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Pubbl. Mar, 15 Mar 2022

La V Repubblica francese sotto la presidenza di De Gaulle può essere considerata a pieno titolo un regime democratico?

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Giulia Guastella



Mitterrand non è stato solo l´inquilino più longevo dell'Eliseo, è stato anche il leader che ha saputo trasformare più in profondità la V Repubblica e che ne ha raccolto l'eredità gaullista, rappresentando l'anello di congiunzione fra la vecchia socialdemocrazia di Willy Brandt e il socialismo modernizzatore di Blair e Zapatero. Alla luce di tali avvenimenti storici, gli si può riconoscere di aver fondato un modello di leadership che continua ad affascinare il nostro tempo.


ENG Mitterrand was not only the longest - lived tenant of the Elysée, he was also the leader who was able to transform the Fifth Republic more deeply and who collected its Gaullist legacy, representing the link between the old Social Democracy of Willy Brandt and the modernizing socialism of Blair and Zapatero. In the light of these historical events, he can be recognized as having founded a model of leadership that continues to fascinate our time.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Tesi pro gaullista: cosa aveva De Gaulle in serbo per il suo paese?; 3. Tesi contro gaullista: un nuovo Bonaparte e i due diversi filoni interpretativi della Quinta Repubblica; 4. La Quinta Repubblica alla presidenza di De Gaulle e Mitterrand. Quali le differenze e quali i punti di contatto?; 5. La Quinta Repubblica può considerarsi, in summit, a pieno titolo un regime democratico?; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

Il presente elaborato si pone l’obiettivo di approfondire le dinamiche storico-politiche della quinta Repubblica francese sotto la presidenza di De Gaulle (1958 – 1969) e i principali contenuti di un fenomeno culturale che ha condotto alla solidificazione di un regime tutt’oggi esistente (con l’attuale Presidente in carica Emmanuel Macron).

Si proseguirà quindi mettendo a confronto due tra i più illustri Chefs d’Etat dalle abilità politiche e militari prestigiose, quali Charles de Gaulle e François Mitterrand, mostrando come rivalità e stima non rappresentino altro che le due opposte facce della stessa medaglia. Infine, si concluderà con delle brevi considerazioni sull'annosa questione della democraticità della Quinta Repubblica e sulla comprensione di tale fenomeno storico, politico, nonché culturale del nostro tempo.

2. Tesi pro-gaullista: cosa aveva De Gaulle in serbo per il suo paese?

Un “uomo mandato dal destino”: così si presentava De Gaulle nelle sue “Memorie di Guerra[1], come un uomo che da solo aveva salvato il suo Paese in più di un’occasione. Nel giugno del 1940 quando sconfisse l’autorità del regime Petain per restaurare l’onore di Francia, e nell’anno del suo accesso al potere (maggio 1958) quando ha salvato il suo paese dalla crisi d’Algeria.

Questo parallelo storico, come ha osservato lo storico Andrew Shennan - che nella sua monografia intitolata “De Gaulle”, tratteggia il profilo del condottiero francese[2] – divenne parte della mitologia gaullista. Al Generale va infatti il merito di aver liberato per due volte i Francesi dalle loro catene mentali nella progettazione di un buon sistema politico, mostrando loro come avrebbero dovuto lavorare sull’intelligenza e sul loro genio: dal pasticcio della Terza Repubblica, che ha condotto al collasso militare e all’inaccettabile soluzione di Vichy, e dall’instabilità politica della Quarta Repubblica.

La Quinta Repubblica ha siglato il vero inizio della Francia moderna, il punto dal quale il Paese ha - metaforicamente - abbandonato il suo periodo adolescenziale per entrare nell’età adulta, vestendosi di responsabilità, disciplina e amor proprio. Nicholas Atkin scrive che è stato il momento in cui la Francia ha “sposato il suo secolo”, prendendo in prestito le parole del Generale[3].

Nel 1958 non vi era alcuna certezza che la Quinta Repubblica potesse svilupparsi, almeno nella visione gaullista; tuttavia, De Gaulle non demordeva dall’obiettivo di regalare al suo Paese un futuro prospero.

Lo storico francese René Remond ha fatto notare[4] che il parallelo storico si sposa meglio con l’anno 1870. Anche a quell’epoca una nuova Repubblica sembrava essere la soluzione più opportuna alla crisi, e la Francia aveva svoltato nella direzione di un uomo carismatico, A. Thiers, diventato poi Presidente del nuovo regime. Pertanto, proprio come accadde nel 1870, ne derivò un periodo di stabilità che permise alle élites del potere di poter rimuginare sul futuro. Tuttavia, De Gaulle non aveva la benché minima intenzione di emulare Thiers, che stette in carica poco più di due anni; molto sarebbe dipeso da come la macchina politica francese avrebbe funzionato da lì in avanti e dalla sintesi dei suoi successi nel gestire la crisi d’Algeria e, contemporaneamente, i suoi avversari.

I sostenitori del riassetto della Repubblica di Francia per mano di De Gaulle vedevano nella figura del Generale il prosecutore di quella tradizione repubblicana che voleva dare maggior potere all’esecutivo; trattavasi, se non altro, dello stesso obiettivo cui un secolo prima Jules Ferry aveva aspirato, ed aveva conosciuto il fallimento.

De Gaulle risolveva il problema della dottrina repubblicana – che in passato aveva diviso la Nazione provocando l’emarginazione di alcune fette sociali come i monarchici o i cattolici - edificando ora una “Repubblica assoluta”, non tanto da intendersi nell’accezione di dispotica, quanto in quella di “sciolta” dai vincoli partitici che fino ad allora avevano avvelenato il Paese, ma, soprattutto, tratteggiava un ideale di Repubblica non più basato su una dottrina astratta.

La Francia riponeva ora la sua fiducia su solide Istituzioni che potessero garantire il suo prestigio nel mondo e che riuscissero a regolare i limiti e le competenze del potere esecutivo e a De Gaulle va anche il merito di aver scorto la presenza di alcuni errori non indifferenti entro la struttura istituzionale della Quarta Repubblica, che, a suo vedere, rappresentavano la base su cui si sono erti i fallimenti che avrebbero poi esacerbato la crisi del 1958.

Egli concordava con il leader dell’Action Francais, Charles Maurras, nel vedere lo Stato come un organismo vivente: una famiglia, una scuola, un luogo di lavoro, un naturale prodotto dell’umana condizione con tutte le sue colpe e le sue debolezze, ancorché diversamente da Maurras, De Gaulle non desiderava dividere la Francia dal suo passato - rinunciando ai principi che avevano fatto la Rivoluzione del 1789 - attraverso una restaurazione della monarchia; egli cercò, invece, di consolidare il suo Paese sotto un forte regime presidenziale, che non si sarebbe lasciato tenere in ostaggio dai partiti settari, caratteristici della consuetudine nazionale e noti per sollevare questioni su tutto, così spesso da oscurare i reali interessi della Nazione.

Solo un simile sistema avrebbe permesso alla sua gente, secondo lo Chef d’Etat, di riscoprire il proprio genio e, in questo senso, De Gaulle non ha mai aspirato ad essere un dictateur[5], come il vasto bacino dei suoi antagonisti (la vecchia e la nuova gauche di Francia) gli addebitava.

Così De Gaulle, coinvolto intensamente nel nuovo processo costituzionale, e malgrado i problemi pressanti che provenivano dall’Algeria, assegnava ad una Commissione di giuristi e ministri da lui nominata e composta esclusivamente da tecnici la redazione della nuova Costituzione – la Settima - nonché l’attuale Costituzione francese[6]. Presentata al popolo il 4 settembre 1958 – simbolicamente, lo stesso giorno in cui fu proclamata nel 1870 la Terza Repubblica – in place de la République, la nuova Costituzione doveva le sue radici alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, la Carta della Rivoluzione.

Come ricorda Peter Morris, l’articolo 2 della Carta ha ribadito il vincolo del nuovo regime a dei simboli fortemente repubblicani: la bandiera del tricolore francese, l’inno nazionale della Marsigliese, i valori di libertà, fratellanza ed eguaglianza e la separazione della Chiesa dallo Stato.[7]

Per buona misura, l’articolo 89 dichiarava che la forma repubblicana di governo restava immutabile, e che tutti gli emendamenti costituzionali erano prerogativa del Parlamento di cui il governo era però responsabile. In questo modo, De Gaulle cominciò a deviare gli insulti dell’ala sinistra che lo apostrofavano come un “Bonaparte”.

Qualsiasi sua intenzione si collocava lontana dall’adottare un documento che imitasse quelli passati e che invitasse quindi il Paese allo stesso tipo di instabilità che, nella sua opinione, lo aveva afflitto troppo a lungo.

Nel rifuggire questo rischio, la presidenza diventava un ufficio sempre più onorario ed investito di considerevole autorità, alla cui testa il presidente stesso aveva il diritto di indire referendum, sciogliere il Parlamento (purché solo una volta nell’arco di un periodo di dodici mesi), assumere poteri di emergenza - come nel caso del putsch des generaux[8] avvenuto ad Algeri nel 1961 – nominare il primo ministro e, dopo aver consultato questo – nominare gli altri ministri (non necessariamente spiumati dai ranghi delle camere). I deputati che diventavano ministri avevano l’obbligo di porgere il loro posto ad un supplente, così sottolineando la trasparente e corretta separazione tra potere legislativo e potere esecutivo.

Un’ulteriore testimonianza della volontà di proteggere la Nazione dai capricci settari del Parlamento fu la modalità d’elezione del Presidente da parte di un collegio di 80.000 notabili – rappresentanti responsabili del popolo – presumibilmente liberi da vincoli partitici.

Il Presidente – a servizio del suo Stato – avrebbe dovuto rappresentare un arbitro “indipendente”, stando al di sopra di dispute meschine e agendo negli interessi della Nazione tutta intera.

3. Tesi contro gaullista: un nuovo Bonaparte e i due diversi filoni interpretativi della Quinta Repubblica

Fin dal 1958, l’estensione del potere presidenziale è stato un vivo soggetto del dibattito tra gli scienziati della politica, posto che peraltro non c’era dubbio che De Gaulle intendesse investirsi di considerevole autorità, così da poter determinare sia la composizione del suo Governo sia la natura della politica.

Si vuole in questa sede ricordare che la Costituzione prevedeva un esecutivo bicefalo, in cui il Presidente governava accanto al Premier Ministre e, sebbene quest’ultimo fosse il partner più giovane, coloro che avevano formulato la Costituzione assicuravano che la premiership avesse molta più autorità di quanta ne intendesse De Gaulle.

Come ricordano D. Howart e G. Varouxakis, attraverso gli articoli 37 e 38 il premier veniva investito di considerevole autorità col diritto di siglare una maggioranza di decreti e ordinanze: è incredibilmente il premier che coordina l’attività di Governo ed è sempre lui che presidia oltre la maggior parte degli incontri di Governo.

Ciò nonostante, quello che passò alla storia come uno dei grandi dell’affermazione della moderna Repubblica francese, è stato dipinto dalla fitta corrente dei suoi detrattori come un “nuovo Bonaparte”. È opinabile l’ipotesi secondo la quale il malcontento provenisse dall’ala di sinistra che nel frattempo si vedeva spazzata via dalle nuove forze politiche emergenti e dal superamento del partito di integrazione di massa, a vantaggio di strutture più leggere.

A rafforzare questa tesi, il comportamento che il Generale decise di assumere nel trovare una soluzione al problema algerino, apparve come ambiguo: non solo ammetteva l’urgenza di una nuova prospettiva politica per l’Algeria dove il gioco di potere fosse nelle mani dalla Francia, ma di questo si faceva carico personalmente.

Con la revisione del progetto di legge sui pubblici poteri indetta tramite referendum, De Gaulle andava contro l’articolo 11 della Costituzione che stabiliva di indire un referendum solo se sollecitato da una decisione del Governo o del Parlamento e si collocava in maniera tutt’altro che democratica al riassetto e ristabilimento dell’ordine.

Attraverso l’uso strategico che se ne voleva fare, sarebbe cambiato proprio il significato istituzionale del referendum che cessava ufficialmente di essere un mezzo per dirimere le controversie, trasformandosi in uno strumento attraverso il quale il Presidente avrebbe chiesto direttamente al suo popolo di approvare la sua azione.

Nell’analizzare il significato della Quinta Repubblica, due sono i filoni interpretativi maggioritari fattisi avanti. E invero, accanto a coloro che hanno rilevato una certa continuità con la Terza Repubblica, alcuni studiosi hanno invece riscontrato delle forti fratture, nell’affermarsi del nuovo regime, con quegli ideali che la precedente forma di Governo aveva portato avanti.

Il primo cleavage[9] è sul piano sociale, dove il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica segna il parallelo transito dallo sguardo dei regimi, orientato sulla piccola proprietà e sulla piccola industria, ad uno che adesso fa perno sulla classe media salariata e imborghesita.

Sul retroterra ideologico, la frattura è ancora più profonda e attiene alle origini della Terza Repubblica, costruitesi sul pensiero neokantiano del diciottesimo secolo. Proprio questa realtà avrebbe infatti fatto risaltare la scelta agnostica compiuta dalla Quinta Repubblica che, nel frattempo e in un quadro più generale, spostava il focus d’attenzione dall’individuo, come centro, allo Stato.

Dunque, la supremazia dello Stato sull’individuo rappresenta la ragione di fondo della decadenza dei maggiori capisaldi della tradizione repubblicana (centralità del Parlamento, laicità dello Stato, equilibrio dei poteri). La Quinta Repubblica, in antitesi con la tradizione, avrebbe fatto un massiccio ricorso alla democrazia diretta (cosa che aveva ben poco di bonapartista).

In realtà le due tesi contengono molti più punti di contatto di quanto si possa immaginare e appare chiaro che il rapporto tra le due interpretazioni sia regolato dall’angolo visuale prescelto. Se si osserva la questione dalla prospettiva della fase costituente, il tentativo di guadagnare continuità con la tradizione repubblicana ha il sopravvento, mentre se si tiene conto della pratica costituzionale della nuova Repubblica, subentra una fase di rottura.

Avviene poi un’inversione di rotta se si considera l’elezione diretta del presidente, la quale sigla il passaggio da una fase regimentale ad una di presidenzialismo.

L’effetto perverso che deriva dalla competizione di queste due tesi, è quello di un offuscamento sul reale significato della Carta del 1958, alla luce soprattutto del periodo storico in cui si colloca: a metà strada tra il ciclo costituente successivo al secondo conflitto mondiale e quello apertosi alla metà degli anni Settanta e proseguito fino agli anni Novanta col passaggio alla democrazia dei paesi ex comunisti, la Settima Carta costituzionale rappresenta un dardo che apre una breccia verso la Modernità.

4. La Quinta Repubblica alla presidenza di De Gaulle e Mitterrand. Quali le differenze e quali i punti di contatto?

Per dipanare le trame di un rapporto tra due capi di Stato così diversi e, allo stesso tempo, così diversamente carismatici, può risultare utile partire dalla figura di Francois Mitterrand, la cui vita politica si conosce come la più longeva della storia francese (spalmatasi per tre regimi, da Vichy alla Quinta Repubblica passando per la Quarta Repubblica).

La sua condotta laica nei confronti della politica, il forte affidamento al beneficio del dubbio e l’utilizzo parsimonioso dell’ideologia, hanno fatto di lui un uomo saggio nonché un ottimo discepolo di De Gaulle, il quale aveva insegnato come fosse indispensabile mantenere un minimo tratto impolitico per soddisfare un elettorato sempre sospetto nei confronti del politicien. Tuttavia, a caratterizzarlo vi era anche un velleitario atteggiamento di refrattarietà nei confronti della “politica come professione” che nasceva in lui in parte dal carattere casuale con cui aveva incontrato il proprio destino di leader, in parte dalla famiglia politica nella quale egli stazionò fin oltre i trent’anni, e cioè la destra francese (da sempre riottosa nei confronti della politica).

Quando negli anni Settanta Mitterrand aderì alla sinistra, seppe fare di questo suo tratto impolitico una risorsa, facendo subito mostra di come il suo passaggio dalla destra alla gauche francais non fosse dettato da una mera brama di potere, quanto più da una necessità che lo portava in quel momento storico a dover scalare il Partito socialista – unica vera e grande forza politica - per raggiungere l’Eliseo.

Spiegò quindi come per lui la sinistra fosse un insieme di valori in qualche modo imperituri a dispetto delle ideologie e dei partiti. Anch’egli, come De Gaulle, ancorché in misura leggermente maggiore – quest’ultimo tentò quantomeno un allargamento della compagine di destra verso la sinistra attraverso l’inserimento di elementi nuovi - guardava con sospetto alle macchine politiche di massa e vedeva in queste l’esclusiva volontà di radicarsi nel territorio, portandolo ad un graduale e cancerogeno deperimento. Ciò nonostante, ristrutturò dall’interno le Parti Socialiste per trasformarlo nella forza maggioritaria della gauche.

Il suo agire politico era determinato ma coinvolgente, ben lontano dal carisma a tratti epici tutto gaullista, di cui prese certamente il buono. Attento alla modulazione della voce, al ricco uso della gestualità e delle immagini e disponendo di uno charme tipicamente francais – senza considerare anche la buona educazione ricevuta – Mitterrand si adoperò per rendere il Partì Socialiste un partito del Presidente, scomponendo le correnti interne e facendo azione centripeta esclusivamente verso la sua figura. Egli fu per tutti gli anni Settanta leader di un partito che rappresentava lo spinton per un segretario al potere in una democrazia ormai matura e moderna, anche se di fronte a un popolo della sinistra, tuttavia, era ancora estraneo alle Istituzioni della Quinta Repubblica e sempre portato a vedere nel semipresidenzialismo dei tratti bonapartistici. Tra l’altro, il programma del PS – ancora arretrato e basato sulla strategia del fronte di classe – si scontrava con un’idea di democrazia avanzata.

Peraltro, la presa di distanza dai partiti rafforzò il contatto di Mitterrand con la società francese, che imparò a conoscere nel suo più profondo animo: parlare con i francesi ed intercettare i loro desideri era divenuto il leitmotiv dell’azione del nuovo capo carismatico. La sua concezione della politica era, fortunatamente, figlia del Novecento per quanto riguardava la rappresentanza e il leader era in questo senso il fautore in ultima istanza delle richieste del suo elettorato. Sebbene Mitterrand fu da subito ostile a De Gaulle, fin dal loro primo incontro nel 1943 (in piena Resistenza) cercò fondamentalmente di seguirne le orme.

Con lo Chef d’Etat condivideva tale concezione carismatica della politica, basata più sulla comunicazione intra e interpersonale, solo che a suo vantaggio ebbe l’arguzia di trasporre tale carisma nei grandi meeting della politica di massa: un’impresa fino ad allora non sperimentata da nessuno. Anche De Gaulle aveva uno scopo, posto che aveva provato per più di un mandato a convincere il suo elettorato che potere politico e potere militare non necessariamente fossero antagonisti.

La differenza con Mitterrand è probabilmente da individuare nelle modalità di convincimento autoritario ed arrogante il primo, che conobbe presto il suo fallimento, e docile e arguto il secondo, che riuscì a conquistarsi la fiducia du peuple.

A costituire un valore aggiunto nei confronti del suo agire politico, fu la conquista della legittimità della gauche francaise come forza d’alternanza nel quadro bipolare della Quinta Repubblica: fino ad allora la sinistra non era esistita come alleanza e le spinte centriste erano troppo forti perché le altre si potessero far spazio.

5. La Quinta Repubblica può considerarsi, in summit, a pieno titolo un regime democratico?

Il periodo storico entro il quale si colloca la Quinta Repubblica francese è quello interposto tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio della Guerra Fredda.

Si tratta di un’era di mezzo, entro la quale non necessariamente il Paese avrebbe dovuto e, soprattutto, potuto capire cosa stesse accadendo, motivo per cui appare opportuno considerare una serie di elementi.

Primo fra tutti, la figura di De Gaulle e la sua ascesa al potere: il fatto che il Generale si fosse insidiato all’esecutivo senza colpo ferire e senza che la sua gens fosse psicologicamente preparata, lo si può ora spiegare, con senno di poi, come una necessità storica caratterizzata dall’assenza di formalismo. De Gaulle aveva capito che soltanto attraverso un’azione forte, seppur a tratti ambigua, avrebbe potuto risollevare la colonia francese d’Algeria e restituirle l’indipendenza che tanto agognava attraverso l’autodeterminazione.

Tuttavia, il modo – l’unico disponibile – con cui egli perseguì tale obiettivo, si rivelò palesemente illegittimo ed incostituzionale agli occhi dell’elettorato e della macchina politica, che a maggior ragione in quel momento stava lavorando per una modernizzazione del Paese.

Al netto di tali considerazioni, per quanto poco fosse chiaro, De Gaulle non aveva come obiettivo una dittatura dai tratti libertari. Inoltre, riproponendo una riflessione dello storico Quagliariello, il gaullismo rappresentava un nazionalismo aperto e cosmopolita, sopraggiunto in un momento di emergenza, che sfuggiva allo sterile clivage[10] destra – sinistra; un movimento che era tutto indirizzato al progresso e alla modernizzazione più di quanto i francesi stessi riuscissero in quel momento a cogliere.

In secondo luogo, occorre far luce sullo spodestamento della macchina partitica dalla figura, adesso urgente, del leader unico. Anche questa era una nouvelle[11] cui l’elettorato non era assolutamente preparato, qualcosa lo rendeva inquieto e smarrito di fronte ad un futuro ancora non pienamente visualizzabile, in relazione al nuovo assetto politico che avrebbe potuto regalare alla Nazione.

Il fatto che la sinistra comunista perdesse il suo primato non poteva essere facilmente accettato da un popolo che basava la sua esistenza sulla partigianeria e sulla lotta di classe e che aveva vissuto con ardore gli ideali sessantottini a pari merito con l’Italia.

6. Conclusioni

Ad oggi, in ordine a quanto pervenutoci dalle fonti ufficiose degli archivi di Stato, nonché dagli stralci degli speechment radiofonici dei leader in prima persona, non è ancora possibile attribuire una collocazione definita alle sorti della Quinta Repubblica francese, all’interno del dibattito politico.

L’unica, timida, conclusione cui si può giungere è quella per cui tale regime non sia stato ab origine sufficientemente compreso. Inoltre, le modalità con le quali la Quinta Repubblica si è affermata non hanno coerentemente rappresentato le sue reali intenzioni: ciò è accaduto non perché dai più alti scranni della Repubblica siano passati uomini che non avessero a cuore gli interessi della Nazione, ma perché loro malgrado - a causa di una molteplicità di fattori di cui sopra si è fatta menzione - si faceva spazio un’evidente difficoltà di fondo nel reperire gli strumenti volti a questo scopo.


Note e riferimenti bibliografici

Note

[1] Memorie di Guerra di Charles de Gaulle, Garzanti, Francia, 1951

[2] Andrew Shennan, De Gaulle, Inghilterra, 1993

[3] Nicholas Atkin, The Fifth French Republic, Basingstoke, Palgrave-Macmillan, 2005

[4] René Remond, 1958 le retour de De Gaulle, Francia, 2008

[5] Celui qui, investi légalement ou non du pouvoir politique, l'exerce de façon autoritaire, voire tyrannique, sans avoir officiellement, en général, le titre correspondant. Dictateur militaire. Après les graves crises diplomatiques provoquées par les dictateurs allemand et italien (Lesourd, Gérard, Hist. écon.,t. 2, 1966, p. 430).

[6] L'attuale Costituzione francese (Constitution française du 4 octobre 1958) è la costituzione della Francia, entrata in vigore il 4 ottobre 1958. Il testo, redatto da un'apposita commissione nominata da Charles de Gaulle, era stato approvato a larga maggioranza dall'elettorato il 28 settembre precedente. Tale carta ha dato origine all'attuale sistema di governo francese, noto come Quinta Repubblica, caratterizzato da una forma di governo semipresidenziale.

[7] Peter Morris, Presidentialism in France: A Historical Overview, 1997

[8] Il putsch des generaux rappresenta uno dei passaggi storici più peculiari della crisi del maggio 1958. La crisi segnò il ritorno al potere in Francia del generale de Gaulle, in un contesto insurrezionale legato all'instabilità del governo durante la guerra d'Algeria. Ebbe inizio con il Colpo di Stato del 13 maggio 1958 (il "putsch di Algeri") e finì il 3 giugno 1958 con il voto di investitura del generale de Gaulle, nominato il 1 ° giugno dello stesso anno Presidente del Consiglio da parte del Presidente della Repubblica René Coty, con la missione di redigere una nuova Costituzione entro 6 mesi. La crisi del maggio 1958 preparò la nascita della nuova, e odierna, Quinta Repubblica francese.

[9] Formulata dal sociologo Stein Rokkan, la teoria dei cleavages ha avuto il merito di individuare le “fratture sociali” (in inglese, appunto, clevages) e di dare conto della formazione delle spaccature partitiche nei secoli XIX e XX, originate prima dalle Rivoluzioni nazionali, poi dalla Rivoluzione industriale.

[10] Espressione per lo più utilizzata nell’ambito delle analisi politiche e tratta dalla lingua inglese, da tradursi con ”scollatura”.

[11] Da tradurre con “novità”.

Riferimenti bibliografici:

Andrew Knapp, the Government and politics of France, Routledge 2006

Gildea, France since 1945, OUP 2002

Lesourd, Gérard, Hist. écon.,t. 2, 1966

Marco Gervasoni, Francois Mitterrand, Einaudi Editore 2007

Nicholas Atkin, The Fifth French Republic, Basingstoke, Palgrave-Macmillan 2005