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Pubbl. Sab, 17 Dic 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

La natura meramente obbligatoria e non reale della comunione de residuo nell´interpretazione della Cassazione a Sezioni unite

Consiglia Botta
Professore OrdinarioUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Il dibattito sul controverso e delicato tema della qualificazione giuridica del diritto spettante al coniuge non imprenditore sui beni oggetto della communio de residuo trae oggi nuovi spunti di riflessione dalla recente sentenza della Corte di cassazione, resa a Sezioni unite che, chiamata a risolvere il contrasto interpretativo, ha riconosciuto la natura meramente obbligatoria e non reale del diritto spettante all´altro coniuge a seguito dello scioglimento del regime patrimoniale legale.


Sommario: 1. Premessa; 2. Ratio e disciplina della communio de residuo; 3. La tesi della natura reale del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo; 4. La tesi della natura creditizia del diritto; 5. Conclusioni.

Sommario: 1. Premessa; 2. Ratio e disciplina della communio de residuo; 3. La tesi della natura reale del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo; 4. La tesi della natura creditizia del diritto; 5. Conclusioni.

1. Premessa 

Il controverso e delicato tema della qualificazione della posizione giuridica vantata, a seguito dello scioglimento della comunione legale, dal coniuge non imprenditore sui beni della c.d. communio de residuo ha, per lungo tempo, impegnato gli interpreti, divisi tra il riconoscimento della natura reale ovvero meramente obbligatoria di tale diritto[1]

La configurazione della comunione residuale – dei beni cioè che non ricadono immediatamente nel patrimonio comune ma solo in quanto esistenti al momento dello scioglimento del regime patrimoniale legale ex art. 177, lett. b) e c) e 178 c.c. - e dei diritti da essa nascenti, costituisce uno dei temi più discussi in materia familiare, sin dall’entrata in vigore della Riforma del 1975.

Sul dibattuto tema, è intervenuta più di recente la Corte di cassazione, a Sezioni unite, chiamata a risolvere il contrasto interpretativo sulla questione di massima rilevanza concernente la natura del diritto vantato dal coniuge non titolare, sui beni destinati all’esercizio dell’impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella c.d. comunione de residuo

La sentenza del Supremo Collegio, dopo aver ripercorso nell’iter logico-argomentativo l’annosa questione, che ha diviso sia la dottrina che la giurisprudenza, ha escluso la contitolarità reale, giungendo a riconoscere natura creditizia a tale diritto, da attribuirsi nella misura del 50% del valore dell’azienda, «quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, al netto delle eventuali passività»[2].

L’attesa pronuncia alimenta un rinnovato interesse, sul tema, riaccendendo il dibattito teorico intorno alla figura.

2. Ratio e disciplina della communio de residuo

La comunione legale tra i coniugi non consiste soltanto in una peculiare situazione di contitolarità di diritti ma rappresenta il regime giuridico patrimoniale della famiglia, volto a disciplinare gli acquisti effettuati dopo il matrimonio, in una prospettiva che attribuisce rilievo preminente al momento comunitario e partecipativo, anche nell’ambito delle relazioni economiche che intercorrono tra i membri della famiglia[3].

Come la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire, a differenza della comunione ordinaria nella quale i partecipanti sono individualmente titolari di un diritto di quota che delimita il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune, la comunione legale si caratterizza per essere una “comunione senza quote”, nella quale ciascun coniuge è titolare di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione, solidalmente con l’altro; in sostanza, nel regime patrimoniale legale la quota ha «soltanto la funzione  di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari, la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi, e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo ed il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi» [4]

Si tratta, peraltro, di un sistema composito nel quale si riscontrano differenti modalità temporali di acquisizione dei beni al patrimonio comune.

Accanto alla previsione di ciò che costituisce oggetto di comunione immediata, il Codice civile pone infatti una articolata disciplina per i beni della c.d. communio de residuo; per quei beni, cioè, che confluiscono in modo differito nella comunione, purché esistenti e non consumati al momento dello scioglimento della stessa.

Si tratta di una pluralità di fattispecie, specificamente individuate dal legislatore, che trovano espressa disciplina negli artt. 177 e 178 c.c., e consistono in frutti, proventi, beni destinati all’esercizio dell’impresa ed incrementi ad essa relativi[5], a condizione che siano presenti nel patrimonio di ciascun coniuge al momento dello scioglimento del regime patrimoniale legale della famiglia.

Lo scioglimento, conseguente al verificarsi di una delle cause previste dall’art.191 c.c., determina, cioè, una serie di effetti direttamente incidenti sui diritti patrimoniali dei coniugi, producendo, tra l’altro, l’ingresso nel patrimonio comune di beni considerati in precedenza propri che, qualora in quel momento effettivamente e concretamente sussistenti, vengono «attratti alla disciplina della comunione legale»[6], a differenza di quanto accade agli acquisti di natura personale tassativamente elencati all’art.179 c.c., che costituiscono invece patrimonio individuale di ciascuno dei coniugi in via esclusiva. 

Dunque, mentre gli acquisti effettuati anche separatamente durante il matrimonio cadono immediatamente in comunione, così come le aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi, (art. 177, lett. a e d, c.c.), diversa è la disciplina in relazione ad  una serie di beni per i quali il legislatore ha disposto l’esclusione solo medio tempore dal regime legale.

Si tratta di beni di cui il coniuge titolare conserva la libera disponibilità in costanza del vincolo, ma che successivamente, se non consumati al momento dello scioglimento, cadono in comunione de residuo. Il riferimento è in particolare, ai frutti dei beni individuali e ai proventi dell’attività separata di ciascuno di essi (art. 177, lett. b e c, c.c.), nonché ai beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno solo tra i due, costituita dopo il matrimonio, e agli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente, ma realizzati in costanza di matrimonio, qualora sussistenti al momento dello scioglimento del regime patrimoniale legale (art. 178 c.c.).

La communio de residuo si configura pertanto come una fattispecie incerta sia nell’an, poiché subordinata all’esistenza concreta ed effettiva del residuum, sia nel quantum, realizzandosi la contitolarità solo sui beni ancora esistenti al momento della cessazione del regime patrimoniale legale. 

La ratio della scelta legislativa viene tradizionalmente individuata nella necessità di bilanciare le istanze solidaristiche poste a fondamento della vita coniugale ex art. 29 Cost., con la tutela della proprietà privata e la libertà di autodeterminazione, gestione e remunerazione del lavoro del coniuge percettore, di cui agli artt. 35, 41 e 42 Cost. 

A ben vedere, l’obiettivo che permea la Riforma del 1975 è quello di realizzare un’equilibrata composizione tra diverse esigenze, tutte costituzionalmente tutelate; al principio di solidarietà in ambito familiare è funzionalmente collegata l’individuazione, quale regime patrimoniale legale, del regime di comunione - nel rispetto tuttavia della libertà di scelta dei singoli per un diverso regime[7] -  conformato in modo da realizzare, anche nel campo dei rapporti patrimoniali, un modello di famiglia che valorizzi  l’eguaglianza sostanziale e  la comunità di vita tra i coniugi[8], e garantisca, nel contempo, l’indipendenza dell’iniziativa economica dei singoli, quale espressione di una libertà individuale che è posta a salvaguardia della dignità personale e non può essere conculcata in conseguenza del matrimonio[9]

In questa prospettiva, pur con qualche ambiguità testuale che in questi anni ha reso complesso il lavoro dell’interprete, trova collocazione la disciplina della communio de residuo; come hanno efficacemente sottolineato le Sezioni unite della Suprema Corte, «se  la finalità dell’istituto è quella di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, il legislatore ha avuto anche ben presente l’esigenza di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.

L’obiettivo era quello di fornire una disciplina che operasse un necessario ed equilibrato bilanciamento tra alcuni principi, tutti di rango costituzionale e, come tali, meritevoli in egual modo di protezione, quali la tutela della famiglia, (art. 29 Cost.), il principio di pari uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) la remunerazione del lavoro (art. 35 Cost.) »[10].

Questa prevalenza attribuita alla libertà individuale nell’amministrazione e gestione della propria attività lavorativa, esercitata sempre nel rispetto delle esigenze della solidarietà familiare, dà conto dell’assenza di un espresso obbligo, per il coniuge percettore, alla conservazione dei beni, dei proventi o dei frutti ricavati dallo svolgimento della propria attività di lavoro, che costituiranno infatti residuum solo qualora esistenti e non consumati al momento dello scioglimento.

Non è infatti previsto alcun vincolo, per il coniuge titolare, alla preservazione del patrimonio personale durante il regime di comunione legale, se non quello legato all’assolvimento dell’obbligo primario ed inderogabile di contribuzione, in misura proporzionata alle proprie sostanze, ai bisogni della famiglia, previsto all’art.143 c.c. quale espressione dell’assetto autenticamente paritario della relazione tra i coniugi, anche sotto il profilo dei rapporti patrimoniali. 

Pertanto, sia i beni personali dei coniugi, sia i proventi derivanti dall’attività lavorativa, essendo nella libera disponibilità dei rispettivi titolari, una volta soddisfatto prioritariamente l’obbligo di contribuzione alle esigenze della famiglia, potranno essere gestiti individualmente da ciascuno di essi, liberamente[11]

3. La tesi della natura reale del diritto

Come si è avuto modo di osservare, il regime residuale prevede che al coniuge non titolare venga riconosciuta una compartecipazione differita, al momento dello scioglimento della comunione, alla ricchezza prodotta dall’altro durante il matrimonio; resta tuttavia da chiarire la natura del diritto che gli viene attribuito, al fine di procedere alla quantificazione complessiva del patrimonio ed alla sua successiva divisione.

Sin dall’introduzione della Riforma del 1975, come si è detto, la delicata questione ha impegnato gli interpreti, divisi tra il riconoscimento di un diritto di natura reale ovvero di natura creditizia al coniuge non titolare, sui beni oggetto di communio de residuo, animando così un dibattito che si è prevalentemente concentrato sull’ipotesi relativa alla caduta in comunione de residuo dei beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e degli incrementi dell’azienda costituita prima, ma realizzati in costanza del vincolo matrimoniale, qualora sussistenti al momento dello scioglimento (art. 178 c.c.)[12]

La rilevanza sul piano applicativo della soluzione accolta, nella fattispecie de quo, riguardo alla natura giuridica del diritto, oggetto di compartecipazione differita, spettante al consorte non imprenditore può essere agevolmente colta in relazione alla circostanza che essa si riverbera non solo sulla posizione dei coniugi, ma ancor più ha incidenza nei confronti dei terzi, ed in particolare dei creditori del coniuge imprenditore, dal momento che i beni in comunione de residuo possono essere aggrediti esecutivamente, nella loro interezza, alla stregua di beni personali, fino al momento dello scioglimento del regime patrimoniale legale. Successivamente, tale principio può continuare a trovare applicazione solo ove si attribuisca natura obbligatoria e non reale al diritto dell'altro coniuge.

Quella parte della dottrina[13], che configura in termini di realità il diritto del coniuge non titolare sui beni in comunione de residuo, fonda la propria interpretazione, principalmente su un argomento testuale, ricavabile dal tenore letterale delle norme di cui agli artt. 177, lett. b) e c) e 178 c.c. che, in relazione ai beni residui, utilizzano entrambe espressamente il termine “comunione” (la prima indicando che “costituiscono ” (art. 177 c.c.);  la seconda che “si considerano oggetto”  art. 178 c.c.). 

Questa circostanza lascerebbe trasparire l’intento del legislatore di attuare ex lege una contitolarità reale sui beni della communio de residuo, in virtù della quale l’altro coniuge diventa comproprietario del bene del coniuge imprenditore o professionista[14], considerato personale manente communione; con il vantaggio non solo di unificare, sotto il profilo della natura giuridica e della disciplina, la sorte  della comunione immediata e di quella differita[15] - in ossequio alla visione solidaristica posta a fondamento della disciplina della comunione legale, che troverebbe così una compressione solo temporanea a fronte dell’esigenza di salvaguardare la libertà individuale e l'iniziativa economica del coniuge imprenditore - ma anche di offrire maggiore tutela al coniuge non titolare che, divenuto comproprietario, eviterebbe il concorso con gli eventuali creditori del consorte[16]

A ciò si aggiunge il rilievo, ancora una volta testuale, dell’assenza, nell’art. 192 c.c. dedicato ai rimborsi e alle restituzioni da effettuarsi tra i coniugi al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, di una specifica indicazione relativa ai beni in comunione differita; la mancata previsione di un diritto di credito derivante dai beni de residuo tra le reciproche partite di dare e avere intercorrenti tra i coniugi, allo scioglimento, suffragherebbe il riconoscimento della natura reale e non obbligatoria del diritto[17].

Al riguardo, tuttavia, le Sezioni unite della Suprema Corte, nel loro recente intervento, sottolineano come il tenore letterale delle norme richiamate contiene un’ambiguità semantica che può agevolmente dare adito ad una diversa interpretazione;  come già anche parte della dottrina[18] aveva avuto modo di sostenere, l’uso del verbo “considerare” adoperato dall’art. 178 c.c., in luogo del verbo “essere”, potrebbe essere, viceversa, l’indice di una specifica voluntas legis di sottoporre la communio de residuo e, in particolare, quella di impresa, a un regime giuridico diverso da quello previsto dall’art. 177 c.c. per i beni oggetto di comunione immediata.

Negli stessi termini, l’omissione rilevata in ordine al contenuto della norma di cui all’art. 192 c.c., sarebbe da ascrivere all’esaustività della disciplina della communio de residuo.

E' da segnalare, tuttavia,  l’interpretazione di altra parte della dottrina[19] la quale, pur aderendo alla tesi della realità del diritto, individua l'esistenza di una contitolarità sul saldo attivo del patrimonio aziendale, rimanendo il coniuge non imprenditore estraneo alla responsabilità per i debiti connessi all’attività imprenditoriale, che acquistano rilevanza al solo al fine di determinare il valore netto del patrimonio aziendale, calcolato detraendo le passività sorte in epoca anteriore alla cessazione del regime patrimoniale legale.

A tal proposito, si è osservato[20], infatti che «al coniuge estraneo all’impresa fino al momento dello scioglimento non possono […] accollarsi le obbligazioni contratte nell’esercizio di essa,  né può, per altro verso, attribuirglisi una metà dei beni aziendali, a prescindere da tali obbligazioni, così come non si può costringerlo a divenire imprenditore né spogliare l’altro coniuge del diritto esclusivo e personale d’impresa».  

Pertanto, anche in caso di individuazione del diritto in termini di realità, non sussisterebbe il coinvolgimento dell’altro coniuge, in quanto, questi, «divenuto comproprietario dell’azienda e legittimato, quindi, a farla comprendere nella divisione stessa, rimane tuttavia estraneo all’impresa, per il cui esercizio dovrà dirsi che l’altro coniuge si avvale, fino alla divisione, di un’azienda parzialmente altrui»[21].

Al riguardo, le Sezioni unite della S.C. hanno rilevato, tuttavia, che non è possibile riconoscere una comunione sul saldo attivo del patrimonio aziendale, «che quale entità astratta, attiene a calcoli economici, non si adatta al diritto reale, e, inoltre, rispetto alle passività dovrebbe essere chiamato a risponderne anche il coniuge non imprenditore, il quale sarebbe esposto ad una responsabilità illimitata, che coinvolgerebbe anche i suoi beni personali, senza che possa opporsi il limite del valore dei beni in comunione de residuo[22]».

4. La tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo

A favore della tesi della qualificazione creditizia del diritto vantato dal coniuge non titolare, militano le già richiamate esigenze sottese all’istituto della comunione de residuo, volta a realizzare un equilibrato contemperamento tra le istanze solidaristiche della famiglia e la libertà di iniziativa economica del coniuge imprenditore, anche nella fase patologica del rapporto. 

Il riconoscimento della natura obbligatoria del diritto garantisce, cioè, il bilanciamento tra l’aspettativa di fatto del coniuge non titolare sulle entità patrimoniali e gli incrementi di valore dei beni oggetto di communio de residuo, e il diritto del coniuge imprenditore di continuare ad assumere liberamente le proprie scelte in relazione alla gestione dell’attività aziendale.

Si sottolinea in dottrina, peraltro, che appare contraddittorio ritenere che la libertà di esercizio dei poteri di disposizione e godimento sui beni, i frutti ed i proventi personali, riconosciuta all’imprenditore in costanza di matrimoniopossa essere compressa successivamente, con il riconoscimento di una situazione di natura reale sui beni de residuo proprio quando il vincolo coniugale si infrange e i rapporti dovrebbero affievolirsi e non, viceversa, rafforzarsi mediante nuove ipotesi di contitolarità[23].

Il riconoscimento della natura creditizia del diritto dell’altro coniuge[24] consente a quest’ultimo, coerentemente con la ratio legis «e senza menomare la libertà personale del primo, di partecipare, sotto forma di diritto di credito, alla ricchezza prodotta durante la convivenza familiare»[25], ponendo al centro dell’attenzione la tutela delle esigenze dell’impresa.

Viene evitato, in tal modo, il rischio di una paralisi dell’attività produttiva che potrebbe determinarsi sia a causa di difficoltà nella gestione legate al rispetto delle regole dettate per i beni comuni  - «anche ove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime di comunione legale»[26] - sia attraverso la dimidiazione della garanzia patrimoniale che potrebbe pregiudicare i creditori, i quali fondano il proprio affidamento, anche in vista della concessione del credito, sulla consistenza dell’azienda ritenuta di proprietà esclusiva dell’imprenditore[27].

Inoltre, in assenza di una specifica previsione che contempli un diritto di prelazione al favore del coniuge non imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse agilmente divisibile, potrebbe verificarsi l’ipotesi che a chiederne l’assegnazione sia il coniuge non imprenditore o, addirittura, che si determini la necessità di vendere il complesso aziendale a terzi [28].

Parimenti esiziale, per la sopravvivenza dell’impresa, potrebbe configurarsi l’ipotesi di una comunione sui beni aziendali tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro, nell’ipotesi di decesso di quest’ultimo.

5. Conclusioni

Le Sezioni unite della S.C., in ossequio alla ratio dell’istituto della comunione residuale - che mira, cioè, a realizzare  un bilanciamento tra le esigenze sottese da un lato ai principi costituzionali ispiratori della comunione dei beni, di distribuzione delle risorse che ciascun coniuge realizza durante il regime legale[29] e dall’altro, quelle di libertà individuale, che deve essere garantita al coniuge imprenditore in attuazione dei precetti costituzionali di tutela dell’iniziativa economica e della remunerazione del lavoro - aderiscono alla tesi della natura creditizia del diritto spettante all’altro coniuge, riconoscendo una compartecipazione pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.

La pronuncia, muovendo dalla considerazione che le esigenze solidaristiche della famiglia sono da considerarsi recessive rispetto a quelle di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale, nonché di garantire tutela ai creditori, accoglie la soluzione, prospettata da una parte degli interpreti, che valorizza l’interesse aziendale, laddove tale esegesi consente un controllo gestionale unitario e la sopravvivenza stessa dell’impresa, altrimenti potenzialmente compromessa dalle vicende familiari, senza tuttavia vanificare in termini patrimoniali l’aspettativa di fatto vantata dal coniuge non imprenditore sui beni de residuo.

Questa interpretazione, peraltro, oltre ad essere in sintonia con le scelte operate in diversi ordinamenti stranieri[30], e a porsi nel solco degli orientamenti comunitari in materia di conservazione dell’unità aziendale, nell’evenienza di una crisi familiare, appare coerente anche con la voluntas legislativa sottesa all’introduzione nel nostro ordinamento del cd. patto di famiglia, di cui agli artt. 768 e ss., che costituisce uno strumento funzionale a garantire la continuità dell’impresa a fronte di vicende potenzialmente destabilizzanti, nel rispetto delle esigenze della solidarietà.  

Nella stessa linea, la S.C., accogliendo una lettura in chiave assiologica della complessa vicenda, individua un mero diritto di natura obbligatoria e non reale in relazione ai beni oggetto di comunione de residuo.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Ampia la letteratura sul tema; cfr. tra gli altri, in particolare, G.OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ.1976, I, 108; M. DETTI, Oggetto, natura e amministrazione della comunione legale, in Riv. not., 1976, 1173; A. JANNARELLI, Impresa e società nel nuovo diritto di famiglia, in Foro it., 1977, V, 270; V. DE PAOLA, A. MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 212; F. PROSPERI, Sulla natura della comunione legale, Napoli, 1983, 151; T. AULETTA, La comunione legale, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 1999, 112 ss.; G. DI TRANSO, La comunione de residuo in Aa.Vv. Scritti in onore di G. Capozzi. Il diritto privato, I, 1, Milano, 1992, 531 ss.; A. GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Art. 159-230, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja e G. Brancacontinuato da F. Galgano, Bologna-Roma, 2003, 240; C. BENANTI, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, in Familia, 2005, 1076 s., G. OBERTO, La comunione legale tra i coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A.Cicu, F.Messineo e L. Mengoni, continuato da P. Schlesinger, I, Milano, 2010, 1005 ss.

[2] Così Cass., Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889, in giustiziacivile.com, 22 agosto 2022, con nota di N. SCARANO, in Notariato, 2022, 365, con nota di A.C. SORGE, in Riv. not., 2022, p. 201 ss., con nota di A.R. DI TUORO, in Vita not., 2022, 579, con nota di  R.E. De Rosa.

[3] Così. F. BOCCHINI, E. QUADRI, Diritto privato, Torino 2022, 459 ss. Cfr. F. PROSPERI, Sulla natura della comunione legale, cit., 36, che qualifica la comunione legale come regime patrimoniale della famiglia funzionalizzato al godimento e all’amministrazione paritaria dei beni da parte dei coniugi, nonché alla loro partecipazione differita sugli stessi al momento dello scioglimento.

[4] Così, Corte cost. 10 marzo 1988, n. 311, in Giur. cost., 1988, I, 1388. Nello stesso senso, Cass. 7 marzo 2006, n. 4890, in Rep. Foro It., 2006, voce Famiglia, (Regime patrimoniale), 6. In dottrina cfr. M. FRAGALI, La comunione, in Tratt. Cicu-Messineo, XIII, 2, Miano, 1978, 124.

[5]  Cfr. G. CIAN, e A. VILLANI, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, 436 ss.

[6] Cass. Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889 in Giustiziacivile.com, 22 agosto 2022, con nota di N. SCARANO, in Notariato, 4, 2022, p. 365 con nota di A.C. SORGE, in Riv. not., 2, 2022, p. 201 ss. con nota di A.R. DI TUORO, in Vita not., 2, 2022, p. 579, con nota di R.E. DE ROSA. 

[7] Tale libertà di scelta si pone quale espressione dell’avvertita esigenza di consentire ai diretti interessati di adeguare il regime patrimoniale all’assetto economico organizzativo della personale e concreta esperienza familiare. Cfr. E. QUADRI, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur.it., 1997, IV, 229 ss.; Id., Famiglia e ordinamento civile, Torino, 1999.

[8] Sulla famiglia come consortium omnis vitae, in dottrina, cfr., per tutti, P. SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da G. Cian, G. Oppo e A.Trabucchi, III, Padova, 1992, 71 ss. 

[9] Ampiamente, F. BOCCHINI, E. QUADRI, Diritto privato, Torino 2022, 459 ss.

[10] Così, Cass., Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889, cit.

[11] Cfr. sul punto, Cass. 12 febbraio 2021 n. 3767, in www.deiure.it., la quale, in linea con l’interpretazione prevalente, sottolinea che il legislatore «non prevede vincoli di destinazione, né impone limiti o controlli al diritto di ciascun coniuge di disporre del surplus dei propri redditi», in quanto non esiste «alcun diritto di ciascun coniuge sui proventi dell’altro e sul modo in cui questi li amministra». In sostanza, al coniuge percettore viene riconosciuto, «manente communione, rispetto ai proventi dell’attività personale, un potere di godimento, di amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro sussiste anche con riferimento ai beni personali».  La Corte prosegue, rilevando che «la comunione de residuo si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussista nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi. Ne consegue, che ai sensi dell’art. 177 lett. c), sono esclusi dalla comunione legale i proventi dell’attività separata da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione», discostandosi in tal modo dall’orientamento che riconosceva la caduta in comunione de residuo oltre che dei redditi sussistenti al momento dello scioglimento della comunione legale «anche dei redditi percetti e percipiendi, rispetto ai quali il titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione»; in questo senso, Cass. 12 settembre 2003 n. 13441, in Corr. giur., 2006, 813, con nota di G. G.OBERTO; in Dir. e Giur., 2003, 39, con nota di M.R. SAN GIORGIO; in Giust. civ. 2004, I, 341; in Vita not. 2004, 278, in Dir. fam., 2004, 933; Cass. 10 ottobre 1996, n. 8865, in Fam. dir., 1996, 515 ss., con nota di P. SCHLESINGER;  in Vita not., 1996, 1200, con nota di M. FINOCCHIARO. In dottrina,  cfr. T. AULETTA, op. cit., p. 99 ss. 

[12] Diversa, per espressa previsione codicistica, la disciplina relativa alle aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio, che cadono in comunione immediata ex 177, co. 1, lett. d).

[13] Cfr. F. PARENTE, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, nota a Trib. Camerino, 5 agosto 1988, in Foro it., 1990, I, 2345; P. SCHLESINGER, op. cit., 139 s.; L. BARBIERA, La comunione legale, in Tratt. di diritto privato, Persone e famiglia, II, diretto da P. Rescigno, Torino, 1996, 440 ss.

[14] Individua la realizzazione di una contitolarità automatica, P. SCHLESINGER, Della comunione legale, cit., 120. In giurisprudenza, cfr.:  Pret. Bari, 6 febbraio 1982, in Giur. it., 1983, I, 2, 8 e in Giur. merito, 1984, 616 e 1138, con note di M. GIONFRIDA DAINO e M. DOGLIOTTI.

[15] C. BENANTI, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., 1092.

[16] Cass., Sez. un., Cass. 9 marzo 2000 n. 2680 in Foro it., 2000, I, 3551; Cass. 14 aprile 2004, n. 7060, in Riv. not., 2004, 1483; Cass. 3 luglio 2015 n. 13760 in Notariato, 2015, 526; Cass. 14 aprile 2004, n. 7060, in Riv. not., 2004, 1483; Cass. 9 marzo 2000 n. 2680 in Foro it., 2000, I, 3551.

[17] G. DI TRANSO, Comunione legale, cit., 51.

[18] Ampiamente sostenuta in dottrina; in questo senso F. PARENTE, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, cit.; L. BALESTRA, Attività d’impresa e rapporti familiari, in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da G. Alpa e S. Patti, Padova, 2009, 67 s.;  V. DE PAOLA E A. MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 115.

[19] G. GABRIELLI e M. G. CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997,  209 ss. Contra, G. OBERTO, Sulla natura della comunione residuale al momento dello scioglimento della comunione legale, nota a Cass. 29 novembre 2010, n. 42182 in Fam.dir., 2011, 369 ss.

[20] G. GABRIELLI E M. G. CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 209 ss.

[21] G. GABRIELLI e M. G. CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 209.

[22]Cfr. Così Cass., Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889, cit. In dottrina, G. OBERTO, Sulla natura della comunione residuale al momento della cessazione del regime legale, cit., 371.

[23] Cfr. G. CIAN, e A. VILLANI, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale),in Noviss. Dig.It., App. II, Torino, 1981, 347; A. GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., 526.

[24] In giurisprudenza, cfr.: Tribunale di Camerino 5 agosto 1988, cit.; Cass., 29 novembre1986, n. 7060, in Nuova giur. comm., 1987, I, 542 ss.; Cass. 21 maggio 1997 n. 4533, in Mass. giust. civ., 1997, 809; Cass. 20 marzo 2013 n. 6876 in Fam. e dir., 2013, 7, 659. In dottrina, cfr.  F.D. BUSNELLI, La “comunione legale” nel diritto di famiglia riformato, in Riv. not., 1976, 36 ss.; G. CIAN, Introduzione generale, sui presupposti storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di L. Carraro, G. Oppo e A. Trabucchi, I, 2, Padova, 1977, 54; F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da G. Cicu e A. Messineo, continuato da L. Mengoni, Milano, 1979, 95 e 191; P. SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, cit., 122.

[25] G. OBERTO, Sulla natura della comunione residuale al momento dello scioglimento della comunione legale, cit., 379.

[26] Così Cass., Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889, cit.

[27] Così già Cass., 29 novembre 1986, n. 7060, cit., secondo la quale «sono meglio tutelati i creditori dell’imprenditore, i quali sanno di potere contare su tutti i beni che risultano intestati all’imprenditore e facenti parte dell’azienda. Questa protezione dei creditori appare logica proprio perchè l’imprenditore é, per la attività stessa, fisiologicamente soggetto che ricorre al credito altrui (fornitori, banche)».

[28] Così Cass., Sez. un., 17 maggio 2022 n. 15889, cit.

[29] F. PARENTE, Struttura e natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, cit., 2345.

[30] Sul punto, ampiamente, G. OBERTO, Sulla natura della comunione residuale al momento dello scioglimento della comunione legale, cit., 372 ss.