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Pubbl. Lun, 23 Mag 2022

La rimozione di un annuncio di vendita tra tentativo e desistenza

Dalila Mara Schirò
Ricercatore (TDA)Università degli Studi di Palermo



Lo scritto si sofferma sulla sentenza n. 5387 del 2022 della sezione VI della Corte di cassazione, la quale offre l’occasione per riflettere sui rapporti tra tentativo e desistenza volontaria, nonché sull’elemento soggettivo della desistenza.


Sommario: 1. Brevi considerazioni introduttive; 2. Il fatto e gli esiti dei primi due gradi di giudizio; 3. Le censure mosse dal ricorrente; 4. La soluzione della Corte di cassazione.

Sommario: 1. Brevi considerazioni introduttive; 2. Il fatto e gli esiti dei primi due gradi di giudizio; 3. Le censure mosse dal ricorrente; 4. La soluzione della Corte di cassazione.

1. Brevi considerazioni introduttive

Occuparsi dei rapporti tra tentativo[1] e desistenza volontaria[2] non è quasi mai operazione interpretativa scevra di difficoltà[3]. E talvolta a complicare l’attività interviene la realizzazione, da parte dell’agente, di un atto contrario e successivo rispetto a quello prima posto in essere. Un atto, dunque, “aggiuntivo” che richiede di essere valutato quale elemento in grado di escludere la univocità degli atti idonei ad integrare il delitto tentato o quale elemento espressivo di desistenza volontaria. È questo, in sintesi e con un certo tasso di approssimazione, ciò che accade nel caso sottoposto all’attenzione della sezione VI della Corte di cassazione, la quale, con sentenza n. 5387 del 2022, offre l’occasione per riflettere sul tentativo, sulla desistenza volontaria, e, in particolare, sull’elemento soggettivo della desistenza[4].

Per comprendere appieno la soluzione cui perviene la Suprema Corte, è indispensabile richiamare preliminarmente il fatto e gli esiti del giudizio di primo e di secondo grado.

2. Il fatto e gli esiti dei primi due gradi di giudizio

Un imputato veniva tratto a giudizio per il delitto di peculato, disciplinato dall’art. 314 c.p., per avere messo in vendita su un sito on line stivali da motociclista, al prezzo di centodieci euro, insieme ad altri capi di vestiario, ricevuti in quanto appartenente alla Polizia di Stato; tutti beni di proprietà del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, destinati all’attività di servizio.

Al termine del giudizio di primo grado, svoltosi secondo le forme del rito abbreviato, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Alessandria riteneva l’imputato responsabile del delitto di peculato, in relazione alla messa in vendita degli stivali, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p., nonché la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis c.p., e tenuto conto della diminuente per il rito scelto, lo condannava alla pena sospesa di un anno, due mesi e sei giorni di reclusione, mentre assolveva l’imputato dal delitto contestato in relazione alla messa in vendita degli altri capi di vestiario. Il giudice di primo grado, inoltre, applicava la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena.

Riformando parzialmente la sentenza emessa dal giudice di prime cure, la Corte di appello di Torino ravvisava nel fatto gli estremi del delitto tentato di peculato e ne rideterminava la pena in cinque mesi e dieci giorni di reclusione.

3. Le censure mosse dal ricorrente

Avverso la sentenza di secondo grado ricorreva l’imputato, per mezzo del suo difensore. Con tre distinti motivi di ricorso l’imputato lamentava: anzitutto, «la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di tentato peculato»; inoltre, «la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine alla ritenuta non ricorrenza della causa di non punibilità della desistenza volontaria di cui all’art. 56, comma 3»; infine, «la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4».

Tracciato il quadro nel quale si inscrive la pronuncia in commento, occorre adesso focalizzarsi sul percorso logico-argomentativo seguito dalla Suprema Corte.

4. La soluzione della Corte di cassazione

Ad avviso della Corte di cassazione, il ricorso va accolto, ma nei limiti che essa tiene subito a precisare.

Quasi sgombrando il campo da ogni possibile equivoco, la Corte di cassazione afferma, infatti, che il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato.

In particolare, secondo la Cassazione, è corretta la qualificazione giuridica data al fatto dal giudice di secondo grado, per il quale la condotta dell’imputato non integra il delitto di peculato, ma il tentato peculato, poiché arrestatasi, appunto, alla soglia del tentativo e non perfezionatasi con l’appropriazione del bene ai danni della pubblica amministrazione. Va, dunque, respinta, sempre nella lettura della Cassazione, la linea difensiva secondo la quale sia la pubblicazione dell’annuncio di vendita sul sito on line[5] sia la rimozione dell’annuncio di vendita da parte dell’imputato avrebbero dovuto condurre il giudice di merito ad escludere la univocità degli atti idonei ad integrare il delitto tentato.

E tuttavia, prosegue la Cassazione, l’eliminazione dell’annuncio, che non può ritenersi, dunque, in grado di elidere il requisito della univocità degli atti, deve valutarsi quale condotta posteriore eventualmente rilevante nell’ambito della desistenza volontaria o del recesso attivo. Una considerazione, quest’ultima, che consente alla Corte di cassazione di addentrarsi nel secondo motivo di ricorso.

Proprio l’attenzione sull’atto contrario e successivo rispetto a quello precedentemente realizzato e sulla sua coloritura soggettiva permette alla Cassazione di discostarsi da quanto sostenuto dalla Corte di appello.

Per la Cassazione, infatti, la Corte di appello avrebbe ben qualificato il fatto realizzato dal ricorrente ma avrebbe errato nel ritenere non configurabile la desistenza volontaria. E il richiamo testuale di alcuni passaggi della sentenza impugnata rivelerebbe la manifesta illogicità della motivazione.

In particolare, la Corte di appello avrebbe escluso la configurabilità della desistenza volontaria affermando che, «proprio nello stesso giorno in cui fu inserito l’annuncio di vendita, il comandante ispettore capo G.G. si accorse dell’offerta», dandone comunicazione alla competente Procura della Repubblica. Dunque, ad avviso del giudice di secondo grado, «non si trattò di desistenza poiché l’azione delittuosa fu interrotta dalla attivazione degli organi di controllo e non dalla resipiscenza dell’interessato».

Ma, affinché possa ravvisarsi la desistenza, è noto (o dovrebbe essere noto…) che l’elemento soggettivo richiesto è la volontarietà, e non la spontaneità. E lo si ricava persino dalla formulazione letterale dell’art. 56, comma 3, c.p.[6]

E la Cassazione, pur non preoccupandosi di richiamare la lettera della disposizione, si affida ai propri precedenti per ricordare che, al fine di ritenere integrata la desistenza volontaria, «la decisione di interrompere l’azione criminosa deve essere il frutto di una scelta volontaria dell’agente, non riconducibile ad una causa indipendente dalla sua volontà o necessitata da fattori esterni»[7]. La volontarietà, prosegue la Cassazione, non deve confondersi con la spontaneità[8].

Non può, quindi, condividersi la soluzione della Corte di appello nella parte in cui sottolinea che l’imputato aveva desistito dalla propria azione, rimuovendo l’annuncio, «non certo spontaneamente, ma perché proprio nello stesso giorno in cui fu inserito l’annuncio di vendita, il comandante ispettore capo G.G. si accorse dell’offerta inserita dall’imputato… Il Comandante notiziava la Procura della Repubblica… è, dunque certo che il B. fu invitato a desistere dalla sua illecita condotta, con richiesta di sequestro degli stivali in questione».

Per le ragioni riassunte il secondo motivo è, dunque, fondato. Da qui l’annullamento della sentenza impugnata ed il rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino per un nuovo giudizio.


Note e riferimenti bibliografici

[1] La produzione dottrinale sul tentativo è molto ricca. Si riportano, di seguito, soltanto alcuni recenti scritti monografici sul tema: I. Giacona, Il concetto di idoneità nella struttura del delitto tentato, Giappichelli, Torino, 2000; U. Giuliani Balestrino, Il delitto tentato, Giuffrè, Milano, 2002; S. Beltrani, Il delitto tentato, Cedam, Padova, 2003; F.A. Arciuli, Il delitto tentato, Giappichelli, Torino, 2007; E. Lo Monte, Il delitto tentato. Contributo all’individuazione della condotta punibile, Giappichelli, Torino, 2012; S. Seminara, Il delitto tentato, Giuffrè, Milano, 2012; S. Del Corso, Riflessioni sulla struttura del tentativo nella cultura giuridica italiana, Giappichelli, Torino, 2019.

[2] Sulla desistenza volontaria, per tutti, A.R. Latagliata, La desistenza volontaria, Morano, Napoli, 1964. Per una più recente rivisitazione dell’argomento, si vedano: E. La Rosa, La desistenza volontaria tra vecchi problemi e nuove prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, 1282, e V. Serianni, La desistenza volontaria e il ravvedimento attivo, Giuffrè, Milano, 2008.

[3] Traendo spunto da Cass. pen., sez. II, 27 gennaio 2021 (13 aprile 2021), n. 13785, in Giur.it., 2021, 2771, si è occupato di recente dei complessi rapporti tra desistenza volontaria e tentativo compiuto E. La Rosa, Gli incerti confini tra desistenza, recesso e tentativo fallito, ivi, 2772.

[4] Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2022 (15 febbraio 2022), n. 5387, in One Legale.

[5] Più precisamente, secondo il ricorrente, la pubblicazione dell’annuncio di vendita on line avrebbe potuto essere anche prodromica alla realizzazione del delitto di truffa.

[6] Come è noto, infatti, l’art. 56, comma 3, c.p. dispone quanto segue: «Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

[7] Il richiamo è a Cass. pen., sez. III, 28 novembre 2018, n. 17158, in C.E.D. Cass., rv. 275647-01.

[8] Su tale scia, tra le altre: Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2018 (16 marzo 2018), n. 12240, in C.E.D. Cass., rv. 272535; Cass. pen., sez. III, 30 gennaio 2018 (24 settembre 2018), n. 41096, in C.E.D. Cass., rv. 273961-01; Cass. pen., sez. III, 18 settembre 2014 (11 dicembre 2014), n. 51420, in C.E.D. Cass., rv. 261389-01; Cass. pen., sez. II, 29 gennaio 2014 (13 febbraio 2014), n. 7036, in C.E.D. Cass., rv. 258791-01; Cass. pen., sez. II, 5 aprile 2013 (24 aprile 2013), n. 18385, in C.E.D. Cass., rv. 255919-01.