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Pubbl. Mer, 8 Giu 2022

Le ragioni della previsione normativa della pena

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Marta Fioretti



Questo contributo nasce dalla necessità di riflettere sulle ragioni della previsione normativa della pena. Ciò in quanto, nonostante la secolare presenza della stessa, a livello mondiale, la società moderna avverte comunque l´esigenza di interrogarsi sulla ragionevolezza del suo prospetto, essendo la sanzione punitiva, nella maggioranza dei casi, avvertita come minaccia. In verità, come meglio verrà specificato nel testo che seguirà, la sua eventuale applicazione costituisce, piuttosto, una conquista del nostro ordinamento, poiché è tramite essa che si compie “l´umanizzazione del diritto penale”.


ENG This articol is born from the need to reflect on the reasons for the normative provision of the sentence. This is because, despite its centuries-old presence, worldwide, modern society still feels the need to question regarding the reasonableness of its prospectus, as the punitive sanction, in most cases, is perceived as a threat. Actually, as will be better specified in the text, its eventual application constitutes rather a conquest of our legal system, because “the humanization of criminal law” is accomplished through it.

Sommario: 1. Premessa sull'evoluzione storica della pena; 2. L'odierna funzione della sanzione punitiva; 3. Il significato della rieducazione; 4. Conclusione.

1. Premessa sull'evoluzione storica della pena

Il termine pena deriva dal latino poena, e dal greco ποινή, al cui utilizzo si ricorre, sin dai tempi antichi, per indicare il suo carattere primigenio di “sofferenza”, in quanto “castigo”.

Questa sua natura ancestrale ci viene testimoniata dalla Roma Arcaica, civiltà nella quale ebbe una funzione esclusivamente vendicativa. Più esattamente vi era il diritto della persona lesa da un fatto delittuoso, o della famiglia di questo, di procedere direttamente ella stessa alla persecuzione del crimine, al fine di “compensare” il sopruso subito. Eppure, nonostante l'esercizio di tale diritto si compiesse chiaramente in condotte reattive, espressione di una liberazione da istinti ed impulsi, piuttosto che di una reale esigenza difensiva, la “vendetta privata” incontrò un vasto consenso non solo nella Roma delle origini, ma in ogni luogo del mondo antico.

Il tramonto di questo uso della sanzione punitiva si realizzò nel momento in cui il suo impiego divenne non più una sola necessità del singolo. Pertanto, nella storica opera Dei delitti e delle pene il famigerato giurista italiano Cesare Beccaria ci racconta come le leggi siano divenute «le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla: essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità»1. Questa visione beccariana, contraddistinta da una adesione alla teoria contrattualistica del diritto, venne indirettamente sostenuta anche da Hyman Gross, in A Theory of Criminal Justice (1979), secondo il quale nel momento in cui più persone si riuniscono per formare una società regolata dalla legge, in diretta conseguenza, si definisce tra loro un accordo che impone a detta comunità di punire i crimini che si compiono al suo interno. E poiché quest'ultima si assume tale obbligo di protezione, ella esige che, in cambio, i suoi membri le cedano il diritto di rispondere autonomamente al danno subito, in quanto ora debbono affidarsi al potere.

Tutto ciò, seppur in termini diversi, è rinvenibile anche nell'elaborazione filosofica del pensatore britannico Thomas Hobbes (1588-1679) secondo il quale la nostra società deriva da un patto tra individui che decidono di vivere insieme, delegando le proprie libertà ad un'autorità superiore che li comanda, in cambio di sicurezza2.

E' importante sottolineare come si tratti di argomenti che conservano la loro attualità poiché oggi dare un senso alla sanzione punitiva significa spiegare la ratio, e dunque la validità, del potere coercitivo dello Stato. Ed, ad ogni buon conto, la pena, ed il diritto penale, scoprono la loro ragione d'essere nella difesa sociale che si compie mediante il rispetto della persona umana e delle prerogative di tutela previste dall’ordinamento stesso verso manifestazione efferate di delitto.

2. L'odierna funzione della sanzione punitiva

Nell'Europa Occidentale quasi tutti gli ordinamenti hanno attribuito alla pena un carattere polifunzionale, ma non tutti sono in accordo su quale sia quella prevalente. Ad esempio in Inghilterra il Criminal Justice Act (2003) nella parte 12, capitolo 1 (rubricato “General Provisions about Sentencing”) sezione n. 142, nell'individuare le finalità della condanna posiziona il reform and rehabilitation of offenders solamente al terzo posto, dopo la punizione dell'autore del reato e la riduzione del crimine3. Si tratta di una visione (e di una disattenzione) che viene confermata dal Comitato Wolfenden nel Rapporto sui Homosexual Offences and Prostitution (1957) in cui manca un riferimento alla personalità del condannato avendo questo sostenuto, nel paragrafo 13, che la funzione del diritto penale è «preservare l'ordine pubblico e la decenza, proteggere il cittadino da ciò che è offensivo o dannoso e fornire sufficienti garanzie contro lo sfruttamento o la corruzione degli altri»4.

Diversamente, nell'ordinamento italiano la pena consiste sì in una sofferenza che viene minacciata dal legislatore quale necessario avvenimento che si origina in conseguenza dell'illecito, ma essa diviene un “trattamento individuale” per il reo in forza della recente evoluzione della prevenzione generale che mira ad oltrepassare i limiti propri del puro effetto d'intimidazione, promuovendo componenti di tipo educativo (in tal caso si parla di prevenzione generale c.d. positiva). Più esattamente la comminatoria legislativa della pena, oltre ad una efficacia deterrente, (ovvero ad una funzione di prevenzione mediante persuasione5), ha una utilità pedagogica di accreditamento dei valori tutelati tramite «la stigmatizzazione dei comportamenti criminosi, favorendo l'astensione spontanea dei comportamenti inosservanti»6. Sicché la sanzione non viene più a rappresentare un cieco atto vendicativo ma, piuttosto, un atto ragionato e ragionevole.

Dunque i reati hanno ad oggetto uno specifico contenuto di disvalore «che costituisce la ragione sostanziale per cui l'ordinamento, ritenendolo indesiderabile e socialmente dannoso, si risolve a ricorrere alla sanzione penale»7. E tale disvalore rappresenta la causa8 per la quale viene prevista la sanzione, essendo quest'ultima diretta, anzitutto, all'affermazione di un valore positivo che l'azione o l'omissione criminosa pregiudica.

In effetti la concatenazione sussistente tra la commissione di un determinato fatto e l'applicazione della correlativa sanzione qualifica il rapporto antitetico sussistente tra quel fatto e i valori dell'ordinamento che si assumono essere stati lesi. Pertanto l'inflizione della punizione esprime la disapprovazione della società per la condotta del criminale e riafferma i valori che il diritto penale è progettato per sostenere.

La successiva applicazione nei confronti dell'autore costituisce una fase irrinunciabile per poter attribuire alla minaccia della pena efficacia intimidativa9. Tuttavia, a tal proposito occorre sottolineare come il principio di legalità non termina nell'obbligo di comminare una determinata pena nel momento in cui viene commesso un reato, poiché esso non comporta che il sistema repressivo non possa compiere, nel caso concreto, una selezione delle condotte delittuose meritevoli di essere perseguite. Per questo motivo il giudice non dovrebbe irrogare una data pena se dal suo impiego potrebbero originarsi più danni di quelli nascenti dal reato.

A questo riguardo si riferiscono l'art. 8 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789), nella parte in cui afferma che «la Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie», come anche il lavoro di C. Beccaria nel quale egli sostenne un'idea utilitaristica in forza della quale la legge avrebbe il dovere di prevedere solamente una pena la cui severità fosse la minima necessaria per il conseguimento della sua destinazione: l'utilità sociale. Ed in tale prospettiva, la depenalizzazione viene a costituire lo strumento che realizza un bilanciamento tra il principio della legalità e l'opportunità della repressione.

Dunque nel nostro ordinamento il reato non consiste in una sterile costruzione, frutto di un insieme di rigorose formule tecniche, ma, piuttosto, in una ragionata sintesi tra dogmi e valori costituzionali, non essendo possibile «ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico»10 senza sostanza11.

Tanto ciò è vero anche a livello internazionale, essendo pacifico considerare come l'identificazione del reato dipenda in larga parte dai fattori politici e sociali propri del paese a cui si riferisce12. In questa misura il diritto penale viene ad essere un riflesso della moralità sociale poiché i fatti che esso sanziona costituiscono una minaccia per i valori fondamentali su cui si fonda la comunità di riferimento. Sicché per elaborare una politica repressiva occorre comunque prima comprendere l'identità dell'ordinamento in cui ci si proiettata: conoscerne i valori e gli orientamenti culturali. Siffatta acquisizione permette di analizzare le possibili cause delle condotte vessatorie, al fine di predisporre adeguate misure di prevenzione, e di ragionare su una, possibile ed eventuale, corresponsabilità di tali elementi nella produzione delle condotte delittuose.

Peraltro il nostro sistema di giustizia penale viene ad essere caratterizzato da una serie di principi garantistici che hanno il compito di orientare il legislatore su ciò che può essere lecitamente previsto come reato. Qui si inserisce il c.d. principio di offensività, che respinge la censurabilità di tutti quegli accadimenti manchevoli di un effettivo pregiudizio. In tal senso i summenzionati principi di garanzia vengono ad essere segnalatori di ciò che rappresenta elemento di disvalore e, in diretta conseguenza, anche di ciò che costituisce l'oggetto della tutela. La pena13 deve obbligatoriamente ispirarsi a detti capisaldi e non a convincimenti «arbitrariamente addotti da un interprete politicamente orientato»14.

Inoltre, affinché una data pena venga riconosciuta ed accettata dalla generalità dei consociati, occorre che sappia rappresentare la funzione sociale del diritto ovvero apportare contributo positivo alla comunità.

In effetti, il fine principale della previsione normativa dei reati, e della correlativa sanzione, è quello di “avvicinare” la generalità indistinta dei consociali ai valori violati dai fatti delittuosi ovvero a rinvigorire la loro approvazione. Sicché, la legge soccorrerebbe non solo per vietare la commissione di un fatto, ma per cambiarne la percezione: momento imprescindibile se si tiene conto che «è meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione»15.

Di conseguenza, la chiave di volta per una efficiente politica repressiva è rappresentata dall’affermazione di una cultura organizzativa che porti una maggiore consapevolezza della gravità e delle conseguenze che hanno, non solo a livello individuale, determinate condotte.

Le funzioni di prevenzione della pena fanno leva su meccanismi psichici di condizionamento. E nel nostro ordinamento vi sono consolidate conoscenze empiriche e scientifiche sulla possibilità di determinare positivamente il comportamento dei consociati. Qui si insidia quell'articolato processo formativo atto a far acquistare consapevolezza circa le conseguenze relative alla commissione di determinate condotte, sia attive che omissive, per la salvaguardia del benessere individuale e collettivo.

Tuttavia occorre sottolineare che gli scopi della prevenzione sono sì nel summenzionato effetto pedagogico, consistente nell'affermazione simbolica dei valori negati dal reato, ma la vera funzione imprescindibile della pena risiede nell'intento rieducativo del reo. Tale fine viene costituzionalmente garantito dal comma 3 dell'art. 27 della Carta secondo il quale le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato»16, dettato non eludibile. Non a caso viene attribuita alla responsabilità penale, ai sensi del co. 1 art. 27 Cost., il carattere della personalità17, il quale comporta che per la commissione di una fattispecie criminosa vi sia la responsabilità del solo il soggetto agente, autore del il fatto dannoso.

Sicché la rieducazione diviene, necessariamente, uno strumento che influenza la fisionomia del sistema repressivo.

3. Il significato della rieducazione

Il senso della rieducazione non si manifesta unicamente nell'insegnamento dei valori della società a chi li abbia oltraggiati, ma risiede, piuttosto, nella loro interiorizzazione.

Per maggior chiarezza possiamo osservare la concessione della libertà condizionale ex art. 176 c.p. la quale soggiace alla sussistenza, nella fattispecie storica in riferimento, di determinati presupposti oggettivi e soggettivi. Tra questi ultimi, qui di nostro maggior interesse, vi è il sicuro ravvedimento del condannato. Dunque, durante l'esecuzione della sanzione detentiva, il reo, al fine di potersi vedere il rilascio dell'istituto in commento, deve tenere un atteggiamento che sia tale da far ritenere che il suo pentimento sia certo. É importante sottolineare che a tal riguardo è pacifica l'irrilevanza della mera buona condotta fine a sé stessa, essendo necessaria la presenza di un sincero ravvedimento, rilevato a seguito di una valutazione caleidoscopica della sua personalità18. Più esattamente viene richiesto l'abbandono delle motivazioni che lo avevano persuaso all'adozione di scelte criminali, il ripudio dei disvalori sui quali si basavano tali scelte e l'acquisto di un nuovo senso di responsabilizzazione rispetto alle proprie determinazioni. Pertanto si ritiene imprescindibile che il condannato riconosca effettivamente la lesione che il fatto da lui commesso ha causato ai valori etico-sociali dell'ordinamento e che faccia propri i principi che prima poco conosceva oppure che gli erano negletti19.

Tale finalità, in forza del dettato costituzionale ex art. 27, diviene così fondamentale per l'ordinamento tanto da evolversi negli anni, sino a divenire un diritto imprescindibile del condannato. A tal proposito la Corte Costituzionale, con sentenza n. 204, del 1974, ha statuito che la pretesa punitiva dello Stato nei confronti dell'autore di un fatto illecito non è immodificabile, ma deve essere messa in discussione e riesaminata nel corso del tempo al fine di verificare se la pena abbia assolto al suo fine rieducativo. In particolare la Corte nella suddetta sentenza afferma che: «Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo; tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale». Ciò risulta essere decisivo per il bilanciamento tra “legalità” ed “opportunità” della repressione20, il cui equilibrio trova effettività nella valutazione che il giudice fa del caso concreto.

4. Conclusione

Avendo la pena stessa una funzione “ben distinta, del castigo”, come sostenuto anche dal giurista Francesco Carnelutti, essa deve essere intesa, non come meccanismo per il quale chi ha violato la legge deve semplicemente essere punito, ma come figura grazie alla quale il reo ha il diritto, assicuratogli dal proprio Stato, di scegliere per il futuro una vita nuova.

Il fine rieducativo della pena consiste in una delle più grandi conquiste dello stato di diritto a cui nessuna società deve mai rinunciare poiché esso fa sì che la sanzione sia comunque in perfetta armonia con la dignità umana.

In conclusione appare possibile sostenere che il diritto penale è inscindibilmente legato all'etica21 da cui trae origine l'idea rieducativa che, secondo Luciano Eusebi, è «l’unico riferimento il quale dia sicuro rilievo nella riflessione sulla pena al destino dell’uomo che delinque, imponendo che questi continui a essere considerato, non solo formalmente, membro della società»22. É in questo che si compie l'umanizzazione del diritto penale e, conseguentemente, della pena.


Note e riferimenti bibliografici

1BECCARIA C., Dei delitti e delle pene (1764), Ventiduesima Edizione a cura di S. Rodotà, Milano, 2018, 37.

2Sul punto vedere T. Hobbes, Il Leviatano, 1651.

3Testo letterale della normativa di riferimento: «Any court dealing with an offender in respect of his offence must have regard to the following purposes of sentencing: (a) the punishment of offenders, (b) the reduction of crime (including its reduction by deterrence), (c) the reform and rehabilitation of offenders, (d) the protection of the public, and (e) the making of reparation by offenders to persons affected by their offences. [...]».

4Il testo integrale del passaggio di nostro interesse afferma: «In this field, its function, as we see it is to preserve public order and decency, to protect the citizen from what is offensive or injurious, and to provide sufficient safeguards against exploitation and corruption of others, particularly those who are specially vulnerable because they are young, weak in body or mind, inexperienced, or in a state of special physical, official or economic dependence».

5La funzione di prevenzione mediante persuasione deve essere distinta sulla base dei destinatari dell'opera di persuasione ovvero a seconda che l'effetto sia diretto nei confronti dello stesso soggetto che subisce la sanzione (e in tal caso si parla di prevenzione c.d. “speciale”) oppure nei confronti dell'intera generalità dei consociati (ipotesi di prevenzione c.d. “generale”).

6Palazzo F., Corso di Diritto Penale. Parte Generale, Sesta Edizione, Torino, 2016, 18.

7Palazzo F., Corso di Diritto Penale. Parte Generale, cit., 2016, 61.

8Anche detta “ragione sostanziale” (Palazzo, cit.).

9In effetti, se la pena non venisse successivamente effettivamente eseguita, la minaccia perderebbe di credibilità.

10BECCARIA C., Dei delitti e delle pene (1764), Ventiduesima Edizione a cura di S. Rodotà, Milano, 2018, 108.

11Pertanto, il reato, così inteso, non diviene un “vestito incolore” che il disvalore deve necessariamente indossare, pro forma, nel diritto positivo.

12Sul punto vi è FARMER L. in The Oxford Companion to Law, 2008, a cura di CANE P. e J. MONAGHAN J.

13Ovvero la sua individuazione, applicazione ed esecuzione.

14PAGLIARO A., Il reato, Milano, 2007.

15BECCARIA C., Dei delitti e delle pene (1764), cit., 2018, 108.

16Non è solamente la nostra Carta Costituzionale a riconoscere ed ad esaltare il valore (ri)educativo della pena: a titolo esemplificativo è possibile richiamare il primo periodo del comma 2, art. 25 della Costituzione Spagnola (1978) secondo il quale «Le pene limitative della libertà e le misure di sicurezza dovranno tendere alla rieducazione […]».

17«La responsabilità penale è personale» (co. 1 art. 27 Cost.).

18Da questa riflessione è possibile affermare come la pena venga ad essere proporzionata non tanto alla gravità del fatto commesso, quanto alla personalità del reo.

19É opportuno sottolineare come tale valutazione debba essere compiuta esclusivamente con riferimento al periodo di esecuzione delle pena, essendo del tutto irrilevante se ciò avvenga al di fuori di tale rapporto.

20Codice penale, «Collana Le fonti del diritto Italiano», a cura di T. Padovani, Milano, 1997, 809 e ss.

21A tal proposito PAGLIARO A., Il reato, Milano, 2007, 17: «Il diritto è etica formalizzata. Perciò la incriminazione di un fatto non avviene a caso, ma secondo le linee di una certa concezione del mondo».

22EUSEBI L., Dibattiti sulla teoria della pena e “mediazione”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1997, 811 e ss; come ripreso da www.filodiritto.com.

Bibliografia:

BECCARIA C., Dei delitti e delle pene (1764), Ventiduesima Edizione a cura di S. Rodotà, Milano, 2018;

CANE P. e MONAGHAN J., The Oxford Companion to Law, Oxford: Oxford University Press, 2008;

EUSEBI L., Dibattiti sulla teoria della pena e “mediazione”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 3, 1997;

Codice penale, «Collana Le fonti del diritto Italiano», a cura di T. Padovani, Milano, 1997.

PAGLIARO A., Il reato, Milano, 2007;

PALAZZO F., Corso di Diritto Penale, Parte Generale, Sesta Edizione, Torino, 2016;

SANTALUCIA B., La giustizia penale in Roma antica, il Mulino, 2013.