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Pubbl. Mar, 22 Set 2015

Danno da mancata o tardiva diagnosi.

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Marco Perasole


Il continuo e conflittuale rapporto tra medico e paziente continua a far discutere la Giurisprudenza.


Da un lato c’è il diritto alla vita e alla corretta informazione del paziente, dall’altro il diritto del medico all’autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutiche. Non è sicuramente facile venirne a capo, considerando altresì come la complessità diagnostica, oggi come oggi, assuma rilievi sempre più contorti e spinosi.

La Terza sezione civile della Cassazione torna, ancora una volta, sul classico e conflittuale rapporto tra medico e paziente per sottolineare il nesso di causalità istantaneo tra la non adeguata diagnosi e i danni subiti dal malato.

In particolare, la Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 16993/2015, ha sancito che “la mancata o tardiva diagnosi di una patologia terminale comporta la responsabilità medica del professionista e, per gli eredi, il diritto al risarcimento del danno morale terminale patito dal loro congiunto”, sottolineando che i danni consistono nella negazione della chance di vivere più a lungo e di patire minori sofferenze, al di là della gravità della malattia.

I fatti risalgono ai primi anni ‘90, quando una donna del Palermitano riceve, suo malgrado in ritardo, una diagnosi di una neoplasia alla cervice uterina; in precedenza, il suo ginecologo, non aveva individuato la presenza della massa tumorale, nonostante le continue perdite ematiche subite dalla paziente che, pur facendo presente la sua condizione al professionista, venivano, purtroppo per lei, sottovalutate e non correttamente valutate e, per tal motivo (a questo punto, è giusto dirlo), divennero ben presto fatali.

Gli eredi della donna, deceduta in virtù del progredire del carcinoma, propongono domanda di risarcimento danno nei confronti del ginecologo che la ebbe in cura per cinque mesi tra il 1992 e il 1993.
Il primo grado, cosi del resto come il secondo, non fu favorevole agli attori: in particolare, la Corte d’Appello di Palermo, pur avendo rilevato nel corso del processo la condotta omissiva del medico ginecologo, aveva negato il diritto degli eredi al risarcimento del danno in quanto ritenevano mancante il nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della signora, considerando la patologia, di sua natura, particolarmente aggressiva e dall'esito inevitabile.

In senso contrario, invece, si sono espressi gli Ermellini: secondo questi ultimi, "la mancanza di una diagnosi tempestiva ha di fatto negato la possibilità di un intervento palliativo procurando alla paziente un danno per non aver appunto potuto alleviare almeno i dolori che le provocava il tumore e, in virtù di tale interpretazione, va riconosciuto agli eredi il risarcimento per danno morale terminale, diritto ad essi trasmissibile".

I giudici, premettono, in primis, che “la misura della perizia nell'attività esercitata muta in relazione alla qualifica professionale del debitore ed alla specializzazione nello specifico settore di attività (cfr. Cass., 22222/2014), ma precisano anche che, al professionista è richiesta una diligenza particolarmente qualificata, nonché il rispetto degli obblighi di buona fede oggettiva, correttezza, obblighi di informazione e di solidarietà sociale.
Nella fattispecie in esame, il comportamento tenuto dal medico non è stato improntato alla dovuta diligenza, in quanto il professionista ha attuato un approccio diagnostico insufficiente in relazione ad un quadro patologico che andava approfondito con esami diagnostici specifici.

Inoltre, la denegata possibilità di un intervento palliativo conseguente ad una diagnosi tempestiva, “cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne” e inoltre sopportare “il dolore che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso”. Il corretto intervento del medico, anche se non avrebbe potuto salvare la vita, avrebbe comunque concesso al paziente la “chance di conservare, durante quel decorso, una "migliore qualità della vita" intesa quale possibilità di programmare (...) il proprio essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle proprie attitudini plico-fisiche in vista e fino a quell'esito”.  A ciò si aggiunge la copiosa giurisprudenza che evidenzia la perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare durante il decorso una "migliore qualità della vita". Altresì va detto che, in un’ottica laicista, il paziente tempestivamente e correttamente informato avrebbe anche potuto scegliere cosa fare per fruire della vita residua, rinunciando alle cure per limitarsi ad esplicare le proprie attitudini psico-fisiche liberamente!

Non ci resta che aspettare gli esiti della Corte d’Appello, alla quale la Cassazione ha rinviato accogliendo il ricorso degli eredi, per la determinazione del quantum debeatur riferito al danno morale terminale ad essi dovuto a seguito della morte della congiunta.