Pubbl. Gio, 12 Mag 2022
Le azioni esperibili dall´acquirente in caso di compravendita di opera d´arte non autentica: alcuni case law
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Andrea Giocondi
Il lavoro analizza l´evoluzione giurisprudenziale che ha portato all´attuale orientamento sulle più opportune azioni esperibili a tutela dell´acquirente di un´opera d´arte rivelatasi falsa.
Sommario: 1. Brevi cenni introduttivi sulla “non autenticità” dell’opera d’arte; 2. Un primordiale orientamento giurisprudenziale; 3. Il revirement giurisprudenziale del 1960: la risoluzione per aliud pro alio; 4. L’annullamento per vizi del consenso (errore o dolo) quale azione esperibile in assenza di dichiarazione e/o garanzia di autenticità da parte del venditore; 5. Sintetiche osservazioni sulla scelta dell’azione più opportuna: verso un approccio casistico.
1. Brevi cenni introduttivi sulla “non autenticità” dell’opera d’arte
Uno degli aspetti fondamentali del mercato dell’arte è, come facilmente intuibile, che l’opera d’arte compravenduta sia “autentica”, intendendosi con tale termine la convergenza, sotto il profilo dell’attribuzione di paternità, tra la creazione artistica oggetto di scambio e quella in concreto alienata[1].
Preliminarmente, dal punto di vista prettamente definitorio, va opportunamente indicato che, sotto il concetto di “non autenticità” o di “falso artistico”[2], si rinviene un’ampia casistica nella quale ricadono il caso in cui la paternità dell’opera venga assegnata ad un autore diverso da quello che risulti dall’opera stessa o dal contratto, quello in cui l’attribuzione dell’opera ad un autore - inizialmente incontestata - venga in un secondo momento disconosciuta o divenga dubbia, e ancora, quello in cui, data per certa la provenienza della creazione artistica - in quanto riconosciuta dall’autore o da un esperto - l’opera subisca, nel tempo, alterazioni o manomissioni tali da renderla non più giudicabile come originale.
Ebbene, se per il contratto di compravendita l’ordinamento offre plurime azioni che l’acquirente che si ritiene leso può, a seconda dei casi, validamente esperire, il tentativo di individuare l’esatta disciplina applicabile alla peculiare fattispecie della compravendita di una creazione artistica “non autentica”, ha portato la dottrina e la giurisprudenza a prediligere nel tempo soluzioni diverse.
A giustificazione delle iniziali “indecisioni” nella scelta, va rilevato che diversi sono gli istituti che ben si coniugano, prima facie, alla fattispecie. Invero, risultano in astratto utilizzabili l’azione di garanzia per i vizi della cosa venduta, di cui all’art. 1490 ss. c.c., la risoluzione del contratto per mancanza di qualità promesse o essenziali, di cui all’art. 1497 c.c., ovvero sarebbe applicabile la disciplina della risoluzione del contratto per inadempimento a seguito di avvenuta consegna di aliud pro alio, prevista dagli artt. 1453 ss. c.c. e infine - anche la disciplina dell’annullamento per vizi del consenso di cui all’art. 1427 ss. c.c. e, in particolare, per dolo ex art. 1439 c.c. o per errore sull’identità dell’oggetto scambiato o su di una qualità dello stesso ex art. 1429, n. 2, c.c..
2. Un primordiale orientamento giurisprudenziale
In un primo momento, la giurisprudenza era pervenuta a trattare la fattispecie in esame, prima attraverso la disciplina della garanzia per i vizi della cosa venduta e successivamente per mezzo di quella della risoluzione del contratto per mancanza delle qualità promesse o essenziali all’uso, attribuendo in quest’ultimo caso alla “autenticità” il valore di “qualità della cosa”.
Simili orientamenti, tuttavia, non avevano ottenuto pieno consenso, essendo stata riscontrata sin dal principio un’estrema difficoltà - se non impossibilità - per il compratore di esperire validamente le azioni prescelte entro gli stringenti termini decadenziali e prescrizionali previsti dal codice civile. Come noto, infatti, l’art. 1495 c.c. fissa in otto giorni dalla scoperta del vizio, il termine decadenziale entro il quale il compratore deve denunziare i vizi e, in ogni caso, in un anno dalla consegna del bene il termine prescrizionale entro il quale avviare l’azione.
L’impossibilità di rispettare i richiamati termini era stata giustificata per mezzo dell’evidenziazione della peculiarità del bene compravenduto che, in quanto oggetto la cui individualità e valore si “rispecchia” negli elementi di paternità e originalità, si riteneva non potesse essere considerato alla stregua di una qualsiasi altra merce. Invero, si era notato che per l’acquirente sarebbe risultato assai complesso avvedersi della “non autenticità” dell’opera o di farvi eseguire affidabili perizie in tempi particolarmente brevi, con la conseguenza che a causa dei fisiologici ritardi, si sarebbe potuto facilmente incorrere nelle decadenze e nelle prescrizioni codificate, rimanendo infine privi di un’adeguata tutela.
Tali preoccupazioni, nella specie, derivavano dal fatto che molto spesso, chi acquista una creazione artistica, si avvede della sua “falsità” a distanza anche di molti anni e addirittura, alle volte, ne prende atto per mera casualità: in molte situazioni, ad esempio, la falsità dell’opera può emergere in occasione di studi scientifici svolti con sistemi più moderni, o a seguito di attività investigative delle forze di polizia o, ancora, a causa di disconoscimenti da parte delle fondazioni, dei medesimi artisti o dei loro eredi in occasione di controversie di diritto successorio.
Oltretutto, va finanche osservato che i c.d. “falsi puri”, in arte, sono più rari di quanto si possa ritenere, ragion per cui le analisi scientifiche richiedono spesso molto tempo[3]: difatti le perizie, frequentemente, sono volte a certificare sino a che punto una creazione sia autentica e sino a che punto sia falsa - a volte anche rispetto ad elementi che coinvolgono solo parzialmente l’opera, quali le manipolazioni succedutesi nel tempo o la sua datazione - in una “scala di grigi” tra gli alternativi concetti di “autenticità” e “falsità” tout court intesi.
Talché, in ragione di simili concorrenti motivi, la dottrina e la giurisprudenza erano infine giunte ad obiettare al primordiale orientamento sopra richiamato - che aveva peraltro persino qualificato il contratto di compravendita di opera d’arte quale contratto aleatorio - di avere attribuito il rischio dell’acquisto in capo al solo compratore in maniera eccessivamente sbilanciata e sbrigativa[4].
3. Il revirement giurisprudenziale del 1960: la risoluzione per aliud pro alio
Il “cambio di rotta” si è avuto con la sentenza della Cassazione n. 2737 del 14 ottobre 1960[5]: superate le precedenti visioni, la Corte ha stabilito che “spetta al compratore, cui l’autenticità (dell’opera d’arte ndr) sia stata garantita, il diritto di ottenere la risoluzione del contratto per vendita di aliud pro alio”.
Quindi, in buona sostanza, attraverso la scelta di tutelare il compratore attraverso l’azione di risoluzione ordinaria per inadempimento ex art. 1453 c.c., sono state definitivamente “scardinate” le difficoltà dovute ai limiti temporali di cui all’art. 1495 c.c. che, come sopra accennato, mal si coniugavano con la posizione dell’acquirente, parte debole della compravendita.
Il punto focale del mutato orientamento è dipeso, in particolare, dall’aver elevato l’elemento della “autenticità” da qualità del bene a “elemento sostanziale che è connaturato con l’opera stessa, cui conferisce quella specifica individualità”. I giudici di legittimità hanno pertanto ritenuto che “l’opera falsa è un bene di un genere diverso dall’opera autentica, non idoneo a soddisfare il contratto” e che quindi, giocoforza, se è assente l’elemento della “autenticità” quale elemento essenziale finalizzato a rendere esattamente individuabile l’oggetto scambiato, allora il bene è diverso da quello che le parti avrebbero dovuto trasferire[6], non rinvenendosi, così, nemmeno la funzione economico-sociale cui lo scambio tende.
Tuttavia, va anche doverosamente precisato che, rispetto al calcolo del termine prescrizionale decennale, si è assistito negli anni ad un contrasto giurisprudenziale che ha visto contrapposti, da un lato un orientamento che aveva optato per la decorrenza del termine a far data dalla scoperta della “non autenticità” dell’opera e, dall’altro lato, uno opposto che aveva invece fissato il dies a quo alla data della compravendita: il conflitto è stato recentemente risolto, non senza doglianze, in favore della seconda citata soluzione[7], evidentemente meno vantaggiosa per l’acquirente.
La giustificazione della scelta va ricercata nel fatto che se da un lato la giurisprudenza, con il revirement del 1960, aveva “strizzato l’occhio” al compratore, permettendogli di esperire un’azione sicuramente più favorevole, dall’altro lato simile favor non si sarebbe potuto risolvere in una completa egemonia in capo a quest’ultimo.
Infatti, sentita la necessità di rispettare il principio del superiore interesse della certezza dei traffici giuridici, il riequilibrio delle posizioni contrattuali sarebbe dovuto passare, obbligatoriamente, attraverso l’imposizione all’acquirente del dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza, costringendo il medesimo a non ritardare oltremodo, colpevolmente e per mera incuria, la verifica dell’autenticità del bene.
Poste, così, le basi dell’azione di risoluzione per aliud pro alio, alla sentenza del 1960 hanno fatto seguito numerose pronunce[8], che hanno via via affinato l’impianto, sino a dargli la “forma” oggi accettata da dottrina e giurisprudenza.
Innanzitutto, con riguardo al danno risarcibile, è stato sancito che questo debba essere comprensivo dell’interesse contrattuale negativo e di quello positivo, con la conseguenza che risulta risarcibile tanto il danno emergente, consistente nella restituzione del prezzo e nel rimborso delle spese sostenute in occasione della vendita, quanto il lucro cessante, che ricomprende la perdita subita a causa dell’inadempimento, ovvero quanto ricavabile da un miglior utilizzo della somma pagata (in taluni casi, persino ricomprendendosi il maggior valore che il bene artistico avrebbe potuto avere qualora fosse risultato autentico[9]).
Rispetto, poi, all’onere della prova, la giurisprudenza ha finanche statuito che “il creditore (..) deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento”[10].
In altri termini, l’unico onere gravante sull’acquirente è quello di dimostrare che il bene trasferitogli sia di un genere diverso da quello pattuito e, quindi, che sia funzionalmente inidoneo ad assolvere la destinazione economica che sarebbe stata assolta, viceversa, dal bene autentico. Sul venditore, invece, grava l’onere di provare di avere correttamente adempiuto, superando la presunzione di colpevolezza attraverso la prova della non imputabilità, ovvero del non essere stato in grado di rilevare la “falsità” dell’opera perché in buona fede.
4. L’annullamento per vizi del consenso (errore o dolo) quale azione esperibile in assenza di dichiarazione e/o garanzia di autenticità da parte del venditore
Fissata, allora, l’evoluzione giurisprudenziale che ha consentito all’acquirente di richiedere la risoluzione per aliud pro alio, va anche rilevato che detta azione, tuttavia, risulta applicabile alla sola fattispecie nella quale l’“autenticità” sia stata espressamente o implicitamente, ma comunque inequivocabilmente, dichiarata e garantita dal venditore o pattuita tra le parti[11].
La puntualizzazione è quantomai doverosa, dal momento che l’art. 64 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, prevede l’obbligo del rilascio del “certificato di autenticità” solo in capo a chi esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione ai fini del commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita o, più genericamente, a chi abitualmente vende le opere d’arte[12]. Potrebbe infatti accadere che il compratore acquisti un bene artistico senza alcuna dichiarazione e/o garanzia, da parte del venditore “privato” sulla “autenticità” del medesimo[13], con la conseguenza che il compratore non potrà poi dolersi dell’eventuale non autenticità dell’opera, non essendo stata tale caratteristica specificata dal venditore.
In questo caso, allora, viene in rilievo non un vizio funzionale della vicenda contrattuale come nella sopra indicata azione di risoluzione per aliud pro alio, bensì emerge un vizio originario della volontà espressa dalle parti e, pertanto, spetta all’acquirente l’azione di annullamento per vizi del consenso (errore o dolo) ex art. 1428 e ss. c.c. e, più in particolare, in base all’errore sull’identità dell’oggetto o su una qualità dello stesso.
Più nello specifico, mancando un accordo inequivocabile tra le parti, il presupposto giuridico dell’azione in parola è che l’“autenticità” sia stata solo ipotizzata o supposta da una delle parti: il ché porta a richiedere, in sede giudiziale, una particolare attenzione da parte del giudice all’atto dell’interpretazione della volontà delle parti, ciò al fine di verificare che la “autenticità” dell’opera sia stata o meno garantita dal venditore o, invece, sia stata solo presunta dall’acquirente.
Ovviamente, come noto, dovrà pur sempre trattarsi di errore riconoscibile al momento dell’acquisto, a nulla valendo il fatto che l’attribuzione di paternità possa essere poi mutata, successivamente alla compravendita, per effetto di analisi e indagini tecniche rese dai periti.
5. Sintetiche osservazioni sulla scelta dell’azione più opportuna: verso un approccio casistico
Se quanto sinora rilevato induce, quindi, a ritenere raggiunto un certo grado di certezza nell’esatta individuazione delle azioni esperibili in occasione delle fattispecie esaminate, in ogni caso va anche osservato che non può essere utilizzato un approccio oltremodo dogmatico, ma risulta più opportuno utilizzarne anche uno di tipo “casistico”.
In altri termini, la scelta dell’azione sarà dettata, caso per caso, dall’analisi dei rapporti tra le parti, dalla rilevanza che assume nello scambio il certificato di autenticità e, infine, finanche dall’opportunità dell’azione ipotizzata rispetto al tempo trascorso dal momento in cui la stessa poteva essere esperita, al risarcimento anelato ed alle prove a disposizione.
Una soluzione unica, valevole per tutte le singole fattispecie che possano rientrare nella generale casistica analizzata non sembra possibile, poiché i rimedi sono tutti in astratto applicabili, ciascuno nei termini comunque indicati precedentmente.
Ebbene una simile posizione, tuttavia, non deve suscitare stupore, rinvenendosi una molteplicità di casi sussumibili nelle diverse fattispecie astratte. Esattamente in tal senso, peraltro, si è espressa anche la Suprema Corte proprio in uno dei casi già in precedenza esaminati[14], laddove, oscillando tra la scelta dell’azione di annullamento e quella di risoluzione, così ha concluso: “sarebbe ipotizzabile (..) A) un’ipotesi di vendita di aliud pro alio [e spetterebbe] al compratore (..) il diritto di ottenere la risoluzione del contratto (..) B) oppure com’è ragionevole pensare, 1) un’ipotesi di errore, cioè un vizio del consenso (che avrebbe comportato un’annullabilità del contratto (..)), perché le parti, entrambe (..) (o anche una sola, l’acquirente) avevano avuto una falsa conoscenza della realtà, [o] 2) un’ipotesi di dolo nel caso in cui (l’attore ndr)dimostra[sse] che era stato indotto a concludere il contratto di cui si dice, ovvero, a concluderlo a condizioni diverse da quelle che avrebbe pattuito”.
I rimedi, allora, sono tra di loro alternativi, avendo l’azione di annullamento del contratto carattere residuale e potendo, quindi, essere proposta anche in via subordinata rispetto a quella di risoluzione: la scelta, in definitiva, è rimessa alla parte presunta lesa, la quale opterà, secondo gli elementi a propria disposizione, per l’azione più adeguata alla situazione.
[1] Per una più approfondita disamina sulla compravendita e sull’autenticità delle opere d’arte, senza pretesa di esaustività, si vedano i seguenti recenti lavori: F. BOSETTI (a cura di), Arte e diritto privato. Teoria generale e problemi operativi, Pisa, 2021; G. FREZZA, Arte e diritto fra autenticazione e accertamento, Napoli, 2019.
[2] Va distinta la figura del “plagio artistico”, che si verifica nel caso in cui il plagiario, modificando o meno, anche solo in parte, l’opera dell’ingegno altrui, la presenta come frutto della propria creatività. Cfr. ex multis: M. FABIANI, Il falso letterario, artistico o musicale, in Il diritto d’autore, 2013, p. 238; C. BRANDI, Teoria del restauro, Roma, 1963; N. TACENTE, Compravendita di opera d’arte non autentica, in Ricerche giuridiche, 1, II, 2013, p. 165.
[3] H. ALTHÖFER, Il restauro delle opere d'arte moderne e contemporanee, Firenze, 1991; C. BRANDI, Il concetto di falsificazione, contributo alla voce “falsificazione” in Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma, V, 1961, pp. 312 e ss.. In merito alle difficoltà di raggiungere un risultato unanime e certo a seguito delle perizie sui beni artistici, per una visione più marcatamente giuridica si rinvia anche a quanto sostenuto da R. SACCO, Il contratto, in Tratt. di dir. civ., 1, III, 2004, p. 524. Secondo l’A., il “punto di vista” degli esperti sarebbe perennemente soggetto al pericolo di critica successiva, ragion per la quale si dovrebbe addirittura parlare più di “stato attuale della critica sul punto della paternità del quadro” che non di “paternità effettiva”. Prendendo le mosse da tali considerazioni, allora, in taluni casi risulterebbe più opportuno disapplicare la disciplina dell’errore: difatti, essendo giudizialmente accertabile solo lo stato della critica in un dato momento storico, logica conseguenza vuole che l’errore rilevante (da ricercare in giudizio) debba ricadere solamente, a sua volta, sul quel dato stato della critica in quel dato momento storico, tutelandosi così l’acquirente solamente rispetto a quella specifica posizione scientifica. Va tuttavia annotato che, a tale tesi, altra parte della dottrina ha obiettato la mancata presa di coscienza di altre situazioni nelle quali un raffronto tra perizie discordanti non sussiste o non vi sia una precedente perizia da comparare, dovendosi optare, allora, più opportunamente, per la distinzione di disciplina tra i casi in cui l’“autenticità” dell’opera d’arte sia stata garantita e quelli in cui simile garanzia non sia stata resa: cfr. E. GABRIELLI, Vendita di opera d’arte, violazione dell’impegno traslativo e nullità del contratto per illiceità del suo oggetto, in Corr. Giur., 4, 2013, p. 464.
[4] Va sottolineato che nel contratto in esame non ricorre alcuna cifra di alea. Il concetto di alea, infatti, rimanda per definizione a circostanze future ed incerte, mentre nel caso di specie la spinosità verte semplicemente su di un bene che rimane nel tempo immutato, mutando, invece, solamente l’attribuzione della paternità: e ciò accade solo a seguito della scoperta di una qualità diversa che, tuttavia, come tale, sussiste sin dalla creazione del bene medesimo. Sull’inaccettabilità dell’originario orientamento giurisprudenziale, vedasi: M. FARNETI, Quali rimedi contrattuali in caso di vendita di opere d’arte di paternità controversa, in Nuova giur. civ. comm., 9, 2011, p. 435; S. ALBERTI, Profili patologici e rimedi civilistici nella circolazione delle opere d’arte nel diritto italiano; qualche utile spunto dal diritto francese, in F. BOSETTI, op. cit., pp. 229 e ss.. Cfr. anche Cass., 11 giugno 1942, n. 1635, in Rep. Foro it., 1942: in tale decisione i giudici sono giunti all’annullamento della vendita per errore sulla qualità dell’oggetto (art. 1429, n. 2, c.c.), consentendo così all’acquirente di avvalersi, in tema di prescrizione, del più ampio termine quinquennale decorrente solo dalla scoperta dell’errore: la Corte, altresì, ha anche escluso il carattere di aleatorietà del contratto di compravendita di un quadro antico.
[5] Cass., 14 ottobre 1960, n. 2737, in Foro It., 1960, I, p. 1914. L’orientamento è oramai consolidato, essendo stato confermato per mezzo di numerose pronunce, tra le quali: Cass., 25 gennaio 2018, n. 1889, in Resp. Civ. e Prev., 2, 2018, p. 633; Cass., 23 marzo 2017, n. 7557, in Giustizia Civile Massimario, 2017; Cass., 09 novembre 2012, n. 19509, in Giustizia Civile Massimario, 2012 (trattasi del celebre caso del dipinto denominato “Gli Arcangeli” e attribuito a Giorgio de Chirico); Cass., 08 giugno 2011, n. 12527, in Giustizia Civile Massimario, 2011; Cass., 01 luglio 2008, n. 17995, in Guida al diritto, 40, 48 (s.m.), 2008; Cass. 03 luglio 1993, n. 7299, in Giur. It., I, 1, 1994, p. 410; Cass. 26 gennaio 1977, n. 392, in Riv. giur. scuola, 1979, p. 880. Sul punto si rinvia anche a E. GABRIELLI, op. cit.. In tal senso, cfr. anche Cass., 27 novembre 2018, n. 30713, in Giustizia Civile Massimario, 2018 (trattasi del noto caso di un dipinto attribuito a Emile Gallé) e Cass., 15 ottobre 2015, n. 20809, in dejure.it: per le due ultime richiamate pronunce, va segnalato che, se da un lato è stato ulteriormente validato l’esperimento dell’azione di risoluzione per aliud pro alio, dall’altro lato è stato finanche specificato che la falsità della data dell’opera costituisce mero vizio redibitorio e che, in tali casi, il compratore può valersi della relativa azione ai sensi e nei ristretti tempi di cui agli artt. 1490 e ss. c.c..
[6] Per la verità, va precisato anche che già il legislatore del ‘42 (nella Relazione del Guardasigilli al Re, Roma, 1943, n. 670), aveva espresso un favor nei confronti della risoluzione per aliud pro alio, pur “ammonendone” l’utilizzo al di fuori dei casi di totale diversità di genere del bene compravenduto. Preso, infatti, atto della “statistica impressionante delle liti in questo settore”, aveva auspicato che “il nuovo semplificato meccanismo potesse risolvere il problema, dato che adesso l’aliud pro alio, ai fini di evadere dal secondo comma dell’art. 1497 c.c., si avrà soltanto quanto la cosa rientri in un genere del tutto diverso da quello contrattato”.
[7] Si veda Cass., 25 gennaio 2018, n. 1889, in Resp. Civ. e Prev., 2, 2018, p. 633: la causa è maggiormente nota, nel settore, con il nome di “caso dell’arazzo di Alighiero Boetti”. Va osservato, in merito, che la giustificazione va rinvenuta esclusivamente nella necessità di riequilibrare le posizioni delle parti in ottica di certezza dei traffici: la soluzione adottata dalla Corte è stata, infatti, oggetto di ampie critiche. In particolare, è stato ad essa contestato che, avendo fondato la determinazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione dell’azione su di una valutazione soggettiva (cioè il momento in cui si è verificato l’inadempimento e si è manifestato oggettivamente il danno) e non invece oggettiva (ovvero il momento in cui è l’acquirente è venuto effettivamente a conoscenza del fatto che il venditore non ha ottemperato alla prestazione dovuta), si sarebbe così imposto, al compratore, l’onere di procedere immediatamente, all’indomani dell’acquisto, alla verifica dell’autenticità dell’opera. In pratica, il collezionista veniva così onerato ad ottenere, ogni dieci anni, un aggiornamento dell’autenticità già in proprie mani, con la conseguenza di sottoporre l’opera all’alea di plurime perizia dei vari esperti: e ciò in spregio alla certezza del diritto e dei traffici commerciali che, con simile posizione, si era ritenuto viceversa ritenuto di proteggere. Per un approfondimento sul tema, si veda, in particolare, G. MELZI, F.A. RISTUCCIA, Autentiche a termine. Da rinnovare ogni dieci anni!, in Il giornale dell’arte, n. 395, 2019; altresì, cfr. G. FREZZA, op cit., pp. 148 e ss.
[8] Cfr., in particolare, la nota5 che precede.
[9] Cass., 16 aprile 1984, n. 2457, in Giustizia Civile Massimario, 1984.
[10] Cass., 23 marzo 2017, n. 7557, in Giustizia Civile Massimario, 2017.
[11] Cass., 02 febbraio 1998, n. 985, in Resp. Civ. Prev., 2000, p. 1093. Cfr. anche, ex multis: G. AMORTH, In tema di errore nella compravendita di opere d’arte antiche, in Foro It., I, 1948, p. 679; R. CALVO, In tema di errore sull’autenticità dell’opera d’arte (nota a sentenza di Cass., 02 febbraio 1998, n. 985), in I contratti, 1998, p. 441; R. CAMPAGNOLO, L’errore sull’identità dell’autore nella negoziazione di opere d’arte, in Resp. Civ. Prev., 4-5, 2000, p. 1099; S. FIDOTTI, Jacopo della Quercia e l’errore essenziale, in Giust. Civ., 9, 1999, p. 2487. Parimenti anche la già citata Cass., n. 2737/1960, nella quale si legge che l’azione di risoluzione del contratto per vendita aliud pro alio spetta “.. al compratore cui l’autenticità sia stata garantita …”.
[12] Così testualmente recita l’art. 64 C.B.C.: “Chiunque esercita l'attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere di pittura, di scultura, di grafica ovvero di oggetti d’antichità o di interesse storico od archeologico, o comunque abitualmente vende le opere o gli oggetti medesimi, ha l’obbligo di consegnare all'acquirente la documentazione che ne attesti l'autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza delle opere medesime; ovvero, in mancanza, di rilasciare, con le modalità previste dalle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Tale dichiarazione, ove possibile in relazione alla natura dell’opera o dell'oggetto, è apposta su copia fotografica degli stessi”. Peraltro, va anche evidenziato che non si rinviene la ragione per la quale l’obbligo sia stato previsto solo in capo ai venditori “professionisti” e non anche per le compravendite tra meri “privati”.
[13] La fattispecie è, peraltro, poco frequente (soprattutto per i più celebri maestri), dal momento che il “certificato di autenticità” viene solitamente rilasciato dallo stesso artista o dalla galleria che lo rappresenta ovvero, nel caso in cui l’artista sia deceduto, dall’archivio o dalla fondazione del medesimo o, ancora, dagli eredi o da un perito esperto.
[14] Qui si rinvia nuovamente alla già citata Cass., 9 novembre 2012, n. 19509.