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Pubbl. Gio, 24 Feb 2022

Il diritto alla memoria storica tra oblio e responsabilità collettiva

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Tullio Facciolini



L´articolo è un tributo alle vittime della Seconda Guerra Mondiale e, in particolar modo, a quelle dei campi di concentramento: dopo aver analizzato il concetto di crimine contro l´umanità, il lavoro si sofferma sulla risoluzione europea che tutela la memoria e la sua concreta applicazione all´interno degli Stati membri. L´articolo ricostruisce poi il tema della memoria attraverso i secoli, partendo da Platone e giungendo ai giorni nostri con il libro scritto da Liliana Segre che contiene una preziosa prefazione di Enrico Mentana sulla responsabilità morale e politica degli Stati contemporanei e sul ricordo, sia esso individuale o collettivo.


ENG The article is a tribute to the victims of the Second World War and, in particular, to those of the concentration camps: after analyzing the concept of crime against humanity, the work focuses on European resolution that protects memory and its concrete application within the Member States. The article then reconstructs the theme of memory through the centuries, starting with Plato and reaching the present day with the book written by Liliana Segre which contains a precious preface by Enrico Mentana on the moral and political responsibility of contemporary states and on remembrance, be it individual or collective.

Sommario: 1. Premessa; 2. I crimini contro l’umanità; 3. Il diritto e il dovere alla memoria; 4. Conclusioni.

1. Premessa

Il Novecento è il secolo dei diritti umani: un tema che ha suscitato l'interesse non solo dei politici e degli storici, ma anche dei filosofi e dei giuristi[1]. Fino al termine della Seconda guerra mondiale, tuttavia, la giustiziabilità dei diritti umani rimase una questione squisitamente teorica. Fu solo con la celebrazione del processo di Norimberga che essa assunse, per la prima volta, un risvolto pratico e che inaugurò il concetto di punibilità dei crimini contro l'umanità[2].

L'istituzione di un tribunale militare internazionale, pensato dalle potenze alleate (USA, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica) perseguiva un duplice scopo: in primo luogo, condannare i leader della Germania nazista accusati non solo di crimini di guerra e contro la pace, ma soprattutto contro l'umanità; in secondo luogo, tenere traccia, per i posteri, di ciò che aveva fatto il regime di Hitler. Il primo obiettivo fu raggiunto imputando al nazismo la commissione di una nuova tipologia di reato, che nello stesso processo prenderà il nome di crimine contro l’umanità. Ma esattamente qual è il significato di tale espressione?

2. I crimini contro l’umanità

L’espressione crimine contro l’umanità fu usata, per la prima volta, con un’accezione prettamente giuridica nel 1915. Quell’anno tre potenze europee, Francia, Gran Bretagna e Russia, concordarono la stesura di una dichiarazione di condanna di quello che divenne universalmente noto come genocidio armeno. La “Dichiarazione congiunta di Francia, Gran Bretagna e Russia” (France, Great Britain and Russia Joint Declaration), resa nota il 24 maggio 1915, contenne un esplicito riferimento ai “recenti reati commessi dalla Turchia contro l’umanità e la civiltà” (new crimes of Turkey against humanity and civilization).

Nel 1945, quando le grandi potenze si riunirono a Londra per elaborare lo statuto del Tribunale militare internazionale di Norimberga, per crimini contro l'umanità si intendevano la persecuzione e lo sterminio di un popolo[3]. La locuzione definiva, quindi, si riveriva alle azioni criminali che riguardavano gli abusi e le violenze contro parte di popoli o interi popoli e che fossero percepite, per la loro capacità di suscitare generale riprovazione, come perpetrate in danno dell'intera umanità[4].

L’uccisione degli ebrei fu quindi classificata come persecuzione e sterminio degli stessi. Essendo la Shoah un reato senza precedenti, era impensabile trattarlo alla stregua dei crimini sino ad allora conosciuti ed era altresì doveroso delinearne gli elementi costitutivi in modo da tipizzare lo stesso; era questo il ruolo affidato alla legge internazionale del dopoguerra, che aveva anche il compito di evitare che determinati soprusi a danno di determinati popoli si ripetessero nuovamente. Nacquero così i Principi di Norimberga, che costituirono il primo passo verso lo sviluppo del diritto penale internazionale.

L'11 dicembre del 1946, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite emise la Risoluzione 95/I a “Conferma dei principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga[5]. La Risoluzione formulava un invito alla Commissione del diritto internazionale, organo sussidiario dell'Assemblea Generale, affinché producesse un documento in cui raccogliesse i principi emersi, per giungere ad un atto vincolante, di natura pattizia, per la comunità internazionale. La Commissione accolse l'invito e il 29 luglio del 1950 emanò un Rapporto intitolato “Principi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga”, in cui espose 7 principi fondamentali.

La comunità internazionale era tuttavia ancora sprovvista di un codice penale internazionale, che Hannah Arendt, invece, auspicava come applicazione dei Principi enunciati durante il processo di Norimberga[6].

Il corollario fondamentale della punibilità dei crimini contro l'umanità fu il riconoscimento della responsabilità per le azioni commesse in danno di altri popoli o di altri Stati. Questo trovò espresso riferimento normativo nel primo principio di Norimberga, secondo il quale “chiunque commetta un atto che costituisce crimine secondo il diritto internazionale ne è responsabile ed è passabile di condanna”, mentre la nozione di crimine e la sua suddivisione in crimini contro la pace, di guerra e contro l'umanità furono invece affidati al sesto principio.

3. Il diritto e il dovere alla memoria

Il secondo obiettivo del processo di Norimberga è stato, invece, quello di non rendere vano l'Olocausto, attraverso l’uso della memoria, che si configura non solo come un diritto, ma anche come un dovere. Esso resta uno dei ricordi più dolorosi del fallimento della comunità internazionale di proteggere la vita umana ed è per questo che dimenticare non è solo eticamente sbagliato, ma è anche storicamente ingiusto.

Il diritto alla memoria collettiva, in questo caso, prevale sull'opposto diritto all'oblio, in quanto si fa portavoce di un momento storico irripetibile e che rappresenta non solo il punto di partenza per la formazione delle nuove generazioni, ma per un futuro di pace e sicurezza per tutta la comunità internazionale.

Il tema della memoria ha attraversato i decenni dal dopoguerra ad oggi e riveste attualmente un'importanza centrale nella produzione legislativa del Parlamento Europeo.  La risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 (2019/2819 (RSP)) “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa” costituisce infatti uno degli esempi più importanti del valore che riveste la storia nella vita di ogni uomo.

La risoluzione ripercorre il complesso iter di costruzione di un’organizzazione internazionale, politica ed economica a carattere sovranazionale, l’Unione Europea e si focalizza sugli eventi chiave che lo hanno maggiormente caratterizzato. Lo scopo perseguito dalla stessa è pertanto evidente: favorire il processo di costruzione di una identità collettiva europea, attraverso la consapevolezza degli errori compiuti in passato dai singoli Stati membri e la proposizione di obiettivi da conseguire coralmente in futuro.

La memoria degli eventi storici è il presupposto indispensabile affinché questo progetto sia realizzato, posto che il tema del ricordo non solo rende giustizia alle vittime di ogni conflitto, ma costituisce un monito per le politiche presenti e future dell’Unione.

La difesa della storia europea si attua infatti attraverso la protezione dei luoghi della memoria che sono stati il teatro della privazione dei principali diritti dell’uomo. A tal fine, la risoluzione ricorda l'istituzione di una giornata europea di commemorazione per le vittime del totalitarismo nazista e comunista (23 agosto) e ritiene che il Patto Molotov-Ribbentrop sia stata una delle cause scatenanti della Seconda Guerra Mondiale, in quanto il 23 agosto del 1939 l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il suddetto trattato di non aggressione, dividendo così l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse[7].

Esso si atteggerebbe, quindi, ad antecedente logico dello scoppio del conflitto, in quanto la Polonia fu, subito dopo la firma dello stesso, attaccata sia dalla Germania che dall’Unione Sovietica.

Le guerre mondiali, e in particolare la seconda, rappresentano l'esempio più concreto di quello che gli storici definiscono “dovere della memoria”: lo stesso Papa Francesco ha scelto il tema della memoria per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, una scelta decisamente coraggiosa e in controtendenza rispetto ai tempi attuali che ha tratto da un versetto del libro dell’Esodo “perché tu possa raccontare e fissare nella memoria”[8]. Il dovere della memoria è quindi quell’atto cosciente e volontario di chi non dimentica e per questo motivo, la risoluzione, al punto 10, mira alla “affermazione di una cultura della memoria”[9].Come spiegato da Kant, infatti, non esiste pace nel mondo se anche un solo luogo di esso sia in guerra.

La risoluzione ha anche l’obiettivo di educare alla diversità soprattutto i più giovani, possibili promotori di un radicale cambiamento, e lascia alle politiche interne degli Stati membri il compito di mantenere vivi gli eventi del XX secolo nell’iter di formazione scolastica degli stessi. Il Parlamento, nel documento, assume il nazismo e l'esperienza sovietica sotto il regime di Stalin a paradigma del totalitarismo dei primi decenni del Novecento condannando nettamente entrambi ed è utilizzata per ribadire gli orrori della guerra e il valore supremo della pace, unica condizione per il progredire dell’intera umanità.

Il nazismo rappresenta, infatti, la decadenza politica e sociale della civiltà moderna: il trionfo della legge del più forte che schiaccia ogni forma di contestazione e diversità[10]. I valori che invece hanno animato le potenze che si sono ribellate all’egemonia tedesca e che poi sono risultati fondamentali nella realizzazione del progetto europeo sono agli antipodi di ogni forma di totalitarismo. Nel punto 1, infatti, la risoluzione richiama l'articolo 2 in cui si legge che l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; lo stesso punto 1 rammenta che questi valori sono comuni a tutti gli stati membri[11].

A guidare gli Stati membri nel perseguimento dei fini dell'Unione deve essere quindi una cultura del rispetto, il cui primo corollario è il dovere della memoria, che deve affiancare l'azione politica delle istituzioni europee: esso può non solo prevenire decisioni politiche errate, ma influenzare positivamente gli avvenimenti del presente e del futuro. Il ricordo presuppone inevitabilmente la conoscenza e che è agli antipodi dell’ignoranza, sulla quale è costruito il totalitarismo: questo passaggio si coglie molto chiaramente nel capolavoro di George Orwell, 1984.

Nelle prime pagine del romanzo, l’autore presenta al lettore gli slogan incisi sulla facciata del Ministero della Verità: “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza[12]. Maggiore è, infatti, la conoscenza di un individuo, tanto più esso è preda di dubbi e contraddizioni del pensiero, mentre tanto meno esso sa, quanto più agirà secondo i dettami del Partito.

È per questo che la mancata conoscenza di chi è governato si trasforma inevitabilmente nella forza di chi è al potere. Ignorare determinati avvenimenti o semplicemente dimenticarli ha oggi invece assunto una connotazione di profonda debolezza ed è sinonimo di non essere completamente liberi: solo la memoria assicura all’individuo la consapevolezza del passato per la costruzione del presente.

La memoria è anche un obbligo, non solo individuale ma collettivo: è per questo che i superstiti della Shoah hanno lottato affinché essa non fosse dispersa, ma raggiungesse le nuove generazioni.

La società del XXI secolo sembra, tuttavia, avere una profonda indifferenza verso la Shoah e le sue vittime, in quanto considera gli avvenimenti storici ad essa connessi come una vicenda già archiviata[13]. E ciò rappresenta un errore che la risoluzione di cui si è detto, approvata con 535 voti a favore e 66 contrari, mira ad evitare. Essa persegue il fine di non relegare l’Olocausto nei libri di storia, ma di fissarlo nella mente di tutta la comunità internazionale, affinché possa guidare le politiche interne ed internazionali, presenti e future.

La risoluzione non ha comunque incontrato il favore di tutti gli studiosi, dato che contiene alcune criticità sottolineate dai primi commentatori della stessa. In primo luogo, il provvedimento è stato disapprovato per la ricostruzione degli avvenimenti storici, che risulta incompleta e superficiale: essa assume infatti il patto Molotov-Ribbentropp come uno degli antecedenti logici della Seconda guerra mondiale e ciò è storicamente criticabile in quanto equiparare le politiche di Germania, Giappone e Italia, a quelle dell’Unione Sovietica ha come conseguenza diretta l’assimilazione del nazismo allo stalinismo.

La vera causa del conflitto sarebbe invece da ricercarsi nelle politiche estere aggressive e guerrafondaie dei paesi dell’Asse, mentre i paesi socialisti che si trovarono nel conflitto non lo avevano mai realmente voluto e avevano fatto di tutto per evitarlo[14].

In secondo luogo, la risoluzione sostiene che il patto Molotov-Ribentropp sia stato la causa dell’invasione dell’Europa, a cominciare dalla Polonia, e addebita all’Unione Sovietica lo stesso obiettivo della Germania: la conquista dell’Europa tramite la divisione della stessa. Questa tesi sarebbe avvalorata dall’attuale politica russa: al punto 16, è manifestata la preoccupazione del Parlamento Europeo “per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico[15]. Tale atteggiamento sarebbe reputato come una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica e, pertanto, lo stesso Parlamento ha invitato la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi.

Infine, si segnala che il termine “stalinismo” viene sostituito da quello più generico di “comunismo” al punto 17, concernente l’inquietudine del Parlamento per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali. In tal modo si usano come sinonimi stalinismo e comunismo e, ancor più storicamente errato, si associa il comunismo al nazismo[16].

La risoluzione, nonostante le criticità esposte, rimane comunque un prezioso strumento per l’analisi del diritto/dovere alla memoria che si scontra costantemente con il diritto/dovere all’oblio. È per questo motivo che si rende necessaria una approfondita disamina della tematica al fine di pervenire alla composizione di questa annosa antinomia.

Va preliminarmente chiarito che l’oblio e la memoria sono due esigenze che hanno pari dignità: il diritto a dimenticare e quello a ricordare, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono due reali antagonisti ma rappresentano “due sezioni temporali del diritto all’identità[17].

Se il diritto all’oblio è connesso al futuro dell’identità di un soggetto, in quanto il termine “cancellare” presuppone la volontà di lasciare alle spalle eventi da non rievocare, il diritto alla memoria attiene al passato della persona, in quanto il ricordo stabilizza l’essere in un momento trascorso e non più ripetibile.

La natura giuridica del diritto all'oblio è da parecchio tempo ormai al centro di una disputa dottrinale e giurisprudenziale. La dottrina minoritaria qualifica il diritto in questione come una nuova espressione del diritto alla riservatezza, privo di qualsiasi tipo di autonomia giuridica. Contrariamente, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, lo definiscono come l'autonoma pretesa dell'individuo ad essere dimenticato successivamente alla diffusione di vicende per lui negative ma che non sono più di interesse pubblico[18].

La ratio di tale istituto va, quindi, individuata nella protezione dell'intimità della persona, la cui sensibilità potrebbe essere compromessa nel momento in cui fatti spiacevoli di un passato ormai remoto, riemergano senza un giustificato motivo. De Cupis, al riguardo, sottolinea la difficoltà che incontra un individuo nel rievocare fatti che sperava costituissero ormai passato: superare determinati avvenimenti non implica infatti l'assenza di sofferenza nel vederli rievocati[19].

Il filologo tedesco Weinrich distingue, invece, due forme di oblio: l'oblio pubblico e l'oblio privato. Il primo è connesso ai mutamenti storici, mentre il secondo è collegato al percorso individuale di ogni individuo. Tale diritto, sia nella sua componente pubblica che in quella privata, incontra il limite della memoria, in quanto esistono eventi che non è possibile non rievocare. L’oblio si scontra quindi inevitabilmente con la memoria, nelle sue due componenti individuale e collettiva[20].

Il concetto di memoria, dal canto suo, ha origini piuttosto remote e inizia a delinearsi con la dottrina platonica della conoscenza e dell'anima: il filosofo la definisce come conservazione della sensazione[21]. Nel Teeteto, poi, Platone fa supporre a Socrate che Mnemosyne abbia donato alle anime degli uomini un blocco di cera “e che in esso, sottoposto alle sensazioni e ai pensieri, si imprima qualsiasi cosa vogliamo ricordare di quelle che abbiamo visto o udito o pensato da noi stessi[22]. Platone illustra anche i meccanismi del ricordo e dell'oblio: la memoria è legata al conservarsi del segno corrispondente alla sensazione (ovvero al perdurare dell'immagine temporanea nella cera), l'oblio alla cancellazione della stessa (conseguentemente tutto ciò che è dimenticato non si conosce)[23].

In altri termini, Platone sostiene che solo dalla memoria scaturisce la conoscenza: l'anima, in una vita precedente a quella terrena ha conosciuto il mondo delle idee e sulla terra, a contatto con diverse esperienze e soprattutto nel dialogare filosofico, ricorda questa sua conoscenza (le idee, infatti, si ripresentano alla mente nella loro verità).

Contrariamente alla filosofia del proprio maestro, per Aristotele la conoscenza si basa sul ricordo delle sensazioni e delle esperienze fatte, che contribuiscono alla formazione di concetti elaborati dalla mente umana (la memoria si traduce in un'immagine mnemonica di natura sensibile che è in potenza un ricordo che, muovendosi, va dal corpo all'anima che lo tradurrà in atto).

Secondo una ricostruzione del ruolo della memoria attraverso i secoli dello studioso Weinrich, Aristotele, nell’opera Della memoria e della reminiscenza precisa che “la passione prodotta dalla sensazione nell’anima e nella parte del corpo che possiede la sensazione è qualcosa come un disegno... Infatti, il movimento che si produce imprime come un’impronta della cosa percepita, come fanno coloro che segnano un sigillo con l’anello”.

Nell'antichità, quindi, la memoria ha un'accezione fortemente positiva, mentre l'oblio riveste una connotazione prettamente negativa. Esso, tuttavia, viene spesso e volentieri celebrato in quanto permette la creazione di una nuova esistenza. Le anime bevono l'acqua dal fiume Lete, per divenire libere dalla loro precedente esperienza e per poter rinascere in un nuovo corpo[24].

La memoria riveste un ruolo centrale anche durante il medioevo: essa viene infatti considerata il fondamento indispensabile di ogni istruzione ed educazione[25]. Ad esaltare il suo valore è lo stesso Sant'Agostino che, nelle Confessioni, descrive il procedimento con cui il ricordo permette l’apprendimento: la memoria è presentata come il luogo dove riposano non solo le immagini di cose introdotte dalle percezioni, ma anche tutti i prodotti del pensiero e tutto ciò che vi è messo al riparo e che l'oblio non ha ancora inghiottito o sepolto. Il filosofo, nel momento in cui richiama alla memoria un determinato evento, evoca tutte le immagini che desidera: alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, alcune arrivano e se ne vanno rapidamente, mentre altre restano insistentemente finché lui non le elimina e si fa avanti quella da lui cercata che diventa più chiara e si dirige verso il suo sguardo[26].

La memoria, esaltata dai filosofi medievali, è invece criticata nell'epoca moderna: gli illuministi, in particolare, la reputano una facoltà che permette lo sviluppo di un apprendimento meccanico. Tale forma di conoscenza è sterile, in quanto essa non è che la ripetizione nel tempo di un allenamento mentale, il quale non possiede alcuno spirito critico.

Rousseau, nell'Emile, critica il metodo con cui venivano educati i giovani: per il filosofo, infatti, lo studio mnemonico non crea rielaborazione, mentre induce chi lo pone in essere a un pericoloso pregiudizio[27].

Per Leibniz, invece, la memoria permette alle idee presenti nella mente come percezioni inconsce, di diventare percezioni coscienti. In altri termini, la memoria rende la percezione massima, in quanto essa si colloca al più alto livello di autocoscienza. Il filosofo, con il suo pensiero, contribuì allo sviluppo delle idee sui processi in “Nuovi saggi sull'intelletto umano” anticipando le teorie di Freud di circa 2 secoli[28].

In Kant, la memoria ha due connotazioni: una attiva e una conservativa. Essa è intesa come la facoltà di rendersi volontariamente presente il passato. Il tema del passato è trattato ampiamente dal filosofo nella sua opera Antropologia dal punto di vista pragmatico, che egli collega al sentimento della nostalgia.

In un passaggio dell’opera, Kant sottolinea che l'uomo, nel desiderio del ritorno nel paese in cui ha le sue origini, non cerca un luogo, ma un tempo, il tempo della giovinezza. La giovinezza cercata però non esiste più e non è riproducibile nuovamente. Questa è la ragione per cui la terapia del ritorno produce insieme delusione e guarigione. Tornando nel paese da cui si proviene infatti ci si rende conto che non solo quel luogo è cambiato, ma che il tempo della giovinezza ivi trascorsa è per sempre finito. Grazie all'uso della nostalgia, il filosofo mostra il vero volto del tempo, cioè l'irreversibilità[29].

Nella Fenomenologia dello Spirito, infine, Hegel indaga l'unità interna e la necessaria differenza tra ragione assoluta ed esperienza storica: la memoria è l'anello di questa articolazione[30]. La memoria consente quindi il passaggio dal tempo all'eternità: il concetto di passato si trasforma in questo modo da puramente temporale ad assolutamente logico, divenendo funzione dello spirito. Secondo il filosofo, infatti, il ruolo della memoria è quello di rilevare che la contingenza storica non è che un momento necessario dell'eternità del logos.

Il Novecento, come afferma Vattimo, è il secolo del cedimento di tutte le certezze raggiunte dalla società ottocentesca[31]: mentre è esaurito ogni residuo positivistico, si assiste al crollo della metafisica e contemporaneamente all'ascesa della relatività, non solo in campo fisico, ma anche in quello filosofico e letterario. Einstein e Pirandello mettono in luce, in modi diversi, la disgregazione del sistema a loro contemporaneo e, inequivocabilmente, il declino dell’uomo come concepito fino a quel tempo. L’essere umano si trova collocato in uno scenario che annienta le sue certezze, e lo rende insicuro nella prosecuzione del suo cammino vitale.

In questo quadro di grandi cambiamenti, anche il concetto di memoria subisce un'evoluzione: grande importanza riveste il lavoro di Sigmund Freud e la ricostruzione della memoria in analisi. Nell’opera Costruzioni nell'analisi, egli descrive il lavoro dell'analista e lo paragona a quello dell'archeologo: entrambi, partendo da piccoli frammenti, giungono alla ricostruzione di qualcosa che si era dato per perduto, ma che invece è sempre stato presente anche se non in maniera visibile, sotterrato e celato agli occhi dei più.

Le due guerre mondiali, infine, elevano il concetto di memoria a conseguenza logica della responsabilità che ogni Stato incontra nell’attuazione delle proprie politiche, interne od estere che siano.

La degenerazione del nazismo, infatti, fu causata della mancanza di cultura non solo della classe politica, ma addirittura di tutto il popolo tedesco. A tal proposito la descrizione della figura di Eichmann nell’opera della Arendt costituisce un monito per il riconoscimento di un modello di malvagità che può condizionare gli avvenimenti storici: la sua mancanza di intelligenza, il suo non possedere idee e il suo non rendersi conto di quello che stava facendo lo rendevano non stupido, ma predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo[32].

I processi contro i nazisti furono indispensabili a far comprendere ai cittadini di tutto il mondo il valore dell'esistenza umana che si era completamente smarrito durante i totalitarismi del XX secolo: rievocare determinati avvenimenti, infatti, non era solo doveroso nei riguardi di coloro che avevano perso la vita in modo assai tragico durante i conflitti, ma costituiva altresì il punto di partenza di una nuova politica, fondata sulla consapevolezza storica e sul rifiuto della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali.

4. Conclusioni

Da questa breve analisi, seppur non esaustiva, emerge la supremazia del dovere alla memoria collettiva sull’oblio pubblico: questo perché, come sostenuto anche dalla giurisprudenza, gli avvenimenti storici che segnano il passaggio da un’epoca ad un’altra, non possono e non devono mai essere messi in un angolo. Anzi, costituiscono il punto di partenza di una profonda riflessione sull’uso del potere e sulla sua degenerazione.  Quando l’autorità si trasforma in autoritarismo, a farne le spese sono sempre coloro che sono considerati un pericolo attuale e concreto per la sopravvivenza dell’ideologia dominante. 

La rimozione di tale minaccia troppo spesso è messa in atto attraverso la negazione dei diritti della persona, fondamento della società e dello Stato.

La responsabilità che nasce da questa privazione è di ordine storico ed aziona conseguentemente il dovere al ricordo, nella sua duplice veste di memoria individuale e collettiva: ad essa è affidata non solo la pianificazione dei comportamenti presenti e futuri attraverso la conoscenza del passato, ma anche e soprattutto lo sviluppo di una differente percezione della società e delle sue istituzioni, affinché la relazione tra il potere ed il cittadino si riempia di un nuovo significato, quello del dialogo democratico. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] Per un approfondimento sul tema si veda, tra i tanti, M. Flores, ‘900 la Stagione dei Diritti. Quando la piazza faceva la storia, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2018.

[2] S. D'Auria, Diritti dell'uomo, crimini contro l'umanità e tribunali internazionali, p. 11, Rassegna penitenziaria e criminologica, fascicolo 3, volume 11, anno 2007 disponibile su www.rassegnapenitenziaria.it.

[3] AA.VV., Oltre la notte, Memoria della Shoah e diritti umani. In occasione degli 80 anni di Elie Wiesel, a cura della comunità ebraica di Venezia, Giuntina, Firenze, 2009, p. 36.

[4] I crimini contro l’umanità sono distinti dai crimini di guerra e talvolta anche dal genocidio; non tutti gli ordinamenti giuridici prevedono direttamente figure di crimini contro l’umanità, mentre alcuni le prevedono indirettamente, in forma recettizia di trattati internazionali.

[5] G. Acquaviva, La repressione dei crimini di guerra nel diritto internazionale e nel diritto italiano, Giuffrè Editore, p. 44.

[6] H. Arendt. La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, traduzione di Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 279.

[7] Risoluzione del Parlamento Europeo 19 settembre 2019 “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, Lettera B, disponibile all’indirizzo https://www.europarl.europa.eu.

[8] Messaggio del Santo Padre Francesco per la 54° Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, Esodo (10,2), disponibile all’indirizzo http://www.vatican.va.

[9] Risoluzione, Punto 10.

[10] A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, prefazione di Eugenio Colorni, edizione anastatica a cura di Sergio Pistone con un saggio di Norberto Bobbio, Celid, Torino, 2017, p. 9.

[11] Risoluzione, punto 1.

[12] G. Orwell, 1984, nuova traduzione e postfazione di Nicola Gardini, Mondadori, Milano, 2019, p. 3.

[13] E. Mentana, L. Segre, La memoria rende liberi, Rizzoli, Milano, 2019, p. 7.

[14] E. Nobsbawn, Il secolo breve, Bur, Milano, 2011, p. 50.

[15] Risoluzione, punto 16.

[16] Risoluzione, punto 17.

[17] M. Bianca, Memoria ed oblio due reali antagonisti?, p. 23, disponibile all’indirizzo http://www.medialaws.eu/

[18] A. L. Valvo, Il diritto all'oblio nell'epoca dell'informazione digitale, in studi sull'integrazione Europea, numero 2, 2015, Anno X, Cacucci Editore, Bari, pp. 347-357.

[19] A. De Cupis, I diritti della personalità, Giuffrè, Milano, 1982, p. 55 e ss..

[20] H. Weinrich, Oblio pubblico ed oblio privato, La rivista il mulino, Bologna, n. 4, 2000, pp. 611-620.

[21] Platone, Filebo, a cura di M. Migliori, Milano, Rusconi 1995, 34 a 9.

[22] Platone, Theaet, 191 D; cura e trad. it. di G. Cambiano, Dialoghi Filosofici, vol. II, UTET, Torino 1981, p. 296.

[23] F. Marenco, Il personaggio nelle arti della narrazione, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 329.

[24] H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell'oblio, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 15.

[25] Ibidem, p. 61.

[26] Sant’Agostino, Le Confessioni, Libro X, 8.12, p. 72.

[27] Ibidem, p. 97.

[28] J. Van Rillaer, Psicologia della vita quotidiana, Una riflessione scientifica non freudiana, traduzione di Giovanni Elba, Edizioni Dedalo, Bari, 2005, p. 170.

[29] A. Prete, a cura di, Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992, p. 20.

[30] G. Frilli, Passato senza tempo, storia e memoria nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Pubblicazioni di Verifiche 52, Verifiche Rivista di scienze umane, Padova, 2014, p. 12.

[31] Si veda in proposito, G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, 2003.

[32] H. Arendt, Op. cit., pp. 290-291.