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Pubbl. Lun, 2 Nov 2015

Mediazione penale, obbligatorietà dell´azione e principio di non colpevolezza nel processo penale comparato. GEDUZTYNYLG6W2T

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Ludovica Di Masi


Confronto e considerazioni con il Prof. Gaspare Dalia a chiusura del corso di Diritto Processuale Penale Comparato dell´Università degli Studi di Salerno - Anno Accademico 2014/2015.


Premessa all'intervista 

Il corso di “Diritto Processuale Penale Comparato” è caratterizzato dall'analisi del sistema processuale penale italiano in parallelo con sistemi presenti in altri Paesi, alcuni maggiormente rappresentativi della struttura di Civil Law, altri di Common Law. Partendo da un’osservazione storica, sono stati esaminati gli aspetti positivi e quelli critici di ciascun sistema, giungendo alla consapevolezza che il “giurista internazionale”, come quello italiano, auspica l’attuazione di un processo che sia equo, oltre che giusto, e che propenda, sempre e comunque, per l'effettivo rispetto delle garanzie fondamentali riconosciute dalle carte internazionali ad ogni individuo sottoposto ad un processo penale.

Il modello processuale penale statunitense

D: Volendo soffermarci su alcuni aspetti trattati durante il corso, secondo lei, Professore, il processo penale statunitense, quale modello accusatorio per eccellenza, ad una lettura critica, risulta efficiente e garantista?

R: Il sistema processuale penale statunitense è sicuramente quello più conosciuto al mondo, perché entrato nell'immaginario collettivo grazie anche alla notevole produzione cinematografica sul tema della giustizia. Il risultato è che tale sistema, però, è stato un po' "mitizzato", perché considerato - forse sin troppo frettolosamente - la massima espressione del processo accusatorio inteso nel senso più puro del termine, ossia il confronto dialettico tra le parti che, in condizioni di parità, portano ad un giudice terzo e imparziale le proprie tesi. Tuttavia, quello statunitense è stato il sistema che, più di altri, ha ispirato il legislatore italiano del 1988 che, con l'adozione del nuovo codice di procedura penale - cioè il primo codice "costituzionalmente orientato" della storia della Repubblica -, ha realizzato un modello processuale che sicuramente costituisce un grande passo in avanti rispetto alla necessità di un accertamento garantito di qualsiasi fatto che si reputi penalmente rilevante.

Il corso ha quindi dimostrato che quello americano è un sistema ipoteticamente valido ed efficace (per non dire efficiente), ma che, tuttavia, non riconosce gli stessi diritti a tutti i cittadini, presentandosi, invece, come un modello molto poco solidale: il processo vero e proprio, ossia il giudizio pubblico dinanzi ad una giuria, statisticamente è riconosciuto a pochi, o meglio a quelli che hanno le risorse economiche per poterlo affrontare, mentre la maggior parte dei reati viene risolto con il ricorso al "patteggiamento", ossia il plea bargaining, che definisce il procedimento penale in una fase precedente al giudizio vero e proprio. Il risultato è che la popolazione carceraria negli USA è la prima al mondo per numero di detenuti e il sistema sembra inoltre tendere ad una sostanziale emarginazione di colui che commette un reato, a fronte invece di un sistema processuale penale, come quello italiano, ispirato al principio costituzionale di solidarietà che, all'art. 27, stabilisce appunto che una pena debba tendere alla rieducazione ed alla risocializzazione del condannato.

Ecco che allora il sistema americano si è dimostrato invece in tutta la sua negatività laddove prevede dei meccanismi che non fanno altro che aumentare l'emarginazione sociale di colui che ha commesso un reato, senza alcuna effettiva possibilità di essere recuperato. Così come ha fallito laddove alla polizia è stata concessa sin troppa autonomia nella fase delle indagini. Sta di fatto che tale sistema ha positivamente influenzato il nostro attuale modello processuale perché siamo riusciti a realizzare un codice che, seppur con i limiti obiettivi che la pratica del diritto dimostra, ha finalmente riconosciuto all'imputato il diritto di difendersi provando, nel contraddittorio tra le parti che devono trovarsi in una reale condizione di parità: infatti, con l'eliminazione della figura del giudice istruttore (di chiara matrice inquisitoria perché figura voluta dal code d'instruction criminelle napoleonico) e con la valorizzazione della figura del magistrato del pubblico ministero (che dispone direttamente della polizia giudiziaria) come unico soggetto deputato a svolgere indagini, nel nostro paese si è finalmente realizzata quella netta separazione tra funzioni inquirenti e giudicanti, la cui confusione, in passato, non garantiva un accertamento penale equo e, soprattutto, giusto. (1)

L'obbligatorietà dell'azione penale e la particalare tenuità del fatto

D: Nel nostro sistema vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale che, com'è noto, trova consacrazione nell’art. 112 Cost., mentre, ad esempio in Belgio, ci troviamo di fronte ad un principio di opportunità dell’azione penale: in questo Paese, rispetto all'azione penale, è stabilito che “tenuto conto delle direttive di politica criminale definite in vista dell’art. 143-ter del Code Judiciaire, il procuratore del re giudica dell’opportunità dell’azione penale”. Qual è, invece, l’applicazione che si fa oggi in Italia del principio in esame e come si atteggia nei casi di “particolare tenuità del fatto”?

R: Il principio di obbligatorietà dell'azione penale, nelle scelte del legislatore costituzionale, tende a dare concretezza all'art. 3 della Costituzione, ossia all'esigenza di dover garantire l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge senza possibilità di scegliere discrezionalmente "cosa" perseguire e, soprattutto, "chi" perseguire. Tuttavia, questo principio ha dimostrato tutte le sue criticità nel momento in cui si è dovuto fare i conti con la crisi della giustizia, sommersa da procedimenti penali a volte inutili, incapace di dare risposte laddove, invece, il sistema sanzionatorio ne doveva dare in tempi ragionevoli. Tant'è vero che, di recente, è stata approvata la riforma che ha introdotto l'ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ossia un meccanismo in virtù del quale l'azione penale non deve essere esercitata in casi in cui lo Stato non ha interesse ad esercitarla (perché fatti sporadici, episodici e contraddistinti, appunti, da particolare tenuità), anche in considerazione dei costi che un eventuale accertamento presupporrebbe comunque.

Ecco che, allora, la tenuità del fatto va intesa come una riforma sicuramente positiva, poiché avrà delle inevitabili ricadute da un punto di vista prettamente culturale su come si debba intendere, in senso moderno, l'accertamento penale e, più in generale, il principio di offensività di un fatto perché possa essere inteso come "penalmente rilevante". Il corso ha infatti dimostrato che non solo in Belgio, ma anche in altri paesi, non vige il principio di obbligatorietà dell'azione penale, bensì si parla più che altro di opportunità di esercizio dell'azione penale e, in altri casi, di discrezionalità dell'azione penale. La soluzione ideale, pertanto, potrebbe appunto essere una "via di mezzo" tra obbligatorietà e discrezionalità: una giustizia che sia realmente uguale per tutti dovrebbe sempre essere informata a criteri di opportunità dell'azione penale, processo che, proprio grazie all'approvazione della legge che ha introdotto l'istituto dell'improcedibilità dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto, è appena iniziato e dovrà essere sicuramente coltivato perché l'amministrazione della giustizia penale non viva un perenne stato d'emergenza.

Solo la pratica dimostrerà come, in realtà, i giudici intenderanno valutare un fatto come particolarmente tenue per non essere, quindi, meritevole di un accertamento. Tuttavia, credo che la riforma si dovrà però scontrare innanzitutto con quelle resistenze culturali di retaggio inquisitorio che ancora segnano, in generale, il modo di intendere la giustizia penale da parte di alcuni.

La mediazione penale: quale approdo nella realtà italiana

D: La mediazione penale sembra lontana dalla mentalità italiana. Tuttavia, troviamo delle aperture a questo istituto: ad esempio, in tema di stalking, l’introduzione della procedura di “avvertimento orale”. Secondo lei, in futuro, la mediazione penale sarà una strada percorribile per altre vie dal legislatore?

R: La mediazione penale come metodo alternativo di risoluzione delle controversie è sicuramente un obiettivo che deve essere perseguito dal nostro legislatore che ha introdotto, seppur indirettamente, questo istituto nel nostro sistema processuale penale, dopo averlo sperimentato in quello civile: accanto al giudizio abbreviato, al patteggiamento, all'oblazione e al decreto penale di condanna, con Legge del 2014 è stato infatti inserito un ulteriore rito alternativo al giudizio, ossia la messa alla prova, istituto che consente l'estinzione del reato se, tra le altre ipotesi, l'imputato si impegna a seguire un programma di mediazione con la vittima, oltre che provvedere alle classiche forme di restituzione/risarcimento del danno conseguente al reato.

Pertanto, per il nostro legislatore la mediazione non deve essere solo un metodo di definizione alternativa dei procedimenti penali, ma deve anche contribuire a mettere in collegamento la vittima con l'autore del reato per cercare di evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Purtroppo, però, l'esperienza in materia di stalking non è servita assolutamente, poiché la procedura amministrativa di avvertimento orale (che si verifica laddove la persona offesa dal presunto reato, prim'ancora di proporre denuncia all'Autorità Giudiziaria, faccia presente all'Autorità di Pubblica Sicurezza che un individuo sta ponendo in essere condotte persecutorie) non è, nei fatti, un'occasione per mediare tra vittima e carnefice; piuttosto è diventata occasione per modificare una condizione di procedibilità: infatti, il reato di atti persecutori ex art. 612-bis c.p. (procedibile, salvo nelle ipotesi aggravate, a querela di parte), diventa procedibile d'ufficio laddove all'avvertimento orale non sia conseguita la cessazione dei comportamenti persecutori segnalati. Quindi, un'occasione che poteva essere utile almeno per iniziare un processo di mediazione (magari attivando anche i servizi sociali) nei fatti si sta dimostrando del tutto inefficace, sia per la mancanza di finalità deflattive del carico giudiziario, sia per lo snaturamento delle finalità di mediazione che, sia chiaro, non significa pacificazione sociale a tutti i costi, bensì attività preposta ad evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria della persona offesa dal reato che deve anch'essa, al pari dell'indagato/imputato, ricevere adeguata tutela da un sistema processuale penale che si voglia definire efficiente e giusto.

Il ragionevole dubbio e il principio di non colpevolezza: in dubio pro reo

D: Il 10 giugno 2015, presso l’aula 1 della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Salerno, si è tenuto un Seminario da lei organizzato vertente sul “ragionevole dubbio”. Qual è il rapporto che lega ragionevole dubbio e principio di non colpevolezza?

R: Il seminario del professor Jordi Nieva-Fenoll dell'Università di Barcellona è stato molto utile perché, a conclusione del corso, ha dimostrato, in sostanza, come il tema della presunzione di non colpevolezza sia attualissimo proprio perché deve esser letto in stretta correlazione con il principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio. La cosiddetta regola del B.A.R.D. (beyond any reasonable doubt), sulla cui attualità è inutile soffermarci, non è però una "scoperta" del sistema nordamericano: anzi, è un principio che trova la sua origine proprio nel diritto romano e, perdippiù, nell'antico brocardo "in dubio pro reo" che, nella sua evoluzione storica, ha assunto proprio l'attuale accezione di principio in virtù del quale non si può condannare una persona, a meno che non vi sia la certezza della sua responsabilità penale, con la conseguenza che deve esserci l'assoluzione dell'imputato ogniqualvolta il sistema non riesce a dimostrare, nel processo, questa certezza. Sarebbe questa l'unica strada per poter realizzare concretamente il principio della presunzione di non colpevolezza, anch'esso cristallizzato nell'art. 27 della nostra costituzione, ma anche una pietra angolare dei sistemi che vogliono attuare i principi e le garanzie fondamentali contenuti nelle carte internazionali, che devono sempre ispirare il legislatore, oltre che l'operatore del diritto e, più in particolare, i giudici.

 

Note e riferimenti bibliografici

(1) È consigliabile il rinvio a questa intervista al prof. Andrea Antonio Dalia come dimostrazione dell'entusiasmo che aveva provocato il "processo all'americana" nell'accademia che poi elaborò il nuovo codice.

In copertina: "Prigione", Ludovica Di Masi, matita e acquerello, riproduzione da foto.