Pubbl. Lun, 27 Giu 2022
La residualità dell´esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il concorso dell´extraneus
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Enrica Valente
La Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 47306 del 1 dicembre 2021 - dep. 30 dicembre 2021, Pres. Diotallevi - Rel. Agostinacchio - torna a pronunciarsi sul rapporto tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni e condotta estorsiva, evidenziandone il discrimen nel diverso elemento psicologico dell´agente. Sulla scia degli insegnamenti delle Sezioni Unite, inquadrando il reato ex art. 393 c.p., in termini di delitto proprio, la Corte delimita fortemente i casi di concorso dell´extraneus.
Sommario: 1. Premessa; 2. I fatti oggetto del giudizio di legittimità; 3. Il rapporto tra le due fattispecie criminose; 3.1 Il diverso elemento psicologico; 3.2 La natura dell’art. 393 c.p. e il concorso dell’extraneus; 4. Conclusioni.
1. Premessa
Con la sentenza n. 47306 del 1° dicembre 2021 – dep. 30 dicembre 2021, Pres. Diotallevi - Rel. Agostinacchio[1] – la Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul rapporto tra il reato di estorsione (art. 629 c.p.) e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.), riprendendo e confermando la linea tracciata dalle recenti Sezioni Unite penali[2].
L’analisi attenta del discrimen tra le due norme non è priva di conseguenze sul piano applicativo, se si considerano tanto i diversi edittali di pena,[3] quanto il diverso regime di procedibilità (nel caso di estorsione, sempre d’ufficio, a querela di parte, per l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni).
Come anticipato, nonostante le Sezioni Unite si fossero nettamente espresse sui confini dell’una e dell’altra norma, la Cassazione ha nuovamente avuto modo di escludere l’applicabilità della meno grave fattispecie di cui all’art. 393 c.p., ribadendone la residualità rispetto a limitate e circoscritte ipotesi.
2. I fatti oggetto del giudizio di legittimità
La sentenza in commento ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto dal difensore di fiducia di un imputato, condannato in primo grado per il reato di concorso in tentata estorsione aggravata, pronuncia che veniva parzialmente confermata in appello, rideterminando esclusivamente la pena, escludendone il vincolo della continuazione.
Il ricorrente, in particolare, lamentava ai giudici di legittimità la violazione di legge e il vizio di motivazione circa la prova dell’elemento soggettivo del reato. Si sottolineava, inoltre, che sarebbe stato opportuno derubricare il fatto contestato ai sensi dell’art. 393 c.p., applicando, inoltre, la circostanza attenuante prevista dall’art. 114 c.p., in considerazione della marginalità del ruolo assunto dall’assistito.
Gli ermellini hanno ritenuto i motivi di doglianza manifestamente infondati.
Circa la presunta mancata prova dell’elemento soggettivo, all’opposto di quanto sostenuto dalla difesa, la condotta tenuta dall’imputato nei confronti della persona offesa, titolare di un bar-tabacchi – lungi dal risultare espressione dell’asserita convinzione di vantare un diritto di credito per conto del coimputato – aveva mostrato all’evidenza anche di testimoni, connotati minacciosi e intimidatori, rafforzati, peraltro, dall’esplicito riferimento ad un sodalizio mafioso.
Secondo la Corte – qui richiamando la pronuncia del Supremo collegio – a nulla rileverebbe l’effettiva esistenza di un credito da parte degli imputati, nei confronti della vittima, posto che ai fini dell’applicazione del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in luogo del reato di estorsione, la pretesa vantata dal reo «deve corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato».[4]
Nei fatti di causa, al contrario, la somma “estorta” ammontava a 1.500 euro, contro i 400/500 euro effettivamente dovuti dalla persona offesa, che avrebbero, tutt’al più, potuto formare oggetto di una legittima domanda giudiziale.
Da ultimo, nel rigettare anche il terzo motivo di gravame, è stato ritenuto corretto non applicare all’imputato l’attenuante della minima partecipazione al fatto tipico, precisando, peraltro, come le uniche ipotesi in cui si ammette il concorso dell’extraneus nel delitto ex art. 393 c.p. sono quelle in cui quest’ultimo si limiti a fornire un supporto alla pretesa del creditore-intraneus, in alcun modo perseguendo – anche – un proprio tornaconto.
3. Il rapporto tra le due fattispecie criminose
La sentenza, sin qui brevemente sintetizzata, costituisce occasione per tornare a fare chiarezza sull’elemento che consente di comprendere quando si è in presenza di una condotta estorsiva e quando, invece, davanti ad un “mero” esercizio arbitrario delle proprie ragioni. In secondo luogo, la pronuncia invita a soffermarsi sulla seconda di tali norme incriminatrici, al fine di vagliare l’annosa questione circa la configurabilità del concorso dell’extraneus nel delitto proprio.
Pare opportuno, a questo proposito, enucleare brevemente gli aspetti principali sui quali hanno fatto leva le più volte menzionate Sezioni Unite, con la sentenza n. 29541/2020, a cui ha aderito successivamente la Cassazione con la pronuncia oggetto d’attenzione.
3.1 Il diverso elemento psicologico
Già prima dell’arresto a Sezioni Unite, era pacifica la sussistenza di un concorso apparente di norme tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Ciò posto, occorre dare conto che un primo orientamento, nel distinguere le due norme, valorizzava, in un’ottica oggettiva, la materialità del fatto: quanto più fosse stata intensa la pressione prevaricatrice dell’agente – connotata da violenza e minaccia – nei confronti della sua vittima tanto più sarebbero risultati evidenti gli estremi di una condotta estorsiva. Laddove, al contrario, la volontà della persona offesa, pur sottoposta a pressioni esterne, non fosse stata in tal modo coartata, nella consapevolezza dell’altrui pretesa creditizia, ci si sarebbe trovati davanti ad un esercizio arbitrario.[5]
Screditando questa prima impostazione, le Sezioni Unite hanno definitivamente accolto la tesi che vede la differenza tra le due norme su un piano soggettivo, ossia guardando all’elemento psicologico del soggetto agente.
Anzitutto, l’art. 393 c.p. non fa alcuna menzione di una necessaria proporzione tra il credito vantato e la reazione arbitraria. Arrivare a sostenere ciò equivarrebbe ad affidare all’interprete un’attività creatrice, violando il principio di legalità e tassatività del precetto penale.
A conferma di quanto detto, va ricordato che – anche – l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni ben può essere connotato da grande ferocia, così come testimonia il comma terzo dell’art. 393 c.p., che aggrava la pena nelle ipotesi in cui la violenza e la minaccia siano commesse per mezzo delle armi.
L’elemento discretivo sta, dunque, nell’idea che il reo, mediante l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia consapevole di vantare una pretesa ragionevole e non meramente arbitraria. Ciò che si vuole recriminare, in tali circostanze, è la mancata adozione dello strumento di tutela pubblicistico, anziché di quello privato. Ne costituisce una riprova la collocazione sistematica della norma, opportunamente inserita all’interno del titolo III del libro secondo del codice penale, riguardante i delitti contro l’amministrazione della giustizia.
All’opposto, pertanto, si avrà una condotta estorsiva allorché l’agente abbia piena contezza dell’ingiustizia del profitto che intende conseguire.
3.2 La natura dell’art. 393 c.p. e il concorso dell’extraneus
Il secondo principio di diritto che emerge dalla sentenza delle Sezioni unite riguarda la natura delle norme previste dagli artt. 392 e 393 c.p., che vengono considerate reati propri.
È stata pertanto definitivamente abbandonata la tesi che, facendo leva sul termine “chiunque”, usato negli incipit delle predette norme, sosteneva che il legislatore avesse voluto descrivere dei reati “comuni”, ossia configurabili indipendentemente da specifiche qualifiche soggettive in capo al reo.
Tale interpretazione deve essere abbandonata, essendo ormai pacifico che la condotta rilevi ex art. 393 c.p. esclusivamente se posta in essere dal titolare «del preteso diritto, dal soggetto che eserciti legittimamente in sua vece il predetto diritto e dal negotiorum gestor»[6].
A sostegno di ciò, si può fare leva su due ordini di argomentazioni.
In primo luogo, non deve trarre in inganno l’utilizzo pronome “chiunque” a fronte di reati propri. Non è un’eccezione, difatti, all’interno della sistematica del codice, l’uso di questo termine apparentemente generale, da parte del legislatore, a fronte di condotte configurabili come penalmente rilevanti solo se poste in essere da soggetti qualificati. Si pensi, a tale proposito, al reato di falsa testimonianza (art. 372 c.p.), a quello di incesto (564 c.p.) o, ancora, ai maltrattamenti contro i familiari e conviventi (art. 572 c.p.).
In secondo luogo, ne sono ulteriore dimostrazione gli edittali di pena previsti dagli artt. 392 e 393 c.p. che puniscono la condotta illecita, per quanto riguarda alla fattispecie di violenza sulle cose, la sola pena pecuniaria e, per quella più grave di violenza alle persone con la reclusione fino ad un anno. Orbene, se si escludesse che queste fattispecie siano imputabili solamente da chi vanti effettivamente un credito nei confronti della persona offesa, sarebbe irragionevole un trattamento sanzionatorio così favorevole, rispetto a quello previsto per coloro che pongono in essere il “solo” danneggiamento (635 c.p.) o la violenza privata (610 c.p.): i reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose o sulle persone, oltre a ledere i beni giuridici già tutelati da queste norme, mettono altresì in pericolo anche gli interessi del buon funzionamento dell’autorità giudiziaria.
Da ciò ne deriva che l’unica ragionevole giustificazione ad un trattamento sanzionatorio in melius ed alla procedibilità a querela di parte stia nel fatto di aver agito, quantomeno, con il convincimento di esercitare un diritto.
Qualificato in termini di reato proprio, ci si chiede, ulteriormente, se sia possibile un concorso nell’art. 393 c.p. da parte di chi, al contrario, non faccia valere alcun diritto ma rafforzi il proposito criminoso dell’intraneus creditore.
La risposta al quesito dipende, evidentemente, dalla valutazione della norma in termini di reato proprio “esclusivo” (anche detto di “mano propria”) ovvero “non esclusivo”.[7] Anche su questo diverso aspetto vi erano opinioni divergenti.
Un primo orientamento sosteneva che la lettera della norma, richiedendo espressamente che l’agente si faccia “ragione da sé medesimo”, inducesse ad escludere la configurabilità di un concorso di altri, rispetto ai titolari del diritto vantato.[8]
Le Sezioni Unite, al contrario, hanno aderito alla tesi che da tempo sosteneva come pleonastico quell’inciso, volto esclusivamente a rafforzare l’idea che il soggetto agente non adisca – illegittimamente – al potere pubblicistico che gli spetterebbe.
Alla luce di queste premesse, appare chiara la posizione delle Sezioni Unite sulla configurabilità di un concorso dell’extraneus (ex artt. 393 e 110 c.p.), rispetto alla partecipazione in termini del più grave reato di estorsione. Affinché il concorrente goda del più mite trattamento sanzionatorio, previsto dall’art. 393 c.p., è necessario che «abbia commesso il fatto al solo ed esclusivo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio».[9]
4. Conclusioni
La pronuncia di inammissibilità cui è arrivata la Seconda Sezione della Corte di cassazione non stupisce. Gli ermellini, confermando i precedenti due gradi di giudizio, escludono l’applicabilità della norma sull’esercizio arbitrario delle ragioni, con violenza alle persone, valorizzando l’elemento psicologico in capo all’agente. Quest’ultimo, indipendentemente dalla pressione prevaricatrice utilizzata sulla vittima, pone in essere una condotta estorsiva ogniqualvolta vanti pretese inesistenti o esorbitanti da quelle che realmente gli spetterebbero, nella piena consapevolezza di agire contra ius. Ugualmente, poi, risponderanno di estorsione tutti i correi, abbiano essi o meno concorso nel reato di cui all'art. 393 c.p., se le loro richieste, minacciose o violente, esorbitino rispetto al diritto vantato dal titolare.
Tale ultima recente pronuncia, pertanto, vale a confermare l’orientamento delle ultime Sezioni Unite penali.
[1] V. Cass. pen., sez. II, ud. 1° dicembre 2021 (dep. 30 dicembre 2021), n. 47306 Presidente Diotallevi - Relatore Agostinacchio, in Leggi d'Italia.
[2] SS.UU., 23 ottobre 2020 n. 29541, in De jure. Cfr. S. BERNARDI, Le Sezioni unite sui contorni applicativi del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza alle persone in tema di rapporti con l’estorsione e concorso dell’extraneus: una pronuncia risolutiva?, in Sistema pen., 11 novembre 2020.
[3] La norma che punisce la condotta di estorsione prevede la pena della reclusione da cinque a dieci anni, oltre alla multa da 1.000 a 4.000 euro; nella forma aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 629 c.p., la pena va da sette a vent’anni di reclusione e da 5.000 a 15.000 euro di multa. Appare evidente lo scarto sanzionatorio rispetto al reato previsto e punito ex art. 393 c.p. con la reclusione fino ad un anno, cui si aggiunge la multa fino a 206 euro, qualora oltre alla violenza sulle persone vi sia anche quella sui beni.
[4] Cass. pen. Sez. II, 1° dicembre 2021, n. 47306, p. 3.
[5] Ex multis v. Cass. pen. sez. V, 15 luglio 2019, n. 35563.
[6] SS.UU., 23 ottobre 2020, n. 29541, p. 10.
[7] Sul tema, cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, X edizione, Milano, 2017, 109.
[8] Cass. pen. Sez. II, 28 giugno 2016, n. 46288.
[9] SS.UU., 20 ottobre 2020, cit., p. 27.