Pubbl. Mer, 19 Gen 2022
La consumazione del potere amministrativo e il regime del provvedimento amministrativo tardivo
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Francesco Gregorace
Il presente contributo affronta la tematica relativa alla c.d. inesauribilità del potere amministrativo e delle ipotesi individuate dalla giurisprudenza di consumazione del potere. In particolare, si analizza l´impatto che sulla tematica ha avuto il nuovo volto dell´azione amministrativa a seguito della legge 241/90.
Sommario: 1. Il tempo nell’azione amministrativa: dall’assenza di certezze temporali all’obbligo di provvedere; 2. La nuova prospettiva dell’azione amministrativa. 3. Semplificazione e liberalizzazione; 4. L’inerzia della pubblica amministrazione: cenni sistematici; 5. Le conseguenze dell’esercizio tardivo; 6. L’orientamento prevalente; 7. Il contrapposto orientamento; 8. Le ipotesi di consumazione del potere; 9. Il caso della nomina del commissario ad acta; 10. Il decreto semplificazioni del 2020; 11. Considerazioni finali
1. Il tempo nell’azione amministrativa: dall’assenza di certezze temporali all’obbligo di provvedere
Quando si parla di consumazione del potere amministrativo si fa riferimento ad una conquista recente della storia del diritto amministrativo, frutto di una rinnovata visione costituzionalmente orientata del rapporto tra il cittadino e la Pubblica Amministrazione.
In passato, al contrario, imperava il dogma dell’inesauribilità del potere amministrativo, in base al quale l’amministrazione poteva agire senza limiti temporali per il perseguimento dell’interesse pubblico. Si riteneva che l’inesauribilità del potere attribuito alla PA fosse un corollario del principio di buon andamento ex art. 97 cost. e che, pertanto, fosse giustificato dal carattere superindividuale degli interessi perseguiti dalla Pubblica Amministrazione. Del resto, prima della legge sul procedimento amministrativo, in mancanza di norme ad hoc era difficile individuare un parametro oggettivo per valutare la tardività o meno dell’esercizio del potere.
È con la legge n. 241/1990 che la situazione muta radicalmente. La citata legge sul procedimento amministrativo stravolge completamente l’assetto previgente e configura un nuovo modello di azione amministrativa, fondata sui principi di trasparenza, partecipazione e, più in generale, ispirata al principio del giusto procedimento nel quale l’interesse del cittadino assume una diversa rilevanza rispetto al passato e la PA deve tenerne conto, garantendo al suo titolare una partecipazione piena al procedimento amministrativo.
L’attività amministrativa, dunque, non è più imposta al cittadino-suddito, in posizione di subordinazione gerarchica. Al contrario, il rapporto procedimentale diviene il vero fulcro dell’agere amministrativo, un luogo democratico dove entrano in contatto soggetti portatori di interessi differenti e spesso antitetici, grazie all’istituto della partecipazione e al rispetto del principio del contraddittorio disciplinati dalla legge sul procedimento n.241/90.
Il nuovo volto dell’azione amministrativa si è tradotto anche nella diversa valutazione del bene “tempo”. Non è un caso, infatti, che l’art. 2 L. 241/90 abbia introdotto la doverosità dell’azione amministrativa, prevedendo un termine massimo entro il quale la PA debba provvedere, la cui violazione può comportare la responsabilità della PA con conseguente obbligo di risarcire il cittadino per il c.d. danno da ritardo. Ai sensi dell’art. 2-bis, co. 1, l. 241/90, infatti, “Le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.”[1]
Orbene, è possibile affermare che si è assistito ad un vero e proprio cambiamento di prospettiva e si è passati da un potere inesauribile e strumentale all’interesse pubblico ad un potere che, invece, è consumabile e legato ai principi di certezza temporale, per di più strumentale all’interesse del privato.
La progressiva importanza e autonomia acquisita dal bene tempo è derivata anche dagli influssi provenienti dal diritto sovranazionale ed in particolare dall’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, ai sensi del quale “Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione”.
Tuttavia, anche a livello costituzionale vi è un espresso riconoscimento della rilevanza del fattore temporale nell’agere pubblico laddove, ai sensi dell’art. 117, com. 2, lett. m della Costituzione, la tempestività dell’azione amministrativa viene ricondotta ai livelli minimi essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
2. La nuova prospettiva dell’azione amministrativa
Il fattore tempo, dunque, nella nuova visione prospettica del potere amministrativo assume un ruolo centrale nell’attuale diritto amministrativo e si connette direttamente ai principi fondamentali della costituzione.
La sua rilevanza anche per la vita e l’attività dei cittadini era già stata individuata da un parere dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato in un parere del 1991, n. 141, nel quale si evidenziava come la lunghezza dei tempi amministrativi costituisce certamente un costo che incide direttamente sulla libertà di iniziativa privata ai sensi dell’art. 41 cost. Anche più di recente, con l’arresto n. 5 del 2018 l’Adunanza Plenaria ha rilevato come “il ritardo nell’adozione del provvedimento genera una situazione di incertezza in capo al privato e può, dunque, indurlo a scelte negoziali (a loro volta fonte di perdite patrimoniali o mancati guadagni) che non avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto, con l’adozione del provvedimento nel termine previsto, la risposta dell’amministrazione”.[2]
Nel medesimo contesto storico, accanto alla rivoluzione derivante dalla legge sul procedimento amministrativo, la rilevanza del fattore temporale comporta ulteriori innovazioni anche in settori diversi dal diritto amministrativo. Il riferimento è alla riforma del reato di omissione di atti d’ufficio ex art. 328 c.p., nel quale viene punita l’omissione del pubblico ufficiale e la mancata esposizione delle ragioni del ritardo nel compimento dell’atto oltre il trentesimo giorno dalla richiesta.
Sempre nei primi anni 90’, il d.lgs. 29/1993 con riferimento al lavoro dipendente dalla pubblica amministrazione ha espressamente previsto il potere sostitutivo dei dirigenti generali in caso di inerzia dei dirigenti e responsabili dei procedimenti amministrativi.
Con la celebre sentenza della Cassazione n. 500/1999 si è data la stura alla risarcibilità dell’interesse legittimo riconoscendosi la sussistenza di un danno da ritardo che, talvolta, si configura anche per il solo fatto di non aver osservato il termine previsto ed a prescindere dal giudizio di spettanza del bene della vita.
La crescente esigenza di apprestare rimedi efficaci verso l’inerzia della PA ha costituito il movente di alcuni interventi legislativi degli ultimi anni. In particolare, si deve citare la legge 80/2005 che ha esteso il silenzio-assenso generalizzandolo a tutti i procedimenti amministrativi ad istanza di parte.
Nel 2009, la legge n. 69 ha espressamente previsto la risarcibilità del danno da mero ritardo derivante dall’osservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento a prescindere della spettanza del bene della vita. Azione risarcitoria che oggi è disciplinata dal codice del processo amministrativo all’art. 30, comma 4.
Ancora, il d.l. 5 del 2012 ha introdotto ulteriori strumenti volti a garantire la doverosa tempestività della risposta amministrativa. Si è previsto, in particolare, un meccanismo sostitutivo in caso di inerzia della PA che si sostanzia nella possibilità, per il privato, qualora l’amministrazione non si sia pronunciata entro il termine previsto, di rivolgersi ad un soggetto apicale dell’amministrazione, affinché questi emani il provvedimento entro un termine pari alla metà di quello originariamente previsto.[3]
La nuova rilevanza del fattore temporale è un precipitato del nuovo volto assegnato al procedimento amministrativo, quale luogo nel quale l’interesse della pubblica amministrazione si incontra con l’interesse del privato, il quale viene coinvolto e diventa un protagonista che partecipa alla decisione che lo riguarda in maniera consapevole.
È il c.d. principio del giusto procedimento, ovverosia la necessità di anticipare in sede procedimentale gli istituti e le garanzie tipiche della fase processuale. Nonostante l’analogia con il giusto processo, appaiono evidenti le differenze con il procedimento. Il principale tratto distintivo riguarda il contraddittorio, ma non solo. La diversità di funzione di quest’ultimo nei due ambiti comporta che la sovrapposizione non possa essere piena.
Il contraddittorio, infatti, mentre nel processo ha una funzione di garanzia del diritto di difesa, mentre nel procedimento è finalizzato a favorire la partecipazione al fine di rappresentare l’interesse del privato. Per tali ragioni non è possibile affermare che il contraddittorio nel giusto processo sia il medesimo di quello procedimentale.
Nel contesto processuale, il contraddittorio è orizzontale e paritario in quanto avviene tra due parti che si collocano su un medesimo piano dinnanzi ad un terzo che decide in maniera imparziale, ed al partecipe viene riconosciuto il diritto di interloquire in ogni fase del processo al fine di consentirgli la difesa.
Nel procedimento amministrativo la situazione è diversa. Il rapporto tra le parti che dibattono non è paritario, perché la PA in questa sede si pone quale soggetto forte rispetto al privato, titolare del potere di decidere anche unilateralmente. Inoltre, la funzione, come detto, è quella di garantire una piena partecipazione al privato, non di difendersi. Si può dire che il principio del giusto procedimento assicuri un contraddittorio “verticale” tra parti collocate in posizioni non paritarie.
Dunque, è in questo contesto che deve leggersi la rinnovata valorizzazione del fattore temporale nel contesto dell’azione amministrativa.
3. Semplificazione e liberalizzazione
Coerenti con il nuovo spirito dell’azione amministrativa e strettamente connessi alla riduzione dei tempi amministrativi sono i concetti di semplificazione e liberalizzazione.
Per semplificazione deve intendersi quel concetto che racchiude la volontà di snellimento dell’attività amministrativa e di riduzione degli adempimenti incombenti sui cittadini in un’ottica strumentale alla funzionalità ed economicità dell’agere pubblico.
Con riferimento al procedimento amministrativo, la semplificazione ha comportato l’introduzione di norme volte alla semplificazione dei procedimenti a carattere autorizzatorio, mirando all’eliminazione della necessità di un provvedimento espresso.
Trattasi di una tendenza che sta alla base del meccanismo del silenzio assenso, orizzontale e verticale, degli accori tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 l. 241/90 ed anche rispetto alla conferenza dei servizi. Tutti istituti ispirati dall’intento semplificatorio e, di conseguenza, acceleratorio.
Tale concetto, tuttavia, dev’essere tenuto distinto da quello di liberalizzazione. Nonostante entrambi siano rivolti alle stesse finalità, vi sono differenze sostanziali che è utile evidenziare. La semplificazione, infatti, riduce gli adempimenti procedurali ma senza eliminare la necessità che si perfezioni un iter procedimentale. Al contrario, la liberalizzazione invece costituisce un concetto che presuppone la non necessarietà di un titolo abilitativo e che l’attività possa essere comunque esercitata anche senza una presa di posizione della PA.
La liberalizzazione è ispirata al principio di sussidiarietà orizzontale, secondo cui lo Stato, ove non necessario, deve ritirarsi consentendo la libera iniziativa dei privati. Ciò ricorre nelle ipotesi in cui l’iniziativa privata è legittimata direttamente dalla legge, senza la necessità di una intermediazione dell’organo amministrativo.
È possibile operare una distinzione tra una liberalizzazione assoluta e parziale. Nella liberalizzazione assoluta, la vicenda fattuale trova l’intera disciplina nella legge e l’amministrazione non ha alcun potere di intervento. Diversamente, la liberalizzazione è parziale quando la PA è in grado di intervenire solo successivamente, esercitando un mero controllo sull’attività avviata.
A ben vedere, un fenomeno di liberalizzazione parziale è la SCIA. Essa, non costituisce un provvedimento amministrativo, ma è un atto privato volto a comunicare alla PA l’intenzione ad intraprendere un’attività. Sul punto è stata chiara l’Adunanza Plenaria, che nel suo arresto del 2011 n. 5 ha chiaramente affermato che
“L'iscrizione dell'art. 19 della legge n. 241/1990 in una logica di liberalizzazione impedisce anche di dare ingresso alla tesi secondo cui, pur dovendosi escludere che per effetto del silenzio dell'amministrazione si formi uno specifico ed autonomo provvedimento di assenso, sarebbe la denuncia stessa a trasformarsi da atto privato in titolo idoneo ad abilitare sul piano formale lo svolgimento dell'attività. Secondo questo approccio ricostruttivo, cioè, la norma prefigurerebbe una fattispecie a formazione progressiva per effetto della quale, in presenza di tutti gli elementi costitutivi, verrebbe a formarsi un titolo costitutivo che non proviene dall'amministrazione ma trae origine direttamente dalla legge. Tali elementi sarebbero la denuncia presentata dal privato, accompagnata dalla prescritta documentazione, il decorso del termine fissato dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio ed il silenzio mantenuto dall'amministrazione in tale periodo di tempo.
Nella concomitanza di questi tre elementi, sarebbe, dunque, la legge stessa a conferire alla denuncia del privato la natura di "titolo" abilitante all'avvio delle attività in essa contemplate, senza bisogno di ulteriori intermediazioni provvedimentali, esplicite od implicite, dell'amministrazione. Ritiene il Collegio che anche tale tesi sia incompatibile con il rammentato assetto legislativo che rinviene il fondamento giuridico diretto dell'attività privata nella legge e non in un apposito titolo costitutivo, sia esso rappresentato dall'intervento dell'amministrazione o dalla denuncia stessa come atto di autoamministrazione integrante esercizio privato di pubbliche funzioni (cd. "d.i.a. vestita in forma amministrativa").
Del resto, la sussistenza di un potere inibitorio, qualitativamente diverso e cronologicamente anteriore al potere di autotutela, è incompatibile con ogni valenza provvedimentale della d.i.a. in quanto detto potere non potrebbe certo essere esercitato in presenza di un atto amministrativo se non previa la sua rimozione. Il riconoscimento di un potere amministrativo di divieto, da esercitare a valle della presentazione della d.i.a. e senza necessità della rimozione di quest'ultima secondo la logica del contrarius actus, dimostra, in definitiva, l'insussistenza di un atto di esercizio privato del potere amministrativo e l'adesione ad un modello di liberalizzazione temperata che sostituisce l'assenso preventivo con il controllo successivo”.
In tal caso la legge autorizza il privato ad avviare l’attività senza che sia necessario attendere un responso da parte dell’amministrazione. Quest’ultima, tuttalpiù, avrà la possibilità di intervenire ex post dopo aver rilevato qualche irregolarità. In tal modo si impedisce che le attività private rimangano paralizzate dall’attesa di un responso da parte dell’organo amministrativo.[4]
In conclusione, appare evidente come la “causa” di tutti questi interventi normativi sia quella di rendere l’attività amministrativa fluida ed efficiente il che passa prevalentemente nella necessaria tempestività della risposta pubblica. La certezza temporale diviene lo strumento per impedire la paralisi del sistema, e ciò è possibile solamente facendo perdere alla PA il suo potere di intervento una volta scaduti i termini dell’azione.[5]
4. L’inerzia della pubblica amministrazione: cenni sistematici
L’inerzia costituisce un concetto complesso da inquadrare nel mondo del diritto, che da sempre è stato al centro di diverse interpretazioni. Trattasi di un concetto trattato per la prima volto nel diritto romano, nel quale gli veniva attribuito un valore neutro mediante l’affermazione “chi tace non dice alcunché, non dice il vero, né nega il vero” e quindi un valore equivalente all’inerzia in senso stretto.
Nel Codice civile, invece, alcune norme attribuiscono al mero silenzio un significato. È il caso del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ai sensi dell’art. 1333 c.c. In giurisprudenza, si è ritenuto che il silenzio, ove circostanziato, possa essere fonte di responsabilità precontrattuale o contrattuale. Il silenzio è definibile circostanziato quando, ad esempio, un soggetto taccia alcune circostanze che aveva il dovere di palesare.
Anche nel diritto penale l’inerzia assume una propria rilevanza. In particolare, nella materia penale il silenzio può rilevare in quanto espressione di un comportamento colpevole, come nei casi di reati omissivi propri e impropri, ovvero quale modalità di attuazione della condotta delittuosa. In particolare, da tempo si ritiene che il delitto di truffa ai sensi dell’art. 640 c.p. possa configurarsi anche mediante un comportamento inerte qualora il silenzio sia idoneo a truffare la vittima.[6]
Ciò premesso, occorre valutare come il silenzio possa rilevare anche quando sia posto in essere da una pubblica amministrazione ed in particolare quale sia la reazione del legislatore dinnanzi ad una PA inerte.
In tal caso, a ben vedere, si è dinnanzi all’ipotesi maggiormente problematica per il titolare dell’interesse pretensivo, in quanto l’inerzia è maggiormente lesiva del dinego espresso. Mentre quest’ultimo, infatti, è immediatamente impugnabile, la mancata risposta dell’amministrazione non attribuisce nessun rimedio al privato in quanto non esiste nessun da impugnare.[7]
Per tali ragioni il Legislatore, dinnanzi al silenzio della PA, reagisce in due modi: tramite una tutela successiva, oppure mediante una tutela preventiva. Nel primo caso, attraverso i rimedi previsti dagli artt. 31 e 117 c.p.c. per il silenzio non significativo; nel secondo, invece, attribuendo in via anticipata un significato di assenso o di rigetto all’eventuale inerzia da parte della PA.
Si parla, in tal caso, di silenzio con valore provvedimentale in quanto lo spirare del termine stabilito comporterà automaticamente la produzione degli effetti giuridici propri del provvedimento che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare. Appare evidente, tuttavia, che un simile meccanismo possa comportare quale effetto collaterale la compressione dei principi di motivazione, trasparenza e buon andamento che, per definizione, richiederebbero una chiara esplicazione delle ragioni di fatto e di diritto sottese alla decisione. Non è un caso, infatti, che le ipotesi nel quale all’inerzia venga dato il significato di rigetto siano recessive e che, al contrario, siano “in espansione” le ipotesi di silenzio-assenso.
Occorre rilevare quanto sostenuto da un parere reso dal Consiglio di Stato, nel quale si è evidenziato come il silenzio-assenso, che ora è stato generalizzato anche nei rapporti orizzontali tra pubbliche amministrazioni, non comporti una sorta di accettazione da parte del Legislatore dell’inerzia amministrativa. Al contrario, il silenzio-assenso cela una contrarietà di fondo del legislatore che stigmatizza l’inerzia amministrativa al punto tale da ricollegare al silenzio la “sanzione” del silenzio-assenso, che altro non è che la perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.[8]
5. Le conseguenze dell’esercizio tardivo
Nel nuovo quadro appena delineato, occorre verificare quali siano le conseguenze dell’esercizio tardivo del potere da parte della pubblica amministrazione. I dubbi derivano dal fatto che la violazione del termine da parte della PA legittima il privato ad agire per la tutela del proprio interesse, ma ci si chiede se ciò comporta o meno la consumazione del potere amministrativo. Sul punto, poiché le ipotesi di termini perentori previste dalla l. 241/90 sono eccezionali, si ritiene che di norma non vi sia una consumazione del potere, ma sul punto non vi è concordia e gli orientamenti sono due.
6. L’orientamento prevalente
La tesi prevalente esclude che la violazione del bene-tempo comporti, di per sé, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, se non la consumazione radicale del potere. L’amministrazione in tal caso sarebbe esposta ad obblighi risarcitori, ma non andrebbe incontro ad invalidità e inefficacia del provvedimento. Si avrebbe, in sostanza, una scissione tra le norme sull’atto, che in tal caso non sarebbero trasgredite, e le norme sul comportamento la cui violazione sarebbe presidiata da regole di responsabilità. Dunque, tale orientamento salvaguarda il provvedimento amministrativo anche se tardivo, soprattutto nelle ipotesi nelle quali quest’ultimo sia favorevole al cittadino. Ciò perché, in caso contrario, si realizzerebbe una situazione paradossale nella quale il privato verrebbe danneggiato sia dal ritardo che dalla preclusione del bene stesso. Per quanto concerne i poteri incidenti su interessi oppositivi, la giurisprudenza ha ritenuto che i termini previsti per la conclusione del procedimento siano da considerare ordinatori, salvo le ipotesi in cui la decadenza sia espressamente comminata.[9]
A sostegno di tale orientamento che ritiene legittimo il provvedimento restrittivo della sfera giuridica del privato anche se tardivo, si fonda anche sulla ritenuta applicabilità del secondo comma dell’art. 152 c.p.c. ai sensi del quale “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”. In sostanza, si ritiene che la lesione della certezza del rapporto amministrativo sia analoga sia quando l’utilità sostanziale del provvedimento sia conservativa di un bene, sia quando riguardi l’acquisizione di un nuovo valore.
Coerente con tale indirizzo anche una pronuncia della Consulta del 2002 la quale, con la sentenza n. 355, ha affermato il principio per cui la mancata osservanza del termine per emanare il provvedimento amministrativo non comporti la decadenza del potere, ma connoti di illegittimità il comportamento della pubblica amministrazione. In sostanza, si adotta quella distinzione di matrice civilistica tra regola di validità e regole di comportamento che comportano, rispettivamente, l’invalidità dell’atto nel primo caso e la responsabilità nel secondo.
Ne deriva che, secondo l’indirizzo descritto, la violazione del diritto alla ragionevole durata del procedimento non produce l’estinzione del potere o l’invalidità della decisione.[10] Ne deriva, dunque, che le ipotesi nelle quali i termini siano perentori, con conseguente decadenza del potere di provvedere, sono da ritenersi eccezionali.[11]
7. Il contrapposto orientamento
Esiste anche un indirizzo dottrinale allo stato minoritario[12] secondo il quale, alla luce del recente sviluppo e della rinnovata centralità della certezza temporale dell’agere pubblico, dovrebbe rivisitarsi il tradizionale orientamento che ritiene irrilevanza della violazione del termine anche nel caso di provvedimenti restrittivi, salvo ipotesi eccezionali. Si ritiene, invece, che anche in questi procedimenti la scadenza del termine dovrebbe comportare la consumazione del potere con la conseguente illegittimità del provvedimento tardivo.
L’indirizzo in commento ribatte anche agli argomenti utilizzati dalla tesi antipodica. In particolare, si dubita della correttezza dell’estensione dell’art. 152 c.p.c. a fattispecie di diritto sostanziale come quella dell’esercizio del potere amministrativo in quanto
“nell’ambito dei rapporti sostanziali, il termine ha funzione di delimitare nel tempo la situazione di incertezza e di sospensione nell’asseto delle relazioni giuridiche tra le parti, a tutela di un interesse pubblico o privato, dovuta al fatto che a un soggetto è attribuito il potere di incidere in modo unilaterale nella sfera giuridica altrui modificando così il confine tra le rispettive sfere giuridiche; oppure la funzione di adeguare lo stato di diritto ad uno stato di fatto allo scopo, anche qui, di segnare nuovi confini tra le sfere giuridiche dei soggetti del rapporto. In siffatto contesto non c’è spazio per i termini di tipo ordinatorio, intesi come termini il cui decorso non comporta l’estinzione del potere”.[13]
In secondo luogo, la soluzione seguita dalla tesi maggioritaria sottovaluta la portata innovativa della legge sul procedimento amministrativo del 1990. La certezza temporale, infatti, deve accompagnarsi a quella della sanzione, perché in caso contrario verrebbe meno l’effettività della previsione legislativa e la garanzia per il cittadino.
Più in particolare, si osserva che un sistema come quello delineato dalla tesi avversa poteva essere plausibile nel sistema previgente alla legge 241/90, nel quale il tempo dell’agere pubblico era rimesso alla scelta discrezionale della PA. Ragion per cui, in tale assetto era giustificabile il principio secondo cui i termini sono sempre ordinatori salvo i casi, eccezionali, nei quali la legge vi attribuisca natura perentoria.
Nel sistema attuale, tuttavia, la situazione appare opposta. Se la tempestività dell’azione amministrativa è divenuta un principio generale di copertura costituzionale e sovranazionale, il ragionamento deve essere inverso: i termini devono ritenersi perentori, salvo che vi sia una espressa previsione di legge che ne attribuisca una natura ordinatoria.[14]
Ne deriva che in quest’ottica l’atto emanato fuori termine è nullo per carenza sopravvenuta di potere. Il potere sorge e può essere esercitato allorché ricorrano tutti i requisiti necessari previsti dalla legge ma sempre a condizione che il termine non sia scaduto. La scadenza del termine costituisce un fatto impeditivo o preclusivo dell’esercizio del potere.
8. Le ipotesi di consumazione del potere
Dunque, l’art.2 della L.241/90 ha canonizzato il principio di doverosità dell’esercizio del potere amministrativo e della certezza dei tempi dell’azione amministrativa. Ragion per cui, il silenzio serbato dalla PA costituisce un comportamento violativo dell’art. 97 Cost., perché contrario al principio di buon andamento in combinato disposto con l’art.2 citato.
Del resto, il tempo è ormai considerato un bene della vita e come tale pienamente tutelato. Il tempo dell’azione amministrativa rappresenta una parentesi all’interno della quale la potestà amministrativa spiega efficacia attrattiva sulla sfera giuridica dell’amministrato.
Ne deriva che il tempo consuma il potere della pubblica amministrazione, il quale non è più eterno. Le modalità, prima del decreto semplificazioni del 2020, tramite le quali la PA consumava il potere erano tendenzialmente due: la scadenza del termine perentorio ed il c.d. one shot temperato di creazione giurisprudenziale.
Con riferimento alla prima ipotesi, l’art. 2 L. 241/90 coerentemente con la doverosità dell’azione amministrativa prevede che il procedimento iniziato su istanza di parte termini con un provvedimento espresso entro 30 giorni, con la possibilità di superare detto limite nelle ipotesi in cui ciò sia indispensabile ma mai oltre i 180 giorni.
Per quanto concerne l’ipotesi di consumazione del potere di creazione pretoria, il c.d. one shot temperato si manifesta in seguito al giudicato di annullamento di un provvedimento amministrativo di riesame; in tal caso la PA potrà, alla luce del suo ampio potere discrezionale, riesercitare il proprio potere, ma a condizione che sollevi, una volta per tutte, ogni questione ritenuta rilevante, perdendo in tal modo la possibilità di tornare a decidere in seguito in maniera sfavorevole per il privato. Ciò in quanto, solitamente, il giudicato non preclude una riedizione del potere amministrativo, o meglio lo preclude limitatamente al decisum; ma qualora la PA, nella sua discrezionalità, ritenesse di doversi pronunciare nuovamente rigettando la richiesta del privato ma per motivi differenti rispetto a quanto statuito dal giudice, sarebbe libera di farlo. Inoltre, detta consumazione del potere avrà un’efficacia endoprocedimentale e solo per quel procedimento specifico, potendo successivamente indirne uno diverso.[15]
Dunque, solamente nell’ipotesi in cui dal giudicato derivi un obbligo così puntuale tale da non lasciare alcun margine di discrezionalità alla PA in sede di riedizione del potere, l’adozione di un provvedimento contrario a tale obbligo sarà passibile di ottemperanza; ma in caso contrario, ove dovessero residuare dei margini, gli eventuali atti adottati saranno soggetti all’ordinario regime di impugnazione.
Tale impostazione è ormai pacifica nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e non solo, di recente infatti è stato il TAR di Firenze a ribadirlo in un arresto del 2021 in base al quale
“in termini generali e con riferimento alla problematica della rinnovazione delle operazioni dopo un primo annullamento giurisdizionale, la Sezione aderisce all'orientamento giurisprudenziale che ha affermato il principio del cd. one shot temperato “secondo il quale l'Amministrazione, dopo aver subito l'annullamento di un proprio atto, può rinnovarlo una sola volta, e quindi deve riesaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, senza potere in seguito tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati (in tal senso Cons. Stato, sez. III, sentenze nn. 660 del 2017 e 5087 del 2017)” (T.A.R. Toscana, sez. III, 2 febbraio 2018, n. 183; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 8 ottobre 2019, n. 11596; sostanzialmente nello stesso senso, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321)”.
Pertanto, in linea teorica, il privato correrebbe il rischio, alla luce dell’inesauribilità del potere amministrativo, di una riedizione perpetua del potere da parte della PA. È questa la ragione che sta alla base dell’ipotesi di consumazione del potere di cui trattasi.[16]
9. Il caso della nomina del commissario ad acta
Un’ulteriore rilevante, e molto dibattuta, questione attiene alla permanenza o meno del potere in capo alla PA nelle ipotesi in cui il giudice abbia nominato un commissario ad acta.
La questione, oggetto di una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria che verrà meglio approfondita più avanti, deriva dal vivace dibattito avutosi in dottrina in relazione all’asserita consumazione del potere amministrativo. In sostanza, secondo alcuni in tal caso vi sarebbe un’altra ipotesi di consumazione del potere.
La problematica appena delineata si intreccia inesorabilmente con l’ulteriore questione attinente alla natura giuridica del commissario ed in particolare se qualificarlo alla stregua di un ausiliario del giudice ovvero dell’amministrazione. A tal proposito, le opinioni emerse sono tendenzialmente tre e concepiscono in maniera diversa la relazione intercorrente tra il commissario e l’ammirazione che questi andrà a surrogare. Una prima tesi sostiene che, poiché gli atti amministrativi adottati dal commissario impegnino l’amministrazione verso l’esterno, ciò induce a ritenere che il commissario costituisca un organo straordinario dell’amministrazione e che svolga attività oggettivamente e soggettivamente amministrativa.[17] Da ciò deriverebbe la possibilità per la PA surrogata di annullare gli atti del commissario in sede di autotutela.
Un diverso orientamento, valorizzando la fonte giudiziale della nomina del commissario, ritiene che egli sia un ausiliario del giudice. Il suo mandato istituzionale sarebbe rinvenibile nel dare esecuzione ad una sentenza. Trattasi di una teste autorevolmente sostenuta in dottrina[18] ed avallata anche dalla giurisprudenza della Plenaria[19] e della Consulta[20]. Aderendo a tale ricostruzione ne consegue che le doglianze relative ai provvedimenti posti in essere dal commissario appartengano alla competenza del giudice che lo ha nominato.
A metà strada tre i due orientamenti esposti, vi è chi ritiene che le due tesi siano entrambe attendibili ma occorre distinguere le ipotesi in concreto nel quale il commissario operi. In altri termini, qualora il commissario venga incaricato di operare a fronte di un’attività vincolata, egli sarebbe qualificabile quale ausiliario del giudice; quando, invece, l’attività da dover svolgere abbia un carattere discrezionale egli dovrà ritenersi un organo straordinario del giudice.[21]
La scelta fatta dal codice del processo amministrativo sembra avallare la tesi che qualifica il commissario alla stregua di un ausiliario del giudice. Ai sensi dell’art. 21 c.p.a. infatti “Nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta. Si applica l’art. 20, comma 2”.
Ciò premesso in merito alla natura giuridica, particolare rilievo assume la sorte del potere amministrativo a seguito della nomina del commissario. Diverse le tesi al riguardo. Una prima linea di pensiero ritiene che una volta proposto ricorso in ottemperanza o scaduto il termine assegnato dal giudice alla PA per adempiere, quest’ultima perdesse il potere di adottare un proprio provvedimento. A parere di altri la perdita del potere conseguiva solamente alla nomina del commissario, mentre prima di tale momento il potere non poteva ancora considerarsi consumato. Ulteriore tesi, sosteneva che non vi fosse un dies a quo categorico oltre il quale l’amministrazione non possa più adeguarsi ai dictat giudiziali.
Ed ecco che, allora, il perno attorno al quale ruota la soluzione è sempre quello relativo alla natura del termine contenuto nella statuizione giudiziale. In linea generale, qualora detto termine lo si interpretasse come ordinatorio, non potrebbe sostenersi un’avvenuta una consumazione del potere, cosa invece ammissibile solo in caso di perentoreità del termine. In tal senso si era orientata parte della giurisprudenza, la quale riteneva che la decorrenza del termine comportasse il trasferimento del potere di provvedere in capo al giudice dell’ottemperanza che lo eseguiva per mezzo del commissario ad acta.[22]
Una diversa tesi, avallata da due pronunce del consiglio di stato nel 2014[23], ha sostenuto la nullità dell’eventuale atto adottato dalla PA dopo l’insediamento del commissario per carenza di potere. Di contro, sempre il Consiglio di Stato in diverse pronunce aveva ritenuto che, nonostante vi fosse una decadenza della potestà degli organi ordinari, gli eventuali provvedimenti della PA, sebbene intervenuti dopo la scadenza de termine, non potessero ritenersi nulli.
Indirizzo giurisprudenziale salutato con favore da parte della dottrina[24] secondo la quale la competenza ed il potere attribuito al commissario non potrebbe ritenersi concorrente con quella della PA, in quanto ad essa il potere era conferito dalla legge e pertanto non poteva venir meno nemmeno con l’insediamento del commissario.
In questo contesto si inserisce il recente arresto della Plenaria del 2021 che, in risposta al quesito propostole[25], sembra aver dato soluzione al dibattito appena descritto e sembra aver accolto l’orientamento da ultimo riportato. Ma l’analisi del recente arresto lo si approfondirà analiticamente nel prosieguo. Per quel che ci interessa in questa sede, anche la nomina del commissario ad acta è stata ricompresa, a parere di parte della dottrina, tra le ipotesi di consumazione del potere amministrativo.
10. Il decreto semplificazioni del 2020
Con il recente intervento legislativo le ipotesi di consumazione del potere amministrativo sono aumentate. In particolare, il riferimento è al recente D.L. 76/2020 che ha introdotto all’art. 2 della l. 241/90 il comma 8-bis che prevede la sanzione dell’inefficacia.
La norma, introducendo l’inefficacia dell’atto tardivo, incentiva il rispetto dei termini procedimentali e conferma il trend volto ad assegnare una rilevanza sempre maggiore al bene tempo nell’esercizio del potere amministrativo. Gli atti che soggiacciono a tale inefficacia sono: le autorizzazioni, i pareri, i nulla-osta e gli altri atti di assenso adottati dopo la scadenza dei termini relativi alla conferenza dei servizi, ai rapporti tra le pubbliche amministrazioni, al silenzio-assenso e alla scia.
In mancanza di una categoria generale, la prevista inefficacia ha dato adito a diverse linee interpretative in relazione alla sua natura giuridica.
Un primo orientamento ritiene che la norma abbia previsto un’ipotesi di inefficacia – nullità. In particolare, poiché tra le diverse ipotesi tassative di nullità previste dalla legge sul provvedimento amministrativo vi è la carenza di potere, si osserva come tale situazione sembrerebbe quella maggiormente aderente al caso in esame. Infatti, l’atto adottato in seguito al decorso del termine per provvedere sarebbe adottato in totale assenza di potere e quindi nullo. Tesi criticata perché ritenendo tale inefficacia alla stregua di una nullità per carenza di potere, renderebbe applicabile tale sanzione a tutte le ipotesi di esercizio tardivo del potere e quindi oltre a quelle espressamente previste dalla norma.
Un diverso orientamento ritiene che il Legislatore abbia previsto l’inefficacia come sanzione della tardività e quindi senza nessuna nullità. Trattasi di una soluzione che comporta diverse conseguenze pratiche per quel che concerne la tutela del privato che sia stato pregiudicato dall’atto tardivo. Accogliendo questa tesi, infatti, egli non potendo agire tramite l’azione di nullità, sarà costretto ad agire solamente con l’azione di accertamento.[26] In ogni caso la norma, dopo aver previsto l’inefficacia, fa salvo il potere di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. 241/90 ove ne ricorrano i requisiti. La prevista possibilità per la PA di poter tornare sulla propria decisione, anche se solo in via di autotutela, sembrerebbe far pensare che non vi sia una carenza del potere e che, pertanto, in questa ipotesi il potere amministrativo non sia stato consumato anche se con i limiti stringenti previsti per l’adozione degli atti in autotutela.
La categoria dell’inefficacia del provvedimento a seguito della scadenza dei termini è stata estesa anche al provvedimento adottato dopo la formazione del silenzio-assenso.
Sul punto va chiarito come prima dell’intervento legislativo ci si interrogava su quale fosse la sorte del provvedimento adottato a seguito del silenzio-assenso. Le tesi erano sostanzialmente due: una ne sosteneva l’annullabilità, in quando il silenzio-assenso non comporta una assoluta consumazione del potere in quanto la PA potrebbe sempre agire anche se solo in autotutela. Per tali ragioni si riteneva che, poiché non vi era una nullità testuale a tal proposito e poiché il silenzio-assenso non consumava il potere della PA, il provvedimento doveva considerarsi annullabile.
Tale soluzione, però, comportava delle complicazioni per il privato. Egli, infatti, dinnanzi all’annullabilità si vedeva costretto ad impugnare il provvedimento, con conseguente sacrificio della ratio semplificatoria che governa l’istituto del silenzio. Ragion per cui è per tali motivi che il Legislatore è intervenuto sull’art. 20 della L. 241/90 prevedendo, in tal caso, l’inefficacia del provvedimento. Tramite l’inefficacia, nonostante costituisca una categoria dibattuta, il legislatore ha voluto evitare al privato l’onere di impugnare l’atto amministrativo annullabile.
Inoltre, l’art. 8-bis ha inciso anche sulla SCIA prevedendo che la pubblica amministrazione non possa più intervenire allo spirare dei termini previsti, di sessanta o trenta giorni in ambito edilizio, pena l’inefficacia dei provvedimenti inibitori e ripristinatori adottati. Con il decorso del termine, dunque, la PA consuma il proprio potere con la possibilità per la parte di rimanere lesa dai provvedimenti. Anche il terzo potrebbe ricevere un pregiudizio, perché il suo interesse legittimo sarebbe protetto solo occasionalmente e non in modo autonomo. Questi, potrebbe solamente chiedere alla PA il risarcimento del danno derivante da omesse verifiche e al denunciante il ristoro per i pregiudizi conseguenti all’attività posta in essere contra jus.[27]
Come detto, un’altra ipotesi dibattuta di consumazione o meno del potere inerisce al suo rapporto con il giudicato. A tal proposito, sembrerebbe che nemmeno il giudicato sia idoneo a consumare il potere amministrativo; in particolare, la res iudicata preclude solamente l’adozione di un provvedimento analogo, ma senza intaccare il potere amministrativo per aspetti che non siano già stati affrontati nel corso del giudizio. Un problema che si avverte in particolar modo nelle ipotesi nelle quali il potere attribuito alla PA sia discrezionale perché in tal caso il rischio è quello di una possibile riedizione del potere perpetua. Rischio evitato dalla giurisprudenza la quale ha adottato il principio del c.d. one shot temperato che consiste in una preclusione per la PA di addurre come motivazione del nuovo diniego dei motivi già desunti o desumibili nel corso del giudizio.
Detto rimedio a carattere giurisprudenziale ha certamente ispirato la novella del 2020 che nel nuovo art. 10-bis della l. 241/90 sembra aver adottato il medesimo principio, sebbene innovato, nel procedimento amministrativo al punto da parlarsi di one shot procedimentale secco. In sostanza, nei procedimenti ad istanza di parte, viene imposto all’amministrazione procedente di esternare tutte le possibili ipotesi di diniego che emergono dagli atti, trasformando le acquisizioni procedimentali in vincoli per l’agere amministrativo con conseguente consumazione del potere.[28]
L’intento è di evitare l’alternanza tra procedimento e processo qualora l’amministrazione, a seguito della sentenza di annullamento conseguente al mancato accoglimento delle osservazioni del privato ex art. 10-bis l. 241/1990, persista nel negare il bene della vita con motivazioni sempre differenti.
Per tali ragioni, la PA potrà riesercitare il potere ma non sulla base dei motivi che potevano emergere già dalla precedente istruttoria, perché in tal caso sarà responsabile per la violazione dell’effetto conformativa derivante da un potere ormai già consumato ed il privato potrà agire in ottemperanza.
Se, invece, le ragioni opposte non emergevano dagli atti o siano sopravvenute, il privato potrà impugnare il provvedimento per ottenerne l’annullamento dal giudice amministrativo.
Diverse le critiche. Si ritiene che in tal modo vi sia una iperprotezione dell’interesse legittimo al quale seguirà conseguirà un bene non perché spetti ma solamente a seguito di un potere che si è consumato. Ciò in ragione del fatto che, nel caso di consumazione del potere ex art. 10-bis il giudizio non sarà sulla spettanza del bene della vita, ma direttamente sulla sua attribuzione.[29]
11. L’Adunanza Plenaria del 2021
Sull’argomento è recentemente intervenuto il supremo consesso della giustizia amministrativa che, nel maggio del 2021, ha preso posizione sull’argomento. La questione, in particolare, riguardava la concorrenza dei poteri e se il commissario ad acta privasse la PA del potere di eseguire la sentenza.
Appare d’uopo ricordare che oggi il giudice della cognizione può annullare, condannare al rilascio del provvedimento dovuto, qualora non vi sia discrezionalità, e può anche indicare, quando annulla, le misure per l’attuazione del giudicato nonché nominare già da ora di un commissario ad acta con l’effetto dalla scadenza del termine per l’ottemperanza. Trattasi di una anticipazione concessa già in sede di cognizione e che mira a prevenire l’ottemperanza. Il commissario ad acta, dunque, può nominarsi in sede di cognizione, esecuzione di misure cautelari, in sede di ottemperanza, nel rito del silenzio.
Ciò premesso, la questione sulla quale la Plenaria interviene attiene all’annosa questione se il commissario, che per attuare il giudicato si sostituisce alla PA e può esercitarne i poteri per adeguare la realtà al dictum giudiziale, consumi il potere della PA.
A tal proposito, la Plenaria chiarisce in tal caso vi sia una concorrenza di poteri con il commissario, tale che finché questi non provveda l’amministrazione può provvedere. La ragione principale della mancata perdita del potere deriva dalla diversa natura di quest’ultimo, il quale differisce e nella sua genesi e nella sua funzione.
In particolare, per quanto concerne la genesi il potere della PA nasce dalla legge, mentre per il commissario ad acta la fonte è da rinvenirsi nella sentenza. Con riguardo alla funzione, il potere della PA è funzionale alla cura dell’interesse pubblico e, pertanto, è la legge che gli attribuisce tale potere; il commissario invece è investito dei poteri per attuare il giudicato e assicurare l’effettività della tutela. In tale ultimo caso, quindi, il potere è funzionale a ciò e non all’interesse pubblico.
Del resto, anche il contenuto del potere è delimitato dalla sentenza, che può anche essere molto ampio come in materia di silenzio; ciononostante, anche in questo caso genesi e funzione sono diverse.
Ma c’è di più. Anche la natura è diversa: il commissario è un ausiliario del giudice, è lo strumento tramite cui il giudice si sostituisce alla PA ed è eventuale; il giudice, infatti, potrebbe sostituirsi anche senza nominare il commissario.
È per tali ragioni che si giustifica la concorrenza del potere, in quanto la sopravvivenza del potere amministrativo deriva dal fatto che esso deriva per legge e per farlo venire meno serve una legge, coerentemente con il principio di legalità.
Inoltre, vi è l’esigenza di un corretto svolgimento dei rapporti di diritto pubblico perché la PA ha comunque il potere di adempiere a prescindere dalla nomina del commissario, anzi sarebbe preferibile che fosse lei ad adempiere. Dunque, non c’è motivo per il venir meno del potere e l’eventuale adempimento della PA dopo la nomina è valido.
Inoltre, appurato che il commissario è ausiliario del giudice, ciò implica che non è possibile una autotutela verso gli atti del commissario ad acta, perché tale diversità di poteri impedisce ciò. Questo giustifica anche i rimedi previsti per la PA qualora non le vadano bene gli atti del commissario; in tal caso la PA può fare l’incidente di esecuzione e chiedere che il giudice del silenzio, ottemperanza o quello cha ha nominato il commissario ne valutino la legittimità.
Il legislatore a tal fine, e ciò valorizza la tesi ausiliaria, prevede che gli atti del commissario si impugnino per le parti del giudizio tramite un incidente di esecuzione ex art 114 c.p.a., che fa riferimento anche alle questioni del provvedimento del commissario che lo qualifica come reclamo dinnanzi al giudice dell’ottemperanza. Solo i terzi estraneo al giudicato potranno impugnare gli atti con un normale ricorso, ma per le parti possono solo reclamare. Quindi reclamo e non autotutela.
Se la PA provvedesse il commissario non dovrebbe provvedere e se essa ha dubbi sull’adempimento della PA chiede chiarimenti al giudice. Una possibile esecuzione della PA post nomina potrebbe capitare che il commissario possa comunque adottare gli atti; in tal caso gli atti sono solo inefficaci e questa inefficacia può essere richiesta da chiunque ne abbia interesse (per rimuoverlo).
12. Considerazioni finali
Alla luce di quanto delineato, è possibile evidenziare come l’evoluzione del modo di concepire il rapporto tra P.A. e cittadino non solo ha condotto al riconoscimento di maggiori tutele processuali, ma ha anche modificato l’assetto di diritto sostanziale attraverso la previsione di sanzioni e limiti nei confronti della parte pubblica. Si tratta generalmente di sanzioni comportamentali che incidono sul piano della responsabilità; ma si è anche dato atto di quella più recente tendenza a riconoscere la sanzione, tipica dell’atto, della consumazione del potere, che si traduce in illegittimità del provvedimento, ed in particolare di annullabilità per violazione di termini decadenziali o, secondo altri, di nullità per difetto assoluto di attribuzione.
Non può non segnalarsi una proliferazione dei casi di consumazione del potere derivanti da presupposti diversi rispetto alla previsione di termini perentori: ci si riferisce ai casi di one shot temperato processuale, il c.d. di one shot procedimentale “secco” ex art. 10-bis l. n. 241/90, di attribuzione allo spirare del termine di un effetto legale tipico, che equipara il silenzio a provvedimento tacito e alle ipotesi di inefficacia di taluni provvedimenti tardivi ex art. 2, comma 8-bis l. n. 241/90. Al contempo, diverse sono le previsioni che stabiliscono esplicitamente termini perentori.
È in ragione di tali circostanze che, in linea teorica, potrebbe argomentarsi nel senso di un rovesciamento del rapporto tra la regola della non consumabilità del potere e l’eccezione della consumazione, nonostante la mancata espressa previsione della perentorietà.[30]
La giurisprudenza più recente sul punto, invece, appare ferma nel ritenere che il decorso del termine non comporti una consumazione del potere. In questi termini si è recentemente espresso il TAR di Catanzaro nella sentenza 1132 del giugno 2021 dove si è affermato che “Il ritardo nella conclusione del procedimento, salvo il suo assoggettamento a termine espressamente qualificato dalla legge come perentorio, non determina la consumazione del potere in capo all'Amministrazione procedente e non rende di per sé solo illegittimo il provvedimento tardivamente adottato.”
[1] Cfr. E. LIBERALI, Potere amministrativo, tempo e consumazione: riflessioni a margine di Cons. Stato, sez. VI - 19 gennaio 2021, n. 584, su riv. ildirittoamministrativo.it
[2] Cfr. Cons, Stato, Ad. Plenaria n. 5 del 2018.
[3] R. GIOVAGNOLI, manuale di diritto amministrativo, IV edizione, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano 2018.
[4] R. GIOVAGNOLI, op. cit.
[5] Cfr. M. SANTISE – F. ZUNICA, coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo, terza edizione 2017, Giappichelli Editore, Napoli 2017.
[6] Cfr. M. SANTISE – F. ZUNICA, op. cit.
[7] Cfr. A. PLAISANT, dal diritto civile al diritto amministrativo, terza edizione 2018, Forum Libri, Cagliari 2018.
[8] Cfr. Cons. Stato, parere 13 luglio 2016 n. 1640.
[9] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 9/1982; in senso analogo Consiglio di Stato, sez. IV, 30/1987
[10] Cfr. F. CARINGELLA, il nuovo volto dell’azione amministrativa, Roma 2017
[11] Alcune ipotesi di termini perentori, che possono derivare sia da una espressa previsione di legge che implicitamente dal sistema, sono le seguenti: quello fissato dall’art. 159 del d.lgs 42/2004 inerente al potere di annullamento statale dell’autorizzazione paesaggistica; quello previsto dall’art. 204, co. 1-bis d. lgs 285/92 per l’emanazione dell’ordinanza di ingiunzione da parte del Prefetto. Anche il potere di annullamento in autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. 241/90 deve considerarsi perentorio.
[12] Cfr. M. CLARICH, termine del procedimento amministrativo, Torino, 1995.
[13] Cfr. M. CLARICH, op. cit.
[14] Cfr. M. CLARICH, op. cit.
[15] Cfr. Cons. Stato, sentenza n. 144/2019, in motivazione: “In applicazione del principio del c.d. one shot temperato, per evitare che l'amministrazione possa riprovvedere per un numero infinito di volte ad ogni annullamento in sede giurisdizionale, è dovere della stessa pubblica amministrazione riesaminare una seconda volta l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione (per l'avvenire, e, in sostanza, per una terza volta) di tornare a decidere sfavorevolmente per il privato; tale principio costituisce il punto di equilibrio tra due opposte esigenze, quali la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi.” In senso analogo Consiglio di Stato sez. III, 14/02/2017, n.660: “In virtù del principio del “one shot temperato”, l’Amministrazione - a seguito dell’annullamento di un proprio atto - può rinnovarlo una sola volta, dovendo perciò riesaminare l’affare nella sua interezza e sollevando, una volta per tutte, ogni questione ritenuta rilevante, senza potere successivamente tornare a decidere in senso sfavorevole neppure in relazione a profili non ancora esaminati: tuttavia, detto principio non ha valore assoluto e, in particolare, non comporta che i fatti sopravvenuti non abbiano una rilevanza tale da escludere in radice la possibilità di attribuire al privato l’utilità sperata, all’esito di un eventuale nuovo e diverso iter, fondato su presupposti o modalità autonome.”
[16] Cfr. R. MANGINO, La tutela nel caso di consumazione del potere amministrativo, pubbl. su avvocatomangino.it il 13 aprile 2021.
[17] Cfr. F. Favara, Ottemperanza al giudicato e attribuzioni amministrative regionali, in Rassegna dell'Avvocatura dello Stato, 1977, p. 379
[18] M. Nigro, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1981, p. 1157;
[19] Ad. Pl. Cons. St., 14 luglio 1978, n. 23
[20] Corte cost. 12 maggio 1977, n. 75
[21]L. Mazzaroli, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Diritto processuale amministrativo, 1990, p. 226
[22] Cons, Stato n. 41/1995; TAR Sicilia n. 673/2006; TAR Campania n. 640/1980.
[23] Cons. Stato n. 5912/2014 e 1975/2014.
[24] Cfr. V. CAPUTI, Commissario, cit. pag. 291.
[25] Cfr. Cons. St., sez. IV, ord., 10 novembre 2020, n. 6925 che ha rimesso alla Plenaria la seguente questione ““Sono rimesse all’Adunanza plenaria le questioni se, nel giudizio proposto avverso il silenzio serbato dall’Amministrazione su una istanza del privato: a) la nomina del commissario ad acta, disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., oppure il suo insediamento comportino – per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio – la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza, e dunque se l’amministrazione possa provvedere ‘tardivamente’ rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad acta eserciti il potere conferitogli (e, nell’ipotesi affermativa, quale sia il regime giuridico dell’atto del commissario ad acta, che non abbia tenuto conto dell’atto ‘tardivo’ ed emani un atto con questo incoerente); b) per il caso in cui si ritenga che sussista – a partire da una certa data – esclusivamente il potere del commissario ad acta, quale sia il regime giuridico dell’atto emanato ‘tardivamente’ dall’Amministrazione”.
[26] Cfr. C. FURLAN, Il regime degli atti tardivi della pubblica amministrazione: sviluppi legislativi e giurisprudenziali, su riv. Diritto.it febbraio 2021.
[27] Cfr. R. MANGINO, op. cit.
[28] Cfr. C. FURLAN, op. cit.
[29] Cfr. R. MANGINO, op. cit.
[30] Cfr. E. LIBERALI, Potere amministrativo, tempo e consumazione: riflessioni a margine di Cons. Stato, sez. VI - 19 gennaio 2021, n. 584, su riv. ildirittoamministrativo.it