• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Dom, 4 Ott 2015

Il ruolo dello Stato Islamico secondo il Diritto Internazionale

Modifica pagina

Mirko Forti
Dottore di ricercaUniversità degli Studi di Genova


Il Califfato Islamico si è ormai imposto sullo scenario internazionale, affermandosi come uno dei principali attori con cui i vari Paesi, volenti o nolenti, devono confrontarsi. Si rivela quindi necessario analizzare come il diritto internazionale vigente consideri questa nuova entità politica, nonché quali poteri questa abbia. E´ altresi fondamentale evidenziare come, secondo l´ordinamento internazionale, gli Stati dovranno relazionarsi con questo nuovo organismo.


Il Califfato guidato da Abu Bakr Al-Baghdadi è ormai una presenza ineludibile nello scenario politico internazionale. Il suo ruolo nel Medio Oriente ha enormemente influenzato l'azione degli altri Paesi; si rende quindi necessario comprende se tale nuovo organismo può essere riconosciuto dal diritto internazionale e secondo quali modalità. Il suddetto quesito è imprescindibile per capire con quali modalità gli altri Paesi potranno relazionarsi con lo Stato Islamico.

L'ordinamento internazionale prevede che, affinchè un nuovo ente possa essere considerato come uno Stato, debba possedere determinati requisiti. La Convenzione di Montevideo sui diritti e doveri degli Stati del 1993 al suo art. 1 prevede infatti come requisiti imprescindibili per un Paese

  1. una popolazione permanente
  2. un territorio definito
  3. un governo
  4. la capacità di entrare in relazione con gli altri Stati

Le suddette caratteristiche non sono immediatamente riscontrabili nel Califfato; il suo stato di guerra perenne lo porta a continui cambiamenti territoriali, non potendo quindi riscontrarsi né una popolazione permanente nè un territorio definito. Rimane altresì oscura la reale composizione delle strutture governative del Califfato, essendo salito alla ribalta internazionale esclusivamente il sedicente Califfo. Lo Stato Islamico non ha alcuna capacità diplomatica, mancando il suo riconoscimento da parte degli altri Paesi che lo qualificano come movimento terroristico.

La prassi degli Stati in materia di riconoscimento si sta difatti conformando al principio di legalità più che a quello di effettività. E' un esempio paradigmatico di tale nuova tendenza la Dichiarazione in materia di Linee direttrici sul riconoscimento dei nuovi Stati nell'Europa orientale e nell'Unione Sovietica del 1991: si affermò infatti che i nuovi Stati, per essere riconosciuti come tali, dovevano impegnarsi nel riconoscimento dei Trattati fondamentali in materia di diritti umani, nella salvaguardia delle minoranze etniche e religiose, nonché nel mantenere fermi principi quali la democrazia e dello stato di diritto. E' innegabile che lo Stato Islamico non abbia adempiuto a tali obblighi.

E' questione dibattuta se il Califfato possa essere qualificato come movimento insurrezionale. In primis bisogna analizzare come non possa essere negata la matrice terroristica delle azioni portate avanti dall'Isis, come d'altronde è stata confermata dal Consiglio di Sicurezza Onu nella sua risoluzione 2170/2014. Tale riconoscimento sembra però influire relativamente sulla cassificazione dell'Isis come movimento insurrezionale. Lo Stato Islamico è difatti sorto dalle ribellioni scoppiate in territorio quali la Siria e l'Iraq. Il collasso dei suddetti Paesi ha preparato il terreno alla nascita del Califfato, ufficializzata il 29 Giugno 2014 con la proclamazione del nuovo Stato da parte di Abu Bakr Al-Baghdadi.

Per la qualificazione di quest'ultimo come movimento insurrezionale si deve difatti applicare esclusivamente il criterio dell'effettività. Tale principio risulta effettivamente applicabile alla situazione dell'Isis, come dimostrato dal controllo imposto da quest'ultimo su rilevanti zone della Siria e dell'Iraq, pur mancando un effettivo riconoscimento di tale status da parte degli altri Paesi belligeranti. E' purtuttavia un gruppo insurrezionale diverso dalle normali definizioni, dato il suo incidere sui territorio di due Stati diversi

Tale classificazione si rivela di importanza fondamentale per capire quali norme di diritto internazionale applicare all'Isis e, più specificatamente, nei confitti che questo sta portando avanti.

I ribelli possono difatti concludere accordi e convenzioni con i Paesi che intendono stringere relazioni con essi. L'art.3 delle Convenzioni di Ginevra, l'unico ad essere applicabile ai conflitti interni ed insurrezionali, riconosce il “treaty making power” alle formazioni rivoluzionarie.

Non deve essere ritenuta un'opzione improbabile o peregrina che un gruppo insurrezionale stringa accordi;a tale proposito basti menzionare l'Accordo tra il governo del Nicaragua e i ribelli nicaraguensi del 23 Marzo 1988.

La classificazione dell'Isis come movimento insurrezionale si rivela utile per definire quali norme internazionali siano applicabili ai conflitti che vedono il Califfato quale parte in causa. Alcune di esse hanno natura consuetudinaria, come quelle rivolte alla protezione dei civili. E'evidente come il Califfato non abbia minimamente rispettato tali normative, così come sono state violate quelle sancite dalla Convenzione dell'Aia del 1954 sulla protezione della proprietà culturale nel caso del conflitto armato. E' quindi innegabile la possibilità di applicare le norme riguardanti il diritto internazionale umanitario e, in particolare, iI II Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (Protocollo sui Conflitti Armati non Internazionali del 1977). Pur essendo riferito il campo di applicazione del suddetto protocollo esclusivamente ad ambiti insurrezionali interni, considerando che l'azione dell'Isis ha invece raggiunto rilevanza internazionale, lo scontro tra gli eserciti convenzionali e i soldati del Califfato ha raggiunto un tale grado di intensità che merita protezione internazionale.

Si rende necessario analizzare, alla luce delle osservazioni ora portate avanti, la legittimità delle azioni degli Stati in conflitto contro gli uomini dell'Isis. Dall'8 Agosto scorso le forze statunitensi stanno conducendo incursioni aeree contro le postazioni del Califfato e, recentemente hanno seguito questa strada altri Paesi come la Francia.Tali azioni non hanno ricevuto il placet del Consiglio di Sicurezza, così come vorrebbe il Capo VII della Carta delle Nazioni Unite, ma sono legittimate da un'esplicita richiesta del governo Iracheno; è quindi applicabile la causa di esclusione dell'illecito basata sul consenso dello Stato che ha visto lesa la propria integrità territoriale, come previsto dall' articolo 20 del Progetto di Articoli sulla Responsabilità dello Stato (2001).

Non possono essere avanzate simili conclusioni analizzando la situazione del conflitto in Siria; il governo del Paese mediorientale non ha infatti sottoposto nessuna richiesta di collaborazione agli Stati Uniti o ai Paesi europei. Pur non essendosi pronunciato in alcun modo relativamente al conflitto in corso sul territorio siriano, il Consiglio di Sicurezza ONU nella risoluzione 2170 ha definito il terrorismo come “una delle più gravi minacce alla pace e alla sicurezza internazionale” (par 1). L'atto terroristico viene quindi definito come violazione del diritto internazionale umanitario (par.3). Sono state adottate, in base all'art. 41 del Capo VII della Carta delle Nazioni Unite, delle misure chiamate “smart sanctions”, volte a impedire le attività di persone individuate come membri di organizzazioni terroristiche di matrice islamica. Tali sanzioni si caratterizzano in strumenti quali congelamento dei beni patrimoniali o divieti di espatrio. Il Consiglio di Sicurezza si è altresì raccomandato, attraverso quindi un provvedimento non vincolante, con i Paesi membri di non continuare con le forniture di armi verso gli Stati coinvolti nei conflitti summenzionati.

La mancanza dell'autorizzazione agli interventi militari in Iraq e Siria riporta in auge il dibattito sulla legittimità delle azioni in territori sovrani non ratificate in maniera preventiva dall'ONU.Una dottrina sempre più maggioritaria, nonché l'uso “disinvolto” di tali misure sembra portare al concetto di R2P, o responsability to protect come legittimazione a tali interventi,con il fine di salvaguardare e proteggere i diritti umani. Sembra che solo per tali finalità possa essere permessa un'eventuale violazione dell'art. 2.4, che sancisce il divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali, in un'ottica di salvaguardia dei diritti umani e civili. In caso di inerzia delle Organizzazioni Internazionali, spesso paralizzate dalle visioni politiche contrapposte dei vari Stati membri, sono proprio quest'ultimi a prendere la concreta iniziativa. La R2P viene esplicitamente definita dalla International Commission on Intervention and State Sovereignty, ICISS, 2001; nel Febbraio 2011 il Consiglio di Sicurezza ha utilizzato tale nozione per legittimare le misure necessarie a proteggere i civili dalle misure repressive prese in Libia dal regime di Gheddafi. Nello stesso anno la risoluzione 1973, sempre emanata per gli eventi libici, fa esplicito riferimento alla “responsabilità di proteggere” nella parte in cui si riafferma “la responsabilità delle autorità libiche” di proteggere la popolazione libica”. Questa breve analisi del principio della R2P si rivela necessaria per concludere come sia l'Ira che la Siria siano inequivocabilmente non più in grado di proteggere efficacemente i propri cittadini garantendo quindi un'adeguata protezione dei diritti umani di quest'ultimi.

E' altresì innegabile come il principio della R2P, per poter essere validamente eccepito, debba rispettare determinati criteri come il principio di precauzione e proporzionalità. Viene inoltre richiesto il previo esperimento di ogni tentativo diplomatico per risolvere la controversia, evento non certamente riscontrabile nel caso de quo. L'intervento militare in Siria deve quindi essere ritenuto illegittimo sul piano del diritto internazionale.

 

Bibliografia