Pubbl. Gio, 26 Mag 2022
Il passaggio dalla potestà genitoriale alla responsabilità genitoriale: evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria
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Gianluigi Capaccio
Grazie anche all’evoluzione storico-sociale dell’istituto della filiazione, la sostituzione del termine potestà genitoriale col termine responsabilità genitoriale, operata dalla Legge n. 219 del 2012 e dal Decreto legislativo n. 154 del 2013, è sicuramente una conquista in termini di garanzia e tutela dell’interesse del figlio minore. Tale modifica, infatti, comporta un cambiamento importante nel mondo del diritto; Tuttavia, come ogni grande cambiamento, viene in risalto anche il rovescio della medaglia, ossia i profili di criticità e le difficoltà interpretative. È comprensibile, quindi,incorrere in alcuni problemi interpretativi ed attuativi di non poco conto che si presentano laddove si considera la responsabilità genitoriale come una semplice sostituzione della potestà genitoriale
Sommario: 1. Il passaggio dalla patria potestà alla potestà genitoriale: la Legge n. 151 del 1975; 2. Il permanere delle problematiche legate alla parificazione dei diritti e dei doveri dei coniugi e all’uguaglianza dei figli legittimi e naturali; 3. La riforma attuata con la Legge n. 219 del 2012 e il D.lgs. 54 del 2013: un quadro di sintesi; 4. L’introduzione della responsabilità genitoriale; 5. Le novità in tema di mantenimento dei figli; 6. La rappresentanza e l’amministrazione nell’interesse dei figli; 7. Conclusioni.
1. Il passaggio dalla patria potestà alla potestà genitoriale: la Legge n. 151 del 1975
La prima svolta terminologica e sostanziale nel rapporto genitori-figli risale alla riforma apportata con la Legge n. 151 del 19 maggio 1975. Infatti, dalla concezione autoritaria della patria potestà, in virtù della quale il padre esercitava i suoi diritti sulla prole, oltre che sulla moglie, si passa a una diversa visione in cui l'interesse dei figli e la loro tutela assumono rilievo preminente[1]. In realtà tale evoluzione, soprattutto sulla scorta dei principi enunciati dalla Costituzione[2], fonda le proprie radici su una serie di pronunce giurisprudenziali, susseguitesi già prima del 1975, che avevano condotto ad esiti ermeneutici nuovi e che avevano, di fatto, inciso sul diritto vivente, mutando la coscienza sociale. Dunque, la Legge n. 151 del 1975 interviene, dopo molte pressioni da parte di dottrina e giurisprudenza, a dare una riforma organica del diritto di famiglia[3].
Dopo quasi trent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione si dà attuazione ai principi costituzionali, i quali, nel corso del tempo, avevano fatto breccia nella società civile, rifondando completamente l’istituto familiare dalle proprie radici. Orbene, il legislatore non ha fatto altro che prendere atto dell’atteggiarsi dei nuovi rapporti familiari, basati sulla pari dignità dei membri della famiglia e sulla promozione degli interessi degli individui che la compongono. Invero, già precedentemente, la patria potestà, grazie al fondamentale apporto soprattutto della giurisprudenza costituzionale, si era avviata verso un processo di rinnovamento tale da essere ridisegnata come esercizio di un impegno congiunto dei genitori (e non più solo del padre), diretto a realizzare gli interessi della prole e non più quelli dei genitori medesimi. Significativa, in proposito, è la sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 26 giugno 1967 che, ben otto anni prima della riforma, in riferimento all’art. 316 c.c., sanciva espressamente che: «la patria potestà, cioè quel complesso di poteri e di doveri tendenti appunto al mantenimento, alla educazione ed alla istruzione della prole, come alla cura dei relativi interessi patrimoniali, è attribuita in modo congiunto ad entrambi i genitori, così come risulta evidente dalla detta norma impugnata secondo cui “il figlio è soggetto alla potestà dei genitori”; sicché ciascuno di essi, quando esercita la potestà, lo fa “iure proprio”.
La madre quindi (mentre ha sempre il diritto-dovere di esercitare le funzioni inerenti alla patria potestà, sia pure in conformità delle direttive paterne) quando, nelle ipotesi previste dalla legge, viene autonomamente chiamata a tale esercizio, assume la pienezza di un potere di cui, peraltro, era già titolare. Con ciò, pertanto, può escludersi senz'altro che alla madre venga conferita solo una potestà puramente astratta e priva di pratica efficacia. E se indubbiamente, secondo il sistema del Codice, è riconosciuta una prevalenza della volontà del padre in ordine alle funzioni in esame, è altresì vero che questa distinzione ripete la sua origine dalla esigenza, comunemente avvertita in ogni umano consorzio, di apprestare i mezzi per la formazione di una volontà unitaria riferibile al consorzio stesso»[4]. Ed ancora prima, anche in materia penale, con riferimento al reato di sottrazione di persone incapaci di cui all’art. 574 c.p., la Corte costituzionale con sentenza 5 febbraio 1964, n. 9, dichiarava l'illegittimità costituzionale del medesimo articolo in quanto lesivo del principio della eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, sancito dal secondo comma dell'art. 29 della Costituzione, nella parte in cui limitava il diritto di querela al solo genitore esercente la patria potestà: anche in relazione al diritto di querela vigeva il principio immanente all'ordinamento per cui entrambi i genitori hanno una pari potere e godono di un eguale trattamento, senza distinzione fra esercente e non esercente la patria potestà, all'uno e all'altro concedendosi la potestà di presentare querela[5].
Anche la giurisprudenza di merito, sulla scorta delle menzionate pronunce, aveva cominciato a spostare l’attenzione sul preminente interesse del figlio rispetto all’esercizio della patria potestà, fino ad allora esercitata solo dal padre: «la patria potestà non può comprendere il diritto di contrastare, anche mediante restrizioni personali, le scelte ideologiche e culturali dei figli minori ma deve essere esercitata nel rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili dell'uomo costituzionalmente garantiti»[6]. Quindi, proprio sulla scorta di tali pronunce, la suddetta riforma del 1975 arriva a sancire espressamente che la potestà è attribuita ai genitori solamente in funzione dell'interesse dei figli e che padre e madre sono posti su un piano di reciproca parità, con un’equiparazione dei coniugi nei diritti e nei doveri[7]. A tal riguardo basti confrontare l’art. 316 del Codice civile del 1942 con l’art. 316 c.c., così come modificato dalla Legge del 1975[8], per intenderne la fondamentale innovazione: si passa da una potestà esercitata esclusivamente dal padre (fatti salvi il caso di morte dello stesso e gli altri casi stabiliti dalla legge per cui la potestà veniva esercitata dalla madre) ad una potestà esercitata di comune accordo da entrambi i genitori.
Questo passaggio è accompagnato anche da un mutamento terminologico del titolo IX del libro I del Codice civile, non più “Della patria potestà” bensì “Della potestà dei genitori”, nonché della rubrica dell’art. 316 c.c. in quanto dalla “patria potestà” si passa alla “potestà genitoriale”, termine in linea con la suddetta eliminazione delle diseguaglianze tra uomo e donna. Quindi con la riforma del 1975 si riconosce espressamente che la potestà genitoriale, pur configurandosi quale diritto soggettivo dei genitori nei confronti dei terzi, rappresenta un ufficio di diritto privato da esercitarsi nell'interesse esclusivo del minore[9]. Dunque, l'espressione "potestà genitoriale" viene utilizzata per indicare il potere-dovere di proteggere, educare, istruire i figli minorenni non emancipati e di curarne gli interessi patrimoniali. In particolare, la potestà, così come delineata dalla riforma, si pone l’obiettivo principale dell’interesse del minore, che va ad incidere soprattutto sulla modalità dell’esercizio della stessa: il figlio non ha più solo l’interesse ad essere educato, ma ha altresì l’interesse a che la sua educazione si svolga tenendo conto delle sue inclinazioni e aspirazioni. Una distinzione questa che pone, da una parte, il profilo esterno (relativo alla sfera patrimoniale) e, dall’altra, il profilo interno (di natura personale) della potestà[10]. Per questo motivo anche la dottrina prevalente inizia a ritenere che la potestà è da intendersi come un complesso di poteri con i quali si attua la sua funzione: la funzionalizzazione della potestà all’interesse del minore dimostra una prevalenza, sia logica che cronologica, del dovere rispetto al potere, divenendo quest’ultimo un mezzo per realizzare il primo[11]. Quindi, con il riferimento alla potestà genitoriale, ciò che rileva è l'interesse esclusivo del minore mentre va lentamente a scomparire il riferimento all'antica soggezione al potere illimitato del padre.
2. Il permanere delle problematiche legate alla parificazione dei diritti e dei doveri dei coniugi e all’uguaglianza dei figli legittimi e naturali
Se con l'abbandono della potestà maritale i genitori erano, almeno formalmente, sempre più su un piano di parità (come conferma proprio la scelta terminologica che enfatizza il graduale venir meno delle disuguaglianze), tuttavia, continuavano a persistere delle vere e proprie disuguaglianze in senso sostanziale. Dunque, all’indomani della riforma del 1975 sembrava, ad una parte della dottrina italiana, che il valore costituzionale dell’unità della famiglia fosse stato sacrificato a vantaggio di un disegno di tipo contrattualistico: il nucleo familiare si configurava come un gruppo sostanzialmente retto sul consenso dei due coniugi fondatori (si è infatti affermato generalmente che il matrimonio è atto di autonomia privata fondato sull’affectio coniugalis: la volontà dei nubendi gli darebbe vita, creando così il vincolo matrimoniale)[12]. Invero anche se «la potestà genitoriale è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori», l’art. 316 c.c. al comma quarto sanciva espressamente che «se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili».
La giustificazione a tale distinzione, stridente con la ricerca dell’uguaglianza tra i coniugi, è da ricercarsi, tra le altre, nella pronuncia della Suprema Corte di Cassazione civile, Sez. I, 03-11-2000, n. 14360 la quale ha sottolineato come il predetto articolo riguardasse la famiglia unita, con la conseguenza che per motivi di urgenza ed indifferibilità fosse preferibile attribuire al padre la possibilità di adottare provvedimenti[13]. In ogni caso, ancora una volta, il padre si ritrovava in una posizione di supremazia rispetto alla madre, la quale era costretta, nel caso suddetto, a restare defilata ed estromessa nella scelta delle decisioni da adottare per il benessere e l’interesse del figlio. Trattavasi, infatti, di una disposizione che – per quanto anacronistica e opinabile, perché retaggio della famiglia patriarcale cui era improntata la disciplina codicistica prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 – attribuiva al padre un ruolo preminente e differente rispetto a quello attribuito alla madre, elidendo, di fatto, l’uguaglianza che si cercava di raggiungere in misura assoluta[14]. Inoltre, giova rilevare che la Legge 19 maggio 1975, n. 151 aveva abolito l’espressione filiazione illegittima, sostituendola con quella di filiazione naturale: ai figli naturali veniva conferita la stessa dignità giuridica di quelli legittimi attraverso la sostanziale parificazione fra le due categorie e l’abolizione di quei divieti che, di fatto, impedivano l’accertamento della verità biologica e proteggevano incondizionatamente il nucleo legittimo. Tuttavia, se da un lato è vero che, a seguito della riforma, il figlio riceveva una più ampia tutela giuridica, rispetto al passato, nei confronti del proprio genitore - indipendentemente dalla natura della filiazione - dall’altro alcune disparità di trattamento erano però rimaste[15]. Infatti, la legge del 1975 aveva inserito un nuovo articolo: il 317-bis, rubricato “Esercizio della potestà”, il quale disciplinava l’esercizio della potestà a seguito di riconoscimento del figlio naturale.
A tal riguardo l’art. 317 bis c.c., nel testo novellato dalla riforma del 1975, prevedeva che nella famiglia di fatto la potestà spettava ad entrambi i genitori solo se entrambi effettuavano il riconoscimento e formavano un’unione fondata sulla convivenza[16]. Invero se nessuno dei genitori conviveva con il figlio, la potestà spettava a chi lo aveva riconosciuto, come sancito dall’art. 317-bis, comma 2. Precisamente, il genitore che aveva l’esercizio esclusivo della potestà era l’unico a rappresentare legalmente il figlio, a prendere le decisioni inerenti al normale espletamento della potestà e degli atti di ordinaria amministrazione; l’altro genitore concorreva alle decisioni di atti rilevanti per la vita del figlio e di atti di straordinaria amministrazione[17], rimaneva inoltre responsabile per l’educazione e l’istruzione del figlio e poteva adire il giudice quando riteneva che le decisioni adottate risultavano pregiudizievoli per il minore[18] . Orbene è tangibile la palese discriminazione cui era sottoposto il figlio naturale rispetto al figlio legittimo: il primo, a differenza del secondo, veniva costretto a veder riconosciuti i propri diritti sulla scorta delle scelte dei genitori. Sul punto è importante rilevare l’intervento della c.d. “legge sull’affidamento condiviso”, ovvero la Legge 54/2006[19], che si fa portatrice di due interessi importantissimi. Infatti, da un lato, la suddetta legge mira ad enfatizzare i rapporti tra gli ascendenti e gli altri parenti della stessa famiglia; dall’altro, è diretta a che i minori non si guardino come “oggetti” bensì come soggetti titolari di diritti primari ed essenziali nel contesto di un ipotetico conflitto tra i genitori.
Tuttavia, l’entrata in vigore della menzionata Legge non ha spazzato quell’incertezza interpretativa, relativa alla persistente vigenza della regola sancita dall’art. 317-bis c.c. La legge 54/2006, dunque, pur valorizzando il diritto in capo ai figli di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori e con ciascun ramo, non è riuscita ad incidere sulla natura e sull’oggetto dei giudizi di separazione e di divorzio, come pure sui diritti delle parti in essi coinvolti[20]. Ancora una volta è l’apporto e l’evoluzione della giurisprudenza a spianare la strada per la risoluzione delle suddette problematiche e per un’ulteriore riforma della filiazione. È la Suprema Corte di Cassazione ad intervenire sul punto con una spinta innovativa e anticipatoria del contenuto della riforma che avverrà con la Legge n. 219 del 2012, sancendo espressamente che «a seguito dell'entrata in vigore della legge 8 febbraio 2006, n. 54 in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, le cui disposizioni trovano applicazione anche con riguardo ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (art. 4, comma 2), l'art. 317-bis, comma 2, c.c., salva la previsione dell'esercizio della potestà da parte dei genitori conviventi, è da ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità con la disciplina di cui alla suddetta legge.
Conseguentemente ricorre l'esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori naturali che abbiano riconosciuto il figlio anche qualora non vi sia convivenza con quest'ultimo»[21]. Quindi, se da un lato la riforma del ’75 ha fondato le prime basi per una lenta evoluzione del concetto e del contenuto della potestà, dall’altro la legge non ha subito grosse modifiche per trent’anni, periodo in cui dottrina e giurisprudenza hanno contribuito in maniera decisiva allo sviluppo dell’istituto, anticipando in parte il contenuto della riforma del 2012. Invero, saranno la Legge n. 219 del 2012 e il successivo D.lgs. n. 54 del 2013 a riformare nuovamente il diritto di famiglia e ad apportare degli importanti e decisivi cambiamenti, tenendo conto soprattutto del continuo mutare del rapporto genitori-figli, dove risiede il contrasto tra la potestà dei genitori e l’incapacità d’agire del figlio minore. Infatti verrà posto, ancor di più, l’accento sull’interesse dei figli minori in formazione, sulla rivalutazione del momento associativo nell’assetto dei rapporti endofamiliari (con l’affermazione della pari dignità di tutti i membri) nonché sul principio solidaristico che impone ad ogni membro di collaborare nell’interesse della famiglia e degli altri membri al fine di tendere sempre di più verso l’obiettivo finale: la perfetta parificazione tra la filiazione legittima e la filiazione naturale e l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, a prescindere dall’esistenza di un vincolo coniugale.
3. La riforma attuata con la Legge n. 219 del 2012 e il D.lgs. 54 del 2013: un quadro di sintesi
Con l’intento di conformare il Codice civile alle mutate istanze della coscienza sociale, di parificare in senso sostanziale la categoria dei figli e di superare le distorsioni poc’anzi descritte, il legislatore italiano è recentemente intervenuto a riformare il diritto di famiglia. La Legge 10 dicembre 2012, n. 219, recante “Disposizioni in tema di riconoscimento di figli naturali”, ha direttamente inciso sull’articolato del Codice civile ed ha conferito, all’articolo 2, apposita delega al Governo affinché provvedesse ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di delegazione, uno o più decreti legislativi di modifica delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e di dichiarazione dello stato di adottabilità per eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi ed indicando i principi e criteri direttivi cui il Governo si sarebbe dovuto attenere. In esecuzione della suddetta delega, è stato emanato il Decreto Legislativo 28 dicembre 2013 n. 154, pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’8 gennaio 2014. Sono state superate tutte le discriminazioni ancora esistenti in virtù del previgente sistema. Invero in tutta la legislazione vigente si è proceduto alla modifica dei riferimenti ai “figli legittimi” e ai “figli naturali”, sostituendo queste parole con l’unica nozione di “figli”[22].
La modifica normativa potrebbe sembrare solo formale, ma in realtà è giustificata proprio dalla necessità di non “aggettivare” i figli. Al riguardo, a sottolineare la portata innovativa, è di fondamentale importanza il novellato art. 315 c.c. che sancisce solennemente proprio il principio di unicità dello stato di figlio, stabilendo che «tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico». Tuttavia, per ragioni sistematiche, anche all’indomani della riforma del 2012, non è stato possibile limitare l’intervento alla mera cancellazione dei termini “legittimo” e “naturale” ovunque presenti, ciò in quanto è rimasta viva l’esigenza di dover assicurare una distinzione tra figli, tramite l’utilizzo delle locuzioni “figli nati nel matrimonio” o “figli nati fuori del matrimonio”, in virtù dell’esistenza o meno del vincolo matrimoniale, laddove si tratti di disposizioni a essi specificamente rivolte[23]. Inoltre, la nuova legge, novellando direttamente disposizioni del Codice civile, è altresì intervenuta sulla disciplina in materia di parentela e riconoscimento.
Invero si è voluto tagliare netto con le riserve del passato: la condizione dei figli nati fuori del matrimonio è stata parificata a quella dei figli nati nel matrimonio, non solo nel rapporto con i genitori, ma anche nell’attribuzione dei diritti ereditari, abolendo il principio della commutazione[24]; la parentela è definita come rapporto tra soggetti discendenti da uno stesso stipite, formandosi quindi anche tra i figli naturali e i parenti dei genitori, senza che rilevi la circostanza di un precedente matrimonio[25]; sono state introdotte disposizioni circa l’ascolto del minore[26]; è stato novellato l’art. 38 disp. att. c.c., con una conseguente redistribuzione delle competenze tra Tribunale Ordinario e Tribunale dei minorenni, con un ampliamento delle competenze del primo[27]; è stata prevista senza limiti anche l’azione per ricercare la paternità fuori del matrimonio[28]; è stato abrogato l’istituto della legittimazione[29]. Peraltro, il superamento delle discriminazioni discende dal rispetto del principio di uguaglianza che, correttamente applicato, non impone di disciplinare uniformemente status e rapporti, ma implica la necessità di riservare un unico trattamento giuridico a situazioni tra loro uguali. Infatti oggi nessun figlio può essere considerato irriconoscibile, se non per ragioni oggettive e, di regola, temporanee (come nel caso del nato da genitori che, essendo minori, non hanno ancora la capacità di procedere al compimento dell’atto di riconoscimento). Dunque, rispetto alla precedente disciplina è mutata la prospettiva visuale: il fulcro è rappresentato dal minore, non più soggetto ad un potere-dovere dei genitori, ma titolare di diritti alla cura, al mantenimento, all’istruzione e all’educazione.
4. L’introduzione della responsabilità genitoriale
Con particolare riferimento alla potestà genitoriale, l’art. 316 del Codice civile, in combinato disposto con gli articoli 147 e 315 bis, ha sostituito tale nozione con quella di “responsabilità genitoriale”. Oggi è infatti stabilito che «entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo». Inoltre, l’art. 315 bis sancisce in maniera organica i diritti del figlio: accanto al diritto ad essere mantenuto, educato e istruito, viene, per la prima volta, enunciato il diritto ad essere assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità e delle sue inclinazioni naturali. In verità, già a partire dalla fine degli anni ‘90 e l’inizio del 2000, la nostra legislazione interna strideva non solo con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[30] (che vieta ogni forma di discriminazione fondata sulla nascita) ma anche con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU) che, pur non prevedendo disposizioni esplicite in materia di filiazione, all’art. 8[31] protegge la vita privata e familiare e all’art. 14[32] pone il divieto di qualsiasi forma di discriminazione.
Ancora una volta giova sottolineare che i presupposti e le novità apportate definitivamente con tale riforma erano stati già sostenuti da parte della dottrina[33] e da varie pronunce giurisprudenziali, non solo italiane ma anche europee[34]. Infatti, tale traguardo è stato raggiunto grazie al preziosissimo lavoro della Commissione di studio e ricerca per le questioni giuridiche attinenti alla famiglia, la quale è stata presieduta dal prof. Cesare Bianca, con l’aiuto e il supporto di magistrati ed esperti del settore, che hanno messo al servizio le loro competenze in materia di diritto di famiglia e dei minori. Orbene una definizione si ricavava già dal Regolamento (CE) 2201/2003[35], contenente una nozione di responsabilità genitoriale che privilegiava l'aspetto degli obblighi dei genitori nei confronti dei figli, superando la concezione del “potere”, pur visto in funzione dell'adempimento dei doveri nei loro confronti: «l’insieme dei diritti e doveri di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtù di una decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i beni di un minore (diritti e doveri che comprendono l’affidamento e il diritto di visita)».
Sulla scorta delle indicazioni europee anche la giurisprudenza italiana, come detto, aveva iniziato a parlare di “responsabilità genitoriale” considerandola un principio immanente nell'ordinamento, ricavabile dall'interpretazione sistematica delle norme in materia, che si sostanzia nella tutela del figlio attraverso l'osservanza degli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole, a prescindere dalla sussistenza o meno del vincolo giuridico che lega i genitori[36]. Inoltre, la Corte costituzionale aveva chiarito già da tempo che il fondamento dei diritti e dei doveri dei genitori nei confronti della filiazione è il rapporto procreativo e non il matrimonio, non potendo il vincolo coniugale determinare una condizione deteriore per i figli, in ossequio all'art. 30 della Costituzione che richiama i genitori all'obbligo di responsabilità[37].
A tal proposito di particolare importanza sono gli ultimi due commi del novellato art. 316 c.c. che disciplinano l’esercizio della responsabilità genitoriale nel caso di figli nati fuori del matrimonio. Infatti, in ossequio al principio della bigenitorialità, sancito con l’approvazione della Legge n.54 dell’8 febbraio 2006, nonché grazie al fondamentale apporto della giurisprudenza poc’anzi esaminata, i genitori dovranno sempre esercitare la responsabilità genitoriale di comune accordo e nel pieno rispetto delle inclinazioni naturali, delle capacità e delle aspirazioni del figlio, a prescindere dall’esistenza o meno di un vincolo coniugale. Quindi nel Codice civile non sono più presenti due norme distinte (art. 316 e art. 317-bis) per l’esercizio della responsabilità genitoriale, a seconda che si tratti di figli nati nel matrimonio o in assenza di vincolo coniugale, ma una sola norma: l’art. 316 che ha superato le precedenti distorsioni derivanti dall’attribuzione della potestà sul figlio naturale al genitore convivente o, in mancanza, a quello che per primo ha effettuato il riconoscimento. Con questa norma, infatti, la regola dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale assume una portata generale e si estende anche all’ipotesi in cui i genitori biologici non siano mai stati uniti né dal matrimonio né da una convivenza more uxorio.
Oggi nel caso di figli nati fuori del matrimonio la regola sarà quella dell’esercizio della responsabilità genitoriale da parte del genitore che ha riconosciuto il figlio e, nel caso di riconoscimento compiuto da entrambi i genitori, l’applicazione del principio della bigenitorialità imporrà che entrambi esercitino in maniera congiunta la responsabilità genitoriale. Insomma, la riforma del 2012 rovescia la prospettiva sotto un duplice profilo: colloca la disciplina dei doveri verso i figli non più, come in precedenza, nel Titolo VI del Libro primo del Codice civile, contenente disposizioni in materia di matrimonio, ma nel Titolo IX che regola, appunto, la responsabilità genitoriale in modo del tutto indipendente dalla relazione esistente tra i genitori; l’art. 315 bis incentra la normativa, più che sulla posizione dei genitori, sulla elencazione dei diritti e dei doveri del figlio, in modo da rimarcare l’importanza della posizione di quest’ultimo. Inoltre, proprio in relazione al principio di bigenitorialità, la riforma del 2012, alla fine del primo comma del novellato art. 316 c.c., ha riservato una particolare attenzione alla decisione dei genitori di stabilire la residenza abituale del minore, sancendo che la scelta debba avvenire «di comune accordo».
La disposizione ricalca proprio il principio della bigenitorialità in linea con il citato Regolamento 03/2201/CE - che include nella nozione di affidamento la scelta condivisa circa il luogo di residenza abituale del minore - così che ogni mutamento unilaterale compiuto da parte di un genitore circa la residenza abituale del minore deve reputarsi non conforme al dettato normativo, anche in considerazione del fenomeno delle sottrazioni internazionali di minori[38]. Quindi, rispetto alla precedente disposizione dell’art. 144, novellato dalla riforma del 1975, non si parla più di un accordo tra i coniugi circa la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi ma si rimarca, in maniera decisiva, il preminente interesse del minore. Tale interesse, che permea l’intera disciplina sulla filiazione, deve essere perseguito in ogni caso, anche qualora ci sia una separazione tra i coniugi, in quanto la residenza abituale del minore va intesa come luogo in cui questi ha stabilito la sede prevalente dei suoi interessi e affetti[39]. Inoltre, la residenza abituale del figlio diviene fondamentale nell’individuazione del foro competente per tutti i processi che lo riguardano [40]. Tuttavia è da segnalare che la riforma apre a delle ipotesi nelle quali, pur appartenendo la titolarità ad entrambi i genitori, l’esercizio della responsabilità è attribuito soltanto ad uno: l’impedimento soggettivo o oggettivo dell’altro genitore (art. 317 c.c.)[41], l’affidamento del figlio ad uno dei genitori a seguito della separazione, divorzio o annullamento del matrimonio (art. 337 quater)[42].
Tali ipotesi non devono, però, trarre in inganno: è la stessa norma a stabilire, infatti, che il genitore non esercente la responsabilità genitoriale avrà comunque il diritto e dovere di partecipare alle decisioni di maggiore interesse per i figli nonché di vigilare sulla loro istruzione, educazione e condizioni di vita, tanto da potersi rivolgere al giudice laddove reputi che l’altro genitore abbia assunto delle decisioni pregiudizievoli per i figli. Indubbiamente la disposizione contenuta nell’art. art. 337-quater c.c. pone fine all’incertezza interpretativa che, a seguito dell’introduzione della Legge n. 54/2006, vedeva contrapposti quanti ritenevano che, in caso di affidamento esclusivo, la potestà genitoriale dovesse essere esercitata dal solo genitore affidatario e quanti, invece, propendevano per l’esercizio congiunto anche nell’ipotesi dell’affidamento monogenitoriale[43]. Quanto detto è proprio la manifestazione del diritto-dovere dei genitori di agire nell’esclusivo interesse dei figli, sancito con la riforma del 2012. Quindi nella nuova normativa la responsabilità genitoriale viene trattata in tutte le fasi del rapporto genitore-figli, sia nella fase fisiologica sia in quella patologica, a prescindere dall’esistenza o meno di un vincolo matrimoniale, rimarcando in questo modo l’importanza del ruolo del minore piuttosto che quello del genitore. Difatti il legislatore, con il novellato articolo 316 c.c., non ha fornito nessuna definizione della nuova nozione di responsabilità genitoriale, proprio con la precisa intenzione e necessità di non cristallizzare la nuova figura in rigidi paletti definitori.
Si tratta di una nozione che necessariamente deve risentire dell’evoluzione dei tempi, di una clausola in bianco che dovrà essere riempita di contenuti con l’evolversi dei rapporti sociali e familiari, nonché con l’evoluzione dei rapporti genitori-figli[44]. Concludendo, la sostituzione del concetto di potestà con quello di responsabilità genitoriale avvenuto con il D.lgs 28 dicembre 2013 n. 154 deve essere inserito, quindi, nell’evoluzione del concetto di supremo interesse del minore: con il termine responsabilità, infatti, si vuole evidenziare l’aspetto in virtù del quale il genitore ha sul figlio non un potere ma un dovere e ciò si riverbera su tutta la normativa della filiazione[45].
5. Le novità in tema di mantenimento dei figli
Il mantenimento della prole, come noto, è uno dei doveri fondamentali che l’ordinamento impone ai genitori nei confronti dei figli. A differenza della precedente nozione di potestà genitoriale si è scelto di eliminare ogni riferimento alla durata del dovere di mantenimento nei confronti dei figli. A tal proposito la giurisprudenza di merito, a partire dagli anni 2000, aveva cominciato a definire l’orientamento in virtù del quale l'obbligo dei genitori di concorrere ex art. 148 c.c. al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età ma continua invariato finché il genitore interessato non provi che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica oppure che è stato posto nella concreta posizione di poter essere autosufficiente, ma non ne abbia tratto profitto per sua colpa. Ciò con la conseguenza che, laddove il genitore avesse voluto contestare la sussistenza del proprio obbligo di mantenimento nei confronti di figli maggiorenni, avrebbe dovuto fornire la prova della condotta colpevole del figlio, consistente nell'atteggiamento di inerzia dello stesso nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudini e la sua professionalità ovvero di rifiuto di corrispondenti occasioni di lavoro[46].
Ed ancora, la Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi circa l’esonero di un padre dal mantenimento della figlia ritenuta autosufficiente per il solo compimento della maggiore età, aveva sancito i seguenti principi: 1) il giudice di merito non può prefissare un termine a tale obbligo di mantenimento, atteso che il limite di persistenza dello stesso va determinato, non sulla base di un termine astratto (pur se desunto dalla media della durata degli studi in una determinata facoltà universitaria e/o dalla normalità del tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica, affinchè questo possa trovare impiego), bensì sulla base (soltanto) del fatto che il figlio, malgrado i genitori gli abbiano assicurato le condizioni necessarie (e sufficienti) per concludere gli studi intrapresi e conseguire il titolo indispensabile ai fini dell'accesso alla professione auspicata, non abbia saputo trame profitto, per inescusabile trascuratezza o per libera (ma discutibile) scelta delle opportunità offertegli; ovvero non sia stato in grado di raggiungere l'autosufficienza economica per propria colpa; 2) configurandosi quest'ultima quale fatto estintivo di una obbligazione "ex lege", spetta al genitore interessato alla declaratoria della sua cessazione, fornire la prova di uno "status" di autosufficienza economica del figlio, consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato; ovvero che il mancato svolgimento di un'attività lavorativa dipende da un suo atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato (Cass. 407/2007; 15756/2006; 8221/2006)»[47]. Quindi, sulla scorta delle suddette pronunce, la cessazione dell'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all'età, all'effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all'impegno rivolto verso la ricerca di un'occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta da parte dell'avente diritto a partire dal raggiungimento della maggiore età[48].
Tuttavia, sulla base degli stessi principi, una recente ordinanza è giunta invece a conclusioni in parte differenti, respingendo il ricorso del padre che chiedeva la revoca dell'assegno di mantenimento a favore della figlia trentenne, esercente la professione d'Avvocato, in virtù del fatto che la figlia, seppure fosse formalmente una libera professionista, di fatto non aveva raggiunto l'indipendenza economica [49]. Si è così affermato che al fine di decidere sull'autonomia del figlio maggiorenne non è sufficiente che questi abbia un lavoro ma è necessario che detto lavoro sia stabile, adeguato alle aspirazioni del figlio, a seconda della sua preparazione professionale, e regolarmente retribuito così da permettergli una vita dignitosa. In sostanza, l'esiguità del reddito percepito dal figlio rende attuale l'obbligo di mantenimento e il compito di individuare, caso per caso, quando il figlio è da ritenersi indipendente economicamente è riservato al prudente apprezzamento del giudice. Inoltre, si è altresì affermato che nell'accertamento del raggiungimento dell'indipendenza economica del figlio non assume rilievo il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, o durante la separazione dei genitori, anche se va valutato il contesto di appartenenza del figlio [50].
In senso diametralmente opposto è da rilevare una recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione la quale ha sancito che il figlio, anche dopo essere divenuto maggiorenne, «ha diritto ad essere mantenuto dai genitori secondo quelle che sono le sue effettive ed attuali esigenze, dovendogli garantire un tenore di vita quanto più vicino possibile a quello goduto prima della separazione personale dei coniugi fintanto che non avrà raggiunto un adeguato grado di indipendenza economica»[51]. Invece nell'ipotesi in cui il figlio, ancora non indipendente economicamente, contragga matrimonio, l'obbligo di versare l'assegno dovrà essere valutato di volta in volta a seconda dell’età e dell’impiego dei giovani sposi: non si interrompe automaticamente ma è sempre necessaria una sentenza[52]. Tuttavia, è da segnalare una recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione che, apparentemente mirata solo a porre dei limiti temporali al diritto dei figli maggiorenni ad essere mantenuti dei genitori, così come già avvenuto con le sentenze citate in precedenza, in realtà prende una netta posizione, fortemente innovativa, sul mantenimento dei figli di qualsiasi età ed in relazione ai diritti-doveri dei genitori.
Invero la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17183/2020 del 14.08.2020, scardinando molti dei precedenti assunti della giurisprudenza, nonché della stessa suprema Corte, e ritenendo che al di sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la propria formazione nonché che abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi, afferma che «l’obbligo di mantenimento non può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelte. Sotto questo profilo la crisi occupazionale giovanile conserva un’incidenza nel senso di dare al parametro dell’adeguatezza un carattere relativo sia in ordine al contenuto dell’attività lavorativa che del livello reddituale conseguente.
L’attesa o il rifiuto di occupazioni non perfettamente corrispondenti alle aspettative possono costituire, se non giustificati, indici di comportamenti inerziali non incolpevoli. In sostanza, è esigibile l’utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell’auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni; non potendo egli, di converso, pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore»[53]. Quindi la Suprema Corte, prendendo le distanze dalla prassi, sostiene che le ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere ai propri genitori un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. In questo modo è completamente sovvertita la giurisprudenza esaminata in precedenza, in virtù della quale «il venire meno dell’obbligo di mantenimento era subordinato alla percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita». Infatti, dimostrando grande modernità e adeguatezza ai tempi, la Cassazione invita il figlio maggiorenne a ridurre eventualmente «le proprie ambizioni adolescenziali» pur di trovare il modo di auto-mantenersi.
Una posizione perfettamente in linea con i recenti negativi interventi sulla automatica corrispondenza dell’assegno di mantenimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio[54]. Dunque, concludendo, oggi, a differenza della previgente disciplina, in virtù della quale i figli, raggiunti i diciotto anni ed usciti dalla potestà genitoriale, non avevano più diritto al mantenimento né agli alimenti, la maggiore ampiezza della nozione di responsabilità genitoriale impedisce di fissare tali termini poiché, quanto agli aspetti economici che la contraddistinguono, la stessa permarrà ben oltre la maggiore età e fino al raggiungimento della piena autonomia dei figli. Tant’è vero che la Suprema Corte di Cassazione, anche nelle ultimissime pronunce sul tema in oggetto, ha ribadito che l’obbligo dei genitori di mantenere i figli non cessa automaticamente quando gli stessi raggiungono la maggiore età, ma può perdurare, secondo le circostanze da valutarsi caso per caso, sulla base di opportuna istruttoria, sino a quando essi non abbiano raggiunto una condizione di indipendenza economica, ed il coniuge è legittimato ad ottenere iure proprio dall'altro coniuge, separato o divorziato, un contributo al mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente, fino a che non sia in grado di procurarsi autonomi ed adeguati mezzi di sostentamento, fatto da provarsi dal soggetto obbligato, che deduca e domandi la cessazione del diritto del figlio alla prestazione di mantenimento[55].
Tuttavia, alla luce della recente ordinanza n. 17183 del 14/08/2020 (sopra esaminata), che rappresenta una pietra miliare nella storia recente del diritto di famiglia, il principio dell’autonomia economica, dell’autodeterminazione del figlio e del “diritto ad ogni possibile diritto”, strettamente collegati al conseguimento di un lavoro stabile, adeguato alle proprie aspirazioni e alla propria preparazione professionale, a prescindere dall’età dello stesso, si avvia a cedere il passo al principio del dovere e dell’autoresponsabilità[56]. Pertanto, affinchè il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta indipendenza economica, quanto piuttosto il frutto di decisioni assunte in relazione alla dignità e all’integrità fisica e morale del figlio.
6. La rappresentanza e l’amministrazione nell’interesse dei figli
La responsabilità genitoriale comprende altresì i poteri di rappresentanza del figlio e dei suoi interessi economici, oltre che i poteri decisionali funzionalizzati alla cura e all’educazione del minore. A differenza dell’istituto del mantenimento del figlio che, come visto, obbliga i genitori anche oltre il raggiungimento della maggiore età dello stesso, le obbligazioni della rappresentanza e dell’amministrazione, previste dagli artt. 320-323 c.c., cessano al momento del compimento del diciottesimo anno di età del figlio. Ad una prima osservazione delle suddette norme, si potrebbe affermare che gli elementi di novità, rispetto alle disposizioni introdotte con la riforma del 1975, si limitano solamente alla sostituzione del termine “potestà” con quello di “responsabilità genitoriale”.
Tuttavia, analizzando queste stesse disposizioni in una prospettiva sistematica, è possibile riscontrare profonde modificazioni nella loro lettura; modificazioni che, in prima approssimazione, possono essere considerate quali indirette conseguenze dell’estensione generalizzata della regola dell’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, nonché dell’ampliamento dei legami di parentela determinato dalle modifiche delle disposizioni del Codice civile57], introdotte con la riforma del 2012. Il fondamento dei poteri dei genitori di essere titolari di scelta su questioni riguardanti la situazione patrimoniale del minore sta nel principio generale di solidarietà familiare e consente al figlio soggetto alla responsabilità genitoriale di partecipare alla vita giuridica, attraverso il tramite di altri soggetti[58]. In particolare, l’art. 320 c.c. stabilisce che i genitori hanno innanzitutto il potere di rappresentare i figli nati e nascituri negli atti civili, precisando che gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, possono essere compiuti disgiuntamente dai genitori, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione è necessario l’esercizio congiunto, dovendosi altresì richiedere l’autorizzazione del giudice tutelare.
Nelle intenzioni del legislatore la distinzione tra le due tipologie di atti doveva essere ricavata dalla previsione del comma 3 in virtù del quale «i genitori non possono alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio a qualsiasi titolo, anche a causa di morte, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, procedere allo scioglimento di comunioni, contrarre mutui[59] o locazioni ultranovennali[60] o compiere altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione né promuovere, transigere o compromettere in arbitri (806 c.p.c.) giudizi relativi a tali atti, se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo autorizzazione del giudice tutelare». Quindi, dalla formulazione della norma, per il compimento degli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione viene richiesta la necessità o l'utilità evidente dell'atto per il figlio, poiché essi incidono in modo sostanziale sulla struttura e consistenza del patrimonio. Tuttavia, date le difficoltà nell’applicazione pratica e nell’individuazione di tutti gli atti di straordinaria amministrazione, si è ritenuto opportuno considerare, nell'interesse del figlio, non tassativa l'elencazione[61].
Ancora una volta è stato fondamentale il contributo della giurisprudenza che ha così differenziato le nozioni di ordinaria e straordinaria amministrazione: «In tema di amministrazione dei beni dei figli ex art. 320 c.c., al di fuori dei casi specificamente individuati ed inquadrati nella categoria degli atti di straordinaria amministrazione dal legislatore, vanno considerati di ordinaria amministrazione gli atti che presentino tutte e tre le seguenti caratteristiche: 1) siano oggettivamente utili alla conservazione del valore e dei caratteri oggettivi essenziali del patrimonio in questione; 2) abbiano un valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione al valore totale del patrimonio medesimo; 3) comportino un margine di rischio modesto in relazione alle caratteristiche del patrimonio predetto. Vanno invece considerati di straordinaria amministrazione gli atti che non presentino tutte e tre queste caratteristiche»[62].
La norma prosegue sancendo che in caso di disaccordo o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, si applicheranno le disposizioni dell'articolo 316, commi due e tre. Innanzitutto, modificando quanto previsto nel testo originario dell’art. 316 c.c., è stata eliminata una norma molto discriminatoria, già oggetto di analisi nei precedenti paragrafi, che prevedeva il diritto del padre ad assumere i provvedimenti urgenti in caso di grave pregiudizio per il figlio: la madre era di fatto esclusa dall’esercizio dei propri diritti nei confronti del figlio, tant’è che tale previsione, palesemente in contrasto con gli obiettivi di parificazione della riforma, è stata espunta dall’ordinamento. Infatti, oggi in caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice[63] indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Inoltre, rispetto alla originaria formulazione della norma, il giudice dovrà prima procedere all’ascolto del minore (se maggiore di anni dodici o di età inferiore se capace di discernimento)[64], per poi suggerire le determinazioni che ritenga più opportune, ovvero, se il contrasto permane, indicare il genitore più idoneo a curare l’interesse del figlio.
Per quanto riguarda invece il comma 4 dell’art. 320 c.c. non sorgono particolari problemi, dal momento che il legislatore ha semplicemente previsto che i capitali non possono essere riscossi senza autorizzazione del giudice tutelare, il quale ne determina l'impiego. Tuttavia, in tema di attività di riscossione di capitali ai sensi dell'art. 320 c.c., il difetto di autorizzazione del giudice tutelare, in forza dell'art. 322 c.c., di per sé non comporta la nullità dell'atto compiuto, quanto piuttosto l'annullabilità dell'atto negoziale, previa istanza del genitore, del figlio e degli aventi causa[65]. Stesso discorso vale per la previsione di cui al comma 5 dell’art. 320 c.c. in virtù del quale l'esercizio di una impresa commerciale non può essere continuato se non con l'autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare. In questo caso, però, giova rilevare che la Suprema Corte di Cassazione, già prima dell’entrata in vigore della Legge n. 219 del 2012, aveva precisato che il genitore, autorizzato dal tribunale alla continuazione dell'esercizio dell'impresa commerciale del minore, ai sensi dell'art. 320 quarto comma cod. civ., può compiere, senza necessità di una specifica autorizzazione del giudice tutelare, anche gli atti che non rientrino fra quelli cosiddetti di straordinaria amministrazione, purché si tratti di atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, ovvero che si ricolleghino direttamente a tale esercizio[66].
Infine, l’art. 320 c.c. si chiude con il comma 6 che regola l’ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale, o tra essi e i genitori o quello di essi che esercita in via esclusiva la responsabilità genitoriale. Se sorge una tale ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, il giudice tutelare nomina ai figli un curatore speciale; se, invece, il conflitto sorge tra i figli e uno solo dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, la rappresentanza dei figli spetta esclusivamente all'altro genitore. Quindi il curatore speciale che venga nominato dal giudice tutelare, ex art. 320 c.c., in una situazione di conflitto di interessi tra il minore e i genitori, ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli degli stessi, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all'atto per cui sia stata disposta la nomina[67]. Tuttavia bisogna chiarire cosa si intende praticamente per conflitto di interessi patrimoniali.
Come in ambito contrattuale (art. 1394 c.c.), anche in questo caso il concetto di conflitto di interessi non viene esplicitato dal legislatore e pertanto va ricostruito alla luce degli orientamenti della dottrina maggioritaria e delle sentenze pronunciate nelle corti italiane. Invero in tema di responsabilità genitoriale, il conflitto di interesse di cui all'art 320 c.c. va inteso quale situazione anche solo di potenziale conflitto tra l'interesse del minore e l'interesse del genitore ed inoltre richiede che gli interessi del minore e quello del genitore siano incompatibili sul piano oggettivo, cosicché il perseguimento di uno non possa avvenire che con l'inevitabile pregiudizio dell'altro[68]. Sul punto giova rilevare la giurisprudenza circa l'ipotesi di donazione al figlio da parte di uno o di entrambi i genitori. A pochi anni di distanza dall’entrata in vigore della Legge n. 151 del 1975, la giurisprudenza è stata concorde nel ritenere che sussisteva conflitto di interesse non solo in relazione al genitore donante, ma anche in relazione all'altro genitore, essendo irrilevante che donanti siano entrambi i genitori, uno soltanto di essi o l'unico che eserciti la potestà»[69].Per contro non sussiste conflitto di interessi qualora vi sia un interesse comune all'intero nucleo familiare in relazione all'atto da compiere[70]. Secondo la valutazione di chi scrive, questa collocazione sistematica del conflitto di interessi appare oggi inadeguata perché mette in risalto, nella molteplicità delle funzioni genitoriali, solo un aspetto problematico – concernente il lato esterno della rappresentanza (risolvibile con la nomina di un curatore speciale) – mentre trascura del tutto i conflitti di interesse che possono emergere nell’ambito del rapporto genitori figli collegati ai doveri genitoriali di educazione, istruzione, mantenimento e assistenza (risolvibili non solo attraverso la nomina di un curatore, ma più spesso attraverso diversi e ulteriori strumenti di perseguimento dell’interesse del minore).
7.Conclusioni
È sicuramente condivisibile la scelta del legislatore, sulla scorta delle richiamate pronunce giurisprudenziali, di porre l’accento su conseguenze relative all’esercizio o al non esercizio della potestà genitoriale, che altro non si sostanziano in responsabilità gravanti sui genitori. Infatti, il termine responsabilità nasce proprio dal cambio di prospettiva del rapporto tra genitori e figli: come l’art. 315-bis c.c. pone l’accento sui doveri e non più sui poteri dei genitori sui figli, anche la potestà viene letta in chiave di responsabilità, derivante dall’inadempimento dei doveri genitoriali.
Nonostante ciò, ritenere i due termini, potestà e responsabilità, interscambiabili, può creare delle perplessità soprattutto sul piano formale, dal momento che la responsabilità sembrerebbe una conseguenza della titolarità della potestà: quest’ultima esprime, infatti, una situazione giuridica complessa, entro cui si collocano quell’insieme di diritti e di doveri che governano l’esercizio delle funzioni genitoriali, laddove la responsabilità, legata all’esercizio in parola, investe i genitori in quanto titolari della potestà. La responsabilità genitoriale discende proprio dal fatto che l’interesse del minore, in quanto precede quello dei genitori, fa nascere in capo a quest’ultimi proprio dei doveri da adempiere attraverso poteri funzionali, i quali, se inadempiuti, avrebbero come immediata conseguenza il sorgere di una responsabilità. Infatti, non c’è dubbio sul fatto che la responsabilità sia uno degli aspetti che connotano la potestà, ma la sola responsabilità non esaurisce il complesso di situazioni giuridiche che ricadono all’interno dell’istituto della potestà. Sarebbe da chiedersi, dunque, se l’istituto della potestà genitoriale, dopo l’intervento drastico della riforma, esista ancora e se abbia ancora una qualche valenza giuridica.
Pur avendo la nozione di responsabilità genitoriale portato alla luce il principio del superiore interesse del minore, che permea l’intera riforma sulla filiazione, sembrerebbe comunque inopportuno tenere distinte le due nozioni, ponendo dei limiti difficilmente conciliabili da un punto di vista logico, prima che giuridico, con la materia trattata: l’istituto della potestà genitoriale si manifesta nel mondo giuridico attraverso le forme della responsabilità. Infatti, sembra assurdo che un istituto, come quello della potestà - che ha origini nel diritto romano - venga cancellato così velocemente. A parere di chi scrive la potestà genitoriale è un istituto ormai consolidato e sempre presente nel nostro ordinamento mentre la responsabilità genitoriale costituisce una sua parte, una sfumatura di quell’istituto che più di tutti ha risentito dell’evoluzione socio-culturale degli ultimi anni. Difatti questa nuova nozione sembra essere inserita con una forzatura, dettata dalla necessità di cambiare repentinamente la struttura dei rapporti intercorrenti tra genitori e figli, come se il legislatore non fosse stato disposto ad aspettare che tale nozione di responsabilità genitoriale fosse assimilata in maniera precisa e puntuale da dottrina e giurisprudenza.
Sarà, quindi, ancora una volta, l’apporto fondamentale proprio della dottrina e della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione a decidere e a dare un’interpretazione rispondente ai principi generali dell’ordinamento, pur mettendo debitamente in conto i rovesciamenti di pensiero ed orientamento, propri dei nostri giuristi e delle nostre Corti. Concludendo, pur riconoscendo le grandi modifiche e l’intento innovatore della riforma, rimane comunque il sospetto che la cancellazione della potestà in favore della responsabilità genitoriale sia stata una scelta non sufficientemente meditata: ancorché nobilmente ispirata dal desiderio di uniformarsi a fonti sopranazionali, oltre che dalla volontà di mettere al centro l’interesse del minore, il legislatore pare aver trascurato di considerare i nuovi contenuti di cui, in progresso di tempo, era venuto riempiendosi il sostantivo potestà: situazione giuridica affatto peculiare, come si è tentato di chiarire, e sin da tempo non più coincidente con l'illimitato potere patriarcale delle origini. Pertanto, mutuando un famoso aforisma di Emily Dickinson, poiché «non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola» (specie nel diritto), sarà l’esperienza applicativa a rivelare le conseguenze e la portata dell’abbandono del vecchio sostantivo potestà (forse tacciato a causa del suo legame etimologico col sostantivo potere) in favore della ben più mite, anche se meno cristallina per il giurista italiano, responsabilità genitoriale.
[1] Il diritto romano ci mostra una potestà genitoriale assimilabile alla potestà sugli schiavi, l’esercizio di un potere cui corrispondeva la totale soggezione di chi vi fosse sottoposto, una soggezione tale da tradursi anche nello ius vitae ac necis, il padre avrebbe finanche potuto uccidere colui che fosse soggetto al suo tremendo potere.V. Arangio Ruiz, nelle sue Istituzioni di diritto romano, tuttavia, evidenzia come il rigore della patria potestà fu, sin dall’inizio, mitigato dal costume; fu la convergenza di giurisprudenza e legislazione, segnatamente nel periodo imperiale, a determinare l’attenuazione dell’antico vigore della patria potestas. È lo stesso autore ad evidenziare che, già nel diritto giustinianeo, gli insistiti richiami al vigore della patria potestas sono da intendersi come ossequio ad una tradizione superata, anziché espressione del diritto vigente. In altri termini, già in epoca giustinianea, cominciò a designarsi con l’espressione patria potestà qualcosa di affine alla moderna funzione del genitore di educare e proteggere la prole.
[2] Art. 29: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare». Art. 30: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire e educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità».
[3] L. CARRARO, Il nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1975, I, 93; A. DE CUPIS, Postilla sul nuovo diritto di famiglia, ivi, in Riv. dir. civ., 1975, I, 309; F. DALL’ONGARO, Prime impressioni sul testo definitivo della legge di riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1975, 578.
[4] Cfr. Corte costituzionale n. 102 del 26 giugno 1967 in www.cortecostituzionale.it. Nello stesso senso, Cass. civ. Sez. I, 27/05/1975, n. 2122 in CED Cassazione, 2004 e in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it:
[5] Cfr. Corte costituzionale n. 9 del 05 febbraio 1964 in www.cortecostituzionale.it. In senso conforme: Corte cost., 28/03/1969, n. 54 in Giur. It., 1969, I, 1, 1448. Nella giurisprudenza della Cassazione cfr. Cass. pen. Sez. I, 06/10/1967 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it.
[6] Cfr. Trib. Minorenni Bologna, 26/10/1973 in Giur. It., 1974, 1, 546. Conformi: Trib. Minorenni Genova, 04/12/1975 in Dir. Famiglia, 1976, 691; Trib. Minorenni Bari, 04/06/1987 in Riv. Dir. Internaz., 1988, 226. Nello stesso senso, in tema di usufrutto legale nell’interesse del minore, Trib. Minorenni Palermo, 13/02/1957 in Giur. Siciliana, 1957, 401.
[7] L. BALESTRA, Della famiglia, Torino, 2010, II, 519, il quale osserva come la tutela dell’identità della persona evoca sul piano sostanziale il diritto soggettivo del figlio ad essere riconosciuto e impone al genitore un corrispondente obbligo in senso propriamente giuridico.
[8] Art 316 c.c. 1942 "Esercizio della patria potestà": «Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all’età maggiore o all'emancipazione. Questa potestà è esercitata dal padre. Dopo la morte del padre e negli altri casi stabiliti dalla legge essa è esercitata dalla madre». Art. 316 c.c. 1975 “Esercizio della potestà dei genitori”: «Il figlio è soggetto alla potestà dei genitori sino all'età maggiore o alla emancipazione. La potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili. Il giudice, sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l'interesse del figlio».
[9] Cfr. Cass. Civile 7 novembre 1985, n. 5408 in Foro It., 1986, I, 2251. In senso conforme cfr. Corte d’App. Brescia, 13 dicembre 1999, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2000, I, 71; Trib. Minorenni Bari, 04/06/1987 in Riv. Dir. Internaz., 1988, 226. Tra i molti che potrebbero richiamarsi nella dottrina civilistica, esemplificativamente, è possibile citare F. GAZZONI, il quale in ossequio alla giurisprudenza citata, osserva che detta potestà costituisce un tipico esempio di non coincidenza tra chi esercita il diritto e chi è titolare dell’interesse sotteso, giacché i genitori gestiscono in nome e nell’interesse dei figli i vari rapporti giuridici che a costoro fanno capo. In senso opposto F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1950, 123 che definisce la potestà genitoriale come un istituto di diritto pubblico.
[10] La menzionata partizione dell’esercizio di potestà si deve alla costruzione teorica di A.C. PELOSI, La patria potestà, Milano, 1965, 65, il quale, distingue, come interno, il rapporto genitore-figlio con riferimento alla «funzione educativa con i poteri ad essa collegati», individuandone l’oggetto nel figlio e lo scopo nella formazione della sua personalità e, come esterno, l’aspetto inerente «la funzione sostitutiva del genitore con i poteri ad essa collegati» in quelle attività relazionali con i terzi e nella cura degli interessi ad esse correlati per i quali lo svolgimento degli atti di diritto privato è precluso al figlio data la sua “immaturità”.
[11] E. QUADRI, Il minore nella crisi familiare, in Giur. it., 1990, IV, 17; A. M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia. Commento sistematico della 72 legge 19 maggio 1975, n. 151. Legislazione-Dottrina-Giurisprudenza, Milano, 1984, 1982; P. CENDON, Il diritto privato oggi, Giuffrè, Milano, 2000, 216.
[12] E. LUCCHINI GUASTALLA, Autonomia privata e diritto di famiglia, in Enc. Dir., Annali, VI, Milano, 2013, 77 ss.
[13] Cfr. Cass. civ. Sez. I, 03-11-2000, n. 14360 in Mass. Giur. It., 2000 e in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Conformi: Cass. 02 marzo 1983, n. 1552 in Foro It., 1983, I, 896.
[14] L. CARRARO-G. OPPO-A. TRABUCCHI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, I, Padova, 1977, 50.
[15] Per un approfondimento sulla filiazione naturale v. M. SESTA, Genitori e figli naturali: il rapporto, in M. SESTA- B. LENA- B. VALIGNANI, Filiazione naturale: statuto e accertamento, Milano, 2001, 21 e ss.; L. BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 316 e ss. il quale sottolinea che l’instaurazione del rapporto di filiazione, rispetto al figlio naturale, avveniva solo con il riconoscimento che a sua volta produceva degli gli effetti limitati. Inoltre, con la Legge di riforma n. 151 del 1975, la parificazione tra figli legittimi e naturali, si fermava ad una nozione ristretta di parentela, tale da negare l’esistenza di rapporti parentali, giuridicamente rilevanti, tra il figlio e la famiglia del genitore “naturale”. Addirittura, in ambito successorio era espressamente sancito il principio della commutazione, atto con il quale i figli “legittimi” potevano soddisfare in denaro, o in beni immobili ereditari, la quota ereditaria spettante ai figli “naturali” del de cuius. Tantomeno potevano sorgere diritti successori pieni tra fratelli e/o sorelle naturali.
[16] C. M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 346; M. SESTA, L'unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. dir., 2013, 231; M. SESTA, A. ARCERI, La nuova disciplina dell’affidamento dei figli nei processi di separazione, divorzio, annullamento matrimoniale e nel procedimento riguardante i figli nati fuori del matrimonio, in Affidamento dei figli nella crisi della famiglia, Torino, 2012, 26.
[17] A. C. PELOSI, Potestà dei genitori (diritto vigente), in Novissimo 79 dig., XII, Torino, 1966, 578 ss.: «la potestà nel suo complesso, e così il potere di rappresentanza, spetta esclusivamente al genitore cui sono affidati i figli. È solo nei rapporti interni tra i genitori che viene in considerazione l’obbligo del genitore affidatario di prendere le decisioni ‘di maggiore interesse per i figli, previo accordo con l’altro genitore».
[18] M. GIORGIANNI, Il controllo sull’esercizio della potestà dei genitori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, 1188.
[19] Legge n. 54 dell’8 febbraio 2006, "Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli" (GU Serie Generale n.50 del 01-03-2006).
[20] A. FIGONE, La riforma della filiazione e della responsabilità genitoriale, Milano, 2014, 111. Sottolinea T. AULETTA, I figli nella crisi familiare, in Familia, 2007, 22 ss., che altrimenti non avrebbe senso il richiamo alla mediazione familiare, volta proprio al superamento dei contrasti egoistici e all’instaurarsi di una relazione costruttiva, pur in presenza di profonde divisioni.
[21] Cass. civ. Sez. I Sent., 10/05/2011, n. 10265, nota di MANSI in Famiglia e Diritto, 2011, 12, 1095. Nello stesso senso: Cass. civ. Sez. I, Sent., 19-05-2011, n. 11068 in Foro It., 2012, 1, 1, 204; Cass. n. 1777/2012 in Famiglia e Diritto, 2012, 7, 705 nota di ARCERI; Trib. Minorenni Milano Decr., 07/02/2012 in Nuova Giur. Civ., 2012, 9, 1, 736; Tribunale Nocera Inferiore Sez. I, 16/04/2014 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it.
[22] M. BIANCA, Tutti i figli hanno lo stesso statuto giuridico, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2013, 507 ss. M. PARADISO, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, in Riv. dir. civ., 2016, 1306 ss.; A. PALAZZO, La riforma dello status di filiazione, in Riv. dir. civ., 2013, 245 ss.
[23] M. BIANCA, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. 219 del 2012, in Giust. civ., 2013, II, 205 ss.; A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Padova, quarantesima ottava edizione, 455 ss. in cui si afferma che nel nostro ordinamento esistono norme che si applicano solo in riferimento al figlio concepito o nato nel matrimonio e non anche per il figlio nato fuori dal vincolo coniugale: si pensi alla presunzione di paternità che, ai sensi dell’art. 231 c.c., opera quando vi sia un atto di nascita di figlio nato in costanza di matrimonio o, in difetto, il relativo possesso di stato, e finché l'interessato non produca giudizialmente documenti volti a dimostrare efficacemente l'infondatezza della presunzione stessa. La conseguenza è stata proprio quella di dover mantenere necessariamente una differenziazione terminologica per evitare delle confusioni interpretative.
[24] M. SESTA, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, op. cit., 235 e ss. Nello stesso senso, S. TROIANO, Le innovazioni alla disciplina del riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c., come modificato dall'art. 1, comma 2°, l. n. 219/12, in Le nuove leggi civili commentate, III, 2013, 451-474. Ed ancora, V. BARBA, Principi successori del figlio nato fuori del matrimonio e problemi di diritto transitorio, in Fam. e dir., 2014, 502 ss. La riforma ha inciso sulla composizione delle categorie dei successibili, ciascuna delle quali comprende ora tutti i parenti, senza discriminazioni. Il risultato è stato raggiunto perlopiù indirettamente, semplicemente adeguando il lessico delle norme, dalle quali sono stati eliminati gli aggettivi “legittimo/i” e “naturale/i”, là dove era necessario. Peraltro, mentre la categoria dei figli, rispetto alla successione ai loro genitori, non ha subito modifiche, poiché i loro diritti successori erano già stati parificati, viene ampliata la rete dei parenti, nei confronti dei figli stessi e, reciprocamente, nei confronti dei parenti. Inoltre, la riforma sulla filiazione abroga il diritto di commutazione: la possibilità dei figli legittimi quindi di liquidare la quota dei figli naturali in denaro o in beni immobili, trattenendo per sé tutti gli altri beni del patrimonio ereditario, è venuta meno.
[25] Art 74 c.c.: «la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio sia adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età».
[26] La Legge 219/2012 ha introdotto l’art. 336-bis nel Codice civile, norma che disciplina l’ascolto del minore. Tale previsione risponde all’idea riformatrice di tracciare la figura del minore come un adolescente in grado di far valere le proprie scelte e di vedere garantito il proprio interesse nei confronti di qualsiasi altro soggetto. Il diritto del minore, che abbia compiuto i dodici anni, ma anche di età inferiore se abbia capacità di discernimento, a essere ascoltato è previsto tra i diritti del minore ai sensi dell’art. 315-bis, non solo nei procedimenti giudiziari ma anche in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, compresi, come detto, i processi per l’affidamento dei figli nati fuori del matrimonio. Le dichiarazioni del minore saranno opportunamente verbalizzate e potranno, altresì, essere portate a conoscenza dei genitori, tuttavia non saranno necessariamente vincolanti per il Giudice, ma saranno prese in considerazione dallo stesso ai fini dell’adozione del provvedimento finale. In verità già parte della dottrina (P. Martinelli, F. Mazza Galanti e M.N. Bugetti), dopo l’entrata in vigore della L. 54/2006 sull’affidamento condiviso che aveva inserito l’ormai abrogato art. 155 sexies (intitolato poteri del giudice e ascolto del minore), affermavano che l’ascolto implicava che le domande poste dal Giudice al minore non dovessero mirare a raccogliere informazioni utilizzabili nel procedimento quali mezzi di prova, ma dovessero servire, piuttosto, affinché il minore, capace di discernimento, potesse comprendere i fatti di causa, nel suo interesse. Cfr. la giurisprudenza conforme a tale orientamento: Cass. Sez. Un. n. 22238 del 21-10-2009, in Famiglia e Diritto, 2010, 1, 67.
[27] Cfr. Legge 10 dicembre 2012, n. 219 “Disposizioni in materia di riconoscimento di figli naturali” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre 2012, Art. 3.
[28] P. BENCIOLINI - P. CORTIVO, Le prove del sangue e quelle genetiche dopo la riforma della filiazione legittima e naturale, in Riv. dir. civ., 1978, II, 376 ss.; A. PALAZZO, Atto di nascita e riconoscimento nel sistema di accertamento della filiazione, in Riv. dir. civ., 2006, I, 149 ss. Ai sensi degli artt. 269 e 277 c.c., il ricorso all’azione di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità comporta che laddove venga fornita la prova della maternità o paternità, il giudice competente (Tribunale ordinario del luogo di residenza del genitore convenuto in giudizio qualora il figlio sia maggiorenne; diversamente è competente il Tribunale per i minorenni) pronuncerà una sentenza che produrrà i medesimi effetti del riconoscimento.
[29] Art. 280 c.c. (Sezione abrogata dall'art. 1, co. X, della L. 10 dicembre 2012 n. 219): «La legittimazione attribuisce a colui che è nato fuori del matrimonio la qualità di figlio legittimo. Essa avviene per susseguente matrimonio dei genitori del figlio naturale o per provvedimento del giudice». Sul punto A. TRABUCCHI, op. cit., 492-493: «data la rilevanza che l’istituto ha lungamente avuto, pare, comunque, opportuno ricordarne i suoi tratti fondamentali. Due erano le forme di legittimazione: per subsequens matrimonium o per provvedimento del giudice. L’una e l’altra comportavano il medesimo effetto giuridico, ossia la costituzione dello stato legittimo di figlio, ciò ne spiegava l’efficacia ex nunc. Nella legittimazione per susseguente matrimonio gli effetti si producevano dal giorno in cui interveniva anche il secondo dei due atti che la costituivano, e cioè se il riconoscimento era anteriore, avrebbe avuto effetto dal giorno del matrimonio, se invece anteriore era stato il matrimonio, il figlio si considerava legittimato dal giorno del successivo riconoscimento. La legittimazione per sentenza aveva effetto dalla data del provvedimento. Quindi la differenza tra gli effetti della legittimazione e quelli del riconoscimento era rappresentata dal fatto che soltanto il vincolo che nasceva dalla legittimazione si estendeva a tutti i membri della famiglia».
[30] L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce che: «1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale. 2. Nell'ambito d'applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità».
[31] Art. 8 della C.E.D.U.: «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
[32] Art. 14 della C.E.D.U.: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
[33] Ad esempio, G. Ballarani e G. Giacobbe arrivavano a teorizzare un superamento della precedente concezione, che rilegava il minore, rispetto alla potestà genitoriale, ad uno stato di passiva soggezione, per giungere a considerare la potestà genitoriale come «strumento per la realizzazione del dovere genitoriale di educazione, formazione e realizzazione degli interessi della prole». Di «convergenze tecniche» e di «convergenze naturali», nell’ambito di un processo di avvicinamento delle diverse legislazioni nazionali in materia di diritto di famiglia, ne parla S. PATTI, Il principio famiglia e la formazione del diritto europeo della famiglia, in Familia, 2006, I, 531 ss.
[34] Sul principio di uguaglianza tra figli legittimi si veda: Markx c. Belgio, 288 13 giugno 1979, in Foro it., 1979, IV, c. 342: una madre belga nubile lamentava che lei e sua figlia Alessandra non godevano degli stessi diritti riconosciuti alle madri coniugate e ai loro figli. In particolare, lei doveva riconoscere la figlia (o avviare un’azione legale) per stabilire la filiazione (mentre le madri coniugate potevano avvalersi del certificato di nascita); il riconoscimento riduceva la sua capacità di lasciare in eredità i beni alla figlia e non creava un legame giuridico tra la figlia e la famiglia della madre, in particolare con la nonna e la zia. Solo mediante il matrimonio e l’adozione della propria figlia Alessandra (o tramite un procedimento di legittimazione) avrebbe potuto garantire alla figlia gli stessi diritti di un figlio legittimo. La Corte ha concluso per la violazione degli articoli 8 e 14 (diritto al rispetto della vita privata e familiare e divieto di discriminazione) nei confronti delle due ricorrenti, per quanto concerne la determinazione della filiazione materna di Alessandra, la mancanza di legame giuridico con la famiglia materna, i suoi diritti di successione e le restrizioni alla libertà della madre di scegliere come disporre dei suoi beni. Nello stesso senso Johnston e altri c. Irlanda, 18 dicembre 1986; Inze c. Austria, 28 ottobre 1987; Vermeire c. Belgio, 29 novembre 1991; infine Mazureck c. Francia, 1° febbraio 2000.
[35] Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000. In dottrina, sul tema, C. RIMINI, La responsabilità genitoriale nel Reg. CE n. 2201/2003, in Fam. pers. succ., 2008, 542 ss.
[36] Cass. civ. Sez. I, 26-05-2004, n. 10102, in Mass. Giur. It., 2004 e Famiglia e Diritto, 2005, 1, 23 nota di DOLCINI. Nello stesso senso Corte costituzionale sentenza n. 166/1998 e Corte costituzionale sentenza n. 394/2005 entrambe in www.cortecostituzionale.it. Successivi conformi: Cass. civ. Sez. I Sent., 15/09/2011, n. 18863 in CED Cassazione, 2011; Cass. civ. Sez. I Sent., 11/09/2015, n. 17971 in Famiglia e Diritto, 2016, 5, 437 nota di PASCUCCI; Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 13/12/2018, n. 32231 in CED Cassazione, 2018.
[37] Cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 166/98 in www.cortecostituzionale.it. In senso conforme: Cass. civ. Sez. I, 11/12/1992, n. 13126 in Mass. Giur. It., 1992; Cass. civ. Sez. I, 03/07/1991, n. 7295 in Mass. Giur. It., 1991; Cass. civ. Sez. I, 28/06/1988, n. 4373 in Mass. Giur. It., 1988; Cass. civ. Sez. I, 10/04/1987, n. 3570 in Mass. Giur. It., 1987.
[38] In tema di sottrazione internazionale del minore da parte di uno dei genitori, ai fini del procedimento previsto dalla convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980, ratificata con l. n. 64 del 1994, per il ritorno del minorenne presso il genitore al quale è stato sottratto v. Cass. civ. Sez. I Ord., 14/12/2017, n. 30123 in Foro It., 2018, 2, 1, 525: «la nozione di residenza abituale posta dalla succitata convenzione: a) deve essere interpretata in funzione dell'interesse superiore del minore; b) corrisponde ad una situazione di fatto, in quanto coincide con il luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi ivi la sua quotidiana vita di relazione; c) richiede, in caso di recente trasferimento del minore, quando non sia trascorso un tempo minimo apprezzabile, una prognosi sulla concreta probabilità che la nuova dimora diventi l'effettivo, stabile e duraturo centro di affetti e di interessi del minore, sempre che il trasferimento non costituisca un mero espediente per sottrarre il minore alla vicinanza dell'altro genitore o alla disciplina della competenza territoriale; d) non può, di contro, determinarsi, anche per i bambini molto piccoli, in base all'intendimento, pur comune, dei genitori, e quindi non coincide con il luogo in cui essi hanno programmato di vivere con il figlio ma, di fatto, non vi hanno mai vissuto».
[39] Cfr. Tribunale Milano, 17/12/2014 in www.ilcaso.it, 2015. Nello stesso senso: Tribunale Roma Sez. I Decr., 20/01/2017 in www.ilcaso.it, 2018; Tribunale Milano Sez. IX Decr., 17/06/2014 in www.ilcaso.it, 2014; Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 20 marzo 2014 in Nuova Giur. Civ., 2014, 12, 1182 nota di SAVORANI. In altri termini, il trasferimento unilaterale della prole realizzato da un genitore senza il consenso dell'altro integra un atto illecito (Trib. Milano, sez. IX, 16 settembre 2013, Pres. Servetti, est. Cosmai in www.ilcaso.it, 2013; Cass. Civ., sez. I, sentenza 20 giugno 2012, n. 10174 in Corriere Giur., 2013, 2, 209 nota di GABBANELLI).
[40] Cfr. Cass. Sez. un. sentenza n. 5418 del 18 marzo 2016 in CED Cassazione, 2016 e www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Nello stesso senso: Cass. 22507/06 in Mass. Giur. It., 2006; Cass. Sez. un. Sent., 02/08/2011, n. 16864 in Famiglia e Diritto, 2012, 1, 29; Cass. civ. Sez. un. Sent., 13/02/2012, n. 1984 in CED Cassazione, 2012; Cass. Sez. un. n. 8042/18 in www.ilcaso.it.
[41] L’art. 317 c.c., “Impedimento di uno dei genitori”, non presenta tratti di novità particolari in quanto riproduce il testo previgente (Legge n.151 del 1975), salve alcune modificazioni lessicali determinate dall’esigenza di sostituire il riferimento alla potestà con quello alla responsabilità genitoriale.
[42] La novità più rilevante del nuovo Capo II, “Esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio”, è riscontrabile nell’art. art. 337-quater c.c., che sancisce la regola secondo cui l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale è circoscritto alla sola ipotesi in cui il figlio sia affidato in via esclusiva ad uno solo dei genitori. Sul punto, Filiazione - Commento al Decreto Attuativo, a cura di Bianca, Milano, 2014, 185.
[43] In tema di esercizio esclusivo M. SESTA, M. BALDINI, La potestà dei genitori, Torino, 2012, 28; M. N. BUGETTI, Affidamento condiviso ed affidamento monogenitoriale. La sorte dell’affidamento a terzi, Torino, 2012, 70. In senso opposto, per l’esercizio congiunto, B.DE FILIPPIS-G. CASABURI, Separazione e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, Padova, 2004, 73; C. PADALINO, L’affidamento condiviso dei figli, Torino, 2006, 44.
[44] Cfr. “Schema di decreto legislativo recante revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione” in cui la dott.ssa Monica Velletti, componente della Commissione per lo studio e l’approfondimento di questioni giuridiche afferenti alla famiglia e l’elaborazione di proposte di modifica alla relativa disciplina, presieduta dal Prof. Cesare Massimo Bianca, spiega che la modifica terminologica intende assumere una diversa visione prospettica dei rapporti genitori-figli, alla luce della quale occorre porre in risalto l’interesse superiore dei figli minori e non quello dei genitori investiti della responsabilità genitoriale.
[45] M. SESTA, I disegni di legge in materia di filiazione: dalla diseguaglianza all’unicità̀ dello status, in Dir. Fam., 2012, 962 ss.; L. FANNI, La filiazione. Verso lo status unico di figlio, in AIAF 2012/Straordinario, 27 ss.; G. FERRANDO, Filiazione legittima e naturale: la situazione attuale e il progetto di riforma, in Famiglia e diritto, 2008, 31 ss. Si veda anche F. D’ALLONGARO, Prime impressioni sul testo definitivo della legge di Riforma sul diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1975, 593 ss. Ne consegue che ogni uso della responsabilità genitoriale non finalizzato alle esigenze di crescita umana del minore può essere sanzionato e come tutta la funzione educativa, di cui la responsabilità genitoriale è mero strumento, deve svolgersi tenendo conto in via primaria delle necessità di sviluppo della personalità del figlio anziché delle aspettative genitoriali.
[46] Cfr. Tribunale Monza Sez. IV, sentenza del 26/04/2007 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Nello stesso senso: Tribunale Salerno, 10/11/2009 in Famiglia e Diritto, 2009, 12, 1182; Corte d'Appello Roma, 18/07/2007 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Per la dottrina maggioritaria si veda T. AULETTA, I figli nella crisi familiare, in Familia, 2007, 48, il quale ritiene che è da escludere «qualsiasi margine di discrezionalità nel riconoscere il diritto al mantenimento se il figlio non è ancora autonomo patrimonialmente senza sua colpa, perché la prestazione discende direttamente e immediatamente dai doveri genitoriali».
[47] Cass. civ. Sez. I, Sent., 26-01-2011, n. 1830 in Famiglia e Diritto, 2011, 11, 999 nota di MAGLI. Nello stesso senso Cass., n. 2670 del 11.03.1998 in Mass. Giur. It., 1998; Cass. civ. Sez. I, 16/02/2001, n. 2289 in Famiglia e Diritto, 2001, 3, 275; Cass., n. 4765 del 03.04.2002 in Studium juris, 2002, 1007; Cass. civ., 07/04/2006, n. 8221 in Giur. It., 2007, 2, 337; Cass. 9 maggio 2013, n. 11020 Famiglia e Diritto, 2014, 3, 240.
[48] E. QUADRI, Affidamento dei figli e assegnazione della casa familiare: la recente normativa, in Familia, 2006, 410 e ss., la formulazione del testo normativo deve essere posta in rapporto al favor della riforma per l’assolvimento in forma diretta dell’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli, cosicché il giudice dovrà scegliere la modalità più adeguata in relazione alle circostanze del caso concreto. Il giudice deve preliminarmente verificare la sussistenza delle condizioni per concedere l’assegno, accertando, ad esempio, che il mancato svolgimento di un’attività lavorativa non dipenda da un comportamento colposo o inerte del figlio.
[49] Cfr. Cass. civ. Sez. I Ord., 17/07/2019, n. 19135 in Quotidiano Giuridico, 2019 e www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. In senso conforme: Cass. civ. sez. VI-1 n. 5088 del 5 marzo 2018 in Quotidiano Giuridico, 2018; Cass. civ. sez. I n. 12952 del 22 giugno 2016 in Foro It., 2016, 9, 1, 2741; Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 12/04/2016, n. 7168 in Famiglia e Diritto, 2016, 6, 622 Cass. civ. ord. n. 17738 del 7 settembre 2015 in CED Cassazione, 2015; Cass. civ. sez. I n. 18076 del 20 agosto 2014 in Foro It., 2015, 3, 1, 1021.
[50] Cfr. Corte d'Appello Napoli Sent., 19/01/2018 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it che così si è pronunciata nel riconoscere il diritto alla corresponsione dell'assegno di mantenimento al figlio maggiorenne. In senso conforme: Cass. n. 19042/2003 in Guida al Diritto, 2004, 6, 40; Cass. n. 8221/2006 in Giur. It., 2007, 2, 337; Cass. civ. Sez. I, 17/11/2006, n. 24498 in Mass. Giur. It., 2006; Cass. civ. Sez. I Sent., 26/01/2011, n. 1830 in Famiglia e Diritto, 2011, 11, 999; Cass. 24424/2013 in Famiglia e Diritto, 2014, 1, 79.
[51] Cfr. Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 23/01/2020, n. 1562 in Quotidiano Giuridico, 2020 e www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. In senso conforme Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 08/02/2016, n. 2467 in CED Cassazione, 2016; Cass. civ. sez. VI-1 n. 21273 del 18 settembre 2013 in Famiglia e Diritto, 2014, 2, 105; Cass. civ. Sez. I Sent., 06/11/2009, n. 23630 in Famiglia e Diritto, 2010, 2, 196.
[52] Cass. civ. Sentenza n. 1830/2011 in Famiglia e Diritto, 2011, 11, 999: «il matrimonio del figlio maggiorenne, già destinatario del contributo del mantenimento a carico di ciascuno dei genitori, determina l'automatica cessazione del contributo solo se la costituzione del nuovo nucleo familiare esclude la necessità di mezzi di sostegno adeguati per vivere» (nella specie la figlia, di giovanissima età, pur essendosi sposata, aveva continuato a vivere con la madre e a frequentare il corso di laurea intrapreso. Pertanto, lo stato coniugale acquisito non aveva apportato alcun miglioramento al suo tenore di vita). Nello stesso senso: Cass. civ. Sez. VI Ord., 15/02/2012, n. 2171 in CED Cassazione, 2012; Cass. civ. Sez. I Sent., 08/02/2012, n. 1773 in CED Cassazione, 2012; Cass. civ. Sez. I Sent., 09/08/2017, n. 19746 in www.il caso.it, 2018.
[53] Cfr. Cass.civ, I sez. civ. ordinanza n. 17183 del 14/08/2020, Presidente M.C. GIANCOLA, Relatore L. NAZZICONE in www.cortedicassazione.it.
[54] ibid. nota 48.
[55] Cfr. Cass. civ, I sez. civ. ordinanza n. 38366 del 03/12/2021, Presidente F.A. GENOVESE, Relatore L. SCALIA in www.latribunaplus.it.
[56] Circa il concetto di dovere e di autoresponsabilità, si veda Cass. 22 giugno 2016, n. 12952 in Foro It., 2016, 9, 1, 2741; Cass. 29 agosto 2017, n. 20525 in Famiglia e Diritto, 2018, 6, 573; Cass. 30 agosto 2019, n. 21926 in Foro It., 2019, 11, 1, 3486.
[57] M. SESTA, M. BALDINI, op. cit., 147; S. PATTI, L. ROSSI CARLEO, Provvedimenti riguardo ai figli, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 2010, 53.
[58] M. SESTA, op. cit., 113 ss.; G. DE CRISTOFARO, Il contenuto patrimoniale della potestà, in Tratt. dir. fam., I, Milano, 2011, 1356 ss., secondo cui la rappresentanza legale dei figli minori spetta ai genitori, e - rispetto alla rappresentanza volontaria - trova la sua fonte nella legge, presupponendo l'incapacità del rappresentato di provvedere personalmente alla cura dei propri interessi e rapporti patrimoniali ma anche personali. L'amministrazione invece è l'attività diretta allo scopo di ricavare una ragionevole utilità dagli elementi che compongono il patrimonio, senza che ne venga diminuito il complessivo valore sostanziale: è un potere che si esaurisce nei rapporti interni tra amministratore ed amministrato.
[59] In senso opposto Cass. civ. Sez. III, 28/07/1987, n. 6542 in Giust. Civ., 1988, I, 454: «La concessione di mutui a minori, nonostante la espressa inclusione di tale tipo di negozio fra gli atti eccedenti la ordinaria amministrazione ai sensi dell'art. 320, resta esente dalla preventiva autorizzazione del giudice tutelare, ove venga fornita la prova specifica che il prestito sia suscettibile di restituzione mediante impiego del reddito del minore e senza pericolo di decurtazione dei suoi capitali o di diminuzione del valore del suo patrimonio, superando in tal modo la presunzione iuris tantum di inclusione nel tipo negoziale annoverato negli atti di amministrazione straordinaria».
[60] Cass. civ., 30/01/1982, n. 599 in Giust. Civ., 1982, I, 2147: «le locazioni convenute per una durata inferiore ai nove anni ma suscettibili di protrarsi oltre mediante clausola di tacito rinnovo non sono considerate atti di straordinaria amministrazione, dovendosi avere riguardo alla volontà originaria delle parti».
[61] A. C. PELOSI, op. cit., 578 ss.; L. CARRARO-G. OPPO-A. TRABUCCHI, op. cit., 50.
[62] Cfr. Cass. civ. Sez. III, 15/05/2003, n. 7546 in Mass. Giur. It., 2003 e Famiglia e Diritto, 2003, 6, 615. Nello stesso senso Cass. civ. Sez. III Sent., 27/03/2019, n. 8461 in CED Cassazione, 2019 e www.pluris-cedam.utetgiuridica.it.; Cass. civ. Sez. III, 13/04/2010, n. 8720 in CED Cassazione, 2010; Cass. n. 1614/2004 in CED Cassazione, 2004; Cass. civ. Sez. II, 15/11/2004, n. 21614 in Mass. Giur. It., 2004.
[63] Per una completa analisi dell’evoluzione delle competenze giurisdizionali, V. MONTARULI, Il nuovo riparto di competenze tra giudice ordinario e minorile, in Rivista Mensile de Le nuove Leggi Civili Commentate, n. 4 aprile 2013, 218 ss. L’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del Codice civile delinea l’ambito di competenza giurisdizionale del Tribunale per i Minorenni e del Tribunale ordinario. Dopo la riforma della filiazione del 2012, il Tribunale Ordinario può emettere provvedimenti che riguardano la tutela dei minori e decidere sul loro affidamento e mantenimento in caso di separazione o divorzio. L’intenzione del legislatore è stata quella di ridurre la competenza del Tribunale per i Minorenni per realizzare il principio della concentrazione delle tutele dinanzi ad un unico organo giudiziario. La ratio della disposizione è chiara: favorire il simultaneus processus, attribuendo al giudice ordinario anche il potere di emanare - nell’interesse del minore - ulteriori provvedimenti in qualche misura connessi. La riduzione di competenza del Tribunale per i Minorenni (privilegiando l’ambito di operatività del giudice ordinario) risponde all’esigenza di realizzare una parità di trattamento tra figli, in riferimento al prioritario interesse del minore - che funge da perno per tutta la materia familiare – ed evitare giudicati contrastanti.
[64] Cass. Sez. un. n. 22238 del 21-10-2009 in Famiglia e Diritto, 2010, 1, 67 e Mass. Giur. It., 2009: per la Suprema Corte l'audizione dei minori nelle procedure giudiziarie che li riguardano e in ordine al loro affidamento ai genitori è divenuta comunque obbligatoria con l'art. 6 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003, per cui «ad essa deve procedersi, salvo che possa arrecare danno al minore stesso, come risulta dal testo della norma sovranazionale e dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 16753 del 2007)».
[65] Cfr. Cass. civ. Sez. III Sent., 04/02/2020, n. 2460 in CED Cassazione, 2020. In senso conforme: Cass. civ. Sez. II Ord., 25/09/2019, n. 23940 in CED Cassazione, 2019; Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord., 21/11/2018, n. 30009 in CED Cassazione, 2018. Sul concetto di autorizzazione nel diritto privato si vedano le ampie considerazioni di M. TAMPONI, L'atto non autorizzato nell'amministrazione dei patrimoni altrui, Milano, 1992, 28 ss.; G. DE CRISTOFARO, op. cit., 1110; M. SESTA, Rappresentanza e amministrazione, in Dogliotti, Sesta, La filiazione, in Tratt. Bessone, IV, 3, Torino, 1999, 264.
[66] Cass. civ. Sez. II Sent., 05/06/2007, n. 13154 in Giur. It., 2008, 1, 52 nota di CALVO: nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva annullato la vendita di una partecipazione societaria, non risultando dimostrati né la necessità di capitali - che sarebbero stati immobilizzati temporaneamente in quella partecipazione in vista di futuri impieghi - né il reimpiego del ricavato dell'alienazione della suddetta partecipazione nell'attività dell'impresa del “de cuius”.
[67] Cfr. Cass. civ. Sez. III Sent., 28/03/2017, n. 7889 in CED Cassazione, 2017 e www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. Conformi: Cass. civ. Sez. un., 16/10/1985, n. 5073 in Foro It., 1985, I, 2550; Cass. civ. Sez. VI - 1, 08/06/2016, n. 11782 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it
[68] Cfr. Cass. civ. Sez. II, 26 ottobre 1981, n. 5591 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it; Cass. civ. Sez. I, 12 aprile 1988, n. 2869 in Mass. Giur. It., 1988; Cass. sent. n. 599 del 1982; Cass. civ. sent. n. 5582 del 1983; Cass. civ. Sez. I, 13 aprile 2001, n. 5533, in Mass. Giur. It., 2001 e per ultima Tribunale Ravenna Sent., 22/07/2019 in www.pluris-cedam.utetgiuridica.it. La dottrina (G. Dosi, M. Dogliotti, M. Sesta, T. Auletta) riconduce il conflitto di interessi all’abuso della rappresentanza e ne individua il dato caratteristico nel fatto che si tratta di un esercizio anormale del potere rappresentativo, una deviazione funzionale, una specie di sviamento di potere. L’atto è regolare ma il rappresentante agisce sostanzialmente nel proprio interesse e non nell’interesse del rappresentato. Lo scopo, quindi, delle disposizioni che intendono porre riparo al conflitto di interessi nell’ambito della rappresentanza genitoriale è quello di evitare che i genitori nell’esercizio del potere legale di rappresentanza dei figli minori possano perseguire un loro interesse piuttosto che quello dei loro figli ovvero l’interesse di un figlio a scapito di quello di un altro figlio.
[69] Cass. civ. Sez. I, 19 gennaio 1981, n. 439 in Foro It., 1981, I, 678.
[70] Cass. civ. Sez. I, 12/04/1988, n. 2869 in Mass. Giur. It., 1988.; Cass. civ. Sez. III, 28/02/1992, n. 2489 in Mass. Giur. It., 1992. In campo medico, circa la scelta terapeutica da adottare al fine di non configurare un conflitto di interessi, è opportuno consultare la sentenza della Corte d'Appello Ancona, 26/03/1999 in Dir. Famiglia, 1999, 659: «Qualora i genitori di un minore affetto da gravissima patologia tumorale ad alto grado di velocità e malignità intendano (a seguito di prognosi infausta e con esito mortale a breve termine, formulata da sanitari praticanti la terapia del "protocollo" ufficiale) ricorrere a terapie mediche non empiriche, ma non ancora recepite dalla medicina tradizionale, non sono applicabili, perché non pertinenti, gli art. 320-321 c.c. e 78 c.p.c., previsti per le ipotesi di conflitto di interessi d'ordine patrimoniale, tanto più che in tema di scelte terapeutiche non è, di regola, ravvisabile un vero conflitto di interessi tra genitori e figlio, tutti accomunati dallo stesso interesse e dalla medesima finalità».