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Pubbl. Ven, 11 Giu 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Ripensare la maternità: la gestazione surrogata come punto di partenza

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Luana Leo
Dottorando di ricercaLUM Giuseppe Degennaro



Il presente lavoro prende le mosse dalle recenti ordinanze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 2021, al fine di analizzare da vicino il fenomeno della maternità surrogata. Nelle sue pronunce, la Consulta evidenzia come la questione investa principalmente il legislatore: essa, dunque, cede davanti alla discrezionalità legislativa. Oltre a interrogarsi sulla liceità o meno di tale pratica, si ravvisa l´esigenza di riflettere sugli interessi e sui diritti coinvolti. La maternità surrogata pone in luce un nuovo modo di intendere la gestazione, ancora non pienamente accettata, tale da scontrarsi con l´idea tradizionale di maternità.


ENG This paper starts from the recent ordinances of the constitutional Court n. 32 and 33 of the 2021, in order to closely analyze the phenomenon of surrogacy. In its rulings, the Council highlights how the question mainly invests the legislator: it, therefore, gives in to legislative discretion. In addition to questioning the lawfulness or otherwise of this practice, there is a need to reflect on the interests and rights involved. Surrogacy highlights a new understanding of gestation, which is a not yet fully accepted, such as to clash with the traditional idea of motherhood.

Sommario: 1. Introduzione; 2. La legge n. 40/2004: ratio e criticità; 3. La sentenza n. 32/2021; 3. 1 La prima risposta della Consulta; 4. La sentenza n. 33/2021; 4. 1 La seconda risposta della Corte; 5. I principali punti delle sentenze costituzionali; 6. La via suggerita dalla Corte e la centralità del “best interest of the child”; 7. Le varie posizioni assunte dalla giurisprudenza costituzionale; 8. Profili comparativi; 9. Maternità surrogata e dignità della donna; 9.1 Il minore: da soggetto protagonista a soggetto trascurato; 10. Osservazioni conclusive.

1. Introduzione

In un breve lasso di tempo, la Corte costituzionale si è pronunciata sul delicato tema della maternità surrogata con due discutibili sentenze.

È opportuno chiarire: definendo in tale modo le predette, non si intende porre in discussione la saggezza della Consulta, quanto invece evidenziare il clamore scaturente dalle sue decisioni.

Quello in oggetto è un tema particolarmente spinoso, poiché sottintende non solo l’approfondimento della questione relativa al rapporto di filiazione, ma anche lo studio del concetto di “famiglia”, o meglio di “famiglie”.

I passi attuati dalla giurisprudenza costituzionale, interna e sovranazionale sono stati molteplici e determinanti.

Nel corso degli anni, essa si è preoccupata di tutelare il rapporto di filiazione fondato su legami non naturali, di conferire spessore a qualsiasi modello di famiglia nel quale il minore possa crescere e sviluppare la propria personalità.

Entrando nello specifico, la giurisprudenza ha posto l’accento sull’interesse del minore a mantenere i legami affettivi a prescindere dalla presenza di genitori biologici; essa, altresì, ha introdotto il concetto di genitorialità concepito come “autoresponsabilità”, incentrato sul dovere di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.

Infine, per tale via è stato riconosciuto il diritto fondamentale della coppia di dare vita ad una famiglia[1], come espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminazione, ascrivibile agli artt. 2, 3, 31, Cost.

Per comprendere il ruolo essenziale assunto dalla giurisprudenziale, occorre brevemente rifarsi alla normativa nazionale.

Il ricorso alla maternità surrogata è espressamente vietato dall’art. 12, co. 6, della legge n. 40/2004[2].

Tale divieto ha incentivato il fenomeno del c.d. turismo procreativo, ossia la tendenza dei cittadini italiani a recarsi in Paesi dotati di una legislazione meno rigida in tema di procreazione al fine di sottoporsi alla suddetta pratica, per poi tornare in Italia e chiedere la trascrizione dell’atto di nascita nei registri dello Stato civile italiani.

L’Ufficiale dello Stato civile estero, dopo aver registrato il concepito, rilascia alla coppia un atto attestante la genitorialità, che poi dovrà essere trascritto nello Stato di provenienza.

La mancata trascrizione impedisce allo Stato di riconoscere al fanciullo lo status di figlio.

Come noto, la giurisprudenza si è pronunciata con costante frequenza sulla validità di tale procedura adottando orientamenti opposti.

 2. La legge n. 40/2004: ratio e criticità

Come già esposto, la legge n. 40/2004 ha vietato il ricorso alla maternità per surrogazione.

Occorre segnalare che essa ha posto fine ad una serie di interrogativi ai quali, in assenza di apposita disciplina, aveva risposto in precedenza la giurisprudenza.

Prima di esaminare accuratamente tale legge, deve precisarsi che essa è espressione di una legislazione etica, in ragione di scelte relative sia ai presupposti, alla tipologia delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, sia ai soggetti aventi accesso ad esse ed alla tutela dell’embrione.

Tale apparato è integrato da sanzioni amministrative e penali facenti capo ai responsabili dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita oltre i limiti legali, escludendo invece la punibilità dell’individuo sottoposto ad esse nell’ipotesi di violazione della legge n. 40/2004.

Quanto alla finalità, pur presentandosi con i migliori intenti, tale legge risulta restrittiva, poiché limita il ricorso alle tecniche solo alle coppie sterili (“qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità”).

Tuttavia, in dottrina, vi è chi[3] osserva come l’equiparazione delle tecniche in esame agli altri metodi terapeutici avvenga più per motivi di ordine pratico che di carattere scientifico: esse non sconfiggono la sterilità, ma si sostituiscono all’atto generativo nel consentire alla coppia di ottenere il figlio cercato.

Un aspetto interessante della normativa attiene alla differenza tra sterilità e infertilità “inspiegate” e sterilità e infertilità “accertate” (art. 4).

Nella prima ipotesi, l’accesso alle tecniche comporta la relativa documentazione con atto medica; nel secondo, invece, congrua certificazione medica dalla quale emerga la causa riscontrata.

Sempre sotto il profilo applicativo, si ricorda il divieto delle tecniche di tipo eterologo, e l’ammissibilità del ricorso alle tecniche di tipo omologo (come extrema ratio), da parte di coppie adulte di sesso opposto, coniugate o conviventi, in età fertile, verso i quali il nato assume lo status di figlio legittimo o di figlio naturale riconosciuto.

Tale ultimo elemento merita una riflessione.

A parere di chi scrive, il legislatore compie un passo importante in ordine allo status di figlio, equiparando i figli legittimi a quelli naturali.

Altro punto cruciale concerne la scelta di due principi fondamentali dell’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita: il principio di gradualità ed il consenso informato.

Con riguardo al primo, come previsto dalle linee guida, spetta al medico la definizione della gradualità delle tecniche nel rispetto dei principi etici della coppia ed in osservanza alle prescrizioni di legge.

Il secondo, invece, implica che il medico debba fornire ai richiedenti determinate informazioni.

In primo luogo, l’operatore deve informare la coppia “sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse” nonché “sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti”.

In secondo luogo, il medico deve esporre le conseguenze giuridiche eventualmente derivanti sia per i richiedenti sia per il nascituro. In terzo luogo, la coppia deve essere informata della possibilità di ricorrere alle procedure di adozione o di affidamento.

Infine, il medico deve comunicare ai richiedenti i costi economici dell’intera procedura.

A livello costituzionale, i principi dell’autonomia del paziente e del consenso informato trovano terreno fertile nell’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e negli artt. 13 e 32, attinenti rispettivamente alla libertà personale (inviolabile) e all’impossibilità di obbligare la persona ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Occorre evidenziare che il consenso non deve essere prestato unicamente dalla persona implicata nel trattamento terapeutico, ma deve essere espresso da entrambe le parti.

Assodato tale elemento, la dottrina[4] si è interrogata sulla legittimità dell’art. 6, co. 3, della legge n. 40/2004, in virtù del quale “la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo”.

In particolare, le perplessità si manifestano ove la donna modifichi la propria volontà e rifiuti l’embrione già formato.

La mancanza di apposite sanzioni nei confronti di chi ritira la propria volontà di ricorrere alla fecondazione assistita induce considerare ridotta l’operatività di tale norma: alla donna è consentito ritirare il proprio consenso sino all’effettivo trasferimento in utero dell’embrione.

In seguito, la revoca si convertirà nella dichiarazione dell’operatore di non avviare la procreazione per ragioni di natura sanitaria (art. 6, co. 4).

Da qui, dunque, emerge la particolare attenzione riservata dal legislatore al profilo informativo.

A tale proposito, vi è chi[5] ha reputato il modello procedimentale fin troppo dettagliato e analitico, trascurando l’assoggettamento dell’ordinamento giuridico italiano al principio comunitario della tutela del consumatore.

La normativa in commento si contraddistingue anche per l’individuazione di una serie di principi tesi ad assicurare la tutela dell’embrione ai fini del rapporto tra ricerca e procreazione medicalmente assistita.

Da una parte, si introduce il divieto di qualsiasi sperimentazione su ogni embrione umano (art. 13, co. 1); dall’altra, si ammette la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, avente finalità di tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso (art. 13, co. 2), nel rispetto del patrimonio genetico acquisito tramite le tecniche di procreazione medicalmente assistita e in funzione della conservazione dell’integrità e dell’identità della specie umana (art. 13, co. 3).

Dal quadro fin qui delineato affiora come la legge n. 40 del 2004 includa delle previsioni che limitano talune attività incentrate sull’embrione umano, senza però concedere una definizione del medesimo.

Nel corso dei lavori preparatori, la questione è stata oggetto di acceso dibattito; l’emersione di prospettive contrapposte si è tradotta nel silenzio normativo. In tale contesto, trova spazio il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica relativo all’identità e allo statuto dell’embrione umano[6].

Le varie interpretazioni concernenti il momento di determinazione dell’identità individuale umana sono state ricondotte dal Comitato a due linee di pensiero: la prima[7] colloca l’inizio della vita umana pienamente individuale all’atto della fecondazione, giacché già al primo stadio sono presenti tutte le informazioni genetiche in grado di ultimare il processo di sviluppo della persona; la seconda[8], invece, invece ritiene che la fecondazione avvenga in una fase conseguente alla fecondazione.

In definitiva, si è pervenuti a inscrivere l’embrione tra gli esseri appartenenti alla specie umana, non essendo materiale biologico.

Tale concezione presuppone la distinzione tra l’embrione ed il pre-embrione[9], avallata da una parte della dottrina[10].

Diversamente, la legge n. 40/2004 sembra accogliere una concezione estensiva di embrione, escludendo qualsiasi differenziazione.

Di fatti, in tale legge, sono adoperati come sinonimi i termini di embrione e concepito, marcando così la presenza di un’unica nozione di embrione[11].

In tale senso, merita attenzione la recente esposizione della Corte costituzionale in ordine all’embrione.

La Consulta[12], pur non precisando il contenuto del concetto in discussione, ha riconosciuto il predetto organismo come “presenza umana”, meritevole dunque di tutela giuridica.

3. La sentenza n. 32/2021

La sentenza 9 marzo 2021, n. 32, prende le mosse dall’ordinanza 9 dicembre 2019, con la quale il Tribunale ordinario di Padova sollevava questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8 e 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 e 250 c.c., in ordine agli artt. 2, 3, 30 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in rapporto agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo, e agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

Il Tribunale di Padova veniva adito dalla madre intenzionale di due gemelle, nate per mezzo del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita – a cui si era sottoposta l’altra partner – con l’intento di conseguire l’autorizzazione a dichiarare all’Ufficiale dello stato civile di essere genitore (art. 8, l. n. 40/2004), o di essere dichiarata tale da tale autorità per avere fornito il proprio consenso alla fecondazione eterologa (art. 6, l. n. 40/2004).

La ricorrente adiva il Tribunale anche per un’ulteriore finalità: essere autorizzata a riconoscere davanti all’Ufficiale di stato civile le minori quali proprie figlie, ovvero di accertare tale riconoscimento mediante sentenza che tenga presente il consenso da essa prestato (art. 250, co. 4, c.c.)

In via subordinata, la ricorrente chiedeva al Tribunale di ordinare all’Ufficiale di stato civile la rettificazione degli atti di nascita delle minori, al fine di porre in luce come la nascita fosse avvenuta a seguito di fecondazione assistita, sulla base del consenso prestato dalla madre biologica e dalla stessa ricorrente.

Il Collegio precisava che la madre intenzionale aveva chiesto poi l’attribuzione del proprio cognome alle gemelle (art. 250, co. 4, c.c. e art. 262 c.c.), oltre all’emanazione di provvedimenti relativi all’affidamento e mantenimento delle medesime (art. 315-bis c.c.).

Il Tribunale di Padova, pur non negando la partecipazione di entrambe alla maternità, riteneva insufficienti gli elementi a disposizione ai fini del riconoscimento delle minori da parte della madre intenzionale.

L’aspetto allarmante consisteva, a parere del Tribunale, in un deficit di tutela a beneficio dell’interesse delle minori.

Tale carenza si traduce nella lesione di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti dagli artt. 2, 3, 30 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, ea agli artt. 2, 3, 4, 5, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo.

In particolare, gli artt. 8 e 9 della l. n. 40/2004 e 250 c.c. lascerebbero privo di protezione il diritto inviolabile del minore all’identità (art. 2 Cost).

Di conseguenza, sarebbe violato il diritto del minore ad essere assistito da due soggetti che si assumano la responsabilità del suo mantenimento, educazione ed istruzione, e vantino nei suoi confronti diritti successori[13].

In definitiva, il Tribunale Padova dichiarava la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti delle norme di cui agli artt. 8 e 9 della legge n. 40/2004 e 250 c.c.: esse, non comprendendo anche i nati da procreazione medicalmente assistita eterologa praticata da coppie dello stesso sesso, danno luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento verso questi ultimi, rispetto ai nati da procreazione medicalmente assistita compiuta da soggetti eterosessuali e anche rispetto ai nati da tale tecnica praticata da individui dello stesso sesso, ove la madre biologica conceda il suo assenso all’adozione in casi particolari.

Occorre marcare come la presenza di un unico genitore, oltre a porre il minore in una situazione diversa e deteriore rispetto a quella degli altri, contrasta con il principio di unicità dello status giuridico di figli[14].

Infine, è violato l’impegno assunto dallo Stato italiano, in sede di ratifica della Convenzione dei diritti del fanciullo, ad adottare “tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, dalle opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali e dei suoi familiari” (art. 2), nonché a considerare “l’interesse prevalente del minore” in ogni decisione coinvolgente i minori (art. 3). 

La ricorrente evidenziava come il mancato riconoscimento del rapporto tra nato e partner della coppia omosessuale femminile non legata in termini biologici andrebbe ad impedire l’adempimento dei doveri di cura da parte di entrambi i genitori (art. 30 Cost.).

La madre biologica, invece, sosteneva che il riconoscimento del minore nato mediante le tecniche in commento, da parte di una donna non avente nessun legame biologico con lo stesso, si porrebbe in contrasto con l’art. 5 della legge n. 40/2004, e con l’esclusione del ricorso a tali tecniche da parte delle coppie omosessuali[15].

Per tale motivo, non sarebbe possibile, ai fini dell’instaurazione del rapporto di filiazione, il mero dato volontaristico costituito dal consenso prestato a tale tecnica.

La madre biologica, altresì, escludeva la violazione dell’art. 8 CEDU a causa del mancato riconoscimento del rapporto di filiazione, essendo in discussione nel caso di specie il rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione.

3. 1 La prima risposta della Consulta

I punti su cui la Corte costituzionale è chiamata ad esprimersi sono vari.

Innanzitutto, la Consulta dichiara non fondata l’eccezione sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, per la quale nel giudizio principale non sarebbe fatto valere il diritto delle minori ad essere riconosciute quali figlie di ambedue le madri, bensì la pretesa della partner non legata alle minori di essere riconosciuta come genitore legale.

Nell’ordinanza di rimessione, infatti, affiora come le domande mirino alla tutela delle minori; tale richiesta, dunque, è volta ad assicurare solidità nel rapporto genitoriale, e non a recare pregiudizio alle stesse.

Secondo la difesa statale, la domanda della ricorrente non potrebbe trovare accoglimento ai sensi degli artt. 4 e 5 della legge n. 40/2004.

Come la precedente, anche la suddetta eccezione risulta infondata: la domanda avanzata dalla ricorrente, come confermato dal ricorrente, ha ad oggetto il riconoscimento dello status di figlie delle minori, tale da evocare gli artt. 8 e 9 della legge n. 40/2004.

Sempre la difesa statale considera inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Padova, considerato che le integrazioni della normativa vigente sarebbero indirizzate a colmare un vuoto di tutela in una materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore.

È uno dei punti cruciali, se non il maggiore, del caso di specie.

La Corte costituzionale ammette l’inammissibilità di tale questione, in ragione del rispetto dovuto alla prioritaria valutazione del legislatore circa “la congruità dei mezzi adatti a raggiungere un fine costituzionalmente necessario”.

Al contempo, essa “denuncia” la persistente l’inerzia legislativa, in virtù del grave vuoto di tutela del preminente interesse del minore.

Dalle questioni sollevate dal Tribunale di Padova emerge l’incompletezza normativa della adozione in casi particolari: essa è resa inattuabile in situazioni critiche, quali la crisi della coppia e la negazione dell’assenso del genitore biologico.

La Consulta, pur consapevole della gravita della situazione, ritiene di non poter intervenire[16], preferendo rivolgersi così al legislatore affinché vi ponga rimedio.

In particolare, il Giudice delle Leggi auspica una revisione delle norme in materia di riconoscimento, ovvero l’introduzione di una nuova tipologia di adozione[17].

4. La sentenza n. 33/2021

La conseguente sentenza 9 marzo 2021, n. 33, trova origine dall’ordinanza 29 aprile 2020, tramite la Corte di Cassazione ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31, 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in ordine all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, ed infine all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, co. 6, della già citata legge n. 40/2004, dell’art. 64, co. 1, lett. g) della legge 31 maggio 1995, n. 218 e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, “nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico”.  

Tale caso atteneva un bambino nato in Canada nel 2015 da una donna alla quale era stato impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana, unito in matrimonio in Canada con un altro uomo.

Inizialmente, le autorità canadesi avevano menzionato nell’atto di nascita il solo genitore biologico, senza citare né il coniuge di quest’ultimo, né la madre surrogata.

Qualche anno dopo, la Corte Suprema della British Columbia consacrava ambedue le parti come genitori del bambino, disponendo la rettifica dell’atto di nascita in Canada.

A seguito del rifiuto dell’Ufficiale di stato civile italiano circa la rettifica di tale atto in Italia[18], i coniugi ricorrevano alla Corte di Appello di Venezia.

L’accoglimento del ricorso induceva l’Avvocatura generale dello Stato a proporre ricorso per Cassazione.

Allo stesso tempo, le sezioni unite civili[19] negavano il riconoscimento del provvedimento straniero autorizzante il rapporto di genitorialità tra un bambino attraverso maternità surrogata ed il genitore non biologico nell’ordinamento italiano, in virtù dell’art. 12, co. 6, della legge n. 40/2004.

Tuttavia, la Sezione rimettente dubitava della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una serie di parametri costituzionali.

Tenendo fermo il parere consultivo della grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2019, essa individuava la violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in ordine ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), a non subire discriminazioni, alla tutela preminente del proprio interesse, a essere registrato alla nascita ed avere un nome, a conoscere i propri genitori, ad essere da loro cresciuto (artt. 2, 3, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo), al principio della responsabilità comune dei genitori per l’educazione e la cura dei figli (art. 18 della stessa Convenzione), ai diritti riconosciuti dall’art. 24 CDFUE.

La Sezione rimettente considerava il diritto vivente in Italia inadeguato rispetto agli standard di tutela dei diritti del minore sanciti nella Convenzione, in quanto il ricorso all’adozione in casi particolari da parte del genitore d’intenzione non determinerebbe un effettivo rapporto di filiazione[20].

Dalla pronuncia delle Sezioni unite il diritto vivente risultava contrastante con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost.

Essa, infatti, evidenziava la violazione del diritto del minore all’inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, nonché il diritto alla stessa identità del minore.

Il figlio nato con maternità surrogata, altresì, si veniva a trovare in una posizione discriminatoria rispetto a quella degli altri bambini.

Riconoscere il rapporto di genitorialità in capo al solo genitore biologico e non a quello d’intenzione era considerato irragionevole, così come l’impossibilità per il giudice di valutare l’interesse del minore al riconoscimento del legame con il genitore d’intenzione.

A difesa personale, i due uomini sottolineavano l’appartenenza del riconoscimento degli interessi preminenti del minore ad “un patrimonio comune del costituzionalismo contemporaneo”.

Per i ricorrenti, poi, il riconoscimento dello status filiationis rispetto al genitore d’intenzione non recava alcun pregiudizio al minore, o meglio, non ledeva il diritto a conoscere le proprie origini, bensì andava a rafforzarlo.

Infine, essi marcavano la non conformità dell’istituto dell’adozione alle esigenze di tutela degli interessi del minore, per due valide ragioni: da un lato, i limitati effetti di esso, dall’altro i tratti caratteristici del procedimento, attivabile solo su domanda dell’adottante e con il consenso dell’altro genitore[21].

4. 1 La seconda risposta della Corte

In tale vicenda, la Consulta è tenuta ad esprimersi sulla possibilità di riconoscere efficacia nell’ordinamento italiano a provvedimenti giudiziari stranieri che rilevano come genitore del minore non solo la persona che concede i propri gameti, ma anche quella che accetta il progetto genitoriale, pur rimanendo estraneo in chiave genetica.

La suddetta pronuncia genera clamore per le ragioni impiegate dalla Consulta nel dichiarare inammissibili tutte le questioni sollevare.

Innanzitutto, la Corte pone in luce come il diritto vivente censurato dal giudice rimettente si imperni sulla qualificazione del divieto penalmente sanzionato di surrogazione della maternità come “principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali”, tra cui specialmente la dignità della gestante.

Tuttavia, il Giudice delle Leggi invita a riflettere sulla centralità assunta dagli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata.

Per tale motivo, occorre concedere una risposta circa la compatibilità del diritto vivente enunciato dalle Sezioni unite civili con i diritti del minore sanciti dalle disposizioni costituzionali e sovranazionali evocate dal giudice remittente.

Di recente, la stessa Corte[22] ha ammesso che tutte le decisioni concernenti i minori di competenza delle autorità pubbliche debbano accordare preminenza al “best interest” degli stessi[23].

Occorre però considerare che l’interesse del minore non sempre risulta prevalente rispetto ad ogni altro controinteresse in gioco[24].

Dato il criterio di proporzionalità, gli interessi del minore bilanciati con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di ostacolare il ricorso alla maternità surrogata.

Con riguardo all’istituto dell’adozione in casi particolari, la Consulta osserva come essa non conferisca la genitorialità all’adottante: a seguito della legge n. 219 del 2012 risulta ancora controverso se l’istituto in esame permetta di instaurare vincoli di parentela tra il bambino e coloro che socialmente appartengono alla comunità familiare.

Complice la delicatezza del caso di specie, la Consulta cede il passo al legislatore, al quale incombe il compito di conformare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei minori nati da maternità surrogata, auspicando così una valida e tempestiva soluzione.

 5. I principali punti delle sentenze costituzionali

Con le sentenze appena delineate, la Corte riprende talune questioni di notevole rilievo.

In primo luogo, sorprende la fermezza con cui essa ammette il proprio limite operativo, rappresentato dalla discrezionalità del legislatore.

Nella prima decisione, la Corte afferma di “non potere ora porre rimedio” alle gravi carenze della normativa, dichiarandosi pertanto indisponibile alla caducazione della stessa, riducendosi ad evidenziare i contrasti tra essa ed il dettato costituzionale, avvalendosi della giurisprudenza europea.

La medesima logica è seguita nella seconda decisione: la Corte, infatti, puntualizza che incombe al legislatore intervenire “in prima battuta”; di conseguenza, essa è tenuta ad arrestarsi, a beneficio della discrezionalità legislativa.

Tuttavia, essa tiene a riportare talune soluzioni, in ragione della palese urgenza di porre rimedio alle lacune del diritto vigente.

La strategia adottata dalla Corte è vincente: da una parte, accorda la precedenza al legislatore, assumendo così una condotta illustre; dall’altra, invita quest’ultimo a provvedere tempestivamente, in quanto non sarebbe più tollerabile il protrarsi della sua inerzia.

Una parte della dottrina sottolinea un altro ingente elemento: in tale vicenda, la Corte si riserva il potere di determinare quale tecnica decisoria adoperare nei singoli casi (ablativa o rigetto)[25].

Nella seconda decisione, la Corte perde l’occasione di concedere una risposta a un quesito da tempo rimasto in sospeso: un parere enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo costituisce norma interposta per l’Italia, anche in mancanza di ratifica del Protocollo?[26]

È possibile scorgere una risposta al riguardo riprendendo il testo della suddetta sentenza. Occorre considerare il modo in cui giudice a quo inquadra il parere formulato dalla CEDU nell’ordinanza di rimessione.

Da un verso, egli segnala come il Protocollo n. 16 non sia stato ancora reso esecutivo dall’Italia e come esso sia non “direttamente vincolante”.

Dall’altro, sottolinea come “non si possa prescindere” da tale parere, il quale “impone scelte ermeneutiche differenti” rispetto a quelle delle Sezioni Unite.

A primo impatto, sembra che il giudice a quo intenda il parere espresso dalla CEDU quale norma interposta (l’art. 117, co. 1, Cost.).

In tale pronuncia, il giudice a quo sembra considerare il parere emesso dalla CEDU anche come parametro ai fini dell’interpretazione (convenzionalmente conforme).

A tale proposito, una corrente di pensiero[27] osserva come la Corte costituzionale non abbia specificato se il parere possa essere ritenuto parte della giurisprudenza della Corte EDU in chiave orizzontale[28].

Essa, infatti, si è limitata a giudicare infondata una prima eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato.

Quest’ultima criticava la scelta del giudice a quo di assumere il parere come parametro interposto.

La Corte, invece, sostiene che il giudice a quo, “pur richiamando tale parere”, evoca adeguatamente l’art. 8 CEDU come parametro interposto.

6. La via suggerita dalla Corte e la centralità del “best interest of the child

Nelle sentenze in commento, il Giudice delle Leggi precisa che la tutela del “preminente” interesse del minore non è estranea all’ordinamento italiano.

Come già espresso, egli pone in luce come i parametri costituzionali e quelli sovranazionali riconoscano al “best interest” del minore prioritaria protezione; tuttavia, ambedue prevedono dei limiti alla preminenza, tale da implicare un bilanciamento.

Tale quadro giustifica il senso della “terza via” fornita dalla Corte costituzionale, la quale intende coniugare l’interesse del bambino surrogato e quello dello Stato, nonché il riconoscimento giuridico dei legami tra il minore e il genitore non naturale ed il potere dello Stato di vietare la trascrizione dei provvedimenti giudiziari stranieri che attestano lo status di padre o madre al genitore d’intenzione.

Pertanto, ancora una volta, le due Corti convengono tra loro, tant’è che “il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana”.

Tale punto di equilibrio si riscontra

“in un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino”.

Il rimedio indicato dalla Corte consiste nel rivedere il diritto vivente nella sola parte in cui affiora un’insufficiente tutela dei diritti del minore, al fine di prevenire il rischio di strumentalizzare “la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata”.

Se è vero che la soluzione delineata dalla Corte mitiga la compressione del best interest del minore, è altrettanto vero che la tutela dei diritti e della dignità della figura femminile passa tramite la negazione della dignità del minore.

In dottrina, vi è chi[29] osserva come la “bella bandiera” della dignità della donna venga trasformata in una “brutta bandiera”.

L’inaccettabile offesa della dignità femminile giustifica la strumentalizzazione dei diritti del minore, che diviene lo strumento su cui poggiano le politiche di deterrenza statali. In tali pronunce, la Corte pone l’accento sul “best interest”[30] del bambino, allineandosi così ai suoi precedenti.

Le due vicende si prestano a talune riflessioni sul principio del preminente interesse del minore.

Nella seconda sentenza, il giudice rimettente, scorge due profili di conflitto non superabili con la vigente situazione del diritto vivente in Italia.

Il primo consiste nell’attribuzione al divieto di maternità surrogata dello statuto di principio di ordine pubblico internazionale prevalente sull’interesse del minore a seguito della scelta attuata dal legislatore italiano per via generale ed astratta dalla valutazione del singolo caso concreto.

Il principio del “best interest of the child”, altresì, impedisce al legislatore di compiere una sua compressione, nonché un indebolimento del diritto al riconoscimento dello status filiationis legalmente acquisito all’estero.

A tale proposito, la Corte EDU ritiene che la predisposizione di mezzi alternativi alla trascrizione dell’atto di nascita compilato all’estero costituisca una diversa ma assimilabile forma di riconoscimento dello status filiationis.

Da qui discende il secondo profilo di conflitto con l’attuale diritto vivente: l’inidoneità dell’istituto dell’adozione in casi particolari a garantire quella effettività e celerità di attribuzione dello status filiationis reputate dalla Corte EDU come le condizioni indispensabili per identificare la modalità alternativa alla trascrizione.

Occorre però considerare che la tutela dell’interesse superiore del minore e il principio di ordine pubblico solo apparentemente possono sembrare due entità contrapposte, poiché

è proprio il preminente interesse del minore, in quanto espressione della inviolabilità dei diritti della persona umana, a concorrere alla formazione del principio di ordine pubblico, ed a costituire un valore che è parte integrante e costitutiva dell’ordine giuridico italiano”[31].

7. Le varie posizioni assunte dalla giurisprudenza costituzionale

A partire dall’entrata in vigore della legge n. 40/2004, la Corte costituzionale, in materia di procreazione medicalmente assistita, ha assunto un atteggiamento equo, limitandosi a richiamare l’attenzione del legislatore.

Con l’ordinanza 9 novembre 2006, n. 369, la Corte dichiara manifestatamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 13 della legge n. 40/2004[32].

Tale vicenda muove da una coppia di coniugi che, a causa di sterilità, ricorre all’iter della procreazione medicalmente assistita, chiedendo lo svolgimento della diagnosi preimpianto dell’embrione.

Dal rifiuto del medico, che invoca a sua difesa la disposizione di cui all’art. 13 della legge sopraindicata, scaturisce il ricorso della coppia al Tribunale di Cagliari, con il quale essa richiede, in via cautelare, una declaratoria del diritto di ottenere la diagnosi preimpianto. In realtà, la coppia si era già avvalsa di un’analoga procedura, ma la gravidanza era stata interrotta, risultando il feto affetto da beta-talassemia.

Il Tribunale di Cagliari solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui non consente di verificare, mediante la diagnosi preimpianto, se gli embrioni da trasferire nell’utero siano affetti da malattie genetiche, delle quali i genitori sono portatori.

La Consulta decide di non entrare nel merito della questione, riducendosi a sostenere che il divieto di diagnosi preimpianto non deriva solo dall’art. 13, bensì dalla configurazione complessiva della legge.

In taluni casi, essa sembra addirittura sfuggente: con l’ordinanza 7 giugno 2012[33], la Corte evita di esprimersi circa la legittimità del divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, optando per la restituzione degli atti, al fine di avvicinare i giudici a quibus alla decisione della Grande Camera della Corte EDU[34].

In particolare, dopo aver precisato che la restituzione degli atti è imposta laddove “sopravvenga una modificazione della norma costituzionale invocata come parametro di giudizio [...], ovvero della disposizione che integra il parametro costituzionale [...], oppure qualora il quadro normativo subisca considerevoli modifiche, pur restando immutata la disposizione censurata”, la Corte evidenzia come la pronuncia della Corte EDU incida “sul significato delle norme convenzionali considerate dai giudici” e costituisca dunque “un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta”.

Pertanto, secondo la Corte, la presenza di parametri interni non ostacola la restituzione degli atti, in quanto nelle ordinanze di rimessione la questione relativa all’art. 117, co. 1, Cost. sarebbe stata posta in prima linea.

Una parte della dottrina ritiene che la Corte avrebbe potuto invece

“esaminare la questione nel merito rispetto ai parametri interni e, in caso di accoglimento, dichiarare assorbito il profilo dell’art. 117, primo comma, oppure, in caso di rigetto, restituire gli atti per un riesame da parte dei giudici a quibus dei termini della questione rispetto all’art. 117, primo comma”[35].

In dottrina, vi è chi scorge nella tecnica di assorbimento degli altri parametri costituzionali l’idea di una possibile “gerarchia”, nonché di un ordine di trattazione tra i parametri invocati[36].

Di recente, la Corte si è rivelata puntuale e attenta a delimitare la sua pronuncia alle sole questioni sollevate, soprattutto nel momento in cui si è vista costretta a correggere taluni “frammenti” della legge n. 40/2004.

Nella sentenza 13 aprile 2016, n. 84, la Corte costituzionale convalida il divieto di ricerca scientifica su embrioni soprannumerari ex art. 13, co. 1, 2 e 3, di tale legge: essa, dunque, non compie alcuna scelta o presa di posizione.

Tale condotta lascia così aperte una serie di questioni. In particolare, la dottrina si interroga sulla tutela della potenzialità vitale dell’embrione, chiamando in causa la tecnica di crioconservazione (priva di apposita regolamentazione).

Se da una parte, tale tecnica è idonea a proteggere nel tempo gli embrioni umani, dall’altra, essa costituisce quel rigido “dimenticatoio” cui sono confinati gli embrioni stessi, talvolta non reclamati.

Emblematica è quella parte[37] della dottrina che, in ragione delle questioni etiche coinvolte nel caso di specie, invoca l’intervento del popolo, attraverso l’istituto del referendum di indirizzo o di quello propositivo.

Ben diverso, invece, si è rivelato l’approccio della Corte nelle sentenze nn. 162/2014[38] e 272/2017[39].

In ambedue i casi, il tema della surrogazione è evocato ad abundantiam; prescindendo da ciò, la Corte avverte la necessità di pronunciarsi oltre il chiesto, avallando il divieto di maternità surrogata, in quanto essa “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.  

8. Profili comparativi

Al di fuori dei confini nazionali, l’Italia risulta quasi isolata. L’ordinamento californiano, infatti, abbraccia il fenomeno, per via di una giurisprudenza da sempre aperta e positiva.               

I tentativi di tracciare una regolamentazione sono risultati vani: alla giurisprudenza delle Corti Californiane spetta il merito di avere rivestito un ruolo fondamentale in ordine alla definizione di taluni principi cardine della materia, mediante un’interpretazione estensiva delle nozioni di padre e madre incluse nell’Uniform Parentege Act[40].

Nel 2012, l’Assemblea dello Stato della California ha adottato il c.d. AB 1217, nel quale confluiscono le pratiche legali inerenti agli accordi di maternità surrogata.

In particolare, il suddetto regolamento, che aggiunge la section 7692 al Family Code, specifica nella section 7690, il significato di taluni termini ricorrenti (es. “Intended parent”, “Surrogate”, “Fund management agreement”).

La section 7692, invece, richiede alla madre surrogata e all’aspirante genitore la nomina di avvocati diversi prima della conclusione del contratto, in modo tale da evitare conflitti di interessi.

Il regolamento in esame, altresì, consente agli aspiranti genitori la possibilità di ottenere il riconoscimento dei loro diritti parentali sul nato, ancora prima della nascita dello stesso, tramite l’emanazione, da parte dell’autorità giudiziaria, di un provvedimento che intende essi come genitori legali, privando così la madre surrogata di ogni responsabilità verso il minore.

Come la California, anche in India la maternità surrogata trova concretizzazione, a partire dal 2002, anno in cui vengono, di comune intesa dal Ministero della Sanità e dal Family Welfare e dall’Indian Council of Medical Research, messe a punto le prime linee guida, poi aggiornate nel 2005.

In particolare, in esse sono racchiusi taluni principi fondamentali in materia di maternità surrogata, tra cui la possibilità di accedere alla procedura solo da parte delle coppie e dei soggetti con accertati problemi di procreazione.

Gli stessi organi hanno emesso nel 2010 un regolamento[41], nel quale sono confluite le linee guida del 2005, orientato a tutelare i diritti dei soggetti coinvolti.

Tale regolamento prevede che possano diventare madri le donne di età compresa tra i 21 e i 35 anni, già sottoposte ad appositi screening medici.

Il suddetto regolamento ammette alla procedura le coppie coniugate e conviventi, gli stranieri e i single.

Per quanto concerne gli stranieri, è prevista la nomina di un local guardian, al quale incombe la cura della madre surrogata nel corso della gravidanza e in seguito alla stessa: gli aspiranti genitori dovranno fornire alla clinica, presso la quale prende avvio il trattamento, una documentazione idonea che comprenda anche la lettera rilasciata o dall’ambasciata del Paese della coppia in India o dal Ministero degli Esteri del Paese di provenienza, attestante la legalità del processo di maternità surrogata.

Alla fine della procedura, gli aspiranti vengono riconosciuti a tutti gli effetti quali genitori legali del bambino.

Nel 2012, in India, le regole aventi come destinatari gli stranieri hanno subito talune modifiche.

Oltre a precludere l’accesso a coppie coniugate da meno di due anni, a coppie dello stesso sesso e a single, si è provveduto a sostituire il visto turistico con il c.d. Medical Visa[42].

Nel contesto europeo, l’Inghilterra si contraddistingue per essere il primo Paese a consentire la nascita avvalendosi di tali tecniche.

Le iniziali polemiche in ordine a tali nascite, accompagnate dagli studi e dalle raccomandazioni contenute nel rinomato Warnock Report[43], indusse all’emanazione di una legge (Surrogacy Arrangements Act del 1985), disciplinante il fenomeno.

Sebbene gli accordi di maternità surrogata vengano considerati legittimi, la normativa si presenta rigorosa. In tale senso, costituisce reato la stipulazione di accordi di surrogazione on commercial basis (ossia per fini di lucro), e qualsiasi forma di commercializzazione della maternità surrogata.

Un aspetto peculiare di tali accordi risiede nel loro carattere non giuridicamente vincolante: in caso di inadempimento di una delle parti, non è reputata ammissibile l’esecuzione coattiva delle prestazioni promesse da esse, né il diritto ad una tutela risarcitoria a favore degli stessi.

Una realtà simile a quella italiana è presente in Francia e Spagna, dove le rispettive leggi nn. 94/653 e 35/1988 prevedono un divieto espresso di mettere in atto pratiche di maternità surrogata.

Sulla stessa scia, la legge svedese n. 711/1988 vieta gli accordi di surrogazione, in quanto contrari ai principi cardinali della stessa; la legge vigente nella Repubblica Federale tedesca del 13 dicembre 1990 (“Embryonenschutzgesetz-ESchG”), punisce con la reclusione fino a tre anni “chi effettua   una fecondazione artificiale o trasferisce un embrione umano in una donna (madre sostituta) disposta a cedere dopo la nascita il figlio in via definitiva a terzi”.

9. Maternità surrogata e dignità della donna

Da sempre, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) denuncia la mercificazione del corpo umano.

Esso, infatti, identifica la maternità surrogata “un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto, come un oggetto, a un atto di cessione”.

Il Comitato, altresì, ritiene che “tale ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali”.

Oltre che scorgere da tale pratica una lesione dell’identità della donna, la bioetica equipara la nascita del bambino mediante maternità surrogata ad un’effettiva compravendita.

La presente disciplina considera la stessa espressione “maternità surrogata” inappropriata: la maternità è qualità propria della donna, che coinvolge il piano morale, psicologico, emozionale[44].

Al pari della bioetica, l’etica kantiana[45] reputa sbagliato “usare” qualcuno come mezzo per raggiungere un fine.

Sotto tale prospettiva, la pratica in esame è immorale e ingiusta, poiché “utilizza” una donna per procreare un figlio verso cui non assumerà la veste di genitore.

Occorre tenere conto che tali tecniche riproduttive creano numerosi pregiudizi etico-morali in ragione dei molteplici diritti coinvolti: l’uguaglianza, la libertà individuale, il diritto alla riservatezza, ecc.

L’oggetto di discussione, a parere di chi scrive, non consiste tanto nell’immoralità della pratica, quanto invece nell’eventuale lesione della dignità della donna.

È possibile, infatti, che una scelta di autonomia e libertà della donna possa trasformarsi in un’ulteriore occasione di strumentalizzazione del corpo femminile.

La donna potrebbe accettare di sottoporsi a tale pratica dietro un compenso molto elevato; al contempo, non è da escludere la presenza di una disparità culturale, tale da influire sulla capacità della parte debole di valutare tutte le conseguenze scaturenti da tale decisione.

Sotto tale profilo, l’attivista francese Geneviève Duché paragona la maternità surrogata alla prostituzione[46].

In particolare, quest’ultima cita Carole Pateman[47], per la quale la donna che stipula un accordo di maternità surrogata è remunerata non per aver portato in grembo un bambino, bensì per aver prestato un “servizio” alla figura maschile, tramite l’uso del suo utero (da qui, l’espressione di “utero in affitto”).

9.1 Il minore: da soggetto protagonista a soggetto trascurato

La liceità della predetta pratica passa non solo dalla negazione di una lesione della dignità femminile, ma anche dalla tutela di un terzo soggetto, il nascituro.

Sebbene la pronuncia del 2014 della Corte europea dei diritti dell’uomo riconosca la possibilità di creare vincoli di filiazione tramite la semplice volontà, quest’ultima non è sufficiente a creare rapporti affettivi tra soggetti estranei.

È vero che l’ordinamento giuridico nazionale fa discendere dalla sola volontà la costituzione di rapporti personali, ma è altrettanto vero che, venuta meno la volontà di mantenere in vita gli stessi, viene riconosciuta alle parti la possibilità di sciogliere il vincolo (es. il matrimonio).

Peraltro, la volontà potrebbe mutare nel corso del tempo, provocando uno scollamento tra dato genetico e dato sociale.

L’interesse del bambino potrebbe essere invocato sia quale ostacolo al progetto di maternità surrogata prima della fecondazione e/o nascita di esso, sia quale intralcio all’efficacia dell’accordo di surrogazione al momento della nascita.

Per quanto concerne il primo profilo, l’esigenza di tenere presente l’interesse del nascituro, riferito ad un individuo non ancora concepito, non potrebbe avere la priorità sui diritti degli aspiranti genitori[48].

Con riguardo al secondo profilo, il divieto alla maternità surrogata potrebbe trovare giustificazione nella volontà di evitare che il bambino, al momento della nascita, sia considerato alla stregua di un bene materiale, con conseguente lesione della sua dignità.

Il rischio di mercificazione del nato è escluso dalla natura solidale dell’accordo e l’ingresso di esso nella famiglia committente potrebbe risultare più conforme all’interesse del minore, vista la mancata intenzione della madre surrogata di espletare la funzione materna nei suoi confronti[49].

Sempre in tema di tutela del minore, occorre sconfessare l’assimilazione della maternità surrogata all’istituto dell’adozione.

A differenza di quest’ultimo, nella prima non è esercitato sulla coppia alcun controllo volto ad appurare la sua concreta capacità di svolgere correttamente la funzione genitoriale verso un minore estraneo.

Nella maternità surrogata, tale controllo si traduce in un’autovalutazione della coppia committente di adempiere il proprio ruolo di genitori per l’intera esistenza di un soggetto non legato biologicamente ad essi. 

10. Osservazioni conclusive

La maternità surrogata, comunemente intesa come “utero in affitto”, è divenuta una delle questioni più dibattute non solo nel contesto giuridico, ma anche sul versante etico.

Di fatti, essa incide sui classici costumi sociali e culturali.

Mentre la procreazione in vitro ha determinato la scissione della riproduzione dall’atto sessuale, tale pratica solleva talune perplessità in ordine al ruolo della donna e al modo di concepire la maternità, ponendo in discussione il legame affettivo tra figlio e madre.

Come la maggior parte dei temi attuali, anche quello in commento risulta strettamente connesso allo sviluppo della tecnologia: in mancanza della tecnica della manipolazione dell’ovulo e della fecondazione artificiale, il tema della maternità surrogata non avrebbe assunto una portata dirompente.

Tuttavia, occorre precisare che gli strumenti tecnologici non hanno creato il “problema”, semmai hanno contribuito ad accentuarlo.

Come osservato da una parte della dottrina, il “bisogno della genitorialità”[50] non trae origine dalla società dei costumi: si pensi, infatti, al racconto biblico di Abramo e della moglie Sara, donna meravigliosa che viveva la sua sterilità con senso di colpa.

In tale primitiva vicenda di maternità surrogata, si riscontra la complessità dei rapporti scaturenti da essa, e la presenza di numerosi profili etici e giuridici: relazioni con la madre biologica, riconoscimento giuridico del figlio da essa generato, equivalenza con gli altri figli del padre naturale, capacità ereditaria, legittimazione sociale.

A tali aspetti si accostano ulteriori elementi un tempo non sussistenti.

La maternità surrogata prolifera i ruoli: si scindono e combinano le figure della madre e del padre “sociale”, della donna e dell’uomo che concedono i gameti, della donna candidata a portare avanti la gravidanza.

Per tali motivi, il brocardo latino “mater semper certa est” non trova piena concretizzazione.

L’ordinamento giuridico italiano, in virtù dell’art. 269, co. 3, c.c., riconosce giuridicità al predetto principio, che trova la sua base e ragione nella natura delle cose (“La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”).

Tale previsione è espressione di un principio fondamentale e di ordine pubblico, che disciplina un diritto inviolabile della persona, posto a protezione della dignità umana, dell’identità personale e del suo collocamento nell’ambito sociale[51].

Il suddetto principio, altresì, intende tutelare la relazione materna che si instaura nei nove mesi di gestazione: in tale lasso di tempo, le parti imparano a conoscersi per riconoscersi al momento della nascita in un “nuovo rapporto fusionale prolungamento di quell’unione corporea, che accompagna i primi anni vita del nuovo nato preparando il mondo al suo arrivo”[52].

Nella gestazione surrogata, invece, il fanciullo viene destinato ad un progetto procreativo che stabilisce originariamente la rimozione della relazione materna, al fine di soddisfare il desiderio di genitorialità altrui.

La scelta del legislatore italiano di vietare la maternità surrogata deriva dalla necessità di preservare la stabilità della relazione materna, a garanzia di una pluralità di interessi e diritti del bambino e della madre.

Oltre ad intaccare sull’idea di maternità, tale fenomeno, muta totalmente il presupposto della responsabilità genitoriale, che finisce per essere concessa non più in ragione della procreazione, bensì sulla base della volontà. 

Pertanto, responsabile del figlio è chi assume una condotta tale da provocarne la nascita: ne discende allora che non è più genitore chi genera, bensì chi desidera, palesa la volontà di essere riconosciuto tale[53].

Il ricorso alla pratica sopramenzionata ha comportato anche la frammentazione della nozione di paternità, essendo lo status paterno riconducibile fino a tre soggetti distinti: il padre genetico, il padre committente e il padre legale.

Dal quadro appena tracciato affiora come la maternità surrogata offra modalità di generazione della vita inconciliabili con il tradizionale principio della bigenitorialità.

Pertanto, il diritto deve delineare nuove forme di tutela e sviluppare altre tecniche in modo tale da considerare la variabilità degli interessi e dei diritti implicati.

In mancanza della connessione tra società e diritto per via normativa, spetta all’operatore del diritto provvedere, se possibile, in via interpretativa, individuando un equilibrio tra i contrapposti diritti e interessi: da una parte il desiderio di genitorialità congiuntamente all’interesse del minore; dall’altra, l’interesse dello Stato a impedire che il corpo umano diventi fonte di lucro con conseguente impatto sulla dignità della persona[54].

Il problema effettivo consiste nell’accettare la complessità del confronto e del dialogo sul tema, pur se affiancata dalla triste percezione che l’apparato giuridico ed i suoi mezzi non risultino sufficienti per affrontarlo[55].


Note e riferimenti bibliografici

[1] Come osservato da S. RODOTA’, “Diritto d’amore”, Laterza, Bari, 2017, “il diritto viene reintegrato in un contesto culturale dove alla disciplina dell’amore si sostituisce la sua consapevolezza. Al diritto è legittimo chiedere un’assenza, ma non di abdicare al suo ruolo di essere garanzia di libertà e diritti – dunque pure del diritto d’amore. Si tratta di rimuovere ostacoli, come dice con bella lingua l’art. 3 della Costituzione, per rendere concretamente possibile, in ogni momento della vita, l’eguaglianza”.

[2] Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (“Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”).

[3] M. L. DI PIETRO, M. CASINI, Il dibattito parlamentare sulla procreazione medicalmente assistita, in Medicina e Morale, n. 4, 2002, 646.

[4] M. SESTA, Dalla libertà ai divieti: quale futuro per la legge sulla procreazione medicalmente assistita? in Il Corriere giuridico, 2004, 1408.

[5] P. RESCIGNO, Una legge annunciata sulla procreazione assistita, in Il Corriere giuridico, 2002, 981 ss.

[6] Comitato Nazionale per la Bioetica, Identità e statuto dell'embrione umano, 22 giugno 1996.

[7] Ibidem, 14.

[8] Ibidem, 14.

[9] Comitato Nazionale per la Bioetica, Parere del C.N.B. Sulle tecniche di procreazione assistita. Sintesi e conclusioni, 17 giugno 1994, 9 ss.

[10] E. DOLCINI, Embrione, pre-embrione, ootide: nodi interpretativi nella disciplina della procreazione medicalmente assistita (l. 19 febbraio 2004 n. 40), in Riv. It. di Dir. e Proc. Pen., 2, 2004, 440 ss

[11] Sul punto, si veda A. BELLELLI, La sperimentazione sugli embrioni: la nuova disciplina, in Familia, I, 2004, 979 ss.

[12] Nella sentenza 13 aprile 2016, n. 84, la Corte dichiara che “la dignità dell'embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente individuato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo   costituzionale riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.”.

[13] In particolare, la Consulta evidenzia il contrasto con l’art. 8 CEDU. Tale disposizione è stata oggetto di molteplici pronunce della Corte EDU (sent., 26 giugno 2014 Mennesson e Labassee v. Francia; parere 10 aprile 2019).

[14] L. 10 dicembre 2012, n. 219 (“Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali”); D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (“Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”).

[15] Corte cost., 23 ottobre 2019, n. 221.

[16] Come precisato nella sentenza in commento, “un intervento puntuale di questa Corte rischierebbe di generare disarmonie nel sistema complessivamente considerato”.

[17] In tale senso, la Corte costituzionale osserva che “solo un intervento del legislatore, che disciplini in modo organico la condizione dei nati da PMA da coppie dello stesso sesso, consentirebbe di ovviare alla frammentarietà e alla scarsa idoneità degli strumenti normativi ora impiegati per tutelare il “miglior interesse del minore”.

[18] Ai sensi dell’art. 67, co. 1, della legge n. 218/1995: “In caso di mancata ottemperanza o di contestazione del riconoscimento della sentenza straniera o del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, ovvero quando sia necessario procedere ad esecuzione forzata, chiunque vi abbia interesse può chiedere alla corte d'appello del luogo di attuazione l'accertamento dei requisiti del riconoscimento”.

[19] Cass. sez. civ. 8 maggio 2019, n. 12193.

[20] Ai sensi dell’art. 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184: “I  minori  possono  essere  adottati  anche quando non ricorrono le condizioni di cui al primo comma dell'articolo 7: a) da persone unite al minore, orfano di padre e di madre, da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell'altro coniuge; c) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo.  L'adozione, nei casi indicati nel precedente comma, è consentita anche in presenza di figli legittimi.  Nei casi di cui alle lettere a) e c) l'adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l'adottante è persona coniugata e non separata, il minore deve essere adottato da entrambi i coniugi. In tutti i casi l'adottante deve superare di almeno diciotto anni l’età di coloro che intende adottare”. Si veda, Cass. sez. un. 8 maggio 2019, n. 12193.

[21] A livello temporale, il procedimento risultava incompatibile con le esigenze risaltate dalla CEDU.  

[22] Corte cost., 29 maggio 2020, n. 102.

[23] Si ricordi che, tale principio è stato ripreso sotto altra forma anche in altre decisioni. Si veda, Corte EDU, 26 novembre 2013, X contro Lettonia; Corte cost., 10 febbraio 1981, n. 11; Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272; Corte cost., 12 aprile 2017, n. 76; Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 17; Corte cost., 22 ottobre 2014, n. 239.

[24] A tale proposito, la Consulta, nella sentenza 9 maggio 2013, n. 83, osservava come “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”.

[25] Così, A. RUGGERI, La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32e 33 del 2021), in Consulta Online, n. 1, 2021, 222.

[26] Sul tema, si veda E. LAMARQUE, La ratifica del Protocollo n. 16 alla CEDU: lasciata ma non persa, in Giustizia insieme, 2020; E. CRIVELLI, Il contrastato recepimento in Italia del Protocollo n. 16 alla Cedu: cronaca di un rinvio, in Osservatorio costituzionale, n. 2, 2021; B. NASCIMBENE, La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto, in Giustizia insieme, 2021; I paradossi della mancata ratifica del protocollo n. 16 alla Cedu, in Quaderni Costituzionali, n. 1, 2021, 180-183, E. ALBANESI, Abbiam fatto quindici, possiam fare anche sedici...Sull’approvazione della legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo n. 15 alla CEDU da parte dell’Italia (e sulle prospettive del Protocollo n. 16), in Consulta Online, n. 1, 2021, 190-191.

[27] E. ALBANESI, Un parere della Corte EDU ex Protocollo n. 16 alla CEDU costituisce norma interposta per l’Italia la quale non ha ratificato il Protocollo stesso?, in Consulta Online, n. 1, 2021, 236.

[28] O. FERACI, Il primo parere consultivo della CEDU su richiesta di un giudice nazionale e l’ordinamento giuridico italiano, in Osservatorio sulle fonti, 2019, n. 2, 10 s.

[29] Così, G. BARCELLONA, Le “brutte bandiere”: diritti, colpe e simboli nella giurisprudenza costituzionale in materia di GPA. Brevi note a margine di Corte cost. 33/2021, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 2, 2021, p. 120, per la quale “la dignità della donna diviene la “brutta bandiera” che i bambini surrogati saranno chiamati a portare, simbolo indelebile delle colpe dei loro padri”.

[30] Tale principio è rinvenibile in talune fonti sovranazionali. In particolare, l’art. 3, par. 1, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (1989) disciplina il rilievo del superiore interesse del minore nelle decisioni che lo riguardano; l’art. 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) sancisce che “in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”.

[31] Così, R. TREZZA, Maternità surrogata: ordine pubblico o best interest of the child?, in Federalismi, n. 22, 2020, 295.

[32] Sulla sentenza, si veda A. MORELLI, Quando la Corte decide di non decidere. Mancato ricorso all'illegittimità conseguenziale e selezione discrezionale dei casi (nota a margine dell'ord. n. 369 del 2006), in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006.

[33] Per un primo commento, si veda A. MORRONE, Shopping di norme convenzionali? A prima lettura dell’ordinanza n. 150/2012 della Corte costituzionale, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2012.

[34] Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria.

[35] I. PELLIZZONE, Sentenza della Corte europea sopravvenuta e giudizio di legittimità costituzionale: perché la restituzione degli atti non convince. Considerazioni a margine dell’ord. n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 3, 2012, 4.

[36] B. LIBERALI, La procreazione medicalmente assistita con donazione di gameti esterni alla coppia fra legislatore, giudici comuni, Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista AIC, n. 3, 2021, 16.

[37] A. RICCIARDI, La Corte costituzionale, decidendo di non decidere, lascia aperta la questione degli embrioni crioconservati, in Osservatorio Costituzionale, n. 2, 2016, 5.

[38] Una prima lettura è compiuta da A. MUSUMECI, “La fine è nota”. Osservazioni a prima lettura alla sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale sul divieto di fecondazione eterologa, in Osservatorio costituzionale, 2014. 

[39] Per un analisi della pronuncia, si veda G. BARCELLONA, La Corte e il peccato originale: quando le colpe dei padri ricadono sui figli. Brevi note a margine di Corte cost. 272 del 2017, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2018.

[40] L’Uniform Parentage Act è un atto legislativo originariamente promulgato nel 1973 dalla Conferenza nazionale dei commissari delle leggi statali uniformi. È stato modificato nel 2002 e nel 2017. Le modifiche più recenti si riflettono nella versione del 2017 dell’Uniform Parentage Act. La legge serve a fornire un quadro giuridico uniforme per stabilire la paternità dei figli minori nati da coppie sposate e non sposate.

[41] Indian Council of Medical Research. The Assisted Reproductive Technology (regulation) Bill 2010.

[42] In particolare, il Medical Vision deve essere concesso in presenza delle seguenti condizioni: coppia coniugata da almeno due anni, presentazione di un documento nel quale essa dichiari di prendersi cura del minore.

[43] Il Rapporto della Commissione d'inchiesta sulla fecondazione umana e l'embriologia, denominato Rapporto Warnock dal nome del presidente del comitato Mary Warnock, è un’indagine governativa del Regno Unito sugli impatti sociali del trattamento dell'infertilità e della ricerca embriologica. La nascita di Louise Brown nel 1978 a Oldham, nel Regno Unito, accese il dibattito sulle tecnologie riproduttive ed embriologiche.

[44] Per L. VELAZQUEZ, Mercificazione del corpo femminile e gestazione surrogata, in Studia Bioethica, n. 3, 2018, 24, “al massimo si potrà parlare di “gestazione surrogata”. 

[45] I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di P. CHIODI, Roma-Bari, 1993, 59-61.

[46] G. DUCHÉ, Abolition de la GPA et de la prostitution, même combat contre le patriarcat, in Sisyphe.org, 3 aprile 2016. 

[47] C. PATEMAN, Le contrat sexuel, Parigi, 2010.

[48] A tale proposito, F. PROSPERI, La gestazione nell’interesse altrui tra diritto di procreare e indisponibilità dello status filiationis, in Verso nuove forme di maternità?, a cura di C. A. GRAZIANI, I. CORTI, Milano, 2002, cit., 130, osserva che “non è agevole individuare e soprattutto dare concretezza all’interesse di un figlio soltanto “progettato”, che potrà non vedere la luce se ogni fase del lungo e complicato iter riproduttivo non dovesse dare l’esito sperato”.

[49] Così, A. G. GRASSO, Per un’interpretazione costituzionalmente orientata del divieto di maternità surrogata, in Teoria e critica della regolazione sociale, n. 17, 2018, 176.

[50] R. BIN, Maternità surrogata: ragioni di una riflessione, in BioLaw Journal, n. 2, 2016, 1.

[51] Così, M. R. MOTTOLA, Art. 269, in Commentario al codice civile, a cura di P. CENDON, Milano, 2010, 404.

[52] F. ANGELINI, Bilanciare insieme verità di parto e interesse del minore. La Corte costituzionale in materia di maternità surrogata mostra al giudice come non buttare il bambino con l’acqua sporca, in Costituzionalismo.it, n. 1, 2018, cit., 161.

[53] B. SGORBATI, Maternità surrogata, dignità della donna e interesse del minore, in BioLaw Journal, n. 2, 2016, 128.

[54] A. MARGARIA, Nuove forme di filiazione e genitorialità. Leggi e giudici di fronte alle nuove realtà., Bologna, 2018, 200.

[55] G. BRUNELLI, “Nel dedalo della maternità surrogata: universalismo dei diritti, ruolo della legge e autonomia femminile”, in Maternità filiazione genitorialità. I nodi della maternità surrogata in una prospettiva costituzionale, a cura di S. NICCOLAI, E. OLIVITO, Napoli, 2017, 77-79.