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Pubbl. Mer, 2 Feb 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

Osservatorio Notarile - Ottobre/Dicembre 2021

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autori Giulia Fadda ,



Osservatorio trimestrale su temi di interesse notarile. Periodo ottobre-dicembre 2021. Hanno contribuito: Notaio Prof. Enrico Damiani; Notaio Dott. Marco Giorgianni; Notaio Dott. Mauro Scatena Salerno; Avv. Gabriella Rosaria Garozzo. A cura della Dott.ssa Giulia Fadda.


ENG Observatory on issues related to the notarial profession. October-December 2021.

SAGGIO

IL PROBLEMA DELLA RINUNCIA ALLA PROPRIETÀ IMMOBILIARE1

Indice: 1) Premesse; 2) Cenni sul negozio di rinuncia; 3) La causa del negozio di rinuncia; 4) Segue: la meritevolezza degli interessi sottesi alla rinuncia al diritto di proprietà.

1. Premesse

L'interesse che il tema della rinuncia alla proprietà immobiliare ha destato in dottrina e in giurisprudenza sembra addirittura eccessivo rispetto alla sua effettiva rilevanza, il che si giustifica anche con una evidente suscettibilità dell'argomento a consentire lo svolgimento di riflessioni anche di natura ideologica e comunque non solo di tipo giuridico.

Volendo in questa sede limitare l'indagine a quest'ultimo àmbito è quasi superfluo ricordare come l'ordinamento riconosca al proprietario il diritto di disporre e di godere del bene, mediante l'esercizio di una pluralità di poteri e facoltà che rappresentano il contenuto del suo diritto, tuttavia, in alcuni casi, il concreto esercizio di alcune facoltà di godimento inerenti al diritto di proprietà può essere considerato antigiuridico (perché nocivo, antisociale, odioso, etc).

Anche il mancato o negligente uso del diritto di proprietà su un edificio, consistito nel mancato esercizio della facoltà di farlo valere in giudizio per rimuovere una situazione dannosa, non solo per chi ha omesso di agire, ma anche per i terzi da tale omissione danneggiati, è stato ritenuto un “uso anormale” del diritto stesso, fonte di responsabilità nei confronti dei terzi2 sulla base della constatazione, tipica per i ragionamenti che all’epoca i giuristi erano soliti fare, che l’art. 833 c.c. in materia di divieto degli atti emulativi potesse rappresentare un principio generale suscettibile di applicazione analogica.

Nella fattispecie decisa dalla Seconda Sezione Civile della S.C. il 15 novembre 1960, n. 3040, fu statuito che «il mancato e negligente uso della facoltà di agire in difesa del diritto soggettivo per rimuovere una situazione dannosa non solo al titolare del diritto medesimo, ma anche a terzi, costituisce uso anormale del diritto soggettivo, se il non uso si risolve nell'inosservanza doloso o colposa di specifiche norme di condotta poste a tutela di diritti altrui».

Si trattava in particolare del caso di un acquirente di alloggio, realizzato dall'Istituto Autonomo Case Popolari di Messina, che aveva citato in giudizio detto Istituto quale proprietario dei residui appartamenti facenti parte del condominio, il quale, dopo che alcuni sfollati avevano occupato sine titulo appartamenti sfitti facenti parte del fabbricato, non solo non si era attivato per liberare i locali, così consentendo ad una popolazione in sovrannumero di abitare negli stessi con ovvi disagi per la parte attrice, ma aveva addirittura costruito un ulteriore bagno e una fontana nelle parti comuni dell'edificio, al fine di ovviare in parte alle condizioni di disagio che si erano venute a creare.

L'annotatore della sentenza aveva stigmatizzato l'evidente errore in cui, a suo dire, era pervenuta la S.C. quando aveva qualificato come “abuso” o “uso anormale” il non uso di un diritto soggettivo, in quanto l'abuso è un uso eccessivo e smodato del diritto, mentre il non uso sarebbe esattamente il contrario3.

Oggi, almeno secondo l’autorevole insegnamento di una parte della dottrina, si è soliti guardare anche al diritto di proprietà e non solo ai diritti reali di godimento su cosa altrui, in una prospettiva relazionale4, per cui una pluralità di situazioni giuridiche soggettive sono tra loro in rapporto, e ciascuna è portatrice di una pluralità di interessi che debbono necessariamente coesistere.

La necessità del superamento della visione arcaica del diritto di proprietà quale “ius utendi et abutendi5” è resa vieppiù attuale a seguito dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, che con l’art. 42 riserva alla legge la determinazione dei modi di acquisto6, di godimento e dei limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Sembra opportuno in questa sede evidenziare l’importanza dei principi costituzionali, perché una volta superata l’opinione più antica che negava una diretta efficacia precettiva delle norme costituzionali, si è pervenuti da un lato alla proposta di interpretazione costituzionalmente orientata delle norme ordinarie, e dall’altro addirittura alla proposta di applicazione congiunta delle norme ordinarie e dei precetti costituzionali con la tecnica del cd. combinato disposto, di guisa che sia possibile tentare una ricostruzione equilibrata delle problematiche che in questi ultimi anni hanno interessato dottrina e giurisprudenza con esiti a volte tra loro inconciliabili.

2. Cenni sul negozio di rinuncia

Il fine ultimo del presente contributo non è approfondire il tema generale della ammissibilità della rinuncia abdicativa ad un diritto di proprietà, in quanto sicuramente essa è possibile nei casi previsti dalla legge7: l’art. 882 c.c. consente al comproprietario di un muro comune di rinunciare al suo diritto al fine di esimersi dall’obbligo di contribuire alle spese di ricostruzione e riparazione, purché esse non si siano rese necessarie a causa del fatto proprio del rinunziante; l’art. 550 c.c. consente al legittimario, al quale il testatore abbia lasciato la nuda proprietà della disponibile attribuendo a terzi l’usufrutto, di abbandonare la nuda proprietà della disponibile (cd. cautela sociniana); l’art. 1104 c.c.8 consente a ciascun partecipante alla comunione di rinunciare al proprio diritto di comproprietà al fine di sottrarsi alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, ed infine l’art. 1070 c.c. consente al proprietario del fondo servente di liberarsi delle spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù, rinunziando alla proprietà del fondo stesso a favore del proprietario del fondo dominante.

Al di là delle ipotesi tipiche, la dottrina è in larga parte orientata ad ammettere anche fattispecie atipichedi rinuncia abdicativa10 per lo più ritenendo che si tratti di un negozio giuridico11 unilaterale non recettizio con il quale un soggetto dismette una situazione giuridica soggettiva di cui è titolare senza che essa venga trasferita direttamente ad un soggetto terzo12. Gli ulteriori effetti che possono incidere sui terzi, secondo tale orientamento dottrinale, sarebbero effetti automatici ed ulteriori, operanti ex lege.

Va notato però che di recente la riforma sul condominio ha portato il legislatore a modificare il secondo comma dell’art. 1118 c.c., statuendo che «il condomino non può rinunciare al suo diritto sulle parti comuni». In tal caso, dunque, non viene data per presupposta la validità della rinuncia, costituendo la stessa un’eccezione non alla generale facoltà di rinuncia, bensì all’ipotesi più stringente del primo comma dell’art. 1104 c.c., che espressamente ammette la rinuncia della quota di comproprietà, ipotesi ben diversa dalla generale rinuncia, poiché in tal caso «il bene immobile non rimane acefalo, continuando ad identificarsi con uno o più soggetti responsabili della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse alla proprietà di quel bene13».
Ciò significa che vi possono essere diritti irrinunziabili in forza della particolare funzione che il bene deve svolgere in rapporto ad una pluralità di individui. Ed è proprio con riguardo alla funzione dell’atto, e quindi analizzando la giustificazione causale della rinuncia, che la nostra attenzione deve soffermarsi per vagliarne l’ammissibilità14.

3. La causa del negozio di rinuncia

Si ritiene che la rinuncia, in quanto atto meramente dismissivo che non realizza di per sé attribuzioni patrimoniali a soggetti terzi15, debba comunque essere un negozio causale16. In particolare, si è sostenuto17 che la rinuncia abdicativa dovrebbe perseguire, oltre che l’effetto di mera rinunzia della situazione giuridica, anche interessi meritevoli di tutela, essendo altrimenti il negozio, nel caso opposto, radicalmente nullo.

Un diverso orientamento18 ritiene invece che nell’atto in esame la causa, intesa come sintesi essenziale degli effetti, consisterebbe solamente nella mera dismissione del diritto, con la conseguenza che il negozio sarebbe un “nudo patto”, astratto, sempre meritevole di tutela. Corollario di questa tesi sarebbe l’assenza di qualsiasi controllo sulle modalità di esercizio dell’autonomia privata. Secondo tale ricostruzione, quindi, non ci sarebbe necessità di accertare nella rinuncia l’esistenza di una funzione, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra due diversi soggetti19.

Alla luce dell’autorevole orientamento che guarda al diritto di proprietà in un’ottica relazionale anche alla luce della funzione sociale che esso dovrebbe realizzare, sembra opportuno in questa sede tener conto di alcuni spunti che si possono trarre dal parere redatto dall’Avvocatura Generale dello Stato all’Agenzia del Demanio, pur con le sue luci ed ombre, e da alcune recenti decisioni, specialmente di giudici amministrativi20.

4. Segue: la meritevolezza degli interessi sottesi alla rinuncia al diritto di proprietà

Di recente, l’Avvocatura Generale dello Stato ha reso un interessante parere di massima in cui affronta il tema della rinunciabilità al diritto di proprietà immobiliare21.    
Con detto parere, rivolto all’Avvocatura Distrettuale di Genova, l’Avvocatura Generale ha affermato che fra le varie facoltà del proprietario, vi è anche quella di rinunciare al diritto dominicale, con l’effetto di provocare l’acquisto automatico (non rifiutabile) ed a titolo originario del bene rinunciato (spesso terreni con evidenti problemi di dissesto geologico e rischio di frane22, abitazioni pericolanti ed inabitabili prive di alcun valore economico) allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c.23, con conseguente accollo all’Erario (con conseguenti profili di responsabilità civile ex artt. 2043, 2051 e 2053 c.c. e penale ex art. 449 c.p.) di tutti i costi necessari per le opere di consolidamento, demolizione, manutenzione etc. relativi ai beni stessi.

Il tutto, peraltro, senza una previa autorizzazione o quantomeno comunicazione allo Stato.
Nel parere si legge che in linea generale la facoltà di rinuncia è insita nella titolarità di ogni diritto24 e quindi deve intendersi di massima consentita, anche se in alcune pronunce dei T.A.R. (per tutti T.A.R. Puglia, sede di Bari, 17 settembre 2008, n. 2131, TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28 marzo 2018, n. 368) si evidenzia che «in tutti i casi in cui il Codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore».

In nessun caso, comunque, «si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario». «Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai diritti reali sia espressamente ammessa dal Codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumere che la rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale, disciplinato in talune situazioni solo per esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla valorizzazione del bene immobile.

Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore in vari modi: ad esempio, con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione. La ammissione generalizzata della possibilità di abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo superficiario, di un bene immobile, va invece in segno diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed attiva dei beni.
Nel parere in questione l’Avvocatura dello Stato riconosce validità di massima al negozio unilaterale di rinuncia abdicativa, che sarebbe atipico e non rifiutabile, ma afferma che la validità dello stesso debba essere valutata caso per caso in relazione alla causa concreta del negozio abdicativo che deve essere sottoposta al giudizio di meritevolezza, essendo ad esso applicabile il secondo comma dell’art. 1322 c.c. per effetto dell’art. 1324 c.c.

Di recente, taluno25 ha sostenuto che il controllo “caso per caso” sulla causa in concreto dell’atto non sarebbe condivisibile.

Il controllo sulla causa della rinuncia, pur non intaccando “la facoltà di abbandono formale dell’immobile”, renderebbe di fatto impossibile la rinuncia medesima. Sempre secondo tale linea di pensiero, eventuali obblighi di messa in sicurezza dell’immobile, sorti anteriormente alla rinuncia, resterebbero comunque a carico dei rinuncianti26 i quali, dopo il ripristino del cespite, “rinunceranno ancora e avendo abbandonata una cosa in buono stato, il loro atto sarà inattaccabile”.

In realtà, bisogna distinguere tra rinuncia e donazione di immobili allo Stato.

Se l’immobile fosse messo in sicurezza e ristrutturato dal privato acquisendo così un valore patrimoniale “positivo”, l’eventuale atto di cessione a favore dello Stato, in presenza di un effetto economico di arricchimento dell’ente previo depauperamento del patrimonio del disponente e la insussistenza di un interesse patrimoniale in capo a quest’ultimo, dovrebbe necessariamente ricondurre tale fattispecie nell’ambito del contratto di donazione. Tra l’altro, la Circolare dell’11 febbraio 2000 n. 22 del Min. Finanze - Dip. Territorio Demanio Serv. II ha disciplinato il procedimento necessario per donare beni immobili allo Stato: l'ufficio del territorio deve acquisire tutti gli elementi di giudizio necessari al riguardo (eventuali oneri cui si intende subordinare la donazione, valore del bene oggetto della donazione stessa e convenienza della stessa tramite  apposita relazione tecnico-descrittiva estimativa; parere dell'amministrazione usuaria ed effettiva destinataria poi della liberalità, titoli comprovanti la proprietà del bene in capo al donante mediante idonea documentazione da parte delle Conservatorie) e farà formalizzare l'intendimento in una vera e propria proposta di donazione rogata da un notaio anche per l'esecutività dai  competenti organi dell'ente stesso.

In realtà, la facoltà di abbandono non è configurabile in generale neanche con riferimento ai beni mobili, pur in presenza di un chiaro indice normativo all’art. 923, secondo comma c.c., l’abbandono di pneumatici usati, classificati rifiuti speciali, ad esempio, costituisce un reato previsto dall’art 192 e sanzionato dall’art. 256 del D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (T.U. dell’Ambiente). Parimenti, non è neanche possibile abbandonare le carcasse di automobili radiate dal P.R.A.27 in parcheggi pubblici, oppure gettare in strada rifiuti, né è consentito lasciare la lavatrice non funzionante ai margini di una via pubblica. Difatti, l’esternalità negativa prodotta dall’abbandono di un bene mobile potrebbe fondare la qualificazione dello stesso in termini di “rifiuto”28, che deve essere smaltito, previo pagamento del relativo servizio, da parte di appositi impianti di trattamento che garantiscono la salvaguardia dell’ambiente e il riciclo delle materie prime. Si noti bene come un tale parallelismo con la disciplina dei rifiuti permetterebbe di indagare lo spazio operativo riservato alle prerogative proprietarie: se neanche per i beni mobili è plausibile una rinuncia libera, che lo stesso non valga per i beni immobili potrebbe apparire tutt’altro che singolare.

Prosegue il parere evidenziando che tale negozio unilaterale atipico di rinuncia abdicativa sarebbe caratterizzato, dalla dottrina prevalente, dall’essere sostanzialmente un “nudo patto” la cui causa sarebbe insita nella mera dismissione del diritto. Ed in tal senso, esso non potrebbe mai essere nullo per illiceità della causa essendo la stessa volta esclusivamente a consentire la dismissione del diritto.

La volontà del privato di rinunciare al diritto di proprietà, tuttavia, secondo il parere non deve essere valutata esclusivamente alla stregua dei poteri del dominus di godere e disporre del bene in modo pieno ed esclusivo, secondo una visione ormai sorpassata del diritto dominicale, ma deve tenere necessariamente conto della funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. L’abbandono della concezione ottocentesca della proprietà, infatti, impone una ricerca di un’armonia tra gli scopi individualistici e quelli facenti capo alla collettività, in termini di una «formale coesistenza del carattere privato della proprietà e della sua funziona sociale29».

La rinuncia abdicativa non deve essere guidata da scopi egoistici e non deve essere lo strumento per conseguire un (illecito) vantaggio ai danni dello Stato e, conseguentemente, della collettività, poiché ciò renderebbe la causa concreta del negozio abdicativo illecita ai sensi dell’art. 1343 c.c. e determinerebbe la nullità del negozio stesso ai sensi dell’art. 1418, secondo comma c.c.

Nella fondamentale sentenza della Terza Sezione della Cassazione, del giorno 8 maggio 2006, n. 10490, il cui estensore fu il consigliere Travaglino, è scritto che la causa, quale elemento essenziale del contratto, non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico-sociale del negozio, bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale dello specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti. Nel corpo della sentenza l’estensore fa presente che «si discorre da tempo di una fattispecie causale “concreta” e si elabori un’ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale».

Trasferendo tale principio al negozio unilaterale atipico di rinuncia abdicativa si può sostenere che il proprietario non può decidere di rinunciare ad una proprietà immobiliare al solo ed unico fine di liberarsi dai costi di manutenzione, di consolidamento e di demolizione dell’immobile in quanto ciò realizzerebbe un trasferimento dal privato allo Stato e, quindi, in ultima analisi, ai cittadini tutti, degli oneri e dei pesi connessi alla titolarità di beni aventi un valore negativo30. L’Avvocatura, all’interno del parere in commento, afferma che la rinuncia alla proprietà è nulla ove abbia il solo ed egoistico scopo di liberarsi di:

– terreni con evidenti problemi di dissesto idrogeologico (al fine di evitare i costi per “opere di consolidamento, demolizione e manutenzione”);

– edifici inutilizzabili e diruti (al fine di evitare i “costi di demolizione”);

– terreni inquinati (per spostare sullo Stato le spese di bonifica).

In corrispondenza di questi casi il negozio unilaterale di rinuncia non può che essere affetto da nullità, dal momento che in situazioni di questo tipo, esso non può essere qualificato come “meritevole di tutela” ai sensi dell’art. 1322 c.c.

Una rinuncia finalizzata a conseguire unicamente fini egoistici sarebbe in primis dotata di una causa illecita ex art. 1343 c.c., ed inoltre si porrebbe in aperto contrasto con l’art. 42 della Costituzione, in quanto renderebbe la proprietà un “peso” per lo Stato (e quindi per i cittadini), che sarebbe in tal modo costretto ad addossarsi tutte le spese e gli oneri necessari alla manutenzione, alla demolizione ed alla bonifica della consistenza immobiliare, in spregio alla funzione sociale della proprietà.

Per l’Avvocatura dello Stato, inoltre, il negozio unilaterale di rinuncia abdicativo del diritto di proprietà, finalizzato a tali obiettivi di traslazione sullo Stato di spese, responsabilità ed oneri, sarebbe configurabile come un negozio in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c., in quanto costituirebbe il mezzo per il conseguimento di un risultato contrario alla legge e, dunque, «per eludere l’applicazione di una norma imperativa».

Inoltre, in queste ipotesi, l’atto di rinuncia abdicativa sarebbe anche contrario all’art. 1345 c.c., poiché il privato verrebbe determinato a porlo in essere solo ed esclusivamente per un motivo illecito anche se non comune, essendo noto che il motivo determinante illecito unilaterale spieghi i suoi effetti invalidanti anche se non sia comune nelle ipotesi previste dagli artt. 788 e 626 c.c., in tema di donazione e testamento, dovendosi necessariamente togliere soverchia importanza a tale presupposto, essendo sufficiente, rispetto agli unilaterali, che essi siano finalizzati esclusivamente al «perseguimento di scopi riprovevoli e antisociali».

Secondo la Corte di Cassazione (Sez. II, 19 ottobre 2005, n. 20197), infatti, «la norma dettata dall'art. 1345 c.c. che, derogando al principio secondo il quale i motivi dell'atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all'art. 1324 c.c., trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l'illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell'art. 1343 c.c., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume»31.

Nota bene l’Avvocatura come la Corte di Cassazione giunga ad applicare l’art. 1345 c.c. anche agli atti unilaterali, tramite l’art. 1324 c.c., analizzando la ratio della prima norma «da individuarsi nell’esigenza di evitare gli abusi del diritto, ricorrenti quando l’atto di autonomia privata sia finalizzato esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali».

Affinché il motivo illecito di un atto unilaterale assuma rilevanza determinandone la nullità ex art. 1418 c.c., per l’Avvocatura dello Stato occorre che il motivo sia illecito; che esso sia la ragione determinante del soggetto che pone in essere il negozio; che esso sia oggettivamente riconoscibile dall’atto o almeno sia ragionevolmente desumibile da elementi estrinseci.

La rinuncia alla proprietà immobiliare quindi, secondo quanto previsto dall’Avvocatura, risulta giustificata solo nelle ipotesi in cui non sia finalizzata unicamente al perseguimento di fini egoistici ed utilitaristici come accade, invece, nei seguenti casi: presenza di problemi di dissesto idrogeologico; necessità di procedere a demolizione o messa in sicurezza; inquinamento del terreno e conseguente necessità di bonifica.

In tutti questi casi, infatti, il privato si determina a rinunciare alla proprietà dell’immobile unicamente per liberarsi dei relativi costi e porli a carico dello Stato32.

L’atto di rinuncia sarebbe, pertanto, radicalmente nullo tutte le volte in cui il privato, attraverso lo stesso, persegua l’obiettivo di liberarsi di beni che per lui non hanno nessuna utilità o che, addirittura, costituiscono un peso, in quanto fonti di spese e di oneri di vario tipo33.
Esso si pone in contrasto con il generale divieto di abuso del diritto, segnatamente per essere stato posto in essere per una finalità che può qualificarsi meramente emulativa, anche tenendo conto dell’autorevole dottrina sopra citata che estende la ratio dell’art. 833 c.c. anche ad ambiti diversi dalla proprietà e persino nell’ambito dei diritti di credito34.

Come si accerta però la nullità? Essa può naturalmente derivare solo ed esclusivamente da una pronuncia giudiziale, per mezzo della quale si procede all’accertamento della medesima e, conseguentemente, all’annullamento del negozio di rinuncia. Per arrivare alla dichiarazione di nullità dell’atto, quindi, sarà necessario impugnare lo stesso ed impostare un ordinario giudizio, all’interno del quale onerato di provare la sussistenza della causa di nullità sarà (come affermato espressamente dall’Avvocatura) il “Demanio attore”. All’interno di questo giudizio il Demanio potrà inoltre far valere una pretesa risarcitoria nei confronti del rinunciante per i danni da questi procuratigli attraverso l’omissione degli interventi manutentivi e di messa in sicurezza dell’immobile che è stato oggetto di rinuncia.

Qualora lo Stato volesse porre nel nulla gli effetti del negozio di rinuncia posto in essere dal privato, dovrà impugnare lo stesso e farne dichiarare la nullità (eventualmente accompagnando alla domanda di nullità anche una domanda risarcitoria).

In conclusione, pur premessa l’ammissibilità, in linea astratta, di una rinuncia abdicativa immobiliare, qualora essa fosse posta in essere al fine di traslare sullo Stato, e quindi sulla collettività, debiti originariamente sorti in capo al rinunciante, in forza del presunto effetto automatico che si realizzerebbe ex art. 827 c.c., norma peraltro avente solo una funzione di chiusura, come si legge al punto 398 della Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942 «Colmando una lacuna del codice del 1865, la quale aveva aperto l'adito a dubbi e a soluzioni diverse, ho disposto (art. 827 c.c.) che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato: con questa nuova norma è pertanto escluso che vi siano beni immobili senza proprietario»35.
Una lettura diversa che aprisse un varco a rinunzie finalizzate al trasferimento in capo allo Stato, e quindi alla collettività, di beni immobili dannosi e forieri di spesa, oltre che palesemente in contrasto con una interpretazione assiologica del sistema normativo alla luce dei principi fondamentali, in particolare il principio di solidarietà e la funzione sociale della proprietà36, finirebbe per introdurre surrettiziamente una specie di “rinuncia al debito” da parte del debitore, che, prima ancora che nulla, ritengo sia direttamente inconfigurabile ed estranea a qualsiasi cultura giuridica.

Resta, infine, da accennare velocemente in questa sede a quella prassi che ha correttamente risolto, facendo ricorso alla logica dello scambio, la questione del trasferimento degli immobili aventi un valore negativo. Si è ipotizzato37 a tal riguardo, il ricorso alla cd. “vendita inversa” nella quale è il venditore a corrispondere un corrispettivo al compratore al fine di rendere meno indigesto il trasferimento di un bene gravato da un vincolo e/o da un onere.

Tali prestazioni, strettamente legate, sono l’una il presupposto dell’altra e sono unite da un nesso di interdipendenza volto a soddisfare bisogni ed interessi della controparte: il contratto di vendita inversa, infatti, appare inquadrabile nell’alveo dei contratti a prestazioni corrispettive, in quanto il cedente, anche a fronte del pagamento del corrispettivo, ottiene la liberazione dalle conseguenze negative derivanti da un vincolo gravante sul bene, mentre l’acquirente risulta disponibile ad accollarsi gli oneri necessari per affrancare il bene, rendendolo idoneo all’uso cui è destinato, al fine di trarre dei vantaggi di ordine patrimoniale aventi causa dal bene e dall’attività svolta in relazione allo stesso.


NOTA A SENTENZA

LA CORTE DI CASSAZIONE RITORNA SUL RUOLO DEL CERTIFICATO DI AGIBILITÀ38

(Cassazione, Sez. II, 30 gennaio 2020, dep. 30 gennaio 2020, n. 2196 – Pres. D’Ascola – Rel. Falaschi – M. c. G.)

Il mancato o il tardivo rilascio del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto di preliminare di vendita, a prescindere dalle cause che abbiano determinato una tale evenienza, comporta comunque l’inadempimento del promittente venditore agli obblighi contrattuali sussistenti verso il promissario acquirente. Deve formare oggetto di specifica clausola e integrare un elemento essenziale del contratto la volontà delle parti che intendono subordinare il tempestivo rilascio del certificato di abitabilità all’accollo del mutuo da parte dei promissari acquirenti. Ne consegue l’idoneità della mancanza di siffatto documento a giustificare l’exceptio ex art. 1460 c.c., e cioè la legittimità del rifiuto dell’accollo da parte dei promissari acquirenti del mutuo, inteso come pagamento e saldo del residuo prezzo di vendita.

È giustificato il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o agibilità, e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune – nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore –, ancorché si tratti di fenomeno occorso in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 28 febbraio 1985, n. 47, perché l’acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono l’acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, sì che i predetti certificati sono essenziali.

Indice: 1) Il caso di specie; 2) Dalla duplicità all’unicità concettuale dell’agibilità immobiliare; 3) Sulla mancanza del certificato di agibilità; 4) Gravità dell’inadempimento per mancanza di agibilità; 5) Conclusioni.

1. Il caso di specie

La sentenza in commento è stata resa dalla Corte di Cassazione in occasione del giudizio di risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare di compravendita immobiliare promosso a danno della parte promissaria acquirente, considerata inadempiente per non aver provveduto all’accollo del mutuo ipotecario per la quota di rispettiva spettanza, così come pattuito in sede contrattuale. Nel costituirsi in giudizio, quest’ultima ha esperito l’eccezione ex art. 1460 c.c., lamentando, a sua volta, l’inadempimento della parte promittente venditrice, consistente nel non aver provveduto alla consegna tempestiva del certificato di abitabilità dell’immobile promesso in vendita. In via riconvenzionale è stata domandata, inoltre, una pronuncia ai sensi dell’art. 2932 c.c.

La sentenza di accoglimento del Giudice di prime cure non è stata condivisa dai Giudici della Corte di Appello, i quali hanno sancito la legittimità dell’eccezione di inadempimento esperita dal promissario acquirente. In particolare, la Corte territoriale ha precisato che il mancato rilascio del certificato di abitabilità, pur non integrando un grave inadempimento legittimante una domanda di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c., è da considerarsi certamente rilevante ai fini dell’esercizio dell’eccezione di cui all’art 1460 c.c.

Avverso tale sentenza, la parte soccombente ha promosso il giudizio di legittimità da cui ha avuto origine la sentenza in commento, articolando l’impugnazione su più motivi, tutti riferiti, seppur sotto profili diversi, al medesimo fatto consistente nel mancato ottenimento tempestivo del certificato di abitabilità.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, condividendo l’iter argomentativo formulato dai Giudici di secondo grado, in tal modo mostrando di aderire all’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ritrova nel certificato di agibilità un requisito indispensabile ai fini dell’accertamento della sussistenza dei requisiti essenziali inerenti all’immobile, seppure oggetto solo di un contratto preliminare.

2. Dalla duplicità all’unicità concettuale dell’agibilità immobiliare

Già il primo comma dell’art. 24, d.P.R. n. 380/2001 consente di individuare la ratio sottesa all’agibilità, intesa quale requisito dell’unità immobiliare attestante la «sussistenza delle condizioni di sicurezza, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi istallati». Si tratta, pertanto, di un elemento che, sulla scorta dei parametri individuati dal legislatore, garantisce l’idoneità a soddisfare le esigenze di utilizzo dell’immobile.

Prima della introduzione del d.P.R. n. 380/2001, il concetto di “agibilità” era affiancato da quello della “abitabilità”: quest’ultimo era riservato esclusivamente agli immobili ad uso civile abitazione. La riferita dualità creava, invero, non poca confusione. Così, ad esempio, nonostante l’unicità del procedimento legislativo previsto, alcuni interpreti ampliavano la portata della disciplina dell’abitabilità: questa veniva ritenuta quasi come il genus dell’agibilità, stante l’avvertita esigenza di riempire tale nozione con profili maggiormente “garantisti”, essendo destinata ad operare in riferimento alle abitazioni39

La riferita duplicità di concetti è stata definitivamente superata grazie all’intervento normativo contenuto nel Testo Unico dell’edilizia. Il concetto dell’agibilità, ormai considerato in via esclusiva dal legislatore, si riferisce, pertanto, a qualunque immobile, a prescindere dalla specifica destinazione40, e sempre che sia destinato ad un utilizzo che comporti, comunque, la presenza non occasionale di persone al proprio interno41.

3. Sulla mancanza del certificato di agibilità

In sede di atto di compravendita immobiliare non è prevista alcuna specifica menzione obbligatoria in riferimento all’accertamento della sussistenza dell’agibilità: la sua mancanza non incide né sulla commerciabilità degli edifici né sulla validità̀ dell’atto traslativo.

Le parti, pertanto, ben potrebbero consapevolmente concludere (ovvero obbligarsi a concludere) una compravendita avente ad oggetto un immobile privo della relativa certificazione di agibilità42. Il trasferimento del bene potrebbe essere diretto, infatti, a soddisfare un diverso interesse, anche solo speculativo. A tal riguardo, resta sin d’ora inteso che, mancando un obbligo in tal senso, il Notaio rogante non solo non incorre in alcuna sanzione disciplinare nel ricevere un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile non dotato di agibilità, ma risulta, invero, oltremodo impossibilitato a ricusare il suo ministero allorquando le parti decidano volontariamente e coscientemente di porre in essere un atto siffatto, stante la piena e libera commerciabilità giuridica del bene “non agibile”43.

Ciò posto, sia la giurisprudenza che la dottrina si sono più volte interrogate circa gli effetti derivanti dall’assenza del certificato di agibilità, nella fase patologica del contratto. Infatti, pur non incidendo sulla commerciabilità giuridica, l’agibilità è rilevante sul piano economico44, in quanto presupposto comunque attestante l’utilizzabilità45 dell’immobile per la permanenza non occasionale di persone al suo interno, nonché la realizzazione dello stesso nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene e risparmio energetico. Sulla scorta di tali riflessioni, si è da più parti avvertita l’esigenza di riconoscere un autonomo spazio di rilevanza a tale requisito, pur in assenza di un espresso dato normativo in tal senso.

Superato appare l’orientamento46 più risalente che, supportato dalla diversa normativa allora vigente47, riconduceva la mancanza dell’agibilità nell’alveo dei vizi genetici del contratto e, come tali, idonei ad incidere direttamente sulla validità dello stesso.

Una delle prime ricostruzioni largamente seguite dalla giurisprudenza48 ascrive la consegna del certificato di agibilità dell’immobile tra le obbligazioni comunque incombenti sul venditore, ai sensi dell’art. 1477 c.c., così da sottolinearne l’autonoma rilevanza quale elemento necessario ai fini dell’attestazione (e legittimazione) dell’uso abitativo dell’unità immobiliare oggetto del contratto. I fautori di tale orientamento rilevano, pertanto, l’intrinseca e autonoma rilevanza di tale requisito al punto da rendere superflua una specifica pattuizione contrattuale in tal senso, gravando questo obbligo di consegna ex se in capo alla parte venditrice, se non diversamente ed espressamente pattuito.

Altre opzioni interpretative si sono sviluppate, nel corso del tempo, ragionando nel campo dei difetti funzionali del sinallagma contrattuale: superando il ricorso ai concetti di vizi della cosa compravenduta ovvero della mancanza delle qualità promesse, si è affermata pian piano la diversa opzione interpretativa49 basata sul ricorso alla fattispecie della vendita di aliud pro alio.

Posta, infatti, la sussistenza di una certa difficoltà nell’operare una netta distinzione tra vizi e mancanza delle qualità̀ promesse50, la giurisprudenza ha espresso un netto favor verso quest’ultima impostazione che ritrova nella mancanza dell’abitabilità l’indice di non idoneità dell’immobile ad assolvere il fine concreto perseguito dalla parte acquirente, destinataria, pertanto, di un bene avente natura diversa da quello che intendeva acquistare51. Notevoli sono anche i risvolti pratici derivanti dall’impostazione della problematica nei termini della consegna di aliud pro alio, consistenti nell’affidare la tutela dell’acquirente ai termini ordinari, evitando l’applicazione degli stretti termini di decadenza e prescrizione stabiliti dall’art. 1495 c.c. In tal modo, si consente all’acquirente di esperire l’azione di risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. nell’ordinario termine decennale, senza l’applicazione di alcun termine di decadenza.

La giurisprudenza si è, però, sempre mostrata molto attenta nell’evitare di equiparare automaticamente tutte le ipotesi di assenza del certificato di agibilità, differenziando, in primis, le ipotesi di “inagibilità formale” da quelle di “inagibilità sostanziale”52. Nella prima categoria sono state ricomprese tutte le ipotesi in cui, pur mancando la certificazione di agibilità, questa risulta facilmente ottenibile in una fase successiva, essendo l’immobile concretamente in possesso di tutti i requisiti necessari per il suo rilascio; nella nozione della “inagibilità sostanziale” sono state ricondotte, invece, tutte le ipotesi in cui si assiste, oltre che all’assenza del certificato formale, anche alla mancanza dei requisiti materiali e strutturali che ne costituiscono il necessario presupposto.

Orbene, solamente alle ipotesi di “inagibilità sostanziale” la giurisprudenza maggioritaria53 riserva un trattamento in modo più rigoroso, sussumendo le stesse esattamente nella fattispecie normativa della vendita di aliud pro alio, con consequenziale riconoscimento del rimedio risolutorio.

Resta inteso che, invece, entrambe le ipotesi di “inagibilità”, e dunque sia quella solo formale che quella sostanziale, determinano, secondo la giurisprudenza54 prevalente, un inadempimento della parte alienante già per il solo fatto che l’oggetto della alienazione è rappresentato da un bene comunque foriero di problemi di commerciabilità, con consequenziale riconoscimento tanto della richiesta di risarcimento danni quanto dell’exceptio di cui all’art. 1460 c.c.

4. Gravità dell’inadempimento per mancanza di agibilità

Nel valutare la legittimità della eccezione di inadempimento esperita dal promissario acquirente a fronte della mancata consegna tempestiva del certificato di abitabilità dell’immobile promesso in vendita, la Suprema Corte aderisce all’orientamento testé esposto, individuando in tale certificato un documento essenziale ai fini dell’accertamento dell’esistenza dei requisiti minimi inerenti l’immobile oggetto dell’alienazione. Pertanto, la Suprema Corte conferma la pronuncia della Corte territoriale, riconoscendo la rilevanza del comportamento lamentato ai fini del legittimo esperimento dell’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.

La Suprema Corte coglie, tra l’altro, l’occasione fornita dal caso de quo per ribadire la natura del rapporto instaurato tra il promissario acquirente ed il bene oggetto del preliminare ad effetti anticipati, chiarendone puntualmente la sua natura quale rapporto di mera detenzione, che non comporta, pertanto, alcun trasferimento della proprietà del bene. La Corte si preoccupa, expressis verbis, di chiarire che all’anticipato possesso dell’immobile consegue solamente una mera situazione di fatto, consistente nell’esercizio «di un potere oggettivo sulla cosa manifestantesi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale».

La Suprema Corte aderisce, pertanto, all’orientamento consolidato in tal senso e richiamato espressamente anche dalla pronuncia resa dalle Sezioni Unite del 27 marzo 2008, n. 793055, che hanno da ultimo sancito tale impostazione.

Aderendo alla riferita interpretazione, i giudici evidenziano la debolezza della ricostruzione operata dal promittente venditore, tendente a desumere dalla consegna anticipata del bene privo di agibilità l’abdicazione della volontà del promissario acquirente di acquistare un immobile dotato della relativa certificazione. Come ribadito dalla stessa Corte, la volontà di acquistare un immobile privo di agibilità deve emergere espressamente dal regolamento contrattuale, stante la sua natura essenziale per garantire l’idoneità dell’immobile trasferito ad assolvere il fine concreto perseguito dalla parte acquirente. Dalla consegna anticipata del bene, frequente nella prassi commerciale per rispondere a diverse ed ulteriori esigenze immediate delle parti, non può desumersi, infatti, in maniera univoca, la volontà di abdicare – ad esempio – alla ultimazione dei procedimenti amministrativi di regolarizzazione dell’edificio ovvero, ancora, alla estinzione di mutui o ipoteche. Tutte attività che, se non ultimate, possono legittimamente far venir meno l’interesse e la volontà di perfezionare l’acquisto da parte del promissario acquirente, che non vi abbia espressamente abdicato, come puntualmente ribadito dalla stessa Corte.

Chiariti questi profili, non si può negare come la pronuncia in commento desti, invero, qualche perplessità nella parte in cui la Suprema Corte mostra di assumere un atteggiamento ugualmente rigido nei riguardi di tutte le ipotesi di assenza del certificato di agibilità, a prescindere dall’esame delle motivazioni a cui detta mancanza risulti ascrivibile.

In particolare, la Suprema Corte precisa che a nulla rileva l’imputabilità del mancato rilascio a un fatto ascrivibile esclusivamente alla Pubblica Amministrazione, posto comunque che: «il promittente venditore aveva l’onere di attivarsi presso la pubblica amministrazione onde ottenere tempestivamente il certificato, indispensabile per accertare l’esistenza dei requisiti inerenti l’immobile oggetto del contratto preliminare. Infatti, il mancato o il tardivo rilascio del suddetto certificato, a prescindere dalle cause che abbiano determinato tale evenienza, comporta comunque l’inadempimento de promittente venditore agli obblighi contrattuali sussistenti verso il promissario acquirente». E ancora: «E’ pacifico che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità, e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipenda da inerzia del Comune – nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore – è giustificato, ancorché si tratti di fenomeno occorso in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 28 febbraio 1985 n. 47, perché l’acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico sociale e a soddisfare i bisogni che inducono l’acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene, sì che i predetti certificati sono essenziali».

La Suprema Corte mostra, pertanto, una totale indifferenza rispetto all’esame delle cause da cui dipenda l’assenza ovvero il non tempestivo rilascio del certificato di agibilità.

Questa impostazione non pare essere, invero, esente da critiche.

Infatti, come anzi riportato, la giurisprudenza si è, al contrario, mostrata sempre molto sensibile nel distinguere le ipotesi di “inagibilità sostanziale” da quelle di “inagibilità formale”, riservando solo alle prime un atteggiamento rigido e severo, stante l’impossibilità materiale per la parte acquirente ad ottenere il rilascio di detto certificato senza la necessaria realizzazione di opere ulteriori che comportino un necessario adeguamento tecnico e concreto del manufatto.

Tali profili rimangono, invece, del tutto estranei rispetto la decisione in commento. Nessun rilievo logico – giuridico è riconosciuto dalla Suprema Corte all’avvenuto rilascio del certificato di abitabilità nell’anno 2013: detta circostanza, solo rapidamente menzionata nel corpo della sentenza,  seppur avvenuto con un ritardo notevole, è un indice inequivocabile dell’agibilità sostanziale dell’edificio – peraltro, si badi, già consegnato anni prima al promissario acquirente in sede di preliminare – nonché della probabile imputabilità del ritardo effettivamente ad un comportamento colpevole del Comune, come lamentato dalla parte promittente venditrice.

Secondo la prevalente e più recente giurisprudenza di legittimità di cui si è anzi riferito, la mancata consegna al compratore del certificato di abitabilità non legittima, in via automatica, l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento del promittente venditore: è necessario, invece, verificare in concreto l’importanza e la gravità56 dell’omissione in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene, sicché, ove si accerti che l’immobile promesso in vendita presenti tutte le caratteristiche necessarie per l’uso suo proprio, la domanda di risoluzione non è ritenuta meritevole di accoglimento57. Pertanto, tra le molteplici ipotesi di mancato rilascio del certificato di abitabilità, la giurisprudenza prevalente ravvisa una articolata gamma articolata di ipotesi, nell’ambito delle quali l’inadempimento del venditore, comunque sussistente, assume gradi diversi di gravità: solo le ipotesi di “inagibilità sostanziale” sono ritenute58 talmente gravi da consentire la sussunzione dal caso specifico nell’alveo della fattispecie della vendita di aliud pro alio, legittimando l’esperibilità della domanda di risoluzione contrattuale.  

A discapito della riferita impostazione più diffusamente accolta dalla giurisprudenza, la Suprema Corte equipara, invece, tutte le ipotesi di assenza dell’agibilità, da ciò indiscriminatamente desumendo, senza soffermarsi sulla causa, un inadempimento grave del promittente venditore e, pertanto, tale da legittimare, in ogni caso, la domanda di risoluzione contrattuale.

5. Conclusioni

La pronuncia in commento, nonostante la criticità testé rilevata, si inserisce all’interno del solco già ben tracciato dalla stessa giurisprudenza della Suprema Corte, decisa nel riconoscimento dell’importanza rivestita dall’agibilità nell’economia del contratto di compravendita immobiliare, anche nel caso esso abbia effetti obbligatori.

La portata del dibattito in materia non può, però, che confrontarsi con la disciplina legislativa attualmente in vigore. In un’ottica di accelerazione e snellimento delle procedure, il legislatore ha inciso profondamente sull’agibilità̀ immobiliare, prima certificata da un provvedimento espresso, ma oggi ridotta ad una semplice autocertificazione elaborata, peraltro, dagli stessi tecnici privati incaricati della realizzazione delle opere sull’immobile, entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori. Questo snellimento della procedura porterà, nei fatti, ad una probabile diminuzione delle ipotesi di alienazione di immobili privi dell’agibilità.

Nella prassi applicativa post riforma del 2016 potrebbe, probabilmente, accadere con più frequenza che, in un momento successivo alla conclusione dell’atto traslativo, sia esso ad effetti obbligatori che reali, intervenga la dichiarazione di inagibilità dell’edificio di cui all’art. 26 d.P.R. n. 380/2001. Tale dichiarazione, in quanto frutto della verifica dell’assenza dei requisiti concreti necessari per il riconoscimento dell’agibilità dello stesso, sembrerebbe, pertanto, assimilabile alla ipotesi di “inagibilità sostanziale”, con conseguente riconoscimento del legittimo esperimento del rimedio risolutorio di cui all’art. 1453 c.c.


OSSERVATORIO GIURISPRUDENZIALE RELATIVO ALLE PRINCIPALI SENTENZE EMESSE DALLA CASSAZIONE NELL’ANNO 2021 IN AMBITO NOTARILE59

Indice: 1) La natura giuridica della fusione e la legittimazione processuale della società incorporata; 2) La responsabilità del Notaio; 3) Accettazione tacita di eredità; 4) Legato a favore di Ente Ecclesiastico ed esenzione dalla imposta di successione; 5) Impresa familiare; 6) Abuso edilizio e divisione.

SENTENZE IN PRIMO PIANO

1) La natura giuridica della fusione e la legittimazione processuale

Cass., Sez. Unite, 13 luglio 2021, dep. 30 luglio 2021, n. 21970 – Pres. Spirito – Rel. Nazzicone - M.A. c. Z. S.r.l. - (rif. artt. 1414 ss c.c.)

RITENUTO IN FATTO

Con atto di citazione notificato il 18 marzo 2008, la S. s.r.l. chiese l'accertamento della simulazione o, in subordine, la revoca ex art. 2901 c.c. di due successivi contratti di compravendita, conclusi l'uno in data 11 aprile 2005 e l'altro il 15 aprile 2005, aventi ad oggetto il medesimo immobile, il primo stipulato tra i venditori Me.Ti. ed M.A. e l'acquirente F.S., ed il secondo tra quest'ultima e B.D.O.J.

Il Tribunale di Tempio Pausania accolse la domanda di simulazione assoluta dei due contratti di compravendita. Con sentenza del 7 gennaio 2019, n. 2, la Corte d'appello di Cagliari, sezione di Sassari, adita dai soccombenti, ha respinto l'impugnazione. La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che non fosse inesistente, né nullo l'atto introduttivo del giudizio di primo grado, proposto dalla S. s.r.l., rappresentata dall'amministratrice unica D.P.C., sebbene tale società fosse stata cancellata dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Z. s.r.l., e ciò per un duplice argomento: perché la fusione comporta, a norma dell'art. 2504-bis c.c., una mera vicenda evolutivo-modificativa del medesimo soggetto, che permane e conserva la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo; perché, in ogni caso, l'incorporante si è costituita all'udienza del 6 maggio 2011 innanzi al Tribunale, ratificando l'operato dell'amministratrice della incorporata, donde l'efficacia sanante degli atti compiuti dal falsus procurator.

Nel merito, ha ritenuto infondato sia il motivo concernente la simulazione dell'intero contratto di compravendita del bene immobile, sebbene in comproprietà con la M., non debitrice della società istante, sia il motivo sull'esistenza di idonei elementi a prova della simulazione. Avverso questa sentenza i soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Si difende con controricorso la Z. s.r.l. Proposta la trattazione presso la Sezione VI-3, con ipotizzato rigetto del primo motivo di ricorso per la permanenza in vita del soggetto incorporato, su istanza dei ricorrenti la causa è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite con decreto del 25 settembre 2020, essendosi riscontrato un contrasto di giurisprudenza, con riguardo alla legittimazione processuale della società incorporata cancellata dal registro delle imprese. Il Procuratore generale ha chiesto l'accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri due. Entrambe le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c.

I motivi del ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell'art. 1722 c.c., comma 1, n. 4, e art. 2495 c.c., comma 2, nonchè dell'art. 83 c.p.c., art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 2 e 4, e art. 164 c.p.c., in quanto, essendo stata cancellata la S. s.r.l. dal registro delle imprese per incorporazione ed essendosi, quindi, estinta, il suo ex amministratore unico, ormai decaduto dalla carica, non avrebbe potuto agire in giudizio per conto della società, nè rilasciare la procura al difensore, ma il giudizio avrebbe dovuto essere, semmai, proposto dalla società incorporante, cui il diritto di credito si è trasferito a seguito della fusione; invece, la sentenza di primo grado è stata resa nei confronti della S. s.r.l. ed i ricorrenti solo nell'eseguire le visure camerali, in vista dell'atto di appello, si sono avveduti della cancellazione della società dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Z. s.r.l.. In definitiva, l'atto di citazione e l'intero procedimento sono inesistenti o, in subordine, viziati da nullità assoluta, in quanto la vocatio in ius proviene da soggetto inesistente; nè la corte d'appello avrebbe potuto ritenere sanato il rapporto processuale mediante la costituzione in giudizio della Z. s.r.l. in primo grado;

(omissis)

CONSIDERATO IN DIRITTO

(omissis)

Ai sensi dell'art. 2501 c.c., la fusione si attua mediante la costituzione di una nuova società o mediante l'incorporazione in una società di una o più altre. La peculiarità dell'operazione, analogamente alla scissione, sta nella prosecuzione dei soci nell'attività d'impresa mediante una diversa struttura organizzativa, una volta, evidentemente, venuto meno l'interesse, l'utilità o la possibilità di perseguirla con la società dapprima partecipata. Sebbene i soci e i patrimoni dei conferenti restino sempre i medesimi che, a suo tempo, avevano concorso all'originario progetto economico mediante la costituzione della primigenia società, si ha che, in seguito, il perseguimento delle finalità economico-patrimonial-finanziarie, nell'esercizio dell'autonomia negoziale garantita dall'art. 41 Cost., avrà indotto ad una riorganizzazione di quella intrapresa, ancora più radicale rispetto ad altre, sopra prospettate. Diversa certamente la situazione si presenta, dunque, in paragone a quella del mero scioglimento della società: dove l'entità economica viene liquidata e cessa di operare sul mercato, senza nessun subentro di un altro soggetto o la continuazione dell'impresa. Non si può disconoscere pertanto che - al contrario che nello scioglimento e liquidazione della società - con la fusione l'operazione economica abbia il significato opposto: non l'uscita dal mercato, ma la permanenza dei soci sul medesimo, sia pure in forme diverse. E, tuttavia, occorre pur ragionare se la società originaria - sia essa liquidata, incorporata o fusa - a seguito della cancellazione dal registro delle imprese si estingua come organizzazione e come soggetto dell'ordinamento giuridico, oppure no. A riguardo dell'operazione di fusione, un certo disorientamento si è creato all'interno della Corte, donde la rimessione alle Sezioni unite. La ricerca del superamento delle incertezze, a fronte di soluzioni non sistematiche, è particolarmente auspicabile, considerando che la questione può involgere non soltanto ogni tipo di giudizio in cui sia parte una società, ma che anche altri settori dell'ordinamento, diversi dal diritto societario, sono suscettibili di seguire la stessa disciplina (cfr. es. art. 42-bis c.c., in tema di fusione e scissione di associazioni e fondazioni).

2.1. - La tesi della natura evolutivo-modificativa con sopravvivenza della società incorporata o fusa.

E' stata affermata, poco dopo l'entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la tesi secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504-bis c.c., la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l'estinzione della società incorporata, né crea un nuovo soggetto di diritto nell'ipotesi di fusione paritaria, ma attua l'unificazione mediante l'integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo. Si tratta della nota ordinanza Cass., Sez. Un., 8 febbraio 2006, n. 2637, la quale ha così escluso che la fusione per incorporazione determini l'interruzione del processo ai sensi dell'art. 300 c.p.c. Per vero, dall'intera motivazione dell'ordinanza, resa in sede di regolamento di giurisdizione (su contratto d'appalto di servizi di biglietteria e distribuzione pubblicitaria, relativo alle manifestazioni promosse dalla Fondazione Accademia di Santa Cecilia, e che dichiarò la giurisdizione del giudice amministrativo) - procedimento in cui la ricorrente aveva chiesto fosse dichiarata, ai sensi dell'art. 300 c.p.c., l'interruzione del processo di cassazione, in conseguenza della fusione per incorporazione della società stessa in altra società azionaria - emerge trattarsi di un'affermazione ad abundantiam, secondaria sia quanto al capo specifico, sia nel contesto della complessiva decisione. In sostanza, la corte ha affermato dapprima il principio di diritto, secondo cui l'estinzione della società, ricorrente per cassazione, dopo il ricorso non determina l'interruzione del giudizio, dominato ormai dall'impulso d'ufficio; e, poi, ha smentito anche l'esistenza della premessa minore, aggiungendo che l'incorporazione non aveva prodotto l'estinzione della società incorporata, con conseguente disapplicazione radicale dell'istituto della interruzione del processo. Se pure, pertanto, l'affermazione sulla mancata estinzione del soggetto incorporato non integri propriamente un obiter dictum quale passaggio della decisione estraneo al thema decidendum - dal momento che è almeno dubbio se, nel sillogismo giudiziario, volto in tal caso alla pronuncia processuale di interruzione del giudizio, debba costituire primario antecedente logico il presupposto di diritto (l'interruzione del processo non si applica in cassazione) o quello di fatto (la società non era estinta) - resta che l'affermazione non era necessitata.

2.1.2. - La tesi è stata, da allora, seguita da plurime decisioni, le quali hanno fatto proprio il pedissequo richiamo alla “vicenda meramente evolutivo-modificativa”, con esclusione dell'effetto successorio ed estintivo. Si tratta di pronunce che, per lo più, hanno inteso risolvere questioni processuali, senza indagare le sottese tematiche societarie, ma guidate dal non celato fine di evitare aggravio di incombenti per le parti, ritardi nel processo o formalismi, reputati dal collegio privi di valore a tutela di posizioni od interessi sostanziali e, quindi, vitandi.

Così, quanto alla posizione processuale attiva della parte, alla società incorporata è stato attribuito il potere di impugnazione (fra le altre, cfr. Cass., 16 settembre 2016, n. 18188, che ha riformato la sentenza della corte di appello, la quale aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione proposta da società già cancellata dal registro delle imprese per fusione). Con riguardo alla posizione processuale passiva, numerose pronunce hanno affermato che la società incorporata o fusa possa essere convenuta in giudizio. Al riguardo, peraltro, una decisione (Cass., Sez. Un., 17 settembre 2010, n. 19698) non attiene alla fusione post riforma, ma a quella anteriormente perfezionatasi.

Essa si occupa di una vicenda processuale in cui sia l'atto di citazione, sia l'appello erano stati notificati alla società incorporata, nonostante la precedente iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di fusione, concludendo per la radicale nullità “sia della vocatio in ius che della notifica dell'atto di citazione, dirette nei confronti di un soggetto non più esistente”, reputate “radicalmente nulle, non essendo stata tale nullità, rilevabile d'ufficio, neppure sanata dalla costituzione in giudizio del soggetto incorporante. Ne consegue l'inesistenza delle sentenze di primo e di secondo grado”. Dunque, la decisione non costituisce precedente, ai fini della questione in esame, in quanto attiene a vicenda ante riforma del 2003, pur avendo reputato necessario confutare, in presenza di estinzione, l'effetto interruttivo del processo a seguito di fusione. Quanto all'essere la società incorporata destinataria dell'atto di impugnazione, una sentenza di poco posteriore alle citate Sezioni unite del 2006 ritenne ammissibile il ricorso per cassazione, in presenza della notificazione alla società parte del giudizio di merito, ma ormai incorporata in altra prima della notificazione del ricorso (Cass., 23 giugno 2006, n. 14526). La sentenza richiama due precedenti, in tema di mutamento dei soci e di trasformazione (Cass., 13 agosto 2004, n. 15737; Cass., 29 dicembre 2004, n. 24089), assimilando tali fenomeni, per vero diversi, alla fusione; inoltre, come questa Corte ha già rilevato (v. Cass., 15 febbraio 2013, n. 3820), la pronuncia espressamente intese solo tutelare l'affidamento dell'impugnante nella sopravvivenza della società estinta. La successiva sentenza delle Sezioni unite del 14 settembre 2010, n. 19509 ha affermato, ancora però in una fusione anteriore al 2004, che la società incorporata si estingue, e, ciò nonostante, non è nullo l'atto d'appello indirizzato alla società estinta e notificato presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, enunciando il principio per cui l'impugnazione è valida, se l'impugnante non abbia avuto notizia dell'evento modificatore della capacità della giuridica mediante la notificazione dello stesso; l'accento, qui, è posto sull'affidamento dell'altra parte processuale. Nello stesso filone si iscrivono - stavolta con riguardo al testo come modificato nel 2003 - le ordinanze del 18 novembre 2014, n. 24498 e del 12 febbraio 2019, n. 4042, le quali hanno reputato ammissibile l'appello proposto nei confronti della società incorporata. Altre recenti sentenze richiamano il principio dell'effetto c.d. evolutivo-modificativo, quando, però, ciò non sarebbe stato necessario: l'una, in quanto non occorreva negare l'estinzione dell'incorporata, per reputare che, a seguito della fusione, si abbia la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato o incorporante, essendo ciò il lineare portato della disposizione ex art. 2504-bis c.c. (Cass., 16 maggio 2017, n. 12119); l'altra, avendo invero reputato ammissibile il ricorso per cassazione da parte di società che aveva, sì, deliberato la fusione per incorporazione prima del ricorso, ma a quel momento non era stata ancora cancellata dal registro delle imprese, evento occorso solo dopo la notificazione del ricorso (Cass., 10 dicembre 2019, n. 32208); la terza, perché reputa collegati fra di loro in modo necessario due concetti, che in realtà non lo sono, quando afferma che “L'art. 2501 c.c., proprio perché nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, induce a ritenere che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all'incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l'attività della seconda”, ai soli fini della diversa questione dell'attribuzione alla società incorporante della qualifica di responsabile dell'inquinamento ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 253, Codice dell'ambiente (Cass., 10 dicembre 2019, n. 32142). Non possono rinvenirsi dei precedenti, invece, in quelle pronunce in materia tributaria (cfr. Cass., 4 marzo 2021, n. 5953; Cass., 23 luglio 2020, n. 15757; Cass., 17 luglio 2019, n. 19222), dove vigono, a quei fini, i principi della neutralità e della simmetria fiscale della fusione e della scissione di società (artt. 172 e 173 t.u.i.r.), i quali perseguono l'obiettivo di evitare che si pervenga alla incorporazione di società inattive a fini elusivi e alla fusione di “scatole vuote” o piene solo di perdite da portare “in dote” all'incorporante, esigendosi che la società abbia una residua efficienza, nell'ambito della c.d. disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale di cui al L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, inserito dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1.

2.2. - La tesi dell'estinzione con effetto devolutivo-successorio.

Di contro, una pluralità di decisioni ha mostrato una certa difficoltà a seguire la tesi opposta, distaccandosene gradualmente. Di recente, così, si è enunciato il principio (Cass., 19 maggio 2020, n. 9137) secondo cui, ove la società sia incorporata in altra, la legittimazione attiva all'impugnazione spetta alla società incorporante. Altra di poco anteriore decisione (Cass., 2 marzo 2020, n. 5640, non massimata) conclude per l'inammissibilità della domanda proposta dalla società incorporata, in quanto reputa legittimata all'azione la sola società incorporante; peraltro, in motivazione contiene un richiamo al dictum delle Sezioni unite del 2006, in concreto disatteso. Già in precedenza, si era cominciato ad affermare che solo la società incorporante, non l'incorporata estinta per incorporazione, possa essere la destinataria dell'atto di impugnazione: premesso che il nuovo art. 2504-bis c.c. ha sancito il subentro in tutti i rapporti preesistenti anche processuali "all'evidente fine di evitare irragionevoli interruzioni del giudizio, contrarie, peraltro, ai principi del giusto processo", essa ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato inammissibile l'appello proposto contro società già incorporata in altra (Cass., 15 febbraio 2013, n. 3820). Nello stesso senso ha ragionato una successiva decisione, la quale ha ritenuto necessaria destinataria dell'impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, la società incorporante, e non la incorporata, soggetto non più esistente a seguito della fusione: perché l'art. 2504-bis c.c. prevede “la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l'attività della seconda, non già la permanenza in vita della società incorporata fino alla cessazione dei rapporti che la riguardano, che implicherebbe anche una anomala e non prevista prorogatio sine die dei suoi organi rappresentativi” (Cass., 24 maggio 2019, n. 14177, pur richiamando, in motivazione, precedenti di orientamento vario ed ancora il tema dell'affidamento dell'altra parte del processo). Possono ricordarsi, all'interno dei presupposti logico-giuridici di tale orientamento, anche le recenti decisioni (Cass., 21 febbraio 2020, n. 4737; Cass. 19 giugno 2020, n. 11984) che, nel ragionare sulla fallibilità della società scissa nella scissione totalitaria, hanno respinto la tesi della scissione come fenomeno operante solo una modificazione dell'atto costitutivo, invece che successorio ed estintivo della società scissa. Si tratta, dunque, di precedenti alquanto sporadici ed occasionali.

2.3. - Ricostruzione del sistema.

Come è noto, il legislatore interno non ha dettato una disposizione specifica volta alla qualificazione giuridica della fusione societaria, né ha indicato i suoi effetti sul piano soggettivo. La ricostruzione del sistema positivo esige l'esame, condotto mediante i criteri ermeneutici imposti dall'art. 12 preleggi, della disciplina complessiva della fusione e degli elementi normativi evincibili dal sistema del codice civile e delle leggi speciali, in una col diritto interno dovendosi, altresì, tenere conto delle direttive comunitarie ed Eurounitarie, trattandosi di materia armonizzata.

2.3.1. - Come sopra esposto, le tesi sono state ispirate dal testo letterale - ante e post riforma del diritto societario, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 - dell'art. 2504-bis c.c. L'art. 2502 c.c. del 1942, comma 4 prevedeva che “la società incorporante o quella che risulta dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società estinte”. Si affermava dunque senz'altro - sul solco dell'elaborazione risalente al codice di commercio del 1882, che faceva riferimento, in tema di fusione, alle società che “cessano di esistere” (art. 194, comma 2) ed alle “società estinte” (art. 196) - che la fusione societaria realizza un fenomeno di successione a titolo universale, in virtù del quale si determina l'estinzione della società incorporata (in caso di fusione per incorporazione) o di tutte le società fuse (in caso di fusione propria) e la successione, rispettivamente della società incorporante o della nuova società risultante dalla fusione, in tutti i rapporti giuridici. Nella successiva evoluzione, l'art. 2504-bis c.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, art. 13, dispose, sugli effetti della fusione, che “(l)a società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte". Il legislatore, peraltro, in tale occasione ritenne che non fosse suo compito prendere posizione sulla natura giuridica della fusione. Afferma, invero, la Relazione del Ministro di grazia e giustizia, concernente il D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, che una più analitica descrizione degli effetti della fusione “è sembrata da un lato superflua, dall'altro inopportuna, in base all'assunto che il compito del legislatore è quello di disciplinare il procedimento di fusione, piuttosto che quello di definire la natura giuridica dell'istituto, prendendo posizione sul dibattito fra coloro che ravvisano nella fusione un fenomeno di successione in universum ius e coloro che invece lo considerano alla stregua di una peculiare modificazione dell'atto costitutivo” (art. 13). La disposizione attuale, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003, recita sugli “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”. Su tale diversa formulazione, taluni studiosi, seguiti dai precedenti sopra ricordati, hanno ritenuto di fondare la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione. Può rilevarsi sin d'ora come si è trattato, da un lato, della migliore individuazione e descrizione dei soggetti fusi o incorporati; dall'altro lato, della più esplicita precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione; resta il riferimento ai diritti ed obblighi assunti. Orbene, la detta modifica letterale è alquanto anodina allo scopo di fondare una tesi così radicale, qual è quella della vita sempiterna della società incorporata o fusa, che permarrebbe ad aeternum nonostante la irreversibile riorganizzazione - materiale e giuridica operata. A ben vedere, poi, questa tesi potrebbe ritenersi in contrasto con lo stesso dettato letterale della nuova disposizione: che, se è vero abbia eliminato la parola “estinte”, ha però, nel contempo, ed in modo assai meno equivoco, anche stabilito che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne muta appunto il titolare, sebbene l'oggettivo rapporto resti il medesimo. Ciò in piena coerenza, pertanto, con le varie forme di successione di un soggetto ad un altro come controparte contrattuale o nel singolo rapporto obbligatorio; mentre la “prosecuzione” dei rapporti processuali è disposizione del tutto coincidente con quella dell'art. 110 c.p.c., il quale prevede che il processo prosegue nei confronti del successore universale e che presuppone, tutto all'opposto, l'estinzione della parte originaria del processo. Insomma, è perfettamente condivisibile l'idea che l'espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non autorizzi a ritenere che il soggetto incorporato non sia estinto; ed, anzi, in forza del diritto positivo, in particolare processuale, è proprio il contrario, laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto tutti i rapporti della parte venuta meno: il quale, nell'usuale linguaggio giuridico, viene denominato successore universale.

2.3.2. - E', altresì, singolare che di tale pretesa dirompente novità la legge delega o la Relazione alla riforma del diritto societario non facciano parola, né altro emerga dai lavori preparatori e dalle stesse riunioni della commissione ministeriale, incaricata della stesura dei decreti legislativi delegati, richiamandosi, piuttosto, nella Relazione al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il “rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria”.

2.3.3. - Ma ancor più stridente, sul piano sistematico, è la conclusione della mancata estinzione e permanenza, come soggetto giuridico, della società incorporata, se si considera l'innovativa questa sì - soluzione sancita nel contempo dall'art. 2495 c.c., comma 2, in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese. È la nota questione degli effetti della cancellazione: prima della riforma del 2003 ritenuta non costitutiva dell'estinzione, reputandosi la società in vita sino all'integrale estinzione di tutti i rapporti attivi e passivi; dopo la riforma, in espressa contrapposizione a quel “diritto vivente”, voluta quale spartiacque definitivo tra la vita e la scomparsa della persona giuridica, che non può esistere dopo la cancellazione, ma si estingue definitivamente. Non è qui il luogo per indagare il tema della possibile applicazione dell'art. 2191 c.c., ove l'iscrizione della cancellazione fosse stata disposta, per avventura, al di fuori delle condizioni previste dalla legge o dell'effettivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici. Il punto qui di rilievo è un altro: ovvero che, nel mentre la scelta del legislatore della riforma societaria è stata quella, drastica, dell'estinzione dell'ente dopo la cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell'art. 2495 c.c., per la fusione si pretenderebbe il contrario, quanto alla società incorporata o fusa, che pur abbia provveduto - a seguito dell'iscrizione dell'atto di fusione ai sensi dell'art. 2504 c.c. - alla cancellazione dal registro delle imprese. E' singolare, anzi, che l'itinerario degli interpreti abbia seguito, al riguardo, un filo logico opposto a quello adoperato per la fusione: qui si passa, dalla ricostruzione giurisprudenziale di una permanenza in vita della società cancellata sino all'esaurimento di tutti i rapporti pendenti (allo scopo di risolvere le ardue questioni delle sopravvivenze e sopravvenienze attive e passive), alla smentita dal legislatore del 2003 con la nota frase “(f)erma restando l'estinzione della società”, posta in esordio del comma 2 dell'art. 2495 c.c.; là, dalla natura estintiva della fusione, tratta dal testo originario dell'art. 2504-bis c.c., si sarebbe passati ad un effetto solo modificativo senza estinzione, sebbene la società fusa o incorporata sia stata cancellata dal registro delle imprese. E' noto, inoltre, che l'effetto estintivo derivante dall'iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese si produce non soltanto quando essa segua al procedimento di scioglimento e liquidazione, ma anche quando alla cancellazione si pervenga per altre vie: come, ad esempio, quando la società non abbia depositato i bilanci per tre esercizi, ai sensi dell'art. 2490 c.c., comma 6, o, per le società partecipate pubbliche, del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, art. 20. Sarebbe, dunque, distonico con il sistema ordinamentale delle società escludere l'effetto estintivo, nonostante la nuova situazione del registro delle imprese, ed ipotizzare un'eccezione così radicale, come quella della permanenza in vita della società incorporata o fusa, dalle parole della nuova disposizione, non sorrette da nessun altro elemento di sistema.

2.3.4. - Ulteriori spunti si traggono da altre norme in tema di procedimento di fusione.

L'art. 2504 c.c., comma 2, dispone che l'atto di fusione debba essere depositato per l'iscrizione nell'ufficio del registro delle imprese di ciascuna delle società partecipanti alla fusione; gli effetti giuridici si producono dal momento dell'adempimento delle formalità pubblicitarie, concernenti il deposito per l'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di fusione previsto dalla norma, avente efficacia costitutiva. Ma l'art. 2504 c.c., comma 3, stabilisce che il “deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione”: ciò conferma, secondo logica giuridica, che il definitivo ente societario - sia quello preesistente in tal modo riorganizzato, sia il soggetto nuovo - non possa “convivere” con la perdurante personalità giuridica ed autonoma soggettività delle società fuse o incorporate, le quali debbono quindi, come struttura formale, estinguersi prima. E' vero che il momento di produzione degli effetti della fusione può non coincidere con la pubblicità dell'atto di fusione, atteso che può non esservi coincidenza, anche per volontà delle parti, fra il momento di espletamento della pubblicità di cui all'art. 2504 c.c., comma 2, e quello della produzione degli effetti della concentrazione. Ciò, però, non vuol dire altro che, per volontà delle parti assecondata dalle disposizioni normative, l'estinzione della società incorporata sarà rinviata a quel momento.

2.3.5. - E' appena il caso di rilevare che la questione dell'assoggettabilità a fallimento della società incorporata o fusa (ma lo stesso ordine di concetti vale per la società interamente scissa) solo in parte interseca quella della sua esistenza: dal momento che ivi vige il disposto speciale della L. Fall., art. 10, il quale, in perfetta equiparazione al debitore persona fisica, sancisce la fallibilità degli imprenditori, individuali come collettivi, alle condizioni che sia trascorso non oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese e che l'insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o nel termine detto; la ratio generale di tale disposizione è nota, onde non necessita discornerne in questa sede. In tal modo, per quanto riguarda le società, può fallire un “ente” che non è più tale, entro un anno dall'evento estintivo. Si richiama il principio per cui “un fenomeno di riorganizzazione societario... come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell'impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”; ed il tema della soggezione della società fusa o scissa alle procedure concorsuali "non risulta propriamente attenere al piano dell'organizzazione societaria dell'impresa... Attiene, piuttosto, al piano dell'operatività dell'impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori” (cfr. Cass., 21 febbraio 2020, n. 4737). Dunque, che la società possa essere assoggettata a fallimento dopo la fusione o la scissione, ancorché cancellata dal registro delle imprese, non è elemento normativo a favore della tesi della sua sopravvivenza alla cancellazione; se proprio se ne voglia trarre un indizio, è allora piuttosto elemento in senso contrario, atteso che solo una norma speciale come quella della L. Fall., art. 10 ha potuto sancire un simile precetto. Ed al riguardo, si noti, si è stabilito il principio di diritto che, ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio L. Fall., ex art. 15, il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione debbano essere notificati all'ente incorporante, che ne prosegue tutti i rapporti anche processuali anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l'eventuale dichiarazione di fallimento (Cass. 11 agosto 2016, n. 17050; e v. Cass., 18 febbraio 2007, n. 2210).

2.3.6. - Appaiono anodine, ai fini in discorso, tutte quelle disposizioni dell'ordinamento positivo, che prevedono il subentro e la continuità dei rapporti a seguito delle operazioni di fusione per incorporazione: ciò, al pari di quanto esposto circa la scarsa significanza del regime di traslazione dei rapporti, enunciato dallo stesso art. 2504-bis c.c. Invero, nessun indizio contrario all'estinzione potrebbe rinvenirsi in quelle disposizioni sparse, dell'ordinamento positivo o del “diritto vivente”, in cui si sancisce la prosecuzione di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata, fusa o scissa. Al riguardo, si possono considerare l'art. 1902 c.c., sulla fusione tra imprese assicuratrici, secondo cui il contratto di assicurazione “continua con l'impresa assicuratrice che risulta dalla fusione o che incorpora le imprese preesistenti”; le regole che, ad integrazione di quanto previsto dalla citata disposizione, detta il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 168, Codice delle assicurazioni private, stabilendo che il trasferimento di portafoglio “non è causa di risoluzione dei contratti, ma i contraenti... possono recedere”, a talune condizioni; l'art. 2112 c.c., il cui comma 5 dispone che il rapporto di lavoro continua in caso di fusione, al pari che nel trasferimento d'azienda. Altresì, usualmente gli interpreti enumerano il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 29, sulla responsabilità delle persone giuridiche, secondo cui, nel caso di fusione, “l'ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”; il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 32, il quale, ove la società risultante dalla fusione sia responsabile per reati da essa commessi, consente al giudice di ritenere la reiterazione nell'illecito anche in relazione alle condanne pronunciate nei confronti degli enti partecipanti alla fusione, per i reati commessi anteriormente ad essa. Vi si aggiunge, per i profili processuali, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 42, che, nel caso di fusione o di scissione dell'ente originariamente responsabile, dispone che “il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova” (Cass. pen., 22 giugno 2017, n. 41768 ha ritenuto l'ente incorporante destinatario, a fini della corretta instaurazione del contraddittorio, della citazione a giudizio, contenente le ragioni da cui inferire il titolo di responsabilità, restando valida la contestazione dell'imputazione formulata con riferimento alla persona giuridica originariamente responsabile dell'illecito); mentre il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 70 intende espressamente chiarire che, nel caso di fusione o scissione dell'ente responsabile, “il giudice dà atto nel dispositivo che la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari della scissione, indicando l'ente originariamente responsabile” e che la “sentenza pronunciata nei confronti dell'ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati”. Norme, quelle degli artt. da 29 a 33 D.Lgs. citato, ritenute manifestamente non incostituzionali in relazione agli artt. 27, 29, 76 e 117, in riferimento all'art. 7 della Cedu, Cost., nonché coerenti con l'orientamento della Corte di giustizia (Corte di giustizia dell'Unione Europea 5 marzo 2015, C-343/13, Modelo Continente Hipermercados SA), la quale, in materia di responsabilità amministrativa ed in presenza di fusione con incorporazione della società responsabile, ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante deriva dalla direttiva comunitaria 78/855/CEE relativa alle fusioni delle società per azioni (Cass. pen. 12 febbraio 2016, n. 11442). Nell'ambito delle leggi speciali, il D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 385, art. 57, comma 4, t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, prevede che i privilegi e le garanzie esistenti “a favore di banche incorporate da altre banche, di banche partecipanti a fusioni con costituzione di nuove banche ovvero di banche scisse conservano la loro validità e il loro grado, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, a favore, rispettivamente, della banca incorporante, della banca risultante dalla fusione o della banca beneficiaria del trasferimento per scissione”. In tema di sistemi di garanzia per i depositanti, il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 96-quater.3 dispone che, in caso di fusione o scissione, se “alcuni depositi della banca cedente divengono protetti da un sistema di garanzia diverso rispetto a quello a cui aderisce la banca cedente, il sistema cui aderisce la banca cedente trasferisce all'altro i contributi ricevuti... in proporzione all'importo dei depositi protetti trasferiti”. Mentre il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 127-quater, T.U. dell'intermediazione finanziaria, stabilisce che, quando gli statuti contemplano la c.d. maggiorazione del dividendo a favore degli azionisti stabili, se la cessione delle azioni comporta la perdita del beneficio, non così “in caso di successione universale, nonché in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”; del pari, in caso di "fusione o scissione della società che abbia emesso le azioni... i benefici si trasferiscono sulle azioni emesse dalle società risultanti”. Analogamente, per la figura della c.d. maggiorazione del voto, secondo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127- quinquies il diritto di voto maggiorato di regola “è conservato in caso di successione per causa di morte nonché in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”, passando alla società incorporante. Regole ispirate agli stessi concetti prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-sexies, quanto alle azioni a voto plurimo preesistenti della società quotata. In materia tributaria, il d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 172, comma 4, t.u. sulle imposte dirette, stabilisce che “dalla data in cui ha effetto la fusione la società risultante dalla fusione o incorporante subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi”: dove, si noti, il comma 10 del medesimo art. 172 compie un espresso riferimento ai "soggetti che si estinguono per effetto delle operazioni medesime”. Affine la ratio del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 15, che detta disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie: in caso di fusione o scissione, la “società o l'ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni”. E si potrebbe continuare. Ma quel che qui si vuol dire è che si tratta di disposizioni speciali, rispetto al quadro generale disegnato dall'art. 2504-bis c.c., le quali palesano null'altro che la continuità nei rapporti giuridici: non certamente, invece, la contestuale sopravvivenza del loro originario titolare.

2.3.7 - L'interpretazione sistematica secondo il diritto comunitario ed Eurounitario conduce a risultati ancora più univoci.

Trattandosi di un'area armonizzata del diritto societario sul piano Europeo, l'interprete nazionale non può che tenerne conto: il principio dell'interpretazione conforme comporta invero il dovere di scegliere, tra le diverse interpretazioni possibili di un enunciato del diritto interno, quella che sia maggiormente idonea ad allinearla al dettato della norma comunitaria, anche orientando la lettura della disciplina nazionale in modo che essa non conduca a scelte di fondo radicalmente differenti rispetto a quelle compiute in altri Stati membri. Ciò perché il fenomeno della fusione è unitario, onde la disciplina finale non può non essere omogenea, nelle sue linee essenziali e portanti, avendo una comune radice: sarebbe, invero, distonico sostenere in teoria (e gestire in pratica) effetti delle fusioni societarie diversi, a seconda che essi si producano nell'ordinamento italiano o in altri ordinamenti dell'Unione, come avverrebbe ove una società fosse esistente per il primo ed estinta per i secondi. Dunque, indipendentemente dall'avere il legislatore interno del 2003 ripreso il dato testuale delle direttive comunitarie, queste esercitano il loro vincolo sull'interpretazione, alla stregua del principio secondo cui le norme interne devono essere interpretate conformemente al diritto comunitario, alla luce della sua lettera e finalità, per raggiungere il risultato previsto da questo. In tal senso, vale appena ricordare, è la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, la quale afferma il reiterato principio secondo cui “dalla necessità di garantire tanto l'applicazione uniforme del diritto dell'Unione quanto il principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione del diritto dell'Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del proprio significato e della propria portata, devono di norma essere oggetto, nell'intera Unione Europea, di un'interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione” (e plurimis, Corte di giustizia dell'Unione Europea 7 agosto 2018, cause riunite C-61/17, C-62/17 e C-72/17, Bichat, punto 29; 11 maggio 2017, C-59/16, The Shirtmakers BV, punto 21; 1 dicembre 2016, C-395/15, Daouidi, punto 50; 29 ottobre 2015, C-174/14, Saudagor, punto 52; 5 marzo 2015, n. 343/13, Modelo Continente Hipermercados SA, punto 27).

a) Orbene, iniziando dalla terza direttiva 78/855/CEE del consiglio del 9 ottobre 1978, relativa alle fusioni tra società per azioni, l'art. 3 definisce la fusione come “l'operazione con la quale una o più società, tramite uno scioglimento senza liquidazione, trasferiscono ad un'altra l'intero patrimonio attivo e passivo mediante l'attribuzione agli azionisti della o delle società incorporate di azioni della incorporante...”. E l'art. 19 dispone: “La fusione produce ipso iure e simultaneamente i seguenti effetti: a) il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell'intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante; b) gli azionisti della società incorporata divengono azionisti della società incorporante; c) la società incorporata si estingue”. Compare dunque, a partire dalla III direttiva, sia l'effetto traslativo successorio, sia l'effetto estintivo per la società incorporata. La direttiva 78/855/CEE è stata abrogata, a far data dal 1 luglio 2011, dalla direttiva 2011/35/Ue del parlamento Europeo e del consiglio, del 5 aprile 2011, relativa alle fusioni delle società per azioni. Come risulta dal suo considerando 1, quest'ultima direttiva è intesa, per motivi di chiarezza e razionalizzazione, a procedere alla codificazione della direttiva 78/855, che era stata modificata più volte in modo sostanziale. L'art. 19, par. 1, della direttiva 2011/35 riprende l'art. 19, par. 1, della direttiva 78/855 in termini identici. Così, anche l'art. 23 di tale direttiva, con riferimento alla fusione mediante costituzione di una nuova società, afferma che “le espressioni “società partecipanti alla fusione” o “società incorporata” indicano le società che si estinguono”.

b) Indicazioni ancor più stringenti si traggono dalla disciplina delle fusioni transfrontaliere, dove l'interesse alla omogeneità degli effetti in tutti i Paesi è il presupposto, essendo la possibilità di operare al di là dei confini nazionali parte delle alternative di sviluppo offerte alle società. L'art. 14 della direttiva 2005/56/CE, relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, dispone per la fusione per incorporazione che “la società incorporata si estingue” e che nella fusione mediante costituzione di nuova società “le società che partecipano alla fusione si estinguono”. Ulteriore indizio si trae dalla stessa nozione di “fusione”, contenuta nell'art. 2: la quale è definita volta a volta (indipendentemente dalla forma per incorporazione o per costituzione di una società nuova) come l'operazione mediante la quale le società trasferiscono “all'atto dello scioglimento senza liquidazione, la totalità del loro patrimonio attivo e passivo ad altra società”: la prima, in sostanza, automaticamente si scioglie, pur senza seguire il procedimento di liquidazione, proseguendo altrove i propri rapporti e titolarità, e poi scompare. La direttiva 56/2005/CE è stata attuata dal D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 108, il cui art. 16, sul punto, si limita a stabilire che “La fusione transfrontaliera produce gli effetti di cui all'art. 2504-bis c.c., comma 1”, con rinvio dunque a norma già parte del diritto interno. La direttiva 2017/1132/UE, pubblicata il 30 giugno 2017 ed entrata in vigore il successivo 20 luglio 2017, come da ultimo novellata dalla direttiva 2019/2121/UE del 27 novembre 2019, ha offerto una codificazione del diritto Europeo societario, mediante l'unificazione in un unico testo delle precedenti direttive in materia societaria. Per quanto qui interessa, sia gli artt. 105 e 109, sia l'art. 131, rispettivamente sugli “Effetti della fusione” e sugli “Effetti della fusione transfrontaliera”, continuano dunque a prevedere che “la società incorporata si estingue” e “le società che partecipano alla fusione si estinguono”, per le prime precisandosi “ipso iure e simultaneamente”. Anche l'art. 29 del reg. (CE) n. 2157/2001 del Consiglio dell'8 ottobre 2001, in materia di costituzione di una società Europea per fusione, e l'art. 33 del reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003, in materia di costituzione di una società cooperativa Europea per fusione, prevedono espressamente l'estinzione delle società incorporate o che si fondono “ipso iure e simultaneamente”. In particolare, si fa notare in dottrina che la formula utilizzata nelle direttive recepisce quella impiegata nell'art. 236-3 del Code de Commerce francese, nella circolarità che contraddistingue la formazione della normativa Europea; la giurisprudenza e la casistica Europee confermano come la società incorporata viene meno sotto un profilo formale. Se ciò avviene negli ordinamenti armonizzati, non può dunque che favorirsi la medesima interpretazione nel diritto interno. Tutto ciò, pur in presenza del caveat con riguardo ai concetti delle fonti sovranazionali, nonché del noto pragmatismo che impronta le relative decisioni - basti pensare al contenuto della sentenza Corte di giustizia 5 marzo 2015, C-343/13, cit., dove la Corte riconosce che la società incorporata si estingue dal punto di vista formale per effetto della fusione, tuttavia valorizzando lo scioglimento senza liquidazione e senza dissoluzione della realtà economica, al fine di affermare, a fini antielusivi, che la società incorporante non rimane uguale a sé stessa e che si verifica “la trasmissione, alla società incorporante, dell'obbligo di pagare l'ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa” - fornisce dunque un imprescindibile dato interpretativo.

2.4. - Conclusioni.

Gli aspetti “sostanziali” della vicenda della fusione societaria che si possono riassumere in quelli della concentrazione, della successione e dell'estinzione - non possono essere disgiunti da quelli “processuali”: occorre, infatti, stabilire una coerenza fra di essi, derivando peraltro i profili processuali dalla questione concreta che venga all'esame nel giudizio.

a) Concentrazione.

Non vi è dubbio che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell'atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di concentrazione giuridica ed economica (ve n'è traccia espressa nel diritto positivo: v. la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 5) o “integrazione” o “compenetrazione”, dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporata o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione. L'operazione è connotata da irreversibilità, secondo il chiaro disposto dell'art. 2504-quater c.c., che vieta la pronuncia d'invalidità della fusione, una volta eseguite le iscrizioni ai sensi dell'art. 2504 c.c., comma 2. La fusione comporta un'ampissima riorganizzazione aziendale. Beni, persone e capitali vengono diversamente destinati, secondo il programma economico per tempo approfonditamente elaborato nel progetto di fusione, nessun elemento formale rimanendo uguale a se stesso. Solo i soci mantengono tale veste (salvo il loro diritto di recesso): dal momento che essi divengono titolari di una quota del capitale della incorporante o della società risultante dalla fusione, secondo quel rapporto matematico e proporzionale che è il “rapporto di cambio”, richiamato dall'art. 2501-ter c.c.. Che la fusione sia inquadrabile tra le vicende modificative dell'atto costitutivo delle società partecipanti è senz'altro corretto, ma questo non è, tuttavia, l'unico effetto della fusione: il fatto che la (diversa) società, incorporante o risultante dalla fusione, assuma i diritti e gli obblighi delle società interessate sta in sè ad indicare che gli effetti sono certamente più pregnanti di quelli riconducibili ad una semplice modificazione dell'atto costitutivo. Tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, vengono ormai imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante, e la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

b) Estinzione.

Onde, se tutti i rapporti passano ad altro soggetto, con cancellazione dal registro delle imprese, quello primigenio non li conserva, ma si estingue. Se, quanto ai rapporti giuridici, provvede l'art. 2504-bis c.c., chiarendo che essi proseguono tutti in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, quale successore per legge esplicitamente identificato, si ha, nel contempo, che le persone fisiche (soci, esponenti aziendali, dipendenti) perdono il loro ruolo originario (derivando la loro sorte dal progetto di fusione) e le persone giuridiche - diverse dalla incorporante o risultante dalla fusione - si estinguono. Cessano, infatti, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano, e così via; in una parola, la primigenia organizzazione di dissolve e nessuna situazione soggettiva residua. Ora, se nessuna posizione giuridica soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell'ambito dell'ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di un'entità astratta. Le società incorporate o fuse non restano, pertanto, soggetti del mercato, non le si vede ciononostante proporre cause civili o esservi convenute. Se così non fosse, si potrebbe ad esempio giungere ad ammettere in giudizio una difesa duplice, ed anche contraddittoria, in relazione alle medesime posizioni soggettive, da parte dell'incorporata e dell'incorporante: come potrebbe ben accadere sul piano degli interessi sostanziali, visto che i soci della prima resterebbero, allora, quelli che tali erano al momento dell'atto di fusione, mentre i soci dell'incorporante sarebbero anche altri e sempre variabili, potendo quindi rappresentare posizioni di interesse difformi rispetto ad uno stesso rapporto giuridico. Non ha dunque pregio sostenere che, nonostante la completa “rivoluzione” o, come recitano le direttive, “dissoluzione” aziendale con la chiusura o l'inglobamento di uffici o filiali, le riassegnazioni di personale, la cessazione dalla carica di tutti gli esponenti aziendali, l'annullamento delle azioni, la consegna di altre azioni secondo il rapporto di cambio, e molto altro - l'ente, come soggetto giuridico, permanga sul mercato e sia titolare di diritti ed obblighi. Occorre, in definitiva, tenere distinto il profilo negoziale del contratto di società da quello giuridico-formale dell'originario soggetto di diritto dal primo scaturito, distinguendo tra la società come insieme di rapporti, che prosegue in una diversa organizzazione, dalla società come ente, che si estingue. Come, al momento della stipulazione dell'atto costitutivo anche di società personale e, per le persone giuridiche, subordinatamente alla iscrizione della costituzione nel registro delle imprese, si distinguono - da un lato - il contratto di società concluso tra i soci fondatori, quale esercizio dell'autonomia negoziale privata ex art. 1322 c.c., che con lo statuto fissa e regolamenta gli aspetti della futura comune intrapresa economica, e - dall'altro lato - la contestuale nascita di un nuovo soggetto di diritti, autonomo centro d'imputazione di tutti i rapporti attivi e passivi afferenti quella attività: così, specularmente, al momento della stipula dell'atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese delle diverse società partecipanti e seguito dalla cancellazione dell'iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci - da un lato - modificano l'originario contratto sociale mediante la delibera di fusione ed i successivi adempimenti, ma - dall'altro lato - provocano, nel contempo, la “scomparsa” dalla scena giuridica dell'originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ossia la sua estinzione. Alla successione dei soggetti sul piano giuridico-formale si affianca, sul piano economico-sostanziale, una continuazione dell'originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale, benché secondo nuovi assetti e piani industriali. L'estinzione riguarda solo la società incorporata, la quale non sopravvive quale flatus, ma si estingue; resta, invece, come soggetto giuridico l'incorporante, dal momento che la modificazione soggettiva attiene soltanto alla titolarità dei rapporti giuridici, che facevano capo alla prima. Certamente quindi, sotto il profilo strutturale, la fusione si presenta come una modificazione degli statuti sociali delle società interessate, mediante le rispettive deliberazioni di approvazione del progetto di fusione (art. 2502 c.c.): destinate però ad apportare, all'originario regolamento di interessi fra i soci di ciascuna società fusa o incorporata, una innovazione decisamente radicale, posto che scompare quella “forma” di esercizio dell'impresa, a favore di altro involucro formale. Occorre in definitiva concludere che, dal momento dell'iscrizione della cancellazione della società incorporata dal registro delle imprese, questa si estingue, quale evento uguale e contrario all'iscrizione della costituzione di cui all'art. 2330 c.c.; restano le persone fisiche - amministratori, sindaci, dipendenti, soci - che perdono, però, tale veste, ove non vengano riassorbiti nella società incorporante o risultante dalla fusione.

c) Successione.

Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio. La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell'estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La successione universale, come vicenda giuridica, ben si attaglia invero anche a quella fra enti, avente ad oggetto un patrimonio unitariamente considerato e non soltanto elementi che lo compongono. La fusione non è, in sé, operazione che mira a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione), né unicamente a trasferirli ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come il conferimento in società, la cessione dei crediti o dei debiti, la cessione di azienda, etc.), quanto a darvi prosecuzione, mediante il diverso assetto organizzativo: ma ciò non può essere sminuito ed artificiosamente ridotto ad una vicenda modificativa senza successione in senso proprio in quei rapporti. Riorganizzazione e concentrazione, da un lato, ed estinzione e successione, dall'altro lato, non sono concetti incompatibili ed antitetici. In sostanza, si verificano entrambi gli effetti, l'estinzione e la successione, senza distinzione sul piano cronologico, derivando entrambe dall'ultima delle iscrizioni previste dall'art. 2504 c.c. (salva la possibilità di stabilire una data diversa ex art. 2504-bis c.c., commi 2 e 3).

d) Legittimazione processuale.

Alla stregua di quanto esposto, la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato fonda la legittimazione attiva dell'incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; viceversa quest'ultima, non mantenendo la propria soggettività dopo l'avvenuta fusione e la cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonoma legittimazione processuale attiva o passiva.

e) Fusione in corso di causa.

Le ragioni sottese al precedente orientamento furono, come si è visto, in primis quelle di evitare l'interruzione del processo, che è ripetutamente sembrato opportuno evitare, attese le peculiarità di una fusione societaria (cfr. Cass., Sez. Un., 17 settembre 2010, n. 19698; Cass., Sez. Un., 14 settembre 2010, n. 19509; e v. Cass., Sez. Un., 8 febbraio 2006, n. 2637): l'argomento di fondo è incentrato sugli interessi tutelati e l'assenza di pericolo per il diritto alla difesa nel processo. Tali ragioni non possono essere disconosciute e ciò induce il Collegio ad una precisazione al riguardo. In ragione del subentro omnicomprensivo in tutte le situazioni giuridiche attive e passive delle società, incorporate o fuse, da parte della società in esito della fusione, questa va assimilata alla successione universale fra persone fisiche. In via di principio, perciò, alla fusione, divenuta efficace in corso di causa, in mancanza di disposizioni derogatorie troverebbe applicazione il regime degli artt. 110 e 300 c.p.c., con l'interruzione del processo e la sua prosecuzione dal successore universale o in suo confronto, previa riassunzione, quale fenomeno riconducibile al “venir meno” della parte, di cui all'art. 110 c.p.c.. Tuttavia, in presenza di fusione sopraggiunta nel corso del giudizio, la dizione dell'art. 2504-bis c.c. - secondo cui in tutti i rapporti giuridici delle società incorporate “anche processuali” vi è una “prosecuzione” dell'incorporante - vale ad evitare ex lege l'interruzione stessa, dato che l'incorporata ne prosegue senza soluzione di continuità i rapporti, anche processuali. In tal modo è dato leggere la modificazione operata nel 2003, al più limitato, ma opportuno fine di superare gli inconvenienti prodotti dall'interruzione del processo in caso di fusione di società, evitando l'applicazione dell'istituto, allora non congruente allo scopo. Onde, sul punto, il precedente orientamento che escludeva l'interruzione del processo va confermato con riguardo alla fusione delle società post riforma del 2003, dovendo in tal modo ricostruirsi il portato dell'art. 2504-bis c.c., attesa l'esigenza di ragionevole durata del processo e l'assenza della lesione di interessi di qualsiasi parte. Nel caso della fusione, dunque, è la legge stessa a disporre, mediante l'art. 2504-bis c.c., che il processo non debba essere interrotto: ma ciò non perchè la società incorporata, fusa o scissa sia ancora esistente, ma semplicemente perchè la incorporante, la società risultante dalla fusione o le società beneficiarie sono, di volta in volta, i soggetti divenuti titolari sia di quel rapporto sostanziale, sia del corrispondente c.d. rapporto processuale, ossia del giudizio che quello abbia ad oggetto. La ratio degli artt. 299 ss. c.p.c. conferma tale ricostruzione: posto che, se l'istituto dell'interruzione del processo mira a tutelare sia la parte colpita dall'evento interruttivo, sia la controparte, ai fini della migliore esplicazione del diritto di difesa di entrambe ( art. 24 Cost.), tale esigenza non si avverte, o in ogni caso è ex lege recessiva, a fronte della superiore esigenza di continuità nei rapporti sostanziali e processuali, a fini di certezza. In tal modo, l'esclusione dell'interruzione del processo limita le conseguenze della fusione sul processo, dovendosi allora, ad onere della incorporante, provare soltanto tale sua qualità ai fini della legittimazione, ove intenda compiere atti processuali.

(omissis)

Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto: “La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., nel rispetto delle regole che lo disciplinano”.

IV. - Decisione sui motivi di ricorso.

1. Alla luce del principio predetto, il primo motivo è infondato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 4.

Nella specie, la S. s.r.l., essendosi fusa per incorporazione nella Z. s.r.l. il 23 luglio 2004, con contestuale cancellazione dal registro delle imprese, era priva di capacità e legittimazione processuale nel marzo del 2008, quando ha intrapreso il presente giudizio, essendosi già estinta ed avendo, da lungo tempo, cessato i suoi organi amministrativi dalle funzioni di legale rappresentanza. Sorti dubbi di legittimazione al riguardo, nel corso del primo grado la società incorporante si è costituita, facendo proprio il giudizio. Nel prosieguo, quindi, è stata accolta la domanda di simulazione proposta, come azionata anche dall'interventore in giudizio: il giudice di primo grado ha dichiarato la simulazione del contratto ed il giudice d'appello ha espressamente escluso ogni nullità del processo, sia per la natura meramente modificativoevolutiva della fusione, sia per l'avvenuta costituzione in causa della società incorporante. Ne deriva che, mutata la motivazione alla stregua del principio enunciato, il primo motivo va respinto.

(omissis)

In conclusione, il ricorso va respinto.

V. - Spese. Le spese vengono interamente compensate, attesa la novità del principio enunciato.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa per intero le spese del giudizio. Dichiara che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

 

Il principio di diritto: La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, essendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell'art. 105 c.p.c., nel rispetto delle regole che lo disciplinano.

Il caso ed il processo: La vicenda processuale nasce dalla presentazione dell’atto introduttivo di giudizio (avente ad oggetto la dichiarazione di simulazione di due atti di compravendita stipulati tra terzi o in alternativa la revoca degli stessi) da parte di una società che risulta cancellata dal Registro delle Imprese competente per incorporazione in altra società.

Sia nel primo sia nel secondo grado di giudizio è stata riconosciuta la legittimazione processuale attiva dell’istante, sulla base della teoria evolutiva-modificativa della natura giuridica della fusione, basata sulla convinzione che la società incorporata non si estinguerebbe in seguito alla fusione e, conseguentemente, manterrebbe la legittimazione processuale attiva.

La soluzione resa dalla Corte: La Cassazione ha affermato che, in seguito all’atto di fusione, la società incorporata cesserebbe di esistere e, quindi, la legittimazione processuale non spetterebbe alla stessa, ma alla società incorporante che subentrerebbe in tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società estinta. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto di rigettare il ricorso basandosi sulla circostanza che, nonostante la mancanza di legittimazione processuale della società incorporata nel momento in cui ha presentato l’atto introduttivo del giudizio, l’intervento della società incorporante nel processo avrebbe sanato detta mancanza con conseguente prosecuzione dello stesso.

La decisione della Corte si basa, innanzitutto, sull’osservazione che la riforma del tenore letterale dell’art. 2504-bis, comma 1 c.c., vale a dire la sostituzione della locuzione “società estinte” con quella di “società partecipanti alla fusione”, non potrebbe giustificare il passaggio dalla teoria estintiva-successoria a quella evolutiva-modificativa relativamente alla natura giuridica della fusione, dato che nella legge delega e nella relazione alla riforma del diritto societario non è rinvenibile alcun riferimento ad una rivoluzione di questo tipo.

Inoltre, la Cassazione aggiunge che la teoria evolutiva-modificativa comporterebbe la sopravvivenza della società, anche dopo la sua cancellazione dal Registro delle Imprese competente, con chiara violazione dell’art. 2495, comma 2 c.c., e non coglierebbe un aspetto fondamentale della fusione societaria, vale a dire la modificazione dal punto di vista soggettivo con l’estinzione della società incorporata.

A chiusura del proprio ragionamento, la Corte richiama la normativa comunitaria nella quale in relazione alla fusione è compiuto un espresso riferimento all’estinzione della società incorporata.

Dopo aver delineato la propria visione sulla natura giuridica della fusione societaria, in linea con la teoria estintiva-modificativa, la Cassazione afferma che la legittimazione processuale, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., spetterebbe alla società incorporante e non a quella incorporata, in quanto altrimenti non avrebbe senso il riferimento alla prosecuzione in tutti i rapporti giuridici, contenuto nell’art.2504-bis, comma 1 c.c.

Gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sul tema: con riferimento alla natura giuridica della fusione societaria, si sono contrapposte due teorie fondamentali: la prima, definita di tipo estintivo-successorio, afferma, per l’appunto, la natura estintiva della fusione con conseguente successione della società incorporante nei rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata; la seconda di tipo evolutivo-modificativo sostiene, invece, la sopravvivenza della società incorporata e il solo cambiamento della sua organizzazione.

Dopo l’entrata in vigore del Codice Civile del 1942 e prima della riforma del 2003, la dottrina e la giurisprudenza hanno assunto posizioni diverse sulla questione della natura giuridica della fusione; più in particolare, la dottrina ha avallato la teoria evolutiva-modificativa basandosi sulla circostanza che il tenore letterale dell’art. 2504 bis, comma 1 c.c. non possa essere considerato un fattore determinante per sostenere la teoria opposta, in quanto il fenomeno successorio mal si concilierebbe con la circostanza che i soci della società incorporata ottengano delle partecipazioni nella società incorporante, che non sia riconosciuto un diritto di recesso e che non sia richiesto un quorum rafforzato per la delibera della fusione (G. Tantini, La fusione delle società, in Trattato Galgano, VIII, Padova, Cedam, 1985, 275 ss.; G. Marasà, Modifiche del contratto sociale e modifiche dell'atto costitutivo, in Trattato, VI edizione, Torino, Utet, 1993, 24 ss.; F. Jr. Ferrara- F. Corsi, Gli imprenditori e Società, XII edizione, Milano, Giuffrè, 2001, 819).

La giurisprudenza, invece, era concorde nel ritenere che la fusione comportasse un fenomeno estintivo della società incorporata, con conseguente successione della società incorporante nei rapporti giuridici di cui era titolare quest’ultima. Nel sostenere questa posizione i giudici si basavano sul tenore letterale dell’art. 2504-bis, comma 1 c.c. e ritenevano equiparabile il fenomeno della fusione societaria alla successione mortis causa delle persone fisiche (Cass., Sez. II, 21 agosto 1996, n. 7704; Cass., Sez. Lav., 09 aprile 1998, n. 3694; Cass., Sez. I, 21 maggio 1998, n. 5065; Cass., Sez. I, 22 giugno 1999, n. 6298).

In seguito alla riforma del 2003, la giurisprudenza si era allineata alla dottrina, sostenendo la teoria evolutiva-modificativa, a causa della modifica del tenore letterale dell’articolo 2504-bis, comma 1 c.c., vale a dire sulla sostituzione dell’espressione “società estinte” con la locuzione “società partecipanti alla fusione”.

Infatti, la Cassazione ha sostenuto che l’eliminazione del riferimento ad un fenomeno estintivo della società incorporata comporterebbe che con la fusione non si verifichi un’estinzione di una società con la nascita di un’altra, ma semplicemente avverrebbe una compenetrazione tra società, dalla quale la società incorporata ne uscirebbe rinnovata (Cass., Sez. Un., 8 febbraio 2006, n. 2637).


ALTRE PRONUNCE IN RASSEGNA

Cass., Sez. III, 3 febbraio 2021, dep. 3 febbraio 2021, n. 2493 – Pres. Raffaele – Rel.  Moscarini – De.Ba.Mu. S.p.A. c. B.O. e altri – (rif. l. 16 febbraio 1913, n. 89)

Il notaio che roga un atto concernente una proprietà superficiaria, che egli stesso dica esistente su bene demaniale in forza di una concessione, deve preoccuparsi, constandogli nella prospettazione dei clienti tale particolare qualità della detta proprietà, di indagare, prima di rogare l'atto e di prevedere che la proprietà sia oggetto di garanzia, sul se la concessione sia tuttora in essere e, in caso positivo, anche per quale tempo lo sia; detta indagine e il suo risultato rientrano nell'ambito dell'attività esigibile dal notaio, quale espressione del c.d. "dovere di consiglio del notaio", e, prima ancora, nell'ambito dei doveri di accertamento connessi alla diligenza professionale.

Cass., Sez. V, 11 febbraio 2021, dep. 11 febbraio 2021, n. 3456 – Pres. Stalla – Rel. Lo Sardo – G.S. c. Agenzia delle Entrate – (rif. art. 20 d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131)

L'interpretazione dell'atto soggetto a registrazione a norma del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20 non è consentita all'amministrazione finanziaria in sede di liquidazione dell'imposta principale “postuma”, essendo rigorosamente vincolata dal limite formale degli “elementi oggettivi, univoci e chiaramente desumibili dall'atto”. Conseguentemente, deve essere esclusa la responsabilità solidale del Notaio per il relativo pagamento, a norma del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 57, comma 2.

Cass., Sez. II, 09 marzo 2021, dep. 09 marzo 2021, n. 6442 – Pres. Di Virgilio – Rel. Oricchio – Z. c. C. – (rif. l. 16 febbraio 1913, n. 89)

In tema di responsabilità disciplinare dei notai, la mancata assistenza del notaio nella sede principale, prevista dall'art. 26 della l. n. 89 del 1913, costituisce una condotta diversa da quella, individuata dall'art. 9 del codice deontologico, della presenza non consentita nella sede secondaria; ed infatti, la violazione della prima disposizione, volta a punire l' “assenza” del notaio dal suo studio, è sanzionata dall'art. 147, comma 1, lett. b), della l. n. 89 cit., con la censura, la sospensione ovvero anche la destituzione, mentre per la violazione della seconda, finalizzata a sanzionare la "presenza" nella sede secondaria, lesiva del principio di etica professionale, l'art. 137, comma 2, della medesima legge notarile dispone l'applicazione di una pena pecuniaria.

Cass., Sez. III, 16 marzo 2021, dep. 16 marzo 2021, n. 7283 - Pres. Vivaldi – Rel. Fiecconi – C.I. c. G.P.D.C.A. e altri – (rif. artt. 1470 ss c.c.)

Il notaio incaricato della redazione e autenticazione di un contratto di compravendita immobiliare non può limitarsi ad accertare la volontà delle parti e sovrintendere alla compilazione dell'atto ma deve compiere l'attività necessaria ad assicurarne serietà e certezza degli effetti tipici e risultato pratico perseguito ed esplicitato dalle dette parti, poiché contenuto essenziale della sua prestazione professionale è l'obbligo di informazione e consiglio. In particolare, egli è tenuto a compiere una verifica di natura tecnica ed essenzialmente giuridica che ricomprende anche la stabilità o meno nel tempo dei titoli giudiziali trascritti, dovendo acquisire informazioni presso la conservatoria dei registri immobiliari sulla loro definitività.

Cass., Sez. II, 28 aprile 2021, dep. 28 aprile 2021, n. 11186 – Pres. Di Virgilio – Rel. Tedesco – P. c. C. – (rif. l. 16 febbraio 1913, n. 89)

L'omesso avvertimento all'acquirente, da parte del notaio, circa i rischi connessi ad una compravendita rispetto alla quale l'alienante dichiari di avere acquistato il bene per usucapione, senza il relativo accertamento giudiziale, ha rilevanza disciplinare con riguardo all'illecito derivante dal combinato disposto di cui agli artt. 147, comma 1, lett. b) della l. n. 89 del 1913, da un lato, e 50, lett. b) nonché 14, lett. b) del codice deontologico, dall'altro, quanto al rispetto degli obblighi di chiarezza e di completezza dell'atto rogato, da cui devono risultare le indicazioni emergenti dalle visure ipotecarie e catastali per un periodo comprensivo del ventennio anteriore alla stipula, per un completo esame delle risultanze degli atti di provenienza, delle formalità pregiudizievoli e, in genere, delle formalità pubblicitarie relative all'immobile.

Cass., Sez. III, 11 gennaio 2021, dep. 11 gennaio 2021, n. 210 – Pres. Vivaldi – Rel. Gorgoni – S.P.R. e altri c. Comune di Potenza e altri – (rif. art. 456 ss c.c.)

Nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l'allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all'eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall'accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato; tuttavia, tale produzione, unitamente alla allegazione della qualità di erede, costituisce una presunzione iuris tantum dell'intervenuta accettazione tacita dell'eredità, atteso che l'esercizio dell'azione giudiziale da parte di un soggetto che si deve considerare chiamato all'eredità, e che si proclami erede, va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata la qualità di erede.

Cass., Sez. V, 21 gennaio 2021, dep. 21 gennaio 2021, n. 1149 – Pres. Di Iasi – Rel. D’Oriano –P. c. A. – (rif. art. 3 comma 1 d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346)

In tema di imposta di successione, spetta l'esenzione di cui all'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 346 del 1990 al legato a favore di ente pubblico civilmente riconosciuto, avente come scopo istituzionale la finalità di culto, equiparabile a fini tributari a quello di beneficenza, istruzione, educazione e cultura, anche ai sensi dell'art. 7, comma 3, della l. n. 121 del 1985, a meno che lo svolgimento in concreto di altre attività da parte dell'ente, anche solo in via marginale o strumentale, elimini in radice l'esclusività del fine premiale di pubblica utilità, con conseguente venir meno ex ante del presupposto oggettivo dell'agevolazione totale.

Cass., Sez. Lav., 22 gennaio 2021, dep. 22 gennaio 2021, n. 1401 – Pres. Blasutto – Rel. Pagetta – G.V. c. P.P. e altri – (rif. art. 230 bis c.c.)

In tema di impresa familiare, la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata, sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell'impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell'andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all'attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell'impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività.

Cass., Sez. II, 30 settembre 2021, dep. 30 settembre 2021, n. 26563 – Pres. Manna – Rel. Bellini –A. c. A. – (rif. art. 40 comma 2 l. 28 febbraio 1985, n. 40)

Gli atti di scioglimento delle comunioni relative ad edifici, o a loro parti, sono soggetti alla comminatoria della sanzione della nullità prevista dalla L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, per gli atti tra vivi aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici realizzati prima della entrata in vigore della detta legge, ove dagli atti non risultino gli estremi della licenza o della concessione ad edificare o della concessione rilasciata in sanatoria, ovvero ad essi non sia unita copia della domanda di sanatoria corredata dalla prova del versamento delle prime due rate di oblazione o dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che la costruzione dell'opera è stata iniziata in data anteriore al 1 settembre 1967. Pertanto, nell'ipotesi in cui tra i beni costituenti l'asse ereditario vi siano edifici abusivi, ogni coerede ha diritto, a sensi dell'art. 713 c.c., comma 1, di chiedere e ottenere lo scioglimento giudiziale della comunione ereditaria per l'intero complesso degli altri beni ereditari, con la sola esclusione degli edifici abusivi, pur senza il consenso degli altri condividenti.


Note e riferimenti bibliografici

1. Il saggio introduttivo è del Notaio Prof. Enrico Damiani, Professore ordinario di diritto civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Macerata.

2. Così, Cass., Sez. II, 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro Italiano, 1961, I, 256 ss., con nota critica di A. Scialoja, Il “non uso” è “abuso” del diritto soggettivo?

3. Ritiene che l’idea stessa di abuso del diritto sia assurda e contraddittoria: se del diritto soggettivo si è titolari in quanto esso è attribuito dallo jus positum, allora vi può solo essere uso e non abuso; nel caso contrario e quindi in assenza del diritto non di abuso si dovrebbe discutere, ma di agire senza diritto od anche di usurpazione di un diritto. M. Orlandi, Contro l'abuso del diritto, nota a Cass., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in Rivista di diritto civile, 2010, 147 ss.

4. P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della proprietà, Napoli, 1971, 91 ss.

5. V. M. Bellinvia, La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, in Studi CNN, Consiglio Nazionale del Notariato, studio n. 216-2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014, cit., 25: «La rinunziabilità, in definitiva, costituisce un predicato del diritto reale, costituendo forse una delle residue facoltà di quello ius utendi ed abutendi che nel tempo è stato via via eroso, sia pure legittimamente, dal sopravvenire di rilevanti esigenze collettive e dal perseguimento di una funzione sociale della proprietà».

6. Sul principio di tipicità dei modi di trasferimento della proprietà sia consentito il rinvio a E. Damiani, Il principio di tipicità dei negozi unilaterali, Napoli, 2018, 30 ss. In giurisprudenza hanno negato che la produzione di effetti traslativi possa discendere da un negozio unilaterale: Cass., Sez. II, 30 gennaio 2007 n. 1967, in Rivista Notarile, 2008, II, 399 ss. con riguardo alla costituzione di usufrutto e più di recente, con riferimento alla costituzione di servitù prediali; Cass., Sez. II, 12 febbraio 2021, n. 3684, la quale ha stabilito che per conservare una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una mera autorizzazione unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla corrispondente servitù, dato che, in materia di diritti reali, non risulta idoneo un atto che abbia semplice natura ricognitiva, mentre è necessario un vero e proprio contratto, che dia luogo – per l’appunto – alla costituzione di una servitù prediale, ai sensi dell’art. 1058 c.c.

7. La dottrina ha rivolto una particolare attenzione all’atto di rinuncia. Con diverse posizioni al riguardo cfr.: R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare: spunti di riflessione sulla causa dell'atto unilaterale, Napoli, 2018, il quale sembra orientato ad ammettere in linea generale la rinuncia ai diritti reali previa verifica della compatibilità della causa in concreto dell’atto tenuto conto anche degli interessi dei terzi; R. Franco, La rinunzia alla proprietà (immobiliare): ripensamenti sistematici di (antiche e recenti) certezze, Napoli, 2019; A. De Mauro, La rinuncia alla proprietà immobiliare, Napoli, 2018; C. Bona, L’abbandono mero degli immobili, Trento, 2017; U. La Porta, La rinuncia alla proprietà, in Rassegna di Diritto Civile, 2018, 484 ss.; G. Sicchiero, Rinuncia, aggiornamento in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione Civile, IV edizione, Torino, 2014, 606 ss.; V. Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Rivista di Diritto Civile, 2017, 187 ss.; F. Meglio, Note in tema di rinunzia alla proprietà, tra categorie dogmatiche e istanze pratiche, in Jus Civile, 2019, 630 ss.; G Orlando, Rinuncia opportunistica alla proprietà immobiliare e abbandono immobiliare, in Diritto dell’Economia, 2021, 233 ss.

8. È stato notato da parte della dottrina e della giurisprudenza che l’art. 1104 c.c. presenta certamente un profilo di specialità, ma che questo è generalmente circoscritto all’effetto liberatorio dalle obbligazioni già sorte in virtù del dovere di conservazione e non sembra estendersi, dunque, a tale dovere genericamente inteso che trova invece nell’elasticità del diritto di proprietà la sua ragione. A tal proposito, in dottrina: L. Bigliazzi Geri, Oneri reali e obbligazioni propter rem, Milano, 1984, 139; C. Bona, L’abbandono mero egli immobili, Napoli, 1989, cit., 87. In giurisprudenza, vd.: Avvocatura Generale dello Stato, 14 marzo 2018, n. 137950, cit., 10.

9.  Contra C. Bona, L’abbandono mero degli immobili, in Editoriale Scientifica, 2017, cit., 83: «i referenti normativi dell’abbandono (artt. 827, 923, 1350 n. 5 c.c.) attraggono il negozio unilaterale di rinuncia nell’area della tipicità». Anche S. Pugliatti, I fatti giuridici, Messina, 1945, cit., 41 fa spesso riferimento ad uno schema tipico del negozio di rinuncia.

10. F. Macioce, Rinuncia (dir.  priv.), in Enciclopedia del Diritto, XL, Milano, 1989, 923.

11. Sull’idea che la rinuncia sia un negozio giuridico, vd. S. Pugliatti, I fatti giuridici, Revisione e aggiornamento (a cura di A. Falzea), Milano, 1996, 40; L. Mengoni – F. Realmonte, Disposizione (atto di), in Enciclopedia del Diritto, XIII, Milano, 1964, 191. Critica sul punto e sull’inquadramento negoziale della rinuncia alla proprietà: L. Bozzi, La negoziabilità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, cit., 48 ss., dove conclude per la qualificazione della rinuncia alla stregua di un atto giuridico in senso stretto. Parimenti, in giurisprudenza, si noti la recente sentenza del Trib. Perugia, 30 aprile 2021, n. 704, dove si legge che la rinuncia si avvicina «ad un atto giuridico puro piuttosto che ad un negozio».

12. D. Riva, Rinuncia abdicativa al diritto di proprietà, in www.federnotizie.it, 2018, 2.

13. A tal proposito, in giurisprudenza cfr. TAR Piemonte, 28 marzo 2018, n. 368, cit., par. 22.5; 22.7. In tale pronuncia si legge di una rinuncia vietata poiché in grado di lasciare la proprietà immobiliare “acefala”. La conclusione appare coerente con un’interpretazione restrittiva dell’art. 827 c.c., ma la dottrina nota che è invece proprio l’art. 827 c.c., nella sua tradizionale interpretazione, a permettere all’immobile vacante di non restare acefalo e dunque trovare qualcuno che se ne prenda cura. (R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare, 2018, 44). Ancora, B. Brizzolari, Brevi note a margine di un recente (ed emblematico) caso di rinuncia alla proprietà immobiliare, in corso di pubblicazione, 13 (dattiloscritto), rileva come «l’art. 827 c.c. indica la scelta del legislatore di farsi carico della proprietà nullius, indipendentemente dalle condizioni o dal valore della res. È vero che nessuno può divenire proprietario di un bene contro il suo consenso, ma lo Stato, se di consenso può discorrersi, l’ha espresso nel momento in cui ha posto l’art. 827 c.c.».

14. Negli Stati Uniti non si fa ricorso alla rinuncia al diritto di proprietà ma all’abbandono immobiliare. V. C. L. Eson, Housing abandonment – The problem and a proposed solution, in Real Property, Probate and Trust Journal, 1971, 382 ss. A tal proposito, T. Pellegrini, Proprietà privata e Stato nel dibattito sulla rinuncia alla proprietà del bene immobile, in Rivista critica del diritto privato, 2021, 255 ss., accenna al paradosso americano, ai sensi del quale un ordine giuridico, quale quello americano, storicamente meno sociale e più attento alle prerogative proprietarie del nostro sembra superarci in limiti proprietari e socializzazione della proprietà con esclusivo e apparentemente inspiegabile riferimento alla negata possibilità di liberarsi degli immobili indesiderati. L’Autore spiega, però, che un tale paradossale quadro diventa coerente se il fondamento di un tale divieto non viene rinvenuto nell’organizzazione della proprietà, quanto piuttosto in quella dello Stato.

15. Evidenzia come la «rinunzia, come negozio essenzialmente abdicativo, non ha in nessun caso altra conseguenza che l’estinzione del rapporto, per uscita dal medesimo del soggetto attivo» F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1989, 218; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, rist. II ed., Napoli, 1994, 292. Secondo L. Bozzi, La negozialità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, 49 ss., la rinunzia costituirebbe un atto di autonomia debole, riconducibile all’ambito dell’atto giuridico in senso stretto piuttosto che del negozio giuridico: in essa la volontà del soggetto sarebbe posta esclusivamente sull’atto e sul suo effetto primario costituito dalla dismissione del diritto, non invece sugli effetti ulteriori (consolidazione, accrescimento, o acquisto) che sono disposti direttamente dalla legge.

16. B. Troisi, Negozio giuridico, negozio astratto, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XX, Roma, 1990; E. Betti, Astrazione (Negozio astratto), in Novissimo Digesto Italiano, I, 2, Torino, 1968, 1469 ss.

17. F. Macioce, Rinuncia (dir. priv.), in Enciclopedia del Diritto, XL, Milano, 1989, 923 ss.

18. G. Sicchiero, Rinuncia, in Digesto Discipline Privatistiche, IX, Torino, 2014, 661 ss.; M. Bellinvia, op. cit.

19. Si pensi, a tal riguardo, a quell’autorevole dottrina che grazie all’art. 827 c.c. non solo risolveva “in senso affermativo la questione della possibilità di abbandono della proprietà immobiliare”, ma si interrogava anche sulla possibilità di acquisizione di un immobile per occupazione. Per dare soluzione ad un tale ampio dibattito intervenne, alla fine, il legislatore del 1942 che escluse che vi siano beni immobili senza proprietario: tale affermazione, chiaramente, sancì il divieto di acquisizione dei beni immobili per occupazione. Per una lucida ricostruzione della vicenda, cfr.: V. Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Rivista di diritto civile, 2017, 193 ss.; L. Barassi, La proprietà nel nuovo Codice civile, Milano, 1941, 396 ss. Ancora, T. Pellegrini, op.cit., 253 ss. nel sostenere che già la collocazione dell’art. 827 c.c. nel titolo dedicato ai beni e non nella parte dedicata all’acquisto dell’occupazione fa già di per sé sospettare, propone una ricostruzione storico-politica dei precedenti dell’art. 827 c.c., della nascita della norma finale, dell’intervento del legislatore e, infine, dell’idea che lo Stato esprime nel merito.

20. Sul fronte giurisprudenziale il problema della facoltà della rinuncia alla proprietà del bene immobile è stato dapprima individuato da parte delle sentenze dei tribunali amministrativi, per poi essere ripreso da alcuni giudici civili. Per quanto concerne i primi, vd. TAR Puglia, 17 settembre 2009, n. 2081; TAR Piemonte, 28 marzo 2018, n. 368, 2018 con nota di L.A. Caloiaro, La rinuncia alla proprietà immobiliare tra principio di tipicità e funzione sociale.

La differenza tra il ragionamento dei tribunali amministrativi e di quelli civili è che mentre i primi ragionano sulla facoltà di rinunciare alla proprietà dell’immobile per via di un risvolto della occupazione usurpativa, i tribunali civili si interrogano, invece, sulla validità di una rinuncia foriera di eventuale depauperamento per lo Stato che si trova ad essere proprietario dell’immobile rinunciato secondo quanto previsto dall’art. 827 c.c. La stessa tesi dell’invalidità, infatti, nasce proprio nella giurisprudenza amministrativa, in termini di impossessamento pubblico del bene privato senza una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace.

21. Il parere in questione è il n. 37243/17, Sez. III, Avv. G. Palatiello, in Foro Padovano, 2018, c. 288 ss. unitamente alla sentenza del TAR Piemonte, Sez. I, 28 marzo 2018, n. 367, secondo la quale «il fatto che la rinunzia ai diritti reali è espressamente ammessa dal Codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumente che la rinuncia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale. Il mantenimento in buono stato di un bene immobile costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere», con nota di A. Cecchetto, La rinuncia alla proprietà dell’immobile tra nuovi limiti e prospettive future.

22. Il territorio ligure è, per esempio, considerato notoriamente ad alto rischio di dissesto idrogeologico a causa della presenza di versanti scoscesi, di fiumi sotterranei e di montagne che, perimetrando l’umidità marina, favoriscono un’abbondante piovosità. Nella giurisprudenza locale è, infatti, molto comune imbattersi in fattispecie di “danno da frana”: ex multis, vd. App. Genova, 22 agosto 2019, n. 1206 in Banca Dati “pluris”.
Si noti ancora come, alla fine, la pluralità di dati circa il disagio causato dalle caratteristiche del terreno ligure ha suscitato l’espressione dell’Avvocatura Generale dello Stato, sollecitata dal suo ufficio di Genova, preoccupato da alcuni casi di rinuncia di immobili con evidenti problemi di dissesto geologico, con conseguente accollo in capo all’Erario di tutti i costi necessari per le opere di consolidamento, demolizione, ecc., relativa ai beni stessi. A tal proposito, cfr. Avvocatura Generale dello Stato, 14 marzo 2018, n. 137950, in Foro Padano, 2018 con osservazioni in merito di A. Cecchetto, La rinuncia alla proprietà dell’immobile tra nuovi limiti e prospettive future; T. Pellegrini, op. cit., 239 ss. dove viene ricostruito lucidamente il parere dell’Avvocatura circa il caso ligure.

23. Come vedremo successivamente l’art. 827 c.c. ha natura di mera norma di chiusura: a differenza del c.c. del 1865 che non contemplava alcuna disposizione in materia di beni immobili che non fossero di proprietà di alcuno, e per i quali si riteneva possibile l’acquisto da parte di chiunque mediante occupazione, il legislatore del 1942 ha inteso prevedere espressamente una regola finale così come ha disposto con riguardo alla successione legittima dello Stato in assenza di successibili ex lege all’art. 586 c.c.
Circa l’interpretazione dell’art. 827 c.c. si rimanda anche alla tesi di F. Santoro-Passarelli che vede nella norma stessa la “giustificazione tecnica” di una ipotetica prescrittibilità del diritto di proprietà, comunque a suo dire impedita dalla scelta ordinamentale di rendere imprescrittibile l’azione di rivendicazione. La ragione tecnica, comunque, consiste nel «permettere alla prescrizione di adempiere alla sua funzione di rendere conforme al diritto la composizione di interessi realizzatesi in fatto, data la configurazione di quell’interesse collettivo al quale si può considerare già subordinato in fatto l’interesse particolare del dominus inerte».  (F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 2012, 115). Sul punto, vd. anche B.Troisi, La prescrizione come procedimento, Napoli, 1980, 135 ss.; A. Auricchio, Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971, 47.

24. Trib. Genova, 23 marzo. 1991, n. 946 nega l’ammissibilità della rinuncia al diritto di proprietà. Sembrano invece implicitamente ammetterla la Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2015, n. 735 che riformando il precedente indirizzo sulla c.d. occupazione acquisitiva della P.A., alla luce delle decisioni della C.E.D.U., hanno statuito che «l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorché il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso».

25. V. Brizzolari, Note a margine di un caso emblematico di rinuncia alla proprietà immobiliare, nota a TAR Lombardia, 18 dicembre 2020, n. 2553, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2021, 638; F, Macioce, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, 1992, cit., 101 che non è persuaso dalla causa astratta del negozio di rinuncia ed è incline ad indicare una simmetria tra causa ed effetto in grado di stringere il giudizio causale ad un’azione data in vista del raggiungimento dell’effetto tipico della rinuncia, quale è la dismissione fine a sé stessa, ossia non orientata ad esempio al raggiungimento di un risultato economico ingiustificato. Contra, G. Gorla, Il contratto, I, Milano, 1954, cit., 513: «si considera rilevante soprattutto la volontà di disfarsi di un diritto o di un bene e del peso della sua gestione, nonché dell’affidamento che un simile atto di abbandono del diritto suscita nei terzi o nel debitore», e poi, in nota: «onde si è parlato di un carattere astratto della rinuncia».; ma vd. anche: S. Pugliatti, I fatti giuridici, 1996, 41.

26. Vd. Brizzolari, op. ult. cit., 634 e 639, sulla scorta delle osservazioni di R. Quadri, op. cit., 40 ss. In giurisprudenza, v. Avvocatura Generale dello Stato, 14 marzo 2018, n. 137950, 10.

27. Emblematica è la disciplina dell’abbandono di un veicolo a motore che condivide con quella immobiliare l’organizzazione di pubblici registri: l’art. 231, comma 6, del Codice dell’Ambiente prevede che solo la corretta procedura di smaltimento «libera il proprietario del veicolo della responsabilità civile, penale e amministrativa connessa con la proprietà dello stesso».

28. Sul problema della nozione di rifiuto, cfr.: G. Resta, I rifiuti come beni in senso giuridico, in Rivista critica di diritto privato, 2018, 218; A. Jannarelli, L’articolazione delle responsabilità nell’ “abbandono dei rifiuti”: a proposito della disciplina giuridica dei rifiuti come non-beni sia in concreto sia in chiave prospettica, in Rivista di diritto agrario, 2009, 128 ss. Si noti, inoltre, come la definizione di rifiuto proposta da parte della direttiva 19.11.2008, n. 98 quale «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi» (art. 1, n. 1) raggiunga la qualificazione presentata nel testo alla luce del principio che informa la materia stessa, ossia «ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente»,  (considerando n. 6). La Corte di giustizia, 12 dicembre 2012, C-241, in Foro amministrativo, 2013, 3252, punto 38: «l’espressione “disfarsi” va interpretata tenendo conto dell’obiettivo della direttiva che consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente».

29. S. Rodotà, Il diritto di proprietà tra dommatica e storia, cit., 238. Vd. Anche Id., Il sistema costituzionale della proprietà, cit., 329. A tal proposito, cfr. anche L. Mengoni, Proprietà e libertà, in Scritti I, Metodo e teoria giuridica”, C. Castronovo, A. Albanese e A. Nicolussi (a cura di), Milano, 2001, 92. L’Autore individua lo scopo della riserva di legge ex art. 42 Cost. in una composizione tra le due contemporanee funzioni della proprietà: «omogeneizzazione dell’interesse individuale con l’interesse generale» e «partecipazione del singolo al sistema delle decisioni economiche». Fondamentale al riguardo è poi la lettura del contributo di P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della «proprietà»,  cit., 21 ss.

30. Sul punto, A. Iannarelli, Funzione sociale della proprietà e disciplina dei beni, cit., 58 che scrive di «un raccordo virtuoso tra le legittime aspettative del proprietario e la salvaguardia e promozione di istanze collettive pur sempre riconducibili all’uso e alle diverse destinazioni dei beni alla luce della loro diversa rilevanza sociale in linea con le linee di sviluppo di una società industrializzata del mercato».

31.  Prosegue la sentenza citata che «ne consegue che, sussistendone le condizioni di fatto, deve qualificarsi affetto da motivo illecito e quindi nullo, ai sensi dell'art.1418, secondo comma, c.c., l'atto di recesso da un rapporto di agenzia che, diretto nei confronti di un agente costituito in forma di società di persone, risulti ispirato dalla sola finalità di rappresaglia e di ritorsione nei confronti del comportamento sindacale tenuto dai soci di quest'ultima, dovendosi ritenere un siffatto motivo contrario alle norme imperative poste a tutela delle libertà sindacali dei lavoratori, norme che, in ragione del valore e della tutela che lo stesso dettato costituzionale assegna al "lavoro", nella sua accezione più ampia, appaiono estensibili, al di fuori dei rapporti di lavoro subordinato, a tutti coloro che svolgono attività lavorativa, anche se in forma parasubordinata o autonoma».

32. Nel parere, tra l’altro, l’Avvocatura di Stato avanza l’ipotesi secondo la quale il privato rinunciante rimarrebbe comunque soggetto a rispondere alle obbligazioni già sorte precedentemente in quanto in base al disposto dell’art. 882 comma 3 c.c. la rinunzia non libera il rinunciante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio. Inoltre, è stata anche avanzata l’ipotesi di una responsabilità aquiliana del rinunziante per i danni arrecati.

33. Ai sensi dell’art. 882 c.c. «la rinunzia alla comproprietà del muro comune non libera il rinunziante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio».

34. Secondo Cass., Sez. III, 14 giugno 2021, n. 16743, il comportamento del locatore, titolare del credito rappresentato dai canoni locatizi, che non abbia mai preteso il pagamento, sin dall'origine del rapporto, può generare un affidamento sulla rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del conduttore. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell'obbligazione di pagamento costituisce un abuso del diritto. Infatti, il principio di buona fede rientra negli inderogabili doveri di solidarietà sociale previsti dalla Costituzione (art. 2). Ciascuna parte, quindi, deve operare in modo da tutelare anche gli interessi dell’altra a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali in tal senso. L’abuso del diritto costituisce una particolare violazione dell’obbligo di buona fede contrattuale. L. Di Nella e G. Perlingieri,  A proposito della traduzione italiana De l’abus des droits di Louis Josserand, in Ann. Sisdic, 2019, 23 ss.  e P. Perlingieri, Le obbligazioni tra vecchi e nuovi dogmi, Napoli, 1990, 26. Di recente nella stessa direzione si veda A. Fachechi, Il diritto comune delle situazioni patrimoniali: diritti reali e diritti di credito, nota a Trib. Palermo, 29 ottobre 2018 e Arb. Banc. Milano, 21 giugno 2017, n. 6869, in L’”interpretazione secondo costituzione” nella giurisprudenza, Crestomazia di decisioni giuridiche, G. Perlingieri e G. Carapezza Figlia (a cura di), cit., 3 ss. Secondo l’Arb. Banc., Milano, 21 giugno 2017, n. 6968, in www.arbitrobancariofinanziario.it, con riguardo al caso in cui un correntista, usufruendo della gratuità delle operazioni di bonifico, aveva disposto nell'arco di pochi giorni decine e decine di trasferimenti elettronici di denaro per un ammontare complessivo inferiore a 90 Euro, subendo da parte della Banca un recesso al quale egli si era opposto chiedendo un risarcimento che l'Arbitro Bancario ha rifiutato stante l'abusività del suo comportamento.

35.  Nella vigenza del c.c. abrogato vd. F. Atzeri, Delle rinunzie secondo il Codice civile italiano, Torino, 1910, 1 ss.; R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare, 2018, 31 in cui osserva «ogni tentativo di esame della rinuncia appare inevitabilmente destinato ad incidere sulla conseguente visione dei rapporti tra privato e Stato».

36. Sulla necessità di una verifica della meritevolezza dell’atto di autonomia, onde verificarne la conformità ai principi su cui si fonda l’ordinamento giuridico, si vedano: P. Perlingieri, «Controllo» e «conformazione» degli atti di autonomia negoziale, in Rassegna di diritto civile 2017, 204 ss.; M. A. Urcioli, Liceità della causa e meritevolezza dell’interesse nella prassi giurisprudenziale, in Rassegna di diritto civile, 1985, 752 ss.

37. Sul punto vd. P. Cataldo, Il contratto di “vendita inversa”, in Contr., 2016, 612 ss.; L. Ballerini, Crisi di mercato e «prezzo nullo o negativo» nella vendita di lunga durata, in Contratti e impresa,  2018, 328 ss.; F. Raponi, Profili fiscali della vendita a prezzo irrisorio avente ad oggetto beni immobili, in Studio CNN 122-2018/T, consultabile su www.notariato.it.

38. La nota alla sentenza n. 2196/2020 è dall’Avvocato Gabriella Rosaria Garozzo.

39. Cfr. M. Leo, Il certificato di agibilità, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 4512/2003, 2, in www.notariato.it.

40. Cfr. S. Miranda, Il certificato di agibilità nella prassi contrattuale, in Notariato, 2010, 2, 133.

41. Cass., Sez. III, 18 giugno 1999, n. 7920, in Consiglio di Stato, 2000, 2, 99, secondo cui il certificato di agibilità̀ non occorre per quei manufatti nei quali la « presenza e permanenza di persone è sporadica, occasionale ed eventuale».

42.  Cfr. D. Chinello, La tutela dell’acquirente di beni immobili abusivi, in Immobili e proprietà, 2019, 11, 619. In giurisprudenza: Cass., Sez. II,  09 aprile 2014, n. 8351, in Diritto e giustizia, 2014, passim: «Il venditore di un immobile non ultimato è liberato dall’onere di consegnare all’acquirente il certificato di agibilità, nel caso in cui il contratto d’acquisto preveda che l’ultimazione dei lavori sia a carico di quest’ultimo». Ammettono clausole aventi ad oggetto la disciplina o la rinuncia all’obbligo di procurare l’agibilità: Cass., 29 gennaio 1983, n. 829, in Giustizia civile, 1983, I, 2398; Cass., Sez. II, 4 novembre 1995, n. 11521, in Corriere giuridico, 1996, 168; Cass., Sez. II, 28 marzo 2001, n. 4513, in Rivista notarile, 2001, 6, 1223; Cass., Sez. II, 18 ottobre 2004, n. 20399, in Contratti, 2005, I, 429.

43. Cfr. N. A. Cimmino, Vendita immobiliare e certificato di abitabilità, in Notariato, 2009, 3, 284.

44. Cfr. Cass., Sez. II, 19 febbraio 2019, n. 4826, in Immobili e proprietà, 2019, 4, 259.

45. Cfr. P. Zanelli – F. Bonora, Agibilità: incommerciabilità economica non è incommerciabilità giuridica, in Notariato, 2017, 3, 278 ss.

46. Cfr. Cass., 22 marzo 1976, in Foro Italiano – Repertorio, 1977, voce “Confisca”, 7; Trib. Venezia, 09 febbraio 1978, in Giurisprudenza italiana, 1977, I, 2, 234. In dottrina: L. Milone, Vendita di casa di nuova costruzione priva del certificato di abitabilità, in Rivista giuridica edilizia, 1970, II, 149; D. Calabrese, Sulla vendita di immobile ad uso abitazione costruito senza licenza edilizia, in Giurisprudenza Italiana, 1980, I, 2, 659 ss.; A. Riccio, Il requisito di agibilità degli immobili, in Contratto e impresa, 2011, 3, 562, rappresenta un recente, seppur isolato, contributo il cui l’Autore ha ritenuto applicabile la disciplina della nullità contrattuale anche alla fattispecie in esame, argomentando sulle tesi della causa in concreto del contratto.

47. Cfr. M. R. Sforza, Il rilascio in corso di causa del certificato di abitabilità, in Obbligazioni e contratti, 2011, 8-9, 585 ss., evidenzia che siffatte interpretazioni si fonderebbero sull’art. 221, R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, che prevedeva una sanzione penale a carico del proprietario che utilizzasse l’edificio a fini abitativi in difetto di licenza da parte dell’autorità competente, nonché sulla ritenuta omogeneità̀ concettuale tra la vendita di immobile costruito illegittimamente e la vendita di immobile privo del certificato di abitabilità.

48. Cfr., ex plurimis, Cass., Sez. II, 8 febbraio 2016, n. 2438, in Rivista giuridica edilizia, 2016, I, 214; Cass., Sez. II, 11 ottobre 2013, n. 23157, in Rivista notarile, 2013, 1408; Cass., Sez. II, 18 ottobre 2004, n. 20399, in Contratti, 2005, I, 429.

49. Cass., Sez. II, 30 gennaio 2017, n. 2294, in Rivista notarile, 2017, 3, II, 554; Cass., Sez. II, 27 luglio 2006, n. 17140, in Giustizia civile – Massimario annotato dalla Cassazione, 2006; Cass., Sez. II, 25 febbraio 2002, n. 2729, ivi, 2002. In dottrina, P. Zanelli – F. Bonora, Agibilità: “Incommerciabilità economica” non è “incommerciabilità giuridica”, in Notariato, 2017, 3, 285.

50. Cfr. D. Rubino, La compravendita, II edizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, A. Cicu e F. Messineo (diretto da), Milano, 1971; C. M. Bianca, La vendita e la permuta, II edizione, in Trattato di diritto civile italiano, F. Vassalli (diretto da), Torino, 1993; A. Luminoso, voce “Vendita”, in Digesto, IV edizione, Discipline Privatistiche, Sezione civile, XIX, Torino, 1999, 607 ss.; G. B. Ferri, La vendita in generale, in Trattato di diritto privato, P. Rescigno (diretto da), Torino, 1999, 11.

51. Cfr., ex plurimis: Cass., Sez. II, 2 agosto 2018, n. 20426, in Not., 2018, 554; Cass., Sez. II, 21 gennaio 2013, n. 1373, in Not., 2013, 645; Cass., Sez. II, 27 luglio 2006, n. 17140, in Giustizia civile – Massimario annotato dalla Cassazione, 2006, 7-8, 43; Cass., Sez. II, 30 gennaio 2017, n. 2294, in Notariato, 2017, 141.

52. Cfr. R. P. Puce, Compravendita immobiliare, certificato di abitabilità e buona fede, in Corriere Giuridico 2019, 6, 766.

53. Cfr. Cass., Sez. II, 5 dicembre 2017, n. 29090, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2018, 6, I, 824.

54. Cfr. Cass., Sez. II, 18 marzo 2010, n. 6548, in Foro Italiano, 557 ss.; Cass., Sez. II, 5 giugno 2012, n. 9046, in Diritto e Giustizia, 2012, secondo cui: «Il mancato rilascio del certificato di agibilità costituisce un inadempimento dell'obbligazione derivante dal contratto di vendita (Cass. n. 19204/2011), di cui va quantomeno verificata in concreto l'importanza e la gravità in relazione al godimento e alla commerciabilità del bene (Cass. n. 13231/2010)»; Cass., Sez. II, 27 novembre 2009, n. 25040, in Rivista Notarile, 2010, 422; Cass., Sez. II, 16 giugno 2008, n. 16216, in Contratti, 2009, 23; Cass., Sez. II, 6 luglio 2011, n. 14899, in Giustizia civile, 2011, I, 1983; Cass., Sez. II, 10 marzo 2011, n. 5745, in Guida al diritto, 2011, fasc. 20, 63.

55. Cfr. E. Timpano, Le Sezioni Unite sciolgono il nodo gordiano: il promissario acquirente cui è stata consegnata la res è detentore, in Rivista Notarile, 2008, 5, 1082.

56. Cfr. Cass., Sez. VI – 2, 18 maggio 2018, n. 12226, passim, in cui si rileva che quando si accerta l’utilizzabilità del bene, il compratore non può chiedere il risarcimento del danno commisurato all’importo dei canoni di locazione perduti, se il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d’uso di un bene immobile od alla sua abitabilità non è in sé di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio, e vi sia stata altresì, da parte del conduttore, la concreta utilizzazione del bene immobile.

57. Cfr. Cass., Sez. II, 5 dicembre 2017, n. 29090, cit.

58. Cfr. Cass., Sez. II, 3 luglio 2000, n. 8880, in Rivista Notarile, 2001, 242.

59. La breve nota alla sentenza "in primo piano" è della Dott.ssa Giulia Fadda. Le sentenze oggetto della rassegna sono state invece selezionate dai Notai Marco Giorgianni e Mauro Scatena Salerno.