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Pubbl. Ven, 4 Feb 2022

La normativa premiale antimafia: dall´art. 416-bis 1 c.p. alla collaborazione di giustizia

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Paolo Sgura
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Teramo



La collaborazione è un patto tra chi si determina a schierarsi dalla parte dello Stato e lo Stato stesso. Il fine è duplice: per un verso si cerca di impedire la collusione tra detenuto e organizzazione criminale d’appartenenza, per altro verso si cerca di indurre il soggetto a collaborare con l’Autorità Giudiziaria, poiché solo dall’interno si può indebolire e sconfiggere la struttura criminale. Dopo aver analizzato la legislazione premiale contro la criminalità organizzata, il presente contributo si pone l’obiettivo di comprendere l’incidenza della concessione dei benefici penitenziari e sostanziali nella lotta alla mafia.


ENG Collaboration is a pact between those who decide to take sides with the state and the state itself. The aim is twofold: on the one hand we try to prevent collusion between the prisoner and the criminal organization to which he belongs, on the other hand we try to induce the latter to collaborate with the Judicial Authority, since only from the inside can it be weakened and defeat the criminal organization. After analyzing the reward legislation against organized crime, this contribution aims to understand the impact of the granting of penitentiary and substantial benefits in the fight against the mafia.

Sommario: 1. Cenni introduttivi sulla normativa premiale; 2. La legislazione premiale contro la criminalità organizzata; 3. L'art 416-bis 1. comma 3 c.p.: la cd "premialità sostanziale"; 4. Il collaboratore di giustizia; 5. I benefici premiali; 6. Conclusioni.

1. Cenni introduttivi sulla normativa premiale

La normativa premiale riveste un ruolo primario nella lotta alla criminalità organizzata.

Con tale locuzione si fa riferimento sia al complesso di norme che, dietro previsione di un premio consistente in un trattamento sanzionatorio speciale, incentivano alla collaborazione con l’autorità giudiziaria, sia alle ipotesi di diminuzione di pena o esclusione della punibilità in virtù della neutralizzazione dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.

È indubbio che la premialità non sia del tutto indifferente al codice Rocco, dato che all’interno di esso trovano espressa disciplina istituti, quali la desistenza volontaria ed il recesso attivo (art. 56 c.p.), finalizzati a far cessare o comunque a rendere neutrali condotte criminose.

Per di più, nella parte speciale del codice si rinvengono fattispecie volte a premiare condotte riparative di un bene giuridico già sottoposto ad aggressione: gli artt. 308 e 309 c.p. in tema di non punibilità nei casi di cospirazione e banda armata, l’art. 376 c.p. per quanto concerne l’ipotesi della ritrattazione ed infine la costituzione in carcere dell’evaso disciplinata dall’art 385 c.p.

Sulla scorta dell’impianto codicistico e a causa della convivenza del fenomeno mafioso nel tessuto sociale, con la conseguente necessità di contrastarlo, il legislatore ha introdotto un articolato sistema premiale rivolto alla criminalità organizzata.

Complici di tale esigenza sono state anche, e soprattutto, la volontà di analizzare e comprendere la struttura, il funzionamento e l’organizzazione di associazioni criminali connotate da assetti piramidali.

2. La legislazione premiale contro la criminalità organizzata

I modelli di riferimento delle fattispecie premiali introdotte a proposito della criminalità organizzata sono state le normative antiterroristiche introdotte dal d.l. 15 dicembre 1979, n. 625 (convertito con modificazioni dalla legge 6 febbraio 1980, n.15), contenente specifiche ipotesi premiali per i dissociati dal terrorismo che forniscono un’efficiente collaborazione processuale, e dalla legge 30 dicembre 1980, n. 894, riguardante fattispecie premiali in tema di sequestri di persona[1].

La parte prevalente della dottrina penalistica contestò sia la funzionalità stessa della premialità processuale rispetto a istanze di prevenzione generale[2], sia la sua coerenza con le connotazioni costituzionali della pena[3] e, più in generale, dell’illecito penale[4]. Ma soprattutto sottolineò, sul piano processuale, la regressione inquisitoria indotta, sotto vari profili, dalla logica del beneficio scambiato con la collaborazione[5].

Alle obiezioni di carattere generale appena riportate si affiancarono quelle principalmente riguardanti la profonda diversità di motivazioni alla base del “pentimento” nel caso di terroristi politici e di appartenenti ad organizzazioni criminali comuni, con il conseguente rischio di gravi strumentalizzazioni della normativa premiale. Risultava in tal modo amplificata la contraddittorietà dei benefici rispetto alle funzioni costituzionali della pena e al principio di eguaglianza, ciò sia considerando l’esclusione da essi degli autori di reati esterni alla criminalità organizzata, sia la posizione dei seguaci nell’ambito delle associazioni, penalizzati dalle scarse o minori conoscenze e, quindi, nella possibilità di collaborazione premiata[6].

È alle soglie degli anni ’90 che è stato introdotto un articolato sistema premiale rivolto alla criminalità organizzata comune[7]: allorquando l’introduzione di un'efficiente normativa premiale anche in materia di mafia è divenuta un’esigenza ineludibile.

Innanzitutto, l’art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo Unico legge stupefacenti) che, dopo aver delineato la fattispecie associativa in tema di stupefacenti, ha previsto al comma 7 che le pene indicate nei commi 1 e 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione di delitti.

Successivamente, su impulso di Giovanni Falcone, all’epoca direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia, è stato approvato il d.l. 15 gennaio 1991, n.8, convertito dalla legge 15 marzo 1991, n.82, rubricata Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”. In esso, precisamente all’interno del capo II, era contenuta la disciplina organica della protezione dei testimoni e dei collaboratori nei processi di mafia, oggi trasposta nel terzo e nel quarto comma dell’art. 416-bis 1. c.p.

Di fatto la normativa disponeva la tutela e l’assistenza a soggetti che, per effetto del contributo offerto agli organi inquirenti, in ordine a fenomeni criminali, erano esposti a un grave pericolo di vita. Con la suddetta legge è stato istituito per la prima volta un “programma speciale di protezione”, gestito dal Servizio Centrale di Protezione, organo preposto a darne attuazione, provvedendo alla tutela, assistenza e incombenze concrete delle persone sottoposte a protezione.

Pertanto, il legislatore del 1991 da un lato ha colmato il vuoto normativo che aveva determinato problemi circa la gestione dei collaboratori in fase processuale, dall’altro è stato espressione di un importante segnale di interesse nei confronti di un mezzo di prova, che aveva già dimostrato la sua attitudine a introdurre nel procedimento conoscenze preziose ai fini dell’accertamento dei reati che creavano maggiore allarme sociale. Tale norma subì nel tempo modifiche e ampliamenti. Vennero introdotti gli artt. 13-bis e 13-ter riguardanti, rispettivamente, i benefici penitenziari e le misure alternative alla detenzione, consentendo dunque di scontare la pena al di fuori delle strutture carcerarie. Ecco che, in quel momento storico, iniziava a profilarsi esageratamente il fenomeno del pentitismo, alzandosi in modo esponenziale il numero dei collaboratori.[8]

Nell’anno successivo il governo è intervenuto sul piano penitenziario con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, stimolando la collaborazione processuale attraverso l’esclusione dai benefici previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario (legge n. 345/1975) per quei detenuti che si fossero sottratti alla collaborazione[9].

Da ultimo, a seguito di un lungo e travagliato iter parlamentare durato ben quattro anni (dal febbraio del 1997 al gennaio 2001) il legislatore è tornato nuovamente ad occuparsi dell'istituto della collaborazione con la legge 13 febbraio 2001, n. 45, rubricata “modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza", intervento che si è posto in un rapporto di continuità con il passato, integrando e modificando la legge 15 marzo 1991, n.82.

Il quadro illustrato rappresenta l’impianto normativo dell’intera disciplina premiale in tema di criminalità organizzata.

3. L'art 416-bis 1. comma 3 c.p.: la cd "premialità sostanziale"

L’istituto della cd. “premialità sostanziale” si riferisce alle ipotesi di diminuzione di pena o di esclusione della punibilità in virtù della neutralizzazione dell’offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.

Ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma 3 c.p. «Per i delitti di cui all'articolo 416-bis e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell'imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell'ergastolo è sostituita da quella della reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà».

La fattispecie delinea un’ipotesi di circostanza attenuante ad effetto speciale, in ossequio della quale non solo è giustificata una diminuzione di pena ma si neutralizza anche l’effetto aggravante dei fatti descritti nei commi precedenti del richiamato articolo.

Sulla peculiare natura della dissociazione si è pronunciata la Suprema Corte[10], affermando che l’effetto premiale della circostanza non possa essere inficiato dalla soggezione al giudizio di bilanciamento con circostanze concorrenti (aggravanti e attenuanti), stabilendo, allora, per tale ipotesi, una procedura bifasica di quantificazione del trattamento sanzionatorio: la pena deve essere dapprima determinata procedendo al bilanciamento tra le altre circostanze sussistenti e, sul risultato che ne consegue, va successivamente applicata l’attenuante in esame[11].

I soggetti che posso godere del beneficio, interpretando rigidamente ed in via tassativa il testo del terzo comma dell’art. 416-bis.1, sono esclusivamente gli imputati dei delitti di associazione di tipo mafioso nello stesso procedimento.

La dissociazione descritta dalla norma deve intendersi come rottura del pactum sceleris e deve riferirsi ad un’attività criminosa dei concorrenti non del tutto esaurita[12]

Il dissociato, seppur la norma non richieda un comportamento che risulti efficace, deve porre in essere condotte connotate da una concreta idoneità rispetto alle finalità descritte dalla fattispecie; ed invero l’art. 416- bis 1. comma 3 c.p., con una formulazione di carattere generale, richiede che il soggetto si adoperi «per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati»[13].

La concretezza e l’oggettiva adeguatezza sono i criteri guida a cui deve ispirarsi il contributo apportato dal dissociato per far sì che possa godere del beneficio sostanziale offerto dalla norma.

4. Il collaboratore di giustizia

Il complesso di norme premiali non si esaurisce nella fase di irrogazione della pena, operando anche nella fase esecutiva attraverso il meccanismo della “premialità processuale”: con tale espressione deve intendersi l’insieme delle disposizioni normative che, dietro previsione di un premio consistente in un trattamento sanzionatorio speciale, incentivano alla collaborazione con l’autorità giudiziaria.

Il collaboratore di giustizia è un membro del sodalizio che per distinti motivi – dal mero utilitarismo alla necessità di dissociarsi dalla stessa organizzazione – decide di cooperare con l’autorità giudiziaria e l’autorità di pubblica sicurezza, rendendo dichiarazioni utili all’accertamento della penale responsabilità dei correi e all’analisi della struttura, del funzionamento e dell’organizzazione dell’associazione criminale.

Pertanto, la collaborazione di giustizia consiste nel rendere dichiarazioni etero accusatorie o nel consentire il rinvenimento di materiale probatorio, ed è finalizzata a contrastare determinati fenomeni criminosi che si caratterizzano per il particolare allarme sociale che suscitano, ovvero per la difficoltà di contrasto da parte delle forze dell'ordine, sia nella fase investigativa che in quella repressiva[14].

La collaborazione è una sorta di contratto, di patto, tra chi decide di passare dalla parte dello Stato e lo Stato stesso, ottenendo in cambio benefici processuali.

Indubbiamente, il ricorso alla tecnica collaborativa processuale produce effetti distruttivi all’interno delle stesse organizzazioni criminali, da sempre rese forti dall’atteggiamento omertoso dei loro membri: un affiliato che decida di tradire i correi, oltre ad inquinare le strutture del sodalizio, rende l’associazione vulnerabile, meno coesa ed esposta al rischio della scissione[15].

La disciplina del fenomeno collaborativo si rinviene all’interno della legge n. 45/2001, la quale ha inserito nel corpo del decreto-legge n. 8 del 15 gennaio 1991 gli artt. 16-quater e 16-quinquies: in ossequio a tale ultima disposizione la collaborazione, per essere utilizzabile e proficuamente valutata ai fini dello sconto di pena e del godimento degli altri benefici, deve intervenire in un lasso di tempo predeterminato e vertere su ogni circostanza di cui il pentito è a conoscenza.

Nello specifico, ai sensi dell’art. 16-quater, il pentito, manifestata la volontà di collaborare con la giustizia, procede alla redazione del cd. “verbale illustrativo”, ed ha l’obbligo di sottoscriverlo entro 180 giorni[16]. Il verbale illustrativo è il documento programmatico della collaborazione: una sorta di actio finium con la quale si traccia il perimetro dell’attività dichiarativa che ci si accinge a mettere in atto[17], in quanto, all’interno di tale documento il pentito indica tutti i fatti criminosi di cui è venuto a conoscenza.

Nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, la persona che rende le dichiarazioni attesta, fra l'altro, di non essere in possesso di notizie e informazioni processualmente utilizzabili su altri fatti o situazioni, anche non connessi o collegati a quelli riferiti, di particolare gravità o comunque tali da evidenziare la pericolosità sociale di singoli soggetti o di gruppi criminali.

La redazione del verbale illustrativo è condicio sine qua non per l’ammissione al programma di protezione; infatti, nel caso in cui il collaboratore dovesse rilasciare false o incomplete informazioni, la protezione e il programma verranno meno. Il verbale è segreto ed è inserito in un apposito fascicolo tenuto presso il Procuratore della Repubblica a cui sono state rese le dichiarazioni, e successivamente va integrato, per estratto, nel fascicolo del Pubblico Ministero[18].

5. I benefici premiali

Se il membro dell’associazione criminale, manifestando la propria volontà e rendendo tutte le dichiarazioni utili nel verbale illustrativo, intende collaborare con la giustizia, l’ordinamento giuridico riconosce l’applicazione di un complesso di benefici premiali in suo favore.

I vantaggi penitenziari attribuiti dal legislatore al collaboratore di giustizia consistono o nella concessione di permessi premio o nella previsione della detenzione domiciliare e della liberazione anticipata prevista dall’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Nella proposta o nel parere per l’applicazione di tali misure il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo fornisce ogni utile informazione sulle caratteristiche della collaborazione prestata. Su richiesta del tribunale o del magistrato di sorveglianza, il Procuratore allega alla proposta o al parere copia del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione. La proposta o il parere contengono inoltre la valutazione della condotta e della pericolosità sociale del condannato e specificano se questo si è mai rifiutato di sottoporsi a interrogatorio o a esame o ad altro atto d’indagine nel corso del procedimento penale in cui ha prestato la sua collaborazione. Il tribunale o il magistrato di sorveglianza, se ritengono che sussistano le condotte collaborative e il ravvedimento adottano tali misure.

I permessi premio, di durata non superiore a quindici giorni, possono essere concessi al collaboratore di giustizia per consentirgli di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.

I condannati all'arresto o alla reclusione non superiore a sei anni possono goderne in ogni caso, mentre in alcuni casi sono richiesti requisiti aggiuntivi: ai condannati alla reclusione superiore a tre anni è richiesta l'espiazione di almeno un quarto della pena; ai condannati alla reclusione per specifici reati (indicati dall'articolo 4-bis comma 1 della legge sull'ordinamento penitenziario) è richiesta l'espiazione di almeno metà della pena (in ogni caso, non più di dieci anni); ai condannati all'ergastolo è richiesta l'espiazione di almeno dieci anni di pena.[19]

Prima della sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale coloro che erano detenuti per reati associativi potevano godere dei permessi premio esclusivamente se avevano collaborato con la giustizia.

Con la citata sentenza, la Consulta ha escluso che la collaborazione con la giustizia sia condicio sine qua non della concessione dei permessi premi per i reati di mafia, per quelli correlati, nonché per tutti i reati ostativi contemplati dall'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario: secondo la Corte, la disciplina in esame  «opera una deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare in quanto l'onere di collaborazione imposto come condizione di accesso ai benefici risulta estremamente gravoso nella misura in cui “non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati”»[20].

La liberazione condizionale, invece, prevista e disciplinata dall’art. 176 c.p., consiste nella sospensione dell’esecuzione della pena e nella liberazione del detenuto, che viene sottoposto alle prescrizioni proprie del regime di libertà vigilata con conseguente estinzione della pena, qualora in caso di ergastolo non sia intervenuta alcuna revoca e, sempre che il collaboratore dimostri di non aver più alcun collegamento con l’associazione criminale e nessun interesse a delinquere. L’accesso a tale beneficio non è illimitato, poiché è pur sempre richiesta l’espiazione di una soglia minima di pena, diversa da quella indicata nell’art. 176 c.p., di dieci anni per chi è condannato all’ergastolo e di un quarto della pena per chi è condannato ad una pena temporanea. Così facendo, si evita che il collaboratore possa espiare pene irrisorie.[21]

Infine, l’ultima misura che può essere concessa dal tribunale o dal magistrato di sorveglianza al collaboratore di giustizia è la detenzione domiciliare. Tale provvedimento consente al condannato ad una pena detentiva che abbia reso dichiarazioni etero accusatorie o che abbia consentito il rinvenimento di materiale probatorio di scontare detta pena, o una parte di essa, presso la propria abitazione, o in un altro idoneo luogo di privata dimora o in un luogo pubblico di cura e di assistenza.

6. Conclusioni

Ai tempi del c.d. "maxi processo" il pentitismo era nella sua fase embrionale, tanto da cogliere impreparata la stessa organizzazione mafiosa. Fino a Tommaso Buscetta e prima di lui Leonardo Vitale, "cosa nostra", la cui forza risiedeva nel fatto che nessuno tradisse l’organizzazione, non conosceva questo istituto. Con la figura dei collaboratori di giustizia all’interno del processo, nulla è stato più come prima[22].

L’idea di tutelare, proteggere e regolamentare attraverso norme, la figura del collaboratore di giustizia, nasce dall’esigenza che il pentito avrebbe potuto fornire alla magistratura e all’autorità elementi fondamentali per sconfiggere la mafia e per meglio comprenderne l’organizzazione. La ratio di una simile opzione politico-criminale va rintracciata nella opportunità di contrastare dall'interno determinati ambiti della criminalità associativa attraverso il contributo operativo-informativo degli stessi correi. Il legislatore, dunque, stimola la dissociazione attraverso l'offerta di un trattamento penale o penitenziario differenziato e particolarmente favorevole[23].

Il giudice Falcone era consapevole del fatto che seppur si trattasse di soggetti macchiati di delitti, bisognava ascoltarti con estrema cautela, perché «solo dalla viva voce dei protagonisti di vicende criminali, spesso efferate, si possono trarre elementi di conoscenza altrimenti non acquisibili, ma indispensabili per la prevenzione e repressione di ulteriori delitti»[24].


Note e riferimenti bibliografici

[1] Si veda G. INSOLERA, T. GUERINI, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019

[2] T. PADOVANI, Il traffico delle indulgenze. «Premio» e «corrispettivo» nella dinamica della punibilità, in Riv. it. dir. pen. proc., 1986, 420 ss.

[3] E. MUSCO, “La premialità”, 121

[4] G. FLORA, “Il ravvedimento”, 163 ss

[5] T. PADOVANI, Il traffico delle indulgenze, cit., 421 ss.; O. DOMINIONI, Diritto penale e processo penale, in AA.VV., Diritto penale e sistema premiale, Milano, 1983, 178; A. GIARDA, Gli effetti introdotti nel processo penale dalle norme sulla rilevanza del pentimento del reo, in Riv. it. ir. e proc. pen., 1984.

[6] G. INSOLERA, T. GUERINI, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, 141; S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2000,122 ss.

[7] A. BERNASCONI, La collaborazione processuale, Milano, 1995.

[8] M. V. BOLOGNA, La chiamata in correità e collaborazione con la giustizia nei processi in materia di criminalità organizzata, tesi di laurea, Università degli studi di Enna, a.a. 2015.2016

[9] B. GUAZZALOCA, Profili penitenziari dei decreti legge 13 maggio 1991 n. 152, convertito con modifiche nella l. 17 luglio 1992 n. 203, e 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella l. 7 agosto 1992 n. 356, in P. CORSO, G. INSOLERA, L. STORTONI (a cura di), Mafia e criminalità organizzata, Torino, 1995.

[10] Cass. Pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 10713.

[11] G. INSOLERA, T. GUERINI, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., 141; S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., 143.

[12] G. CHELAZZI, La dissociazione dal terrorismo, Milano, 1981, 11.

[13] G. INSOLERA, T. GUERINI, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., 141; S. MOCCIA, La perenne emergenza, cit., 144.

[14] A. ALBERICO, Collaboratori di giustizia, in www.ilpenalista.it

[15] M. V. BOLOGNA, La chiamata in correità e collaborazione con la giustizia nei processi in materia di criminalità organizzata, tesi di laurea, Università degli studi di Enna, a.a. 2015-2016.

[16] A. ALBERICO, Collaboratori di giustizia, in www.ilpenalista.it.

[17] M. FUMO, Delazione collaborativa «pentimento» e trattamento sanzionatorio, Napoli, 2001, 207.

[18] M. V. BOLOGNA, La chiamata in correità e collaborazione con la giustizia nei processi in materia di criminalità organizzata, tesi di laurea, Università degli studi di Enna, a.a. 2015.2016

[19]  Permessi premio, in www.StudioCataldi.it

[20] Per una disamina critica della sentenza n. 253/2019 Corte. Cost. si veda LA REDAZIONE, ANDREA DE LIA La Cassazione sui permessi premio per reati ostativi, in Riv. Cammino Diritto, ISSN 2421-7123 Fasc. 11/2021 ; A. LARUSSA, Ergastolo ostativo. La sentenza della Corte sui permessi premio, in www.altalex.com.

[21] M. V. BOLOGNA, La chiamata in correità e collaborazione con la giustizia nei processi in materia di criminalità organizzata, tesi di laurea, Università degli studi di Enna, a.a. 2015-2016.

[22] M. V. BOLOGNA, La chiamata in correità e collaborazione con la giustizia nei processi in materia di criminalità organizzata, tesi di laurea, Università degli studi di Enna, a.a. 2015-2016.

[23]A. ALBERICO, Collaboratori di giustizia, in www.ilpenalista.it.

[24] Stralci dell’intervento al Convegno Nazionale Associazione Nazionale Magistrati, Torino, 1987.