Pubbl. Lun, 2 Mag 2022
Appropriarsi dello smartphone della compagna per leggerne i messaggi privati integra il reato di rapina
Modifica pagina
Anna Onore
La Suprema Corte, con la sentenza del 15 ottobre 2021, n. 45557, ribadisce che nel delitto di rapina l’ingiusto profitto non deve necessariamente sostanziarsi in un’utilità materiale, potendo anche consistere in un vantaggio di natura morale o sentimentale che l’autore del fatto intenda conseguire, sia pure in via mediata, dalla condotta di sottrazione ed impossessamento, con violenza o minaccia, della cosa mobile altrui.
Sommario. 1. Il caso; 2. Sulla configurazione del delitto di rapina (propria e impropria); 2.1. (Segue). La qualificazione giuridica del profitto ingiusto; 3. La decisione della Corte di Cassazione; 4. Riflessioni conclusive.
1. Il caso
Con la sentenza n. 45557 del 15 ottobre 2021, la Cassazione ha nuovamente affrontato il tema della qualificazione giuridica del profitto (ingiusto) perseguito dall’autore nel delitto di rapina.
Nel caso di specie, l’imputato veniva rinviato a giudizio per i reati di rapina impropria, lesioni aggravate e violenza privata ai danni della sua compagna; l’uomo l’aveva aggredita con violenza per sottrarle lo smartphone al solo fine di visionare la rubrica e i messaggi trasmessi e ricevuti. Confermata in appello la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di primo grado, il ricorrente proponeva ricorso per cassazione.
Due i motivi di doglianza: con il primo si deduceva la violazione di legge per mancata correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ai sensi dell’art. 521 c.p.p.[1], là dove il G.i.p. aveva configurato la rapina impropria in luogo della rapina propria, come aveva ipotizzato il pubblico ministero; con il secondo motivo, invece, adduceva il vizio di mancanza o contraddittorietà della motivazione, ex art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p., rispetto alla qualificazione giuridica dell’ingiustizia morale come profitto perseguito, consistito nel controllare la vita relazionale della compagna a mezzo del suo telefono cellulare. Il ricorrente, infatti, riteneva che il mero vantaggio morale o sentimentale non potesse essere inglobato nel concetto di profitto di cui alla fattispecie penale in parola, che inevitabilmente deve presentare connotati di natura patrimoniale-economica. Condizione assente nel caso di specie.
In altri termini la difesa sosteneva che, nella doppia sentenza conforme, i giudici di merito avevano configurato la rapina impropria e la violenza privata sulla base di un’unica condotta, in violazione dell’art. 610 c.p. che esclude la configurabilità del reato quando esso rileva come elemento costitutivo o aggravante di altro più grave reato. Aggiungeva, poi, che la relativa eccezione sarebbe stata rigettata con motivazione illogica.
2. Sulla configurazione del delitto di rapina (propria e impropria)
Le questioni di diritto sottoposte all’attenzione del Supremo consesso riguardano la configurazione del delitto di rapina ed il concetto di ingiusto profitto ivi perseguito. La Corte, limitandosi a confermare le argomentazioni fornite dal giudice di appello in ordine agli elementi costitutivi della fattispecie in parola, chiarisce la portata semantica della nozione di profitto che non deve necessariamente sostanziarsi in un’utilità materiale, potendo anche consistere in un vantaggio di natura morale o sentimentale.
In premessa alla soluzione ermeneutica fornita dalla Cassazione nel caso in esame, occorre effettuare alcune cursorie e ricognitive considerazioni riguardo al quadro normativo di riferimento, l’ambito applicativo del reato di cui all’art. 628 c.p., nonché la differenza che intercorre tra fattispecie propria e impropria di rapina. A seguire, l’ultimo approdo della giurisprudenza di legittimità in ordine alla qualificazione giuridica di “ingiusto profitto”.
Il delitto di rapina punisce chiunque si impossessi della cosa mobile altrui sottraendola, con violenza o minaccia, a chi la detiene, al fine di conseguire un ingiusto profitto (rapina propria). Allo stesso modo, è penalmente perseguibile chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità (rapina impropria). La norma, poi, prevede una serie di circostanze aggravanti e attenuanti che incidono sul trattamento sanzionatorio[2].
Il delitto de quo costituisce un esempio tipico di reato plurioffensivo, comune e d’evento. Infatti, è posto a tutela dell’interesse patrimoniale e dell’autodeterminazione della persona che ne è vittima e può essere commesso da “chiunque”, così come esplicitato dalla norma. Nella sistematica codicistica, la rapina è collocata nel Libro II, Titolo XIII, dedicato ai delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose e alle persone.
Da un punto di vista strutturale, si presenta come reato necessariamente complesso[3], in quanto all’azione sottrattiva tipica del furto (art. 624 c.p.) si sovrappone l’elemento della violenza alla persona o della minaccia, strumentali all’aggressione del possesso, rinvenibile nei delitti di cui agli artt. 581, 610 e 612 c.p.
Prima di chiarire la condotta tipica del reato e la relativa differenza tra rapina propria e impropria, di cui al primo e secondo comma, occorre procedere ad alcune precisazioni terminologiche quanto alla nozione di cosa mobile altrui e alle forme di manifestazione della violenza e minaccia.
Nel delitto anzidetto, la cosa mobile altrui rappresenta l’oggetto materiale del reato, la cui nozione penalistica non coincide del tutto con quella civilistica, ricavabile dagli artt. 810 ss. c.c.. Secondo opinione condivisa[4] concorrono a definire la nozione che qui interessa alcuni caratteri minimi rappresentati dalla materialità e fisicità dell’oggetto, il quale deve risultare definibile nello spazio e suscettibile di essere spostato da un luogo ad un altro. Pertanto, è cosa mobile qualsiasi res corporale, fungibile o infungibile, idonea a essere trasportata come tale o suscettibile di mobilizzazione ad opera dell’uomo, con esclusione dei c.d. beni immateriali (non suscettibili di apprensione fisica) salvo che questi si incorporino in oggetti materiali suscettibili di sottrazione[5]. Perché possa configurarsi il delitto di rapina, analogamente a quello di furto, il bene mobile deve essere altrui, ossia di proprietà o in possesso di altri[6]. Ne consegue che non possono considerarsi altrui le res nullius (artt. 923 ss. c.c.), le res communis omnium (aria, mare, luce, fatte salve le parti che, individuate o separate dall’opera dell’uomo, diventino oggetto potenziale di diritti patrimoniali) e le res derelictae, abbandonate dal proprietario intenzionalmente.
Inoltre, la giurisprudenza si è occupata di chiarire la nozione di violenza che interessa ex art. 628 c.p.: questa si definisce come «ogni energia fisica adoperata dall’agente verso la persona offesa al fine di annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione», ovverosia «può consistere in una vis corporis corpori data, ossia in una violenza posta in essere esclusivamente con la forza fisica dell’agente, senza l’ausilio di mezzi materiali, o può consistere in una forza fisica esercitata con qualsiasi mezzo materiale adatto allo scopo»[7]; in altre parole, la violenza è intesa sia in termini materiali che morali.
La minaccia, invece, consiste nella prospettazione di un male ingiusto il cui verificarsi dipende dall’autore; in questo caso, il male minacciato è dato dalla lesione o messa in pericolo di beni giuridici di pertinenza della stessa persona offesa[8].
Fatte queste precisazioni, il primo elemento che consente di distinguere la rapina propria da quella impropria è il momento temporale in cui si ricorre all’uso della violenza o della minaccia; infatti, se l’agente usa violenza come mezzo di impossessamento della cosa mobile altrui e si manifesta prima o in concomitanza della sua sottrazione allora viene a configurarsi l’ipotesi di cui al primo comma, ossia la rapina propria. Diversamente, se la minaccia o la violenza è intesa come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per assicurare a sé o ad altri l’impunità e si rivela post sottrazione della cosa, il fatto penalmente rilevante è qualificato come rapina impropria. Il delitto di rapina propria, poi, si considera consumato nel momento in cui si realizza l’atto dell’impossessamento; di contro, la mera sottrazione del bene consente di qualificare l’illecito come fattispecie tentata, ex art. 56 c.p.[9]. La rapina impropria, invece, si consuma con la sola sottrazione della cosa, senza che occorra che si verifichi anche l’impossessamento. Proprio nella variante “impropria” di rapina vengono sussunti i fatti di causa. Il reo, sottratta la cosa mobile (cellulare), usava violenza nei confronti della vittima per assicurarsene il possesso e visionarne il contenuto.
La difesa, con il primo motivo di doglianza, sostiene che la condotta posta in essere dovesse essere sussunta nell’ipotesi di cui al primo comma, ossia di rapina propria, giacché l’uso della violenza era stata strumentale all’impossessamento verificatosi in concomitanza alla condotta sottrattiva dello smartphone e non per assicurarsene il dominio. Altresì, considera inappropriata la contestazione della violenza privata (art. 610 c.p.) unitamente alla rapina, nella misura in cui il primo delitto rileva come elemento costitutivo del secondo nella sua composizione complessa, illeciti perpetrati mediante la medesima condotta. Per tali motivi, il ricorrente invoca la violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, ex art. 521 c.p.p.. Di contro, secondo la ricostruzione fornita dall’accusa l’agente avrebbe adoperato violenza immediatamente dopo la sottrazione del cellulare proprio per assicurare a sé il possesso, controllarne il contenuto e coartare la libertà della vittima limitando la sua autodeterminazione. Facendo ricorso al criterio del momento temporale dell’uso della violenza o minaccia rispetto alla condotta sottrattiva, il fatto viene quindi ricondotto nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 628 c.p. (rapina impropria).
Invero, la sottrazione – quale componente dell’elemento materiale del reato – costituisce ulteriore elemento determinante ai fini della distinzione tra rapina impropria consumata e rapina impropria tentata. Difatti, non essendo l’impossessamento l’evento del reato ma elemento del dolo specifico, se vi è stata la sottrazione della cosa mobile altrui, l’uso della violenza (o della minaccia) da parte dell’agente, al fine di conseguire il possesso della res (ovvero l’impunità), costituisce rapina impropria consumata - e non già rapina impropria tentata[10] - indipendentemente dalla verificazione in concreto anche dell’impossessamento.
Qualche contrasto giurisprudenziale è sorto rispetto all’inciso «immediatamente dopo la sottrazione» avendo riguardo all’impiego di vis violenta. Secondo l’orientamento maggioritario, il rapporto di immediatezza che deve sussistere tra la sottrazione e l’uso della violenza (o minaccia) non va interpretato letteralmente, anzi, «la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra la sottrazione e l’uso della violenza (o minaccia), essendo invece sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l’unitarietà dell’azione, volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l’impunità»[11]. Per altra impostazione[12], invece, occorre prediligere la necessaria contestualità temporale dell’azione complessiva, non potendo la locuzione in esame estendersi fino a ricomprendere la quasi flagranza del furto.
Per ciò che concerne l’elemento soggettivo, nella rapina propria è richiesto il fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (dolo specifico); nella rapina ex art. 628, co. 2, c.p., invece, il dolo è doppiamente specifico perché è integrato dal dolo del furto e dall’ulteriore coscienza e volontà di usare la violenza o minaccia al fine di assicurare il possesso del bene ovvero l’impunità a sé o ad altri.
In questa sede occorre, infine, ricordare che è inammissibile il concorso tra le due forme di rapina poiché tali fattispecie costituiscono mezzi diversi per il raggiungimento di un medesimo scopo e, quindi, di un unico delitto.
2.1. (Segue). La qualificazione giuridica del profitto ingiusto
Delineato l’illecito nei suoi tratti essenziali, occorre procedere all’analisi del secondo motivo di doglianza riguardante la qualificazione giuridica del profitto rilevante ai fini della configurazione del delitto in parola, oggetto di approfondimento da parte della Corte Suprema. Come anticipato, la difesa sostiene che soltanto la mera connotazione economica vale a configurare il profitto di cui all’illecito in parola, non potendo rilevare alcun vantaggio di natura morale. Seguendo la predetta ricostruzione concettuale, il reo contesta il vizio di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p..
La rapina, sia nella variante “propria” che nella forma “impropria”, richiede che l’agente agisca al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Occorre qui precisare cosa si intende per profitto, che deve presentare i connotati dell’ingiustizia.
Preliminarmente, deve darsi atto delle diverse ricostruzioni fornite del concetto in parola: per una prima impostazione, il profitto assume una valenza meramente economica, quindi meramente patrimoniale, comprensiva di ogni arricchimento o mancato depauperamento del soggetto attivo o di altre persone[13].
A differenza di questa tesi eccessivamente rigorosa, in dottrina ha trovato consenso l’orientamento personalistico, per cui il profitto consiste in un incremento della «strumentalità del patrimonio, cioè della sua capacità di soddisfare bisogni materiali o spirituali del titolare»[14]. Nell’ambito di questo indirizzo si afferma che il delitto in esame non potrebbe configurarsi quando i vantaggi perseguiti o conseguiti non siano di natura patrimoniale, seppur mossi da specifica intenzione dell’agente.
Di contro, l’orientamento recepito dalla giurisprudenza maggioritaria evoca il fenomeno della “de-patrimonializzazione del profitto”[15]: una nozione di profitto ampia, che può concretarsi in qualsiasi tipo di utilità, non necessariamente economica, ma anche prettamente morale, purché venga conseguita con le modalità tipiche del reato in esame (possesso e sottrazione mediante atti violenti o minacciosi della cosa mobile altrui)[16]; aderendo a quest’ultima impostazione, vengono sussunte nella fattispecie penale ex art. 628 c.p. condotte violente o minacciose che in realtà non hanno, seppur a livello intenzionale, alcuna ricaduta patrimoniale a vantaggio del soggetto agente. Appare evidente il ricorso allo strumento interpretativo, nella sua massima portata.
In altre parole, anche rispetto all’utilità morale o sentimentale, l’agente è mosso da consapevolezza e volontarietà rispetto al fine perseguito, che viene qui conseguito attraverso l’appropriazione di un oggetto materiale dotato di intrinseco valore patrimoniale[17].
Infine, il profitto deve presentare i connotati dell’ingiustizia. Secondo autorevole e condivisa dottrina[18], l’ingiustizia del profitto si configura quando questo non trova alcuna tutela nell’ordinamento, né direttamente né in via mediata. Altrimenti detto, il dolo è escluso quando l’agente agisce nella convinzione di realizzare un proprio diritto soggettivo o una pretesa tutelata dall’ordinamento.
Nella sentenza in commento, la Corte sostiene che la condotta sottrattiva del cellulare fosse diretta al raggiungimento di uno scopo di natura morale, consistente nel controllare i messaggi e le interazioni telefoniche tenute dalla partner con persone terze; profitto tra l’altro ingiusto perché non legittimato in forza di alcuna previsione normativa, anzi lesivo del diritto di autodeterminazione, a tutela della libertà individuale, ex art. 2 Cost.
3. La decisione della Corte di Cassazione
Sulla scorta delle considerazioni suesposte, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso perché meramente reiterativo delle questioni sottoposte al giudice di seconde cure e correttamente risolte. Nello specifico, la Corte d’appello di Bologna aveva rilevato come nel capo di imputazione fosse contestata, in maniera inequivocabile, la fattispecie di cui all’art. 628, co. 2, c.p., tale da non poter ravvisare alcuna violazione dell’art. 521 c.p.p.; inoltre, avendo contestato il reato di rapina impropria, evidenziava come fosse irrilevante che l’imputato non perseguisse uno scopo di lucro, attesa la nozione di profitto correlata al delitto di rapina che non deve necessariamente concretarsi in un’utilità materiale; infine, aveva evidenziato come non vi fosse nessuna potenziale inconciliabilità tra la rapina e la violenza privata, perché tali delitti non venivano perpetrati con una sola condotta, bensì con due distinte condotte, poste in essere in tempi diversi.
Per tali ragioni, il giudice d’appello sostiene che la difesa si sia limitata a formulare generiche quanto apodittiche censure di illogicità della motivazione, che invece appariva lineare, adeguata, completa e approfondita in ogni sua parte, avendo particolare riguardo alle risultanze processuali; motivazione, quindi, fornita nel rispetto delle regole di cui all’art. 192 c.p.p. e in conformità ai principi di diritto enunciati rispetto alle questioni esaminate. Il giudice di legittimità, poi, coglie l’occasione per ricordare che i vizi di motivazione possono essere esaminati in sede di legittimità solo quando non propongano censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente e idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum[19].
La manifesta infondatezza si rinviene anche con riguardo al tema dell’individuazione dell’ingiusto profitto, poiché, «nel delitto di rapina, questo non deve necessariamente concretarsi in un’utilità materiale, potendo consistere anche in un vantaggio di natura morale o sentimentale che l’agente si riproponga di conseguire, sia pure in via mediata, dalla condotta di sottrazione ed impossessamento, con violenza o minaccia, della cosa mobile altrui»[20].
Il Collegio, dichiarato infondato il ricorso, condanna il reo al pagamento delle spese processuali e alla somma di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
4. Riflessioni conclusive
La pronuncia della Suprema Corte si innesta in quell’orientamento giurisprudenziale[21] che valorizza le finalità di giustizia sostanziale, non solo formale, cui mira l’azione penale; infatti, sussumere nella fattispecie penale ex art. 628 c.p. condotte violente o minacciose che in realtà non hanno, seppur a livello intenzionale, alcuna ricaduta patrimoniale a vantaggio del soggetto agente dimostra il pregevole intento della giurisprudenza di servirsi dello strumento interpretativo nella sua massima portata per assicurare uno standard minimo di tutela.
La questione non è nuova, posto che intercetta il più ampio tema del rapporto tra innovazione tecnologica e sviluppo sociale, che influenzano la realtà giuridica, e principi generali che regolano la materia penale, sub specie di determinatezza e tassatività; quindi, il rapporto tra norma generale e caso concreto. In questi delicati intrecci, dirompente è il ruolo conformativo della giurisprudenza nell’interpretazione e applicazione delle fattispecie incriminatrici penali.
Come nel caso in commento, il giudice ricorre all’interpretazione estensiva che, ponendosi all’opposto di quella analogica vietata se in malam partem, si manifesta anche nelle forme del c.d. diritto vivente. Questo, secondo consolidata impostazione[22], non si sostanzia in interpretazione c.d. creativa, intesa come normazione giurisprudenziale; piuttosto, va inteso come argomentazione fornita dall’organo giurisdizionale, più rispondente alla situazione di fatto, nei limiti dell’interpretazione estensiva. In altre parole, il diritto vivente arriva dove la legge fallisce, dove il diritto vigente trova il suo limite.
L’interpretazione estensiva ricorre quando si attribuisce alla norma un significato più ampio tra quelli compatibili con il suo tenore letterale; di contro, il divieto di analogia consiste nell’impossibilità di applicare al fatto in esame le regole dettate per un caso simile (analogia legis) ovvero fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento (analogia iuris). Tuttavia, nella prassi non è sempre facile distinguere tra ragionamento analogico e interpretazione estensiva: se alcun apprezzabile criterio vale a distinguerle, è opportuno ricorrere a una valutazione casistica[23].
Proprio in questo si concretizza l’operato della giurisprudenza di legittimità rispetto al delitto di rapina, sia avendo riguardo al concetto di “ingiusto profitto” che di “bene mobile”. Nell’un caso, si è assegnato al vantaggio non solo una dimensione patrimoniale, nella sua accezione economica, ma anche una valenza morale; nell’altro caso, specie alla nozione di bene mobile, il giudice ne ha fornito un’interpretazione evolutiva ricomprendendovi res che prima vi erano escluse: si pensi, tra tutti, all’energia, ai file informatici ovvero agli ovociti[24]. In definitiva, ampliando il significato dei concetti in parola – nei limiti concessi ex lege – risulta sì estesa l’area del penalmente rilevante ma non emerge alcuna violazione della stretta legalità, visto il giusto contemperamento alle istanze di giustizia sostanziale.
Il rischio di incorrere nel divieto di analogia in malam partem è, così, scongiurato.
[1] La disposizione così recita: «1. Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, purché il reato non ecceda la sua competenza né risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica ovvero non risulti tra quelli per i quali è prevista l’udienza preliminare e questa non si sia tenuta. 2. Il giudice dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517 e 518, co. 2, c.p.p. 3. Nello stesso modo il giudice procede se il P.M. ha effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518, co. 2».
[2] L’art. 628, co. 3 e ss., c.p., come da ultimo modificati con L. 26 aprile 2019, n. 36, stabiliscono quanto segue: «3. La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 2.000 a euro 4.000: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire. 3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell’associazione di cui all’art. 416-bis; 3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all’art. 624-bis) o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 3-ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto; 3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro; 3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne. 4. Se concorrono due o più delle circostanze di cui al terzo comma del presente articolo, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’art. 61, la pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 2.500 a euro 4.000. 5. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3), 3-bis), 3-ter) e 3-quater), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti».
[3] Un reato è definito complesso o composto, ai sensi dell’art. 84 c.p., quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato. La dottrina, quindi, è solita distingue tra reato complesso speciale e reato complesso circostanziato, a seconda che si fondono, in posizione paritetica, due reati configurando un altro reato ovvero uno di questi rilevi come elemento circostanziale di altro reato; rientra nella prima categoria il delitto di rapina. Il fondamento del reato complesso è da rinvenirsi nell’assorbimento di più fatti di reato in una unica fattispecie, rispondendo a principi di matrice democratica e sovranazionale, specie a quello del ne bis in idem sostanziale. Per un maggiore approfondimento si rinvia a G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, ed. VIII, Zanichelli Editore, Bologna, 2019, 686 ss.
[4] Sul punto si rinvia a F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, ed. VII, Wolters Kluwer-Cedam, Padova, 2019, 50 ss; G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, cit., 28 ss..
[5] Recentemente, la Cass. pen., Sez. II, 7 novembre 2019, n. 11959, ha ricondotto nel concetto di bene mobile anche i file informatici, quanto alla loro struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibili di esser trasferiti da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo.
[6] Per le nozioni di diritto di proprietà e possesso si rinvia alla disciplina civilistica, di cui agli artt. 832 e 1140 c.c.. Rispetto alla nozione di proprietà, ex art. 832 c.c., il legislatore ha preferito fornire una definizione di proprietario come colui che «ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico»; invece, ai sensi dell’art. 1140 c.c., il possesso è inteso come «il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa». Quanto di interesse penalistico, occorre ricordare che parte della dottrina intende fornire una nozione estensiva di altruità, ricomprendendovi anche i beni soggetti al semplice diritto di godimento o di garanzia. Per altra impostazione, invece, l’altruità è riscontrabile soltanto rispetto ai diritti dominicali. Si rinvia a M. BIANCA, La proprietà – vol. VI, Giuffrè Editore, Milano, 2017.
[7] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 ottobre 2012, n. 1176, in Dejure.
[8] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 16 febbraio 2016, n. 8961, in Dejure.
[9] L’art. 56 c.p. così statuisce: «1.Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. 2.Il colpevole di delitto tentato è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. 3.Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. 4.Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà». Per un maggiore approfondimento del tema si rinvia a D. PULITANO’, Diritto penale, ed. IX, Giappichelli Editore, Torino, 2021, 356 ss.
[10] Se alcun dubbio emerge circa la configurabilità della rapina impropria tentata laddove ricorra la sottrazione della cosa, non può dirsi lo stesso nel caso in cui l’agente adoperi violenza o minaccia senza aver precedentemente sottratto la res. A dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto è intervenuta la Cass. pen., sez. Un., 12 settembre 2012, n. 34952, in C.E.D. Cass., Rv. 253153 – 01. La Corte, aderendo all’orientamento maggioritario, ritiene possibile «la configurabilità del tentativo di rapina impropria (e non invece del concorso tra tentativo di furto e i reati di violenza o minaccia) laddove il soggetto agente, dopo avere compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco alla sottrazione di cosa altrui, adoperi violenza o minaccia per procurare a sé o ad altri l’impunità». Così facendo, ritiene inadeguata quell’impostazione ermeneutica secondo cui la violenza e la minaccia devono essere esercitate immediatamente dopo la “sottrazione”. Quindi, in assenza della sottrazione della cosa, la violenza o la minaccia assumono rilevanza autonoma e possono concorrere con il furto tentato.
[11] Come specificato, da ultimo, da Cass. pen., sez. II, 17 giugno 2019, n. 26596, in C.E.D. Cass., Rv. 244821.
[12] Ex multis Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2009, n. 16952, in C.E.D. Cass., Rv. 246860; Cass. pen., sez. VI, 10 dicembre 2008, n. 4264, in C.E.D. Cass., Rv. 243057; Cass. pen., sez. 6, 27 novembre 2008, n. 10984, in C.E.D. Cass., Rv. 243683; Cass. pen., sez. VI, 30 ottobre 2008, n. 43773, in C.E.D. Cass., Rv. 241919; Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2007, n. 32551, in C.E.D. Cass., Rv. 236969.
[13] G. MARINI, Delitti contro il patrimonio, Giappichelli Editore, Torino, 1999, 349 ss.
[14] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, ed. VII, cit., 40 ss.
[15] Espressione utilizzata da A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA, Trattato di diritto penale. Parte speciale, vol. X – I delitti contro il patrimonio, Utet Giuridica, Milano, 2011.
[16] Cfr. Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2015, n. 11467, in Dejure, ove il principio di diritto è il seguente: «Nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane».
[17] Cfr. Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2022, n. 727, in Dejure.
[18] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, ed. VII, cit., 135 ss.
[19] Cfr. Cass. pen., sez. V, 8 ottobre 2008, n. 46124, in C.E.D. Cass., Rv. 241997.
[20] Cfr. Cass. pen., sez. II, 16 aprile 2019, n. 23177, in C.E.D. Cass., Rv. 276104 – 01.
[21] Ex multis. Cass., pen., sez. II , 16 aprile 2019, cit.; Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2015, n. 11467, cit.; Cass. pen., sez. II, 20 maggio 2014, n. 20660, in Dejure.
[22] Tra i moltissimi contributi sul tema, si rinvia a: L. MENGONI, Diritto vivente, in Digesto civ., Giappichelli Editore, Torino, 1990, 445 ss.; C. MEZZANOTTE, La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Laterza, Bari 1979; D. MICHELETTI, Le fonti di cognizione del diritto vivente, in Criminalia, 2012; C. MESSNER, «Diritto vivente» - Performativo, non discorsivo, in Politica del diritto, 2011; L. SALVATO, Profili del “diritto vivente” nella giurisprudenza costituzionale, 2015, in www.cortecostituzionale.it; L. FERRAJOLI, Contro l’interpretazione creativa, in Questione Giustizia, IV, 2016; C. PALAZZO, F. VIGANO’, Diritto penale. Una conversazione, Bologna, Il Mulino, 2018.
[23] Per tutti, senza alcuna pretesa di esaustività, G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, cit., 47 ss.; G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè Editore, Milano, 2021, 43 ss.; M. VOGLIOTTI, Dove passa il confine? Sul divieto di analogia nel diritto penale, Giappichelli Editore, Torino, 2011; O. DI GIOVINE, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Giuffrè Editore, Milano, 2006, 272 ss.
[24] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 25 novembre 2020, n. 37818, in Dejure. Nell’occasione, la Corte afferma che «gli ovociti sono parte del corpo suscettibili di valutazione patrimoniale, quindi cose mobili in senso realistico, comprensive cioè anche delle cose che possono essere mobilizzate ad opera dello stesso ladro mediante la loro avulsione od enucleazione, o ricorrendo ad analoghe attività materiali». La Cassazione, evocando la tesi della c.d. “mobilizzazione”, statuisce che gli ovociti acquistano lo status di “cosa mobile” al termine del processo di asportazione dal corpo umano, così ritenendo configurabile il delitto di rapina, e non quello di violenza privata, nell’ipotesi in cui il soggetto, dopo una prima condotta violenta, si adoperi per sottrarre ed impossessarsi degli ovociti della vittima.