Pubbl. Lun, 30 Mag 2022
Per la Cassazione il singolo condomino è legittimato a proporre querela a tutela delle parti comuni
Modifica paginaCon il breve contributo che segue, l’autore, traendo spunto da Cass., Sez. II, 27 ottobre 2021, n. 45902, si propone di illustrare il netto, e tuttora irrisolto, contrasto giurisprudenziale sorto con riferimento alla legittimazione del singolo condomino a proporre querela per reati commessi in danno del patrimonio comune e all’esatta portata applicativa delle disposizioni di diritto intertemporale previste dal D. lgs. 36/2018.
Sommario: 1. Le questioni giuridiche affrontate da Cass., Sez. II, 27 ottobre 2021, n. 45902: 1) legittimazione del condomino a proporre querela per reati aventi ad oggetto i beni comuni; 2) rilevanza dei vizi della querela proposta prima delle interpolazioni operate con il D. lgs. 36/2018 e la L. 3/2019. - 2. Le tesi all’origine del contrasto giurisprudenziale. - 3. Le soluzioni adottate dalla pronuncia in esame. - 4. Note conclusive.
1. Le questioni giuridiche affrontate da Cass., Sez. II, 27 ottobre 2021, n. 45902: 1) legittimazione del condomino a proporre querela per reati aventi ad oggetto i beni comuni; 2) rilevanza dei vizi della querela proposta prima delle interpolazioni operate con il D. lgs. 36/2018 e la L. 3/2019
L’imputato, amministratore di condominio, veniva condannato, in entrambi i gradi di giudizio, per quindici diversi episodi di appropriazione indebita aggravata di somme di denaro di cui egli aveva, nella succitata veste soggettiva, la disponibilità.
Ricorreva quindi avanti la Suprema Corte, in particolare dolendosi, per quanto qui di interesse, del rigetto dell’eccezione di improcedibilità dell’azione penale per difetto di valida querela.
Deduceva infatti il ricorrente che, per taluni degli addebiti contestati, la querela risultava essere stata proposta non già dall’amministratore, ma da singoli condomini, quindi da soggetti non legittimati. Né, aggiungeva, avrebbe potuto il predetto vizio ritenersi sanato dalla circostanza che, a seguito dell’approvazione del D. lgs. 36/2018, il reato fosse divenuto procedibile a querela, e che, tramite la costituzione di parte civile, i condomini avessero confermato l’istanza di punizione.
Così opinando, infatti, il predetto intervento legislativo avrebbe infatti finito con il rivestire un’impropria funzione “sanante” rispetto ad atti di impulso procedimentale proposti in violazione dei requisiti di forma o di sostanza, oppure intempestivamente.
Funzione che, di contro, è certamente da considerarsi estranea alla ratio della citata riforma del 2018, la quale, nel disciplinare l’aspetto transitorio, aveva perseguito come noto un duplice obiettivo: da un lato, porre nella condizione di presentare querela la persona offesa che, confidando nella procedibilità d’ufficio allora vigente, non l’aveva proposta; impedire, dall’altro, l’estinzione di numerosi procedimenti come effetto della mancanza di una condizione di procedibilità fino a quel momento non richiesta.
2. Le tesi all’origine del contrasto giurisprudenziale
Le questioni sollevate dal ricorrente trovano ancoraggio in specifici (e ribaditi, come si vedrà, in tempi anche molto recenti) orientamenti giurisprudenziali.
Circa la prima questione, se il singolo condomino abbia cioè il potere proporre querela nei casi in cui l’oggetto materiale del reato sia un bene appartenente al patrimonio comune, un indirizzo [1] esclude che una tale legittimazione attiva sussista. In base a tale orientamento, infatti, rientrando la querela nel più ampio complesso degli strumenti di gestione del bene comune e, avendo la predetta gestione natura per definizione collegiale, la relativa proposizione non potrebbe che poggiare su una previa deliberazione autorizzativa dell’organo assembleare.
Non meno rigorosa, è la posizione [2] emersa in relazione alla seconda questione, che, come detto, concerne la sorte delle querele proposte prima dell’entrata in vigore del D. lgs. 36/2018, che per una qualsivoglia ragione sono risultate poi difettare dei necessari requisiti di forma o di sostanza, o sono state proposte oltre il termine di legge.
Per meglio comprendere le ragioni alla base di tale orientamento, occorre prendere le mosse dal citato decreto legislativo e dalle disposizioni che ne hanno regolato l’efficacia nel tempo.
Come noto, il D. lgs. 36/2018 ha costituito attuazione della delega contenuta nell’art. 1, c. 16, lettere a) e b), L. 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. “legge Orlando”) ed è intervenuto a riformare il regime di procedibilità relativo ad una pluralità di reati, sia contro la persona (lett. a) sia contro il patrimonio (lett. b), ampliando i casi in cui la procedibilità è a querela di parte, con il dichiarato obiettivo di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario, eliminando l’attivazione automatica del meccanismo punitivo in assenza di una coerente istanza proveniente dal privato[3].
La novella si è poi fatta carico di introdurre una specifica disciplina di diritto transitorio (art. 12), all’uopo fornendo un duplice criterio-guida: se la persona ha avuto conoscenza del fatto costituente reato, il termine per presentare la querela decorre dalla entrata in vigore della legge (comma 1); se, però, alla predetta data, risulta essere pendente un procedimento penale, l’autorità giudiziaria procedente deve informare la persona offesa della facoltà di proporre querela e il relativo termine decorre dalla data di notificazione[4].
Esaminando la normativa appena descritta, l’impostazione in commento ricava come il relativo regime intertemporale sia volto esclusivamente a permettere a coloro che non avevano esercitato il diritto di querela di poterla proporre, e non può essere esteso a coloro che tale facoltà avevano in concreto già esercitato, mancando però di osservarne i termini e le formalità di legge. In tale ultima ipotesi, infatti, «le conseguenze della irritualità della querela debbono […] restare a carico della persona offesa in quanto la applicazione, in questo caso, della norma transitoria di cui al D. Lgs. n. 36 del 2018, art. 12, finirebbe per risolversi in una “remissione in termini” ovvero nel riconoscimento della possibilità di "sanare" i vizi dell'atto attraverso la sua questa volta rituale formazione» [5].
3. Le soluzioni adottate dalla pronuncia in esame
Nell’ambito del dibattito giurisprudenziale in essere sulle due questioni sopra descritte, si inserisce la pronuncia Cass., Sez. II, 27 ottobre 2021, n. 45902, la quale, in linea con altri precedenti, si pone “in consapevole contrasto” con entrambi i rigorosi indirizzi sopra segnalati e ne confuta motivatamente le ragioni.
In merito alla questione della titolarità a proporre querela per i reati che coinvolgono i beni condominiali, osserva la richiamata pronuncia come il disconoscimento in capo al singolo condomino di detta facoltà non tenga adeguatamente conto degli attuali approdi della giurisprudenza civile.
Quest’ultima, infatti, ha recentemente avuto occasione di ricordare come «La ratio dei poteri processuali dei singoli condomini risiede […] nel carattere necessariamente autonomo del potere del condomino di agire a tutela dei suoi diritti di comproprietario "pro quota", e di resistere alle azioni da altri promosse anche allorquando gli altri condomini non intendano agire o resistere in giudizio (Cass. 8479/99). Si diceva infatti - non a caso - che è il diritto dell’amministratore che si aggiunge a quello dei naturali e diretti interessati ad agire per il fine indicato a tutela dei beni dei quali sono comproprietari, insidiati da azioni illegittime di altri condomini o di terzi (Cass. n. 11106 del 12/12/1996; 9629/91)» [6].
Dai rilievi che precedono, ed in particolare dalla riscontrata assenza di una disposizione di legge che attribuisca in via esclusiva al solo condominio il diritto di agire a tutela delle parti comuni, la sentenza in commento ricava la piena legittimità del singolo condomino a proporre querela per reati che abbiano ad oggetto beni condominiali, quale riflesso sul piano processuale di una posizione giuridica riconosciuta dal diritto sostanziale.
Non meno argomentata è, poi, l’impostazione ermeneutica adottata circa la seconda delle due questioni in parola.
La sentenza qui annotata, infatti, rileva come la tesi sostenuta dall’opposto indirizzo conduca a risultati “contrastanti con il principio di ragionevolezza”. Escludendole infatti dal campo di applicazione dell’art. 12 D. lgs. 36/2018, le persone offese che, nel vigore della precedente normativa, avevano presentato un atto di querela rivelatosi poi irregolare, verrebbero “sanzionate”, con l’improcedibilità dell’azione penale, a causa della mancata osservanza di un termine (o di una formalità) che la normativa previgente non imponeva loro di osservare.
E ne deriva, inoltre, un sperequazione di difficile giustificabilità: seguendo l’opposta tesi, infatti, si finisce per escludere dalla sfera di operatività della norma transitoria colori i quali un’istanza di punizione, seppur irregolarmente, l’avevano comunque avanzata, contestualmente ammettendovi, però, coloro che avevano invece presentato mere denunce e financo coloro che avevano omesso di presentare un qualsiasi atto propulsivo.
Pertanto, conclude l’arresto in commento, citando un articolato precedente conforme [7], «[…] è al momento dell'entrata in vigore della nuova legge ovvero da quello in cui la persona offesa ha avuto notizia della facoltà di proporre querela che vanno svolte le valutazioni relative alla ritualità della condizione di procedibilità, a nulla rilevando eventuali "difetti" legati a momenti processuali differenti in cui tale condizione non era affatto richiesta. […]. Altrimenti, si giungerebbe all’irragionevole risultato di consentire la procedibilità ex art. 12 della nuova legge a mere denunzie alle quali è poi seguita una manifestazione di volontà di punizione, escludendola rispetto ad atti, quale quello costituito da una querela tardiva che, in ragione del regime di procedibilità ex officio del tempo del commesso reato, avevano, ai fini della procedibilità, l'identica valenza di notitia criminis".
4. Note conclusive
Prima di enucleare alcuni sintetici rilievi conclusivi, vale la pena evidenziare come le questioni oggetto di dibattito non siano state risolte alla luce dell’ulteriore modifica legislativa apportata dalla L. 3/2019, che ha, come noto, integrato la disciplina introdotta dal D. lgs. 36/2018 all’art. 649 bis c.p.
La predetta disposizione codicistica, introdotta dalla riforma del 2018, individuava (e tuttora individua) i casi in cui, per determinati delitti contro il patrimonio la procedibilità resta d’ufficio. Nella sua versione originaria, tale regime era stato previsto limitatamente ai casi in cui ricorressero circostanze aggravanti ad effetto speciale.
Con l’art. 1, c. 4, lett. v), L. 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. “legge spazzacorrotti”), il legislatore ha ampliato la sfera della procedibilità d’ufficio, includendovi anche i casi in cui la persona offesa è incapace per età o per infermità e quelli nei quali il danno arrecato alla persona offesa è di rilevante gravità.
Ciò posto, da un lato, è evidente che le ipotesi al ricorrere delle quali si procede d’ufficio risultano essersi significativamente ampliate, e questo soprattutto per effetto dell’attrazione nel campo della procedibilità d’ufficio di una fattispecie oggetto di frequente contestazione nella prassi giudiziaria, e cioè l’appropriazione indebita aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità. Dall’altro, però, è non meno vero che da ciò può ragionevolmente attendersi un ridimensionamento, e non superamento, della problematica in commento.
Per i fatti commessi prima della data di entrata in vigore della L. 3/2019 (31 gennaio 2020), e per quelli rimasti perseguibili a querela di parte anche dopo l’entrata in vigore della L. 3/2019, il parametro normativo regolatore della successione di leggi resta l’art. 12 del D. lgs. 36/2018.
Chiarita dunque la perdurante rilevanza del segnalato contrasto giurisprudenziale, si ritiene di poter affermare come l’orientamento che, nel dare applicazione alla normativa intertemporale, assegna rilevanza unicamente ai criteri obiettivi in essa previsti sia da ritenersi senz’altro preferibile, in quanto di più solido ancoraggio al dato letterale e di maggiore aderenza ai profili teleologici propri dell’intervento riformatore.
A conforto di tale indirizzo, può peraltro soggiungersi, volendo, anche un ulteriore argomento.
Si è già dato conto, più sopra, di come l’orientamento più restrittivo muova dalla preoccupazione di evitare che chi, nel vigore della precedente normativa, aveva scorrettamente esercitato il diritto di querela, potesse profittare della possibilità offerta dal diritto transitorio ed esercitare così nuovamente, in via questa volta rituale però, tale diritto, finendo quindi per godere di ingiustificate “sanatorie” (per il caso di atto propulsivo viziato sul piano formale o sostanziale) o di una “rimessioni in termini” (per il caso di atto depositato oltre il termine di legge).
Ebbene, la preoccupazione suddetta non appare giuridicamente fondata, in quanto sconta il mancato approfondimento del presupposto dal quale trae origine: che cioè nel vigore della precedente normativa la persona offesa fosse titolare del diritto di querela.
Come opportunamente ricordato[8], infatti, l’art. 120 c.p. riconosce il diritto in questione non già in capo a qualsiasi persona offesa, ma, per riprendere la chiara formulazione della norma, ad ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersi d'ufficio o dietro richiesta o istanza.
Ciò posto, appare quindi corretto sostenere che, in relazione ai reati divenuti procedibili a querela di parte soltanto a seguito della riforma del 2018, la persona offesa non ha in realtà esercitato alcun diritto di querela, e questo per la decisiva ragione che si trattava di un diritto che l’ordinamento non le attribuiva. È, infatti, soltanto dal momento in cui è entrata in vigore la riforma, e non prima, che le persone offese sono risultate titolari del diritto di proporre querela e, quindi, del connesso obbligo di esercitarlo nelle forme e nei termini previsti dalla legge.
Situazione, quella dell’insussistenza fino a quel momento del diritto apparentemente esercitato, che vale perciò ad escludere in radice qualsiasi rischio di “sanatoria” o “rimessione in termini”.
L’argomento che precede mostra come l’impostazione qui confutata, oltre che nei suoi esiti, appaia in realtà cedevole già nelle sue stesse premesse.
Elemento, quest’ultimo, che nel quadro degli argomenti sopra illustrati, porta a valutare con deciso favore l’ipotesi di un assestamento definitivo della giurisprudenza sull’impostazione espressa dal qui annotato arresto.
[1] Cfr. Cass., Sez. II, 13 febbraio 2020, n. 12410; Sez. V, 26 novembre 2010, n. 6197; Sez. Un., 19 gennaio 2000, n. 2.
[2] Cfr. Cass., Sez. II, 04 febbraio 2021, n. 8823; Sez. II, 13 febbraio 2020, n. 12410.
[3] In argomento, F. GIUNTA, Querela-selezione e condotte riparatorie. Verso un cambio di passo della deflazione in concreto?, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. n. 1/2019, pp. 473 ss.; S. SEMINARA, Perseguibilità a querela ed estinzione del danno per condotte riparatorie: spunti di riflessione, in Criminalia. Annuario di scienze penalistiche, 2018, p. 383 e ss.; A. SCHILLACI, La riforma dei reati procedibili a querela. Un primo bilancio a un anno dall'entrata in vigore del d.lgs. 36/2018, in www.ilpenalista.it, 29 maggio 2019;
[4] Per quanto concerne invece l’ipotesi opposta, quella per cui un reato, in precedenza procedibile a querela, sia divenuto procedibile d’ufficio per effetto della riforma, trova applicazione – quanto meno secondo l’orientamento prevalente e più recente (cfr. Cass., Sez. II, 01 febbraio 2022, n. 4800; Sez. V, 09 ottobre 2019, n. 3019) – la disciplina prevista dall’art. 2 c.p. Secondo infatti il richiamato indirizzo, la querela ha natura giuridica “mista”, sostanziale e processuale, sicché i casi in cui emerge un problema di successione di leggi penali nel tempo vanno risolti alla luce dei criteri di diritto sostanziale previsti dall’art. 2 c.p., e non già in base al principio tempus regit actum. Si deve però segnalare che il tema della natura giuridica della querela è tuttora controverso. Per un recente approfondimento della problematica, cfr. A. SALVATORE, L'interpretazione del concetto di connessione in materia di estensione della procedibilità d'ufficio nei reati sessuali, in Cass. pen., 2019, fasc. 4, pp. 1581 e ss.
[5] Cfr. Cass., Sez. II, 13 febbraio 2020, n. 12410.
[6] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 18 aprile 2019, n. 10934.
[7] Cfr. Cass., Sez. II, 30 gennaio 2019 n. 13775. Tale ultima sentenza si segnala anche per l’enunciazione di due ulteriori e rilevanti principi di diritto: l’avviso alla persona offesa non è dovuto nei casi in cui l’istanza di punizione è inequivocabilmente desumibile aliunde (perché, ad esempio, la stessa è costituita parte civile e ha mantenuto tale qualità nei vari gradi di giudizio); l’inammissibilità del ricorso, impedendo la costituzione di un valido rapporto processuale, preclude l’accertamento dell’improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela.
[8] Cfr., F. BIGIARINI, Morte della persona offesa dal reato e art. 12 d.lgs. 36/2018: profili di illegittimità costituzionale, in www.ilpenalista.it, 19 aprile 2019.