’art. 4-bis ord. pen. prevede che i benefici penitenziari possano essere concessi anche a soggetti la cui collaborazione risulti irrilevante, a condizione che sia possibile escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Un contributo collaborativo concretamente inutile ai fini dell’indagine consente di derogare al divieto di concessione dei benefici, in quanto la pericolosità sociale risulta attenuta dalla volontà del soggetto di collaborare[60].
L’articolo in commento, oltre alla collaborazione irrilevante, fa riferimento alla collaborazione impossibile: vengono riconosciuti i benefici a quei soggetti che pongono in essere collaborazione ma che, per la limitata partecipazione al fatto criminoso, risulti, appunto, impossibile[61].
Inizialmente, la Corte Costituzionale con sentenza 306/1993[62] definisce la collaborazione impossibile come irrilevante. Successivamente, la stessa Corte Costituzionale, con le sentenze 357/1994[63] e 68/1995[64], opera un drastico cambio di rotta, prevedendo la possibilità di concedere benefici penitenziari e misure alternative anche al condannato impossibilitato a fornire un’utile collaborazione.
5. Il programma di protezione
Il programma di protezione, introdotto con L. 82/1991, prevede due elementi significativi: - i soggetti vengono trasferiti in una località sicura e al riparo da atti ritorsivi; - viene garantito l’anonimato alle persone coinvolte[65]. In casi particolari e di estrema esposizione al pericolo, il programma può prevedere un contenuto straordinario. Altro elemento tipico del programma di protezione è la previsione di misure di assistenza economica[66].
A norma dell’art. 11 co. 1, il potere di avanzare la richiesta di concessione del programma fa capo al Procuratore della Repubblica titolare dell’ufficio presso cui è radicato il procedimento interessato. Il contenuto del programma concretamente adottato è determinato da un decreto del Ministro degli Interni di concerto con il Ministro della Giustizia, sentiti i pareri del Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica e della Commissione centrale di protezione.
Il sistema di protezione, infatti, prevede il coinvolgimento di tre soggetti: - l’Autorità giudiziaria, che avanza la proposta di programma di protezione; - la Commissione Centrale, organo politico – amministrativo con poteri decisionali, cui spetta il compito di concedere o meno le speciali misure di prevenzione; - il Servizio Centrale di protezione, una struttura specializzata di polizia interforze che provvede all’attuazione di programmi e misure di reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti protetti.
La composizione della Commissione Centrale di protezione è regolata dall’art. 10 co. 2-bis d. l. 8/91, il quale prevede che la stessa sia presieduta dal sottosegretario di Stato al Ministero dell’Intero, da due magistrati e cinque funzionari ufficiali «scelti, preferibilmente, tra coloro che hanno maturato specifiche esperienze relative alle attuali tendenze della criminalità organizzata, ma che sono addetti ad uffici che svolgono attività di investigazione, indagine preliminare su fatti o procedimenti relativi alla criminalità organizzata di tipo mafioso». Le deliberazioni della Commissione, ex art. 13 co. 1 d. l. 8/1991, avvengono a maggioranza dei presenti, che devono essere almeno cinque affinché sia valida[67]. Lo stesso art. 13, poi, ai suoi commi 2 e 3, prevede che, ai fini della scelta della misura di protezione più adatta, la Commissione può richiedere agli organi amministrativi e giudiziari qualsiasi elemento necessario a stabilire la gravità e attualità del pericolo, in relazione alle caratteristiche della collaborazione e, qualora ricorressero situazioni di particolare gravità e urgenza, prima della formulazione della proposta, e su richiesta degli organi legittimati, la Commissione può deliberare un piano provvisorio di protezione. Detto piano cesserà di avere effetto qualora, decorsi 180 giorni dalla data di emanazione, la Commissione non deliberi l’applicazione delle misure di protezione secondo le forme ordinarie.
Per quanto concerne l’estensione delle misure di protezione ai familiari dei collaboratori di giustizia, l’art. 9 co. 5 d. l. 8/1991 prevede che questa non avvenga automaticamente per il solo fatto di essere familiari, parenti o coniugi ma la parentela deve essere accompagnata da una “stabile convivenza”.
L’art. 13-quater co. 3 d. l. 8/1991 regola, poi, la revoca delle misure di protezione che si presenta in due forme: - funzionale, legata alla condotta del collaboratore e al pericolo che corre; - disciplinare, connessa all’inosservanza degli impegni assunti, ex art. 12 d. l. 8/1991. La Commissione procede alla revoca qualora il collaboratore compia reati indicativi del mutamento o della cessazione del pericolo, rinunci alle misure, rifiuti di accettare adeguate opportunità di lavoro o impresa, faccia illecitamente ritorno al luogo dal quale è stato trasferito, compia un’altra azione che comporti la rilevazione dell’identità assunta, del luogo di residenza o delle altre misure applicate.
In conclusione, per quanto concerne, invece, il Servizio Centrale di protezione, questo si occupa della schermata anagrafica, dell’organizzazione degli impegni di giustizia, dell’assistenza e del disbrigo di pratiche burocratiche, per come riformato dalla L. 45/2001[68].
6. I benefici penitenziari
Prima di analizzare la disciplina in vigore in materia di benefici penitenziari, occorre sottolineare che l’emanazione della legge è stata preceduta da un forte dibattito dottrinale. Parte della dottrina, infatti, riteneva che una tale disciplina dimostrasse la debolezza dello Stato e l’incapacità di contrastare la criminalità organizzata senza l’ausilio dei collaboratori[69]. Di diversa opinione era, invece, la magistratura, la quale, d’altro canto, vedeva negli istituti premiali uno strumento di coercizione alla stessa collaborazione.
Nonostante l’acceso dibattito, nel 2001 venne emanata la L. 45, la quale introdusse l’art. 16-nonies rubricato “benefici penitenziari”. La norma si compone di otto commi in cui vengono esplicati i benefici connessi alla collaborazione di giustizia.
Prima di operare una disamina dell’articolo in commento, non possiamo, però, esimerci dall’esaminare l’attenuante prevista dall’art. 8 d. l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge n. 203, il 12 luglio 1991. Questa prevede che «per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell’ergastolo è sostituita da quella della reclusione da 12 a 20 anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà». Come emerge dalla lettura della norma, la possibilità di utilizzo dell’attenuante è sottoposta alla condizione che la collaborazione sia idonea ad impedire che l’attività criminosa possa portare a “conseguenze ulteriori”.
Tornando all’art. 16-nonies, ai fini di una trattazione unitaria, risulta utile esaminare le previsioni più rilevanti in tema di benefici.
Nello specifico, il comma 1 stabilisce i benefici e chi detiene il potere di proposizione, ossia i procuratori generali presso le corti di appello interessate o il procuratore nazionale antimafia. Per quanto attiene ai benefici, questo prevede la concessione della liberazione condizionale, di permessi premio e l’ammissione alla misura della detenzione domiciliare ex art. 47-ter L. 354/1975. Tali provvedimenti, ex art. 16-nonies co. 8, quando adottati nei confronti di persona sottoposta a speciali misure di prevenzione, vengono emanati dal tribunale o dal magistrato di sorveglianza secondo il principio di competenza territoriale.
Il comma 2 fa riferimento al contenuto della proposta o del parere emesso dai procuratori generali o da quello nazionale antimafia, con annessa, ex art. 16-nonies co.3, la valutazione della condotta e della pericolosità sociale del condannato[70].
Il comma 7, infine, prevede la possibilità di modifica e revoca del provvedimento di ufficio o su proposta o parere delle autorità.
7. La magistratura di sorveglianza
La magistratura di sorveglianza – rilevante in materia in quanto ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena - ha origini antiche, infatti, l’opportunità di affidare ad un organo giudiziario il controllo delle modalità di esecuzione della pena era già stata avvertita nell’Italia preunitaria.
La prima normativa in materia risale al 1930 con gli artt. 144 c.p. e 585 c.p.p., successivamente, nel 1931, fu introdotta e disciplinata, con il Regolamento per gli Istituti di Prevenzione di Pena, la vigilanza di un giudice sull’esecuzione delle pene detentive.
Il primo disegno di legge di riforma penitenziaria, invece, fu presentato nel 1960 dal Ministro di Grazia e Giustizia, Gonnella[71].
Un momento fondamentale nel processo di giurisdizionalizzazione fu la sentenza n. 204/1974 della Corte Costituzionale, che obbligava il legislatore a predisporre tutti i mezzi idonei a realizzare le finalità rieducative della pena ed a prevedere un controllo di tipo giurisdizionale sulla sua esecuzione.
Tale processo di giurisdizionalizzazione trova il culmine con l’emanazione della L. 354/1975 che al Capo II, titolo II istituì un organo monocratico ed uno collegiale: il magistrato di sorveglianza e la sezione di sorveglianza[72].
Rilevanti furono le modifiche apportate dalla L. 663/1986, cd. Legge Gozzini, che ha mutato, in modo significativo, la struttura della magistratura di sorveglianza e le ha assegnato maggiori poteri in relazione all’esecuzione penale inframuraria e a quella attuata fuori dal carcere. La Legge Gozzini ribadisce che la magistratura di sorveglianza è una magistratura specializzata[73].
Oggi, la magistratura di sorveglianza, in sintesi, è regolata dalle norme del Capo II, unitamente a quelle dell’ordinamento penitenziario[74]. La magistratura di sorveglianza è definita come quel complesso degli organi giurisdizionali cui spetta il compito di vigilare, disponendo di significativi poteri di intervento, sull’esecuzione della pena[75]. Il suo ruolo è esteso, oltre che alla questione relative ai diritti dei detenuti durante l’esecuzione della pena, anche alla concessione e gestione delle pene alternative alla detenzione[76].
Gli uffici di sorveglianza sono costituiti nelle cinquantasei sedi previste nell’allegato A della L. 354/1975 e ha giurisdizione sui circondari dei tribunali ivi indicati. I magistrati assegnati agli uffici di sorveglianza fanno parte della pianta organica dei singoli uffici, pur essendo tutti chiamati a formare il tribunale di sorveglianza.
Il magistrato di sorveglianza ha il compito di vigilare sull’organizzazione degli Istituti penitenziari, segnalare al Ministero della Giustizia le esigenze dei servizi, approvare il programma di trattamento individualizzato per ogni singolo detenuto e i provvedimenti di ammissione al lavoro all’esterno, provvede sulla remissione del debito e sulla situazione dei condannati per infermità psichica, decide sulle concessioni di permessi, sulle misure di sicurezza e sui reclami disciplinari e in materia di lavoro dei detenuti ed internati[77]. Inoltre, il magistrato di sorveglianza ha il compito di recarsi di frequente in carcere e di sentire i detenuti che chiedono di conferire. In sintesi, possiamo affermare che gli interventi della magistratura di sorveglianza si distinguono in: - interventi di vigilanza e controllo[78]; - interventi e contenuto amministrativo[79]; - interventi di natura giurisdizionale[80].
Per quanto concerne, invece, il Tribunale di Sorveglianza, questo è costituito con competenza territoriale estesa all’intero distretto della Corte di Appello. È un organo collegiale specializzato - composto da magistrati ordinari[81], diretti a svolgere in via esclusiva questa funzione e esperti non togati[82] - giudicanti, con ordinanza, in un collegio di quattro membri[83]. Il Tribunale di Sorveglianza svolge la sua attività sia come giudice di primo grado che come giudice di secondo grado rispetto al magistrato di sorveglianza. Il primo grado è competente in tema di concessione e di revoca delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale e di rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione delle pene detentive. Come giudice di appello, invece, il Tribunale decide le impugnazioni proposte contro alcuni provvedimenti della magistratura di sorveglianza.
Per i soggetti minorenni vi è, poi, un’apposita sezione: il magistrato di sorveglianza per i minorenni e il tribunale per i minorenni, le cui funzioni cessano al compimento del venticinquesimo anno di età[84]. Il magistrato di sorveglianza è uno dei giudici del Tribunale per i minorenni che svolge, tra le altre, anche le funzioni dell’organo monocratico della sorveglianza[85].
Il tribunale per i minorenni è composto da due giudici togati e due giudici onorari nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura su proposta del Presidente del Tribunale per i minorenni. Le funzioni esercitate da questa sezione specializzata sono analoghe a quelle svolte dalla magistratura di sorveglianza per gli adulti[86].
La legge 7 maggio 1981 n. 180, infine, istituì la sezione di sorveglianza presso la Corte Militare d’Appello con sede a Roma, successivamente modificata con L. 879/1986 che ha dato l’attuale struttura alla magistratura militare di sorveglianza. Nella sede di Roma vi è un autonomo ufficio militare di sorveglianza cui sono assegnati magistrati militari di cassazione, di appello e di tribunale, nonché personale di cancelleria, segreteria giudiziale, esecutivo e subalterno civile e militare. Le funzioni e i provvedimenti emanati sono analoghi a quelle dei magistrati di sorveglianza ordinari, ex art. 69 ord. pen. . Inoltre, vi è la presenza del Tribunale Militare di sorveglianza[87], composto da tutti i magistrati militari di sorveglianza ed esperti nominati dall’organo di autogoverno della magistratura militare, ex art. 80 co. 4 ord. pen., per le sue funzioni e provvedimenti emanati si rimanda agli artt. 70 e 70-bis ord. pen. .
8. Il ruolo delle procure antimafia
La direzione distrettuale antimafia[88] - o procura antimafia – è la denominazione della squadra di magistrati che compongono la “procura distrettuale antimafia” che, nell’ordinamento italiano, per come regolato dal d. l. n. 367/1991 convertito con modificazioni in L. n. 8/1992, è l’organo delle procure della Repubblica presso i tribunali dei capoluoghi dei 26 distretti di Corte di Appello, cui viene demandata la competenza sui procedimenti relativi ai reati di stampo mafioso e terroristico.
Le procure distrettuali antimafia sono coordinate, a livello nazionale, dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo[89], a sua volta incardinata nella procura generale presso la Corte Suprema di Cassazione.
Il procuratore della Repubblica[90], ex art. 51 co. 3-bis c.p.p., costituisce, nell’ambito del suo ufficio, una “DDA”, dove sono attribuite funzioni di pubblico ministero in primo grado, in relazione ai delitti, consumati o tentati, inerenti, tra gli altri, a reati di associazione di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione commessi per agevolare l’attività dell’associazione mafiosa […][91]. Alla “DDA” è preposto il procuratore distrettuale o magistrato da lui delegato[92].
Il procuratore nazionale antimafia[93] è nominato con deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, previa proposta del Ministero della Giustizia, con un mandato di durata pari a quattro anni, rinnovabile una sola volta; questi può essere coadiuvato da un procuratore nazionale antimafia aggiunto, in carica per due anni, rinnovabile una sola volta. Il “PNA” ha funzioni di impulso[94] e tra i suoi poteri rientrano: la designazione dei sostituti procuratori; l’acquisizione ed elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata; l’accesso ai registri delle notizie di reato e alle banche dati costituite presso le Procure distrettuali; l’avocazione delle indagini preliminari svolte dai procuratori distrettuali, allorché il coordinamento non risulti possibile per inerzia o violazione di doveri.
9. Alcune conclusioni
Concludendo è d’obbligo fare riferimento alla relazione della Commissione Antimafia dell’ottobre 2014, che ha costituito la base per la legge n. 6 del 2018. Dalla relazione della commissione, infatti, emerge la necessità di una revisione complessiva del sistema che, nonostante le varie modifiche apportate, continua a presentare alcuni limiti.
Di recente approvazione – marzo 2022 – alla Camera dei Deputati, e a seguito della pronuncia di incostituzionalità della Corte Costituzionale in relazione alla disciplina dell’art. 4-bis ord. pen., è la relativa riforma.
La collaborazione di giustizia potrebbe non rappresentare più l’unico modo di accesso ai benefici penitenziari, infatti, la riforma prevede che anche i soggetti che non collaborano con la giustizia, a condizione che tengano una condotta carceraria regolare, partecipino al percorso rieducativo, dimostrino di aver adempiuto alle obbligazioni civili e alle riparazioni di tipo pecuniario conseguenti al reato, possano accedere ai succitati benefici. Oltre a tali requisiti, è necessario chiedere il parere del PM che ha emesso la sentenza di primo grado.
[1] A. CAFORIO, Fine pena mai, più. Le declinazioni del fenomeno mafioso al tempo del diritto alla speranza, in Diritto penale, Key editore, 2021, 13.
[2] ARMAO, Il sistema mafia. Dall’economia – mondo al dominio locale, Torino, 2000, 15.
[3] F. SIRACUSANO, La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, in Quesiti,1, in www.archiviopenale.it , fascicolo 1, 2016.
[4] F. SIRACUSANO, La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, in Quesiti,2, in www.archiviopenale.it , fascicolo 1, 2016.
[5] F. SIRACUSANO, La contiguità alla mafia tra paradigmi sociologici e rilevanza penale, in Quesiti,5 in www.archiviopenale.it , fascicolo 1, 2016.
[6] R. SCIARRONE, Mafie vecchie, mafie nuove, Radicamento ed espansione, Saggi, Storia e Scienze sociali, Donzelli Editore, Roma, 2009, 325.
[7] «Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni. L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma. L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all'ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».
[8] M. RONCO, L’art. 416-bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Il diritto penale della criminalità organizzata, (a cura di) B. ROMANO, G. TINEBRA, 2013,32.
[9] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, 2015, Collana di diritto e procedura penale, 51.
[10] «Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, colore che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre a sette anni. Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni. I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori. Se gli associati scorrono in armi le campagne o le pubbliche vie, si applica la reclusione da cinque a quindici anni. La pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più. Se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti di cui agli articoli 600.601.601 bis e 602, nonché all’articolo 12, comma 3-bis, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché agli articoli 22, commi 3 e 4, e 22 bis, comma 1, della legge 1 aprile 1999, n. 91, si applica la reclusione da cinque a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a nove anni nei casi previsti dal secondo comma. Se l’associazione è diretta a commettere taluno dei delitti previsti dagli articoli 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quater 1, 600 quinquies, 609 bis, quando il fatto è commesso in danno di un minore di anni diciotto, e 609 undices, si applica la reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal secondo comma».
[11] G. DE FRANCESCO, Societas sceleris, Tecniche repressive delle associazioni criminali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992,120.
[12] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, 2015, Collana di diritto e procedura penale, 61.
[13] A. CAFORIO, Fine pena mai, più. Le declinazioni del fenomeno mafioso al tempo del diritto alla speranza, in Diritto penale, Key editore, 2021, 15.
[14] Cass. Sez, VI, 30.05.2001: ha riconosciuto l'associazione mafiosa nei confronti di un piccolo gruppo di cittadini cinesi, che gestiva un traffico di clandestini verso l'Italia, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi nei confronti degli stranieri immigrati o fatti immigrare clandestinamente.
[15] La Corte di Cassazione nella sentenza n. 11339 dell’8 giugno 1976 afferma che «deve considerarsi mafiosa, ovunque essa operi, ogni associazione che si proponga di assumere o mantenere il controllo di attività economicamente rilevanti attraverso l’intimidazione sistematica tale da creare una situazione di assoggettamento o omertà che renda impossibili o altamente difficili le normali forme d’intervento punitivo dello Stato».
[16] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, 2015, Collana di diritto e procedura penale, 66.
[17] www.brocardi.it.
[18] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, 2015, Collana di diritto e procedura penale, 66.
[19] «omissione volontaria della verità, taciuta al fine di tutelare se stessi o una società di cui si fa parte».
[20] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, cit., 67.
[21] G. CARUSO, Struttura e portata applicativa dell’associazione di tipo mafioso, in Le associazioni di tipo mafioso, (a cura di) B. ROMANO, 2015, cit., 72.
[22] F. SIRACUSANO, L’impresa a partecipazione mafiosa tra repressione e prevenzione, in www.archiviopenale.it, 2021,n.3.
[23] U. SANTINO, G. LA FURIA, L’impresa mafiosa. Dall’Italia agli Stati Uniti, Milano, Franco Angeli, 1990, 21.
[24] «imprese nate e costituite per iniziativa diretta dell’organizzazione mafiosa, controllate e gestite sul mercato da uomini intranei alla cosca, autofinanziate con i proventi dell’impresa o con i proventi dei delitti compiuti dall’associazione. Sono queste le ipotesi in cui le decisioni e le scelte imprenditoriali vengono assunte direttamente ed in prima persona dagli stessi soggetti che “partecipano” all’associazione. Sono questi i casi in cui vi è un’assoluta e completa identificazione del sodalizio criminale con l’azienda.». F. SIRACUSANO, L’impresa a partecipazione mafiosa tra repressione e prevenzione, in www.archiviopenale.it,2021,n.3.
[25] «un’organizzazione imprenditoriale il cui titolare è un imprenditore esterno al sodalizio mafioso ma che instaura con l’associazione un patto: assume il personale su richiesta del capo mafia, accetta i finanziamenti, le commesse, gli appalti e tutti i “servizi” che può offrire la mafia (scoraggiare la concorrenza e incidere nelle scelte della pubblica amministrazione). In questa ipotesi si instaura un rapporto di mutua assistenza, una relazione sinallagmatica tra l’imprenditore contiguo e l’organizzazione il sodalizio mafioso, con il suo appoggio, incrementa la forza economica dell’azienda nel territorio e nel proprio settore commerciale; l’impresa, in cambio dell’apporto mafioso, corrisponde denaro o altri servizi alla consorteria criminale. Il tutto avviene attraverso una compartecipazione in un’impresa legale già esistente, il più delle volte in crisi, che viene rafforzata e consolidata con nuovi investimenti di denaro e con l’aggiudicazione di appalti, realizzandosi una vera e propria cointeressenza tra capitale legale e capitale criminale. In questo caso l’azionista di riferimento dell’impresa viene individuato nell’associazione mafiosa e l’azienda da questa controllata diventa un’impresa a “partecipazione mafiosa”». F. SIRACUSANO, L’impresa a partecipazione mafiosa tra repressione e prevenzione, in www.archiviopenale.it,2021,n.3..
[26] F. SIRACUSANO, L’impresa a partecipazione mafiosa tra repressione e prevenzione, in www.archiviopenale.it,2021,n.3.
[27] Il collaboratore di giustizia: protezione e premialità, in dejurecriminalibus, 2018.
[28] Ulteriore definizione di collaboratore di giustizia.
[29] C. GAZZANI, Protezione testimoni/ Per molti collaboratori di giustizia rifarsi una vita è un’impresa impossibile, 2020, cit.
[30] I collaboratori di giustizia vengono definiti “morti che camminano”.
[31] C. GAZZANI, Protezione testimoni/ Per molti collaboratori di giustizia rifarsi una vita è un’impresa impossibile, 2020, cit.
[32] La distinzione è introdotta con la L. 45/2001.
[33] Definita nel linguaggio comune come mafia siciliana o semplicemente mafia, è un’organizzazione criminale a stampo mafioso-terroristico presente in Italia, soprattutto in Sicilia, con ramificazioni in tutto il mondo; S. BORSELLINO, Cosa Nostra spiegata ai ragazzi, Paperfirst, 2019.
[34] La prima disciplina specifica risale al 1982 con l’approvazione della cd. Legge Rognoni – La Torre.
[35] Solo nel 1962 Melchiorre Allegra fu definito “proto-pentito”.
[36]Organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa originaria della Calabria inserita esplicitamente dal 30 marzo 2010 nell'articolo 416-bis del codice penale e riconosciuta come organizzazione criminale unitaria e con un vertice collegiale nel processo Crimine dalla corte di cassazione il 18 giugno 2016. La prima definizione di ‘Ndrangheta si deve ad Ernesto Ferrero nel saggio I gerghi della malavita dal '500, Milano, 1972.
[37] R. GRATTERI, A. NICASO, Fratelli di sangue, Milano, 2010.
[38] S. VERDE, Il carcere speciale, tratto da “Massima sicurezza – Del carcere speciale allo stato penale, Odradek edizioni, 2002.
[39] Ex brigatista e collaboratore di giustizia, appartenente alle Brigate Rosse.
[40] Terrorista italiano che ha militato negli Anni di Piombo nell’organizzazione di estrema sinistra “Prima Linea”.
[41] Magistrato italiano assassinato dalla Stidda su una strada provinciale di Agrigento, del delitto fu testimone oculare Pietro Nava.
[42] Rocco Chinnici fu ucciso alle 8 del mattino del 29 luglio 1983 con una Fiat 126 verde, imbottita con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all'età di cinquantotto anni. Ad azionare il telecomando che provocò l'esplosione fu Antonino Madonia, boss di Resuttana, che si trovava nascosto nel cassone di un furgone rubato parcheggiato nelle vicinanze di via Pipitone Federico. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall'esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. L'unico superstite fu l'autista Giovanni Paparcuri, che riportò gravi ferite.
[43] Nella norma noto semplicemente come “collaboratore”.
[44] Che verrà trattato nei prossimi paragrafi.
[45] G. CASELLI, A. INGROIA, Normativa premiale e strumenti di protezione per i collaboratori di giustizia: tra inerzia legislativa e soluzioni di emergenza, (a cura di) V. Grevi, Processo penale e criminalità organizzata, Bari, 1987, 195 ss.
[46] «Quando si tratta di procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'art. 12 commi 1, 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, 416, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416 bis, 416 ter, 452 quaterdecies e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 [190 bis,295, 371 bis, 406 c.p.p.], e dall'articolo 291 quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, [e dall'art. 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152,] le funzioni indicate nel comma 1 lettera a) sono attribuite all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente».
[47]«a) osservanza delle norme di sicurezza prescritte e collaborazione attiva all’esecuzione delle misure; b) sottoposizione a interrogatorio, esame o ad altro atto di indagine (compreso quello che prevede la redazione del verbale illustrativo di cui subito si dirà). L’inosservanza di tale obbligo è causa della revoca automatica delle speciali misure secondo quanto stabilito all’art. 13-quater, comma 2, introdotto dall’art. 8 della legge di riforma; c) adempimento agli obblighi previsti dalla legge e dalle obbligazioni contratte; d) divieto di rilasciare dichiarazioni a soggetti terzi rispetto all’autorità giudiziaria, alle forze di polizia e al proprio difensore, qualora possano riguardare fatti di interesse per i procedimenti in relazione a cui i soggetti coinvolti hanno prestato o stanno prestando la loro collaborazione. Il divieto si estende alla possibilità di incontrare e contattare con qualsiasi mezzo persone dedite al crimine o altri collaboratori di giustizia, salvo in quest’ultimo caso che vi sia un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria motivata dal ricorrere di gravi esigenze inerenti la vita familiare71; e) individuazione di tutti i beni posseduti o controllati, direttamente o per interposta persona, nonché di tutte le altre utilità che sono nella propria disponibilità anche indiretta. È, poi, specificato l’obbligo di versare il denaro frutto di attività illecite, che deve essere adempiuto subito dopo essere stati ammessi alle speciali misure di protezione. Segue l’immediato sequestro di tutti questi beni da parte dell’autorità giudiziaria».
[48] Consistente in un pacchetto di norme volte a garantire l’incolumità dei collaboratori di giustizia e dei relativi familiari, nonché, ove necessaria, l’assistenza economica; L. D’AMBROSIO, Testimoni e collaboratori di giustizia, Padova, 2000, 28-29.
[49] Rappresentato da norme che incidono direttamente sul piano della repressione dei reati; L. D’AMBROSIO, Testimoni e collaboratori di giustizia, cit.
[50] Attraverso cui si regolamentano dettagliatamente le forme e le modalità di acquisizione, utilizzazione e valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori; L. D’AMBROSIO, Testimoni e collaboratori di giustizia, cit.
[51] Che si concretizza nella possibilità per il collaboratore di fruire di ingenti benefici in fase esecutiva; L. D’AMBROSIO, Testimoni e collaboratori di giustizia, cit., 28-29.
[52] Allorquando il dichiarante riferisca di aver commesso un fatto penalmente rilevante e da ciò possa scaturire la persecuzione dello stesso, con conseguente ammissione di responsabilità personale; F. SASSANO, La nuova disciplina sulla collaborazione di giustizia, Torino, 2002.
[53] Allorquando il collaboratore indichi in altri soggetti gli autori di un reato ovvero coadiuvi gli inquirenti nella ricerca delle prove; F. SASSANO, La nuova disciplina sulla collaborazione di giustizia, cit.
[54] Che costituisce in qualche modo la somma delle due ipotesi precedenti e che si invera allorquando il dichiarante riferisca su fatto proprio e altrui, ammettendo la propria responsabilità e coinvolgendo soggetti terzi quali compartecipi del reato; F. SASSANO, La nuova disciplina sulla collaborazione di giustizia, cit.
[55] Per semplificazione esplicativa dalla prossima volta verrà abbreviato in ord. pen.
[56] F. FIORENTIN, Emergenza Carceri, Varese, 2012, 37; C. BRUNETTI – M. ZICCONE, Diritto penitenziario, Napoli, 2010, 322.
[57] A. A. SAMMARCO, La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, in Riv.it dir. proc. pen., vol. II, 1994, 871.
[58] Condizione per l’accertamento della condotta collaborativa è la richiesta di concessione di un qualsiasi beneficio, ex art. 58-ter co. 2 ord. pen.
[59] F. PERONI – A. SCALFATI, Codice dell’esecuzione penitenziaria, Milano, 2006, 405.
[60] A. DELLA BELLA, Il regime alternativo speciale del 41 bis: quale prevenzione speciale nei confronti della criminalità organizzata? Milano, 2012, 119.
[61] La collaborazione impossibile è, oggi, prevista grazie ad un’intensa attività della Corte Costituzionale; per approfondimenti, B. BOCCHINI, L’accertamento della pericolosità, in La prova penale, (a cura di) A. GATTO, Milanofiori Assago, 2008, 616 ss.
[62] «la vanificazione dei programmi e percorsi rieducativi (in atto magari da lungo tempo) che sarebbe conseguita alla drastica imposizione del decreto legge, particolarment4e nei confronti di soggetti la cui collaborazione sia incolpevolmente impossibile o priva di risultati utili e, comunque, per i soggetti per i quali la rottura con l’organizzazione criminale sia adeguatamente dimostrata».
[63] La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. pen. nella parte in cui non prevede che i benefici penitenziari possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Il giudice a quo lamentava la presunta violazione del principio di uguaglianza, ex art. 3 Costituzione.
[64] La Corte ha dichiarato l’illegittimità Costituzionale dell’art. 4-bis co. 1 ord. pen., secondo periodo, nella parte in cui non prevedeva la possibilità che i benefici penitenziari potessero essere concessi anche nel caso in cui l’integrale accertamento dei fatti e della responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendesse impossibile un’utile collaborazione con la giustizia. La norma confliggeva, secondo il giudice, con gli artt. 3 e 27 Cost.
[65] S. RIOLO, La legislazione premiale antimafia, (a cura di) A. DINO, Pentiti, I collaboratori di giustizia, le istituzioni, l'opinione pubblica, Roma, 2006, p. 23 ss.
[66] In cui sono ricomprese le spese di alloggio e trasferimento, le spese sanitarie, di assistenza legale nonché un assegno di mantenimento a favore dei soggetti sottoposti al programma di protezione.
[67] In caso di parità di voti prevale quello del presidente.
[68] La novella ha distinto il servizio centrale di protezione in due diverse strutture, differenziando il trattamento assistenziale tra collaboratori e testimoni di giustizia.
[69] T. PADOVAN, Il traffico delle indulgenze. “Premio” e “corrispettivo” nella dinamica della punibilità, in Riv.it dir. proc. pen., 1986.
[70] A tali atti possono essere allegati, su richiesta del Tribunale o del magistrato di sorveglianza, il verbale illustrativo e, se la persona in esame è assoggettata a speciali misure di protezione, il relativo provvedimento di applicazione.
[71] Il progetto Gonnella, di riforma del libro I del c.p., venne approvato dal Senato nel gennaio 1973 che, però, decadde per la fine della legislatura.
[72] Successivamente, convertita, con modificazioni, a Tribunale di Sorveglianza.
[73] Vi è un divieto di adibire i magistrati che esercitano funzione di sorveglianza ad altre funzioni giudiziarie, per consentire un’effettiva specializzazione delle stesse.
[74] L. 354/1975 e successive modifiche e integrazioni.
[75] V. G. GIGLIO, Capo II, Magistratura di sorveglianza, in www.filodiritto.com.
[76] A. CONCAS, La magistratura di sorveglianza, definizioni e caratteri, 2015, in www.diritto.it.
[77] A. CONCAS, La magistratura di sorveglianza, definizioni e caratteri, cit.
[78] «vigila sulla organizzazione degli istituti penitenziari e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo (art. 69, comma 1, O.P.); vigila al fine di assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti (art. 69, comma 2, O.P.); sovrintende all’esecuzione delle misure di sicurezza personali; esamina le istanze o i reclami a lui rivolti, anche in busta chiusa, da detenuti o internati e favorisce il diretto contatto con le persone private della libertà anche mediante frequenti visite ai luoghi di detenzione (art. 35, n. 2, O.P. e art. 75, comma 1, reg. esec.)»; La magistratura di sorveglianza, in www.dirittopenitenziario.it.
[79] « approva, con decreto, il programma di trattamento di cui al terzo comma dell’articolo 13 O.P., ovvero, se ravvisa in esso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell’internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formulazione (art. 69, comma 5, O.P.); decide, con decreto motivato, sulle licenze ai condannati in regime di semilibertà ed agli internati (artt. 52 e 53 O.P.); approva, con decreto, il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno (art. 21 O.P.) o alla cura e assistenza all’esterno dei figli minori (art. 21 bis O.P.) adottato dalla direzione dell’istituto. Approva, altresì, a norma dell’art. 48, comma 15, reg. esec. la revoca del lavoro all’esterno disposta dalla direzione dell’istituto; provvede, con decreto motivato sulle modifiche relative all’affidamento in prova al servizio sociale e alla detenzione domiciliare (art. 69, comma 7, O.P.); provvede, altresì, nei riguardi delle persone che si trovino in regime di arresti domiciliari, dopo il passaggio in giudicato della relativa condanna (art. 656, comma 10, c.p.p.); dispone il trasferimento in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura fissando le modalità della custodia, dei condannati e degli internati, nonché degli imputati dopo la pronunzia della sentenza di primo grado (art. 11 O.P.) quando siano necessari cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti ed emana il provvedimento di revoca al venir meno delle condizioni che giustificano il ricovero (art. 240 disp. att. c.p.p.); impartisce, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati (art. 69, comma 5, O.P.); autorizza la corrispondenza telefonica degli imputati dopo la pronunzia della sentenza di primo grado (art. 18, comma 8, O.P. in relazione all’art. 11, comma 2, O.P.); autorizza, su parere favorevole del direttore, la partecipazione della comunità esterna all’opera di rieducazione fissandone le direttive (art. 17 O.P.); richiede agli U.E.P.E. le inchieste sociali utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza e per il trattamento dei condannati e degli internati (art. 72, comma 4, O.P.); dispone l’esclusione dei sorteggiati a comporre le rappresentanze dei detenuti qualora, a giudizio del sanitario, per le condizioni psichiche non siano in grado di svolgere il compito (art. 20, comma 6, reg. esec.); provvede all’acquisizione di tutti gli elementi di giudizio utili nonché delle osservazioni del Procuratore Generale presso la Corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice dell’esecuzione (art. 665 c.p.p.) in relazione alle domande di grazia direttamente presentategli dai condannati e dagli internati ovvero formulate dal consiglio di disciplina degli istituti penitenziari e le trasmette al Ministro con parere motivato (art. 681, commi 2 e 3, c.p.p. e art. 69, comma 9, O.P.); propone all’Amministrazione penitenziaria di autorizzare persone idonee all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati nonché al futuro reinserimento nella vita sociale. Le persone autorizzate possono, inoltre, collaborare con gli U.E.P.E. per l’affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l’assistenza ai dimessi e alle loro famiglie; è componente del Consiglio di aiuto sociale (art. 74 O.P.); autorizza il difensore a conferire, ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da detenuti nel corso dell’esecuzione della pena, in caso di indagini difensive (art. 391 bis, comma 7, c.p.p.)»; La magistratura di sorveglianza, in www.dirittopenitenziario.it.
[80] «-provvede, a richiesta del P.M. o d’ufficio, alla dichiarazione di abitualità, professionalità nel reato o di tendenza a delinquere (art. 678 c.p.p.), nonché, all’eventuale applicazione della misura di sicurezza consequenziale (art.679 c.p.p.) ove non si sia proceduto nel corso del giudizio; -accerta, su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale al fine dell’applicazione delle misure di sicurezza ordinate con sentenza o disposte successivamente al fine della loro concreta applicazione (art. 679 c.p.p.); -determina le prescrizioni per la libertà vigilata al condannato liberato condizionalmente (artt. 176 e 177 c.p.) nonché alla persona assoggettata a tale regime quale misura di sicurezza (art. 190 disp. att. c.p.p.); -provvede alla conversione in melius (nel caso di progressi nel trattamento) o in peius (art. 231 c.p.) delle misure di sicurezza; -provvede alla unificazione delle misure di sicurezza in corso nei confronti della stessa persona nell’ipotesi di cui all’art. 209, comma 4, c.p.; -decide sulla remissione del debito (art. 6 D.P.R. n. 115/03); -provvede in materia di infermità psichica sopravvenuta al condannato (art. 148 c.p.); -provvede con ordinanza sulla riduzione di pena per la liberazione anticipata (art. 69, comma 8, O.P.); -provvede al riesame della pericolosità sociale dei sottoposti a misure di sicurezza, alla scadenza, del periodo minimo di durata (art. 208 c.p.), nonché all’eventuale revoca anticipata delle misure di sicurezza (art. 69, comma 4, O.P.); -provvede, con decreto motivato, sui permessi, anche premio, ai condannati (artt. 30, 30 bis, 30 ter, 69, comma 7, O.P., 64 e 65 reg esec.); -revoca, con decreto motivato, in occasione dei procedimenti di sorveglianza per la revoca delle misure di sicurezza, la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza (art. 69, comma 4, O.P.); -decide sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti l’attribuzione della qualifica lavorativa, la remunerazione, lo svolgimento delle attività di tirocinio, di lavoro e le assicurazioni sociali nonché le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa (art. 69, comma 6, O.P.); -decide sull’esclusione dal computo nella durata delle misure restrittive della libertà personale, del tempo trascorso dal detenuto o dall’internato in permesso o in licenza nei casi di mancato rientro in istituto o di altri gravi comportamenti (art. 53 bis O.P.); -provvede ad accertare l’effettiva insolvibilità del condannato a pena pecuniaria e a disporre la conversione in libertà controllata oppure la rateizzazione; -determina le modalità di esecuzione delle pene sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata o del lavoro sostitutivo disposti in conversione delle pene insolute della multa o dell’ammenda; -presiede alla gestione delle sanzioni sostitutive della semidetenzione, della libertà controllata e del lavoro sostitutivo ed investe il tribunale di sorveglianza delle conversioni di pena conseguenti alle violazioni delle prescrizioni (art. 53 e ss. della legge n. 689/81); -procede, a richiesta del giudice dell’esecuzione (o della magistratura di sorveglianza) investito del relativo procedimento, all’audizione del detenuto o dell’internato che ne abbia fatto richiesta e del quale il giudice dell’esecuzione (o la magistratura di sorveglianza) non abbia ritenuto di disporre la traduzione (art. 666, comma 4, c.p.p.); -provvede, in relazione a tutti i procedimenti in camera di consiglio, alla audizione dell’interessato che ne faccia richiesta e che non sia ristretto nel luogo ove ha sede il giudice che procede (art. 127 c.p.p.); -assume le dichiarazioni dell’imputato ristretto in sede diversa da quella del giudice - previo tempestivo avviso al difensore - in relazione a procedimenti per il riesame delle ordinanze dispositive di misure coercitive (art. 101 disp. att. c.p.p.); -acquisisce le dichiarazioni del condannato in contumacia - con garanzia di assistenza del difensore - nei giudizi di revisione e nella fase di esecuzione (art. 489, commi 2 e 3, c.p.p.); - acquisisce la dichiarazione di assenso all’estradizione del cittadino straniero ai fini dell’eventuale esecuzione della pena nel paese di appartenenza (art. 5 legge n. 257/89); -provvede sulla sospensione condizionata dell’esecuzione della parte finale della pena detentiva; -provvede all’applicazione della sanzione alternativa della espulsione dello straniero (art. 16 commi 5, 6, 7 e 8, D.L.gs n. 286/98); -dispone la sospensione o la prosecuzione provvisoria delle misure alternative nei casi di sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà (art. 51 bis O.P.); -dispone l’eventuale sospensione cautelare delle misure alternative (art. 51 ter O.P.); -provvede provvisoriamente circa il differimento dell’esecuzione e la liberazione del detenuto nelle ipotesi di cui agli artt. 146 e 147 c.p. (art. 684, comma 2, c.p.p.); -sospende l’esecuzione della pena ed ordina la liberazione del condannato quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga (art. 47, comma 4, O.P.); -dispone l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, quando ne ricorrono i requisiti, nei confronti di detenuti in espiazione di pena (art. 47 ter, comma 1 quater, O.P.); -sospende l’esecuzione della pena e ordina la liberazione del condannato, nei casi di istanza di ammissione al regime di semilibertà quando il condannato ha dimostrato la volontà di reinserimento nella vita sociale se la pena è dell’arresto o della reclusione non superiore a sei mesi (art. 50, comma 6, O.P.); -applica e revoca, fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, la sospensione della pena detentiva e della pena pecuniaria ex art. 90 D.P.R. n. 309/90 (art. 91, comma 4, D.P.R. n. 309/90); -dispone l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova in casi particolari, quando ne ricorrono i requisiti, nei confronti di detenuti in espiazione di pena (art. 94, comma 2, O.P.); -dispone la limitazione, il controllo ed il trattenimento della corrispondenza nei confronti dei condannati e degli internati, nonché nei confronti degli imputati, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado (art. 18 ter O.P.)»; La magistratura di sorveglianza, in www.dirittopenitenziario.it.
[81] Fino al 1986 denominati Giudici di Sorveglianza.
[82] In psicologia, servizi sociali, pedagogia, psichiatrica, criminologia; questa componente è nominata dal Consiglio Superiore di Magistratura su proposta del Presidente del Tribunale di Sorveglianza; A. CONCAS, La magistratura di sorveglianza, definizioni e caratteri, 2015,cit.
[83] Composto da presidente, magistrato di sorveglianza e due esperti.
[84] Art. 3 co. 2 DPR n. 448/1988.
[85] Art. 79, ultimo comma, ord. pen.
[86] La magistratura di sorveglianza, in www.dirittopenitenziario.it.
[87] Ex art. 103 co. 3 Costituzione, in tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate; La magistratura di sorveglianza, in www.dirittopenitenziario.it.
[88] Da questo momento, per semplificazione esplicativa, DDA.
[89] Da questo momento, per semplificazione esplicativa, DNAA; questa ha potere di sorveglianza, controllo e avocazione.
[90] Cd. procuratore distrettuale.
[91] Associazione finalizzata al traffico di stupefacenti o finalizzati al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù, alla tratta di persone, all’acquisto o alienazione di schiavi, delitti con finalità di terrorismo.
[92] Procuratore aggiunto.
[93] PNA; oggi, Federico Cafiero De Raho.
[94] Rendere effettivo il coordinamento delle attività di indagine; garantire la funzionalità dell'impiego della polizia giudiziaria nelle sue diverse articolazioni; assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni; risolvere eventuali conflitti riguardanti lo svolgimento delle indagini.