Pubbl. Gio, 29 Apr 2021
La legge come sola fonte di produzione del diritto: la grande illusione dello Stato moderno
Modifica paginaL´articolo, dopo aver descritto i caratteri fondamentali dei sistemi giuridici che più si sono distinti nel corso della storia, si propone di evidenziare il riduzionismo operato dai moderni legislatori a partire dalla Rivoluzione francese. Il diritto, da quel momento in avanti, è visto soltanto come strumento di potere nelle mani del sovrano: egli, attraverso il prediletto strumento della legge, è considerato il solo in grado di avere autorità normativa e di imporla sulla società. Un simile sistema annulla la innata pluralità dell´ordinamento, composto, oltre che da leggi, anche da altre fonti ugualmente necessarie a manifestare la grandezza del diritto.
Sommario: 1. Ubi societas ibi ius; 1.1. Il diritto come sostanza della società; 2. L’esperienza giuridica medievale; 2.1 L’ordine del diritto comune; 2.2 Presenza giuridica della Chiesa; 3. La modernità giuridica e il culto della legge; 3.1 La rivoluzione francese: una rivoluzione borghese per l’attuazione di uno Stato monoclasse; 4. Riflessioni conclusive.
1. Ubi societas ibi ius
Per meglio affrontare la tematica proposta dal presente elaborato, occorre muovere il discorso partendo da alcune considerazioni inerenti all’evoluzione storica e alla valenza epistemologica sperimentata dal fenomeno giuridico. Una simile premessa si propone la finalità di ripercorrere – seppur in maniera non del tutto esaustiva – alcuni tra i più significativi metodi di approccio ai variegati sistemi di regole succeduti nel corso dell’incessante evoluzione storica, proposti da illustri giuristi e pensatori di ogni tempo.
Numerose, infatti, sono le pagine scritte e le teorie formulate dai più attenti osservatori – di estrazione non soltanto giuridica – che, testimoniando il loro tempo, hanno cercato di comprendere la natura e la portata di un fenomeno antico quanto l’uomo: il diritto.
Analizzando con più attenzione i diversi paesaggi storici comparsi sulla scena della plurimillenaria civiltà umana, si può notare come già nel mondo antico sussistevano sistemi di regole condivise e, con questo, ritenute indispensabili, vòlte a garantire un certo ordine all’interno della comunità.
Regole che il più delle volte coincidevano con tradizioni e pratiche religiose da osservare scrupolosamente, formulate per conquistare quel favore degli dèi talmente necessario ad assicurarsi il benessere della società.
Tra le diverse civiltà che popolano il mondo antico, quella romana sembra distinguersi per l’originalità non solo delle regole vigenti ed osservate, ma anche per una raffinata formulazione e catalogazione di tecniche giuridiche preposte a regolare concretamente la realtà quotidiana.
I Romani, infatti, furono i primi a formulare un sistema giuridico ben articolato, avvalendosi anche di una riflessione filosofica mai fine a sé stessa[1], munita di quel necessario pragmatismo tale da risponde alle esigenze sociali, economiche e politiche del tempo.
Fu, nella sostanza, una civiltà capace di leggere in termini giuridici il mondo circostante[2].
Un così originale sistema giuridico fu possibile soltanto con l’ausilio di un ceto di esperti, i “giuristi” – termine, per altro, sconosciuto nelle lingue antiche, tranne che nel latino[3] – fautori di una vera e propria «tecnologia sociale»[4] subito distintasi da «ogni altra produzione culturale o centro istituzionale – dalla religione, dalla morale, dalla stessa politica – permettendone un’identificazione autonoma, netta e definitiva»[5].
Grazie all’incommensurabile lavoro compiuto dagli iuris prudentes, il diritto romano ha conosciuto la peculiarità di essere un ordinamento composto non solo da norme scaturenti dall’autorità costituita, ma anche – e soprattutto – da regole e istituti creati per regolare concretamente la realtà quotidiana dell’uomo comune ed, in questo, il lavoro dei giuristi non poteva che assurgersi come decisivo[6].
1.1. Il diritto come sostanza della società
La straordinarietà dell’esperienza giuridica romana deve essere ricercata, inoltre, nell’utilizzo dei vocaboli, intesi come mezzi necessari per esprimere precise vicende giuridiche intercorrenti tra i singoli. Tra i molteplici termini utilizzati, ve n’è uno che sembra in grado di ricomprenderli tutti, e sul quale occorre soffermare l’attenzione per la capacità di riflettere l’essenzialità del diritto nei rapporti sociali.
Come è noto, fin dal periodo arcaico della storia romana, il termine ius indicava un sistema di regole ordinanti la società. L’utilizzo di un simile vocabolo sembra esprimere con grande genialità la caratteristica pura del diritto, giungendone fino al cuore e svelandone, così, il concreto valore.
Non vi sono, tuttavia, posizioni concordi riguardo l’esatta origine e il corretto significato di questo termine. Ciò che interessa è il dato comune che si può far emergere dalle diverse spiegazioni prospettate dai molteplici studiosi.
Pur essendovi, come anticipato, abbondanti spiegazioni sulla questione, è possibile, di contro, raggrupparle entro due categorie generali: nella prima vi si collocano quelle teorie fondate su una ricerca semantica ordinata intorno ad aspetti religiosi e, dunque, rituali e magici; nell’altra, quelle tesi che, in maniera del tutto originale e fantasiosa, costruiscono la ricerca indirizzandola su aspetti che esprimono la tradizione popolare.
Pur non avendo la presunzione di risolvere questioni riccamente controverse, che conducono, per altro, su strade impraticabili che esulano oltremodo dal presente lavoro, verrà colta soltanto l’occasione per passarle in rassegna, con l’intento di costruire l’intelaiatura necessaria sulla quale congegnare la presente argomentazione.
Da una prima analisi di alcune fonti, affiora un significato di ius che può essere ricondotto alla forte componente religiosa dominante la società romana, specie nel periodo arcaico.
L’assenza di una netta distinzione tra ius e fas – separazione che, invece, nei secoli a seguire, troverà compiuta attuazione con il diffondersi della riflessione illuminista e l’avvento della modernità giuridica – può essere validamente considerata quale punto di partenza di tali teorie.
Secondo una prima impostazione di pensiero è possibile, infatti, correlare il termine ius ai lemmi di derivazione iranica e vedica yaos e *yaus, indicando, con ciò, «uno stato di conformità secondo le prescrizioni dei riti»[7].
È indubbio il legame religioso che il diritto possedeva in quel tempo e l’importanza dei riti da seguire per rendere gradimento agli dèi. In questo era da considerarsi centrale la sapienza dei pontefici, una sapienza fondata, in particolar modo, sulla custodia dei valori religiosi e sul culto degli antenati[8].
Era importante seguire il tracciato segnato dagli antichi patres che, unito al culto della divinità – attuando, cioè, in maniera indiscussa le prescrizioni e i riti custoditi dai carismatici sacerdoti –, garantiva il benessere della società. Non è difficile, allora, sostenere che il ius rappresentasse la tradizione, il mos, nel suo aspetto tipicamente normativo[9].
Una tradizione impregnata del valore misterioso del tempo, con la sua forza capace di scandire gli eventi e di ripeterli ciclicamente. Il mos, con questo, figurava metaforicamente l’immagine del divenire, trasformandosi in un insieme di rituali e di regole che consentivano di ordinare il presente e di ridurne le incertezze e la precarietà[10].
Non rispettare questo sistema, «significava spezzare l’ordine della comunità e la rete dei suoi equilibri simbolici, mettersi fuori della protezione degli dèi, e quindi del ius»[11].
È chiara, allora, la matrice salvifica sottesa al rispetto delle antiche prescrizioni, che può essere considerata il vero collante della comunità. All’interno della linea di pensiero ora descritta, bisogna collocare quel significato di ius che, secondo altre teorie, lo vede derivare da *yowos e quindi da yoh, inteso, appunto, come salvezza[12].
Una salvezza che passa soltanto attraverso il diritto, speciale strumento di contatto tra l’uomo e la divinità, tra l’imperfezione del mondo e la perfezione del cosmo.
È giusto, allora, ritenere che fuori del diritto non può esservi alcun bene per la comunità.
Sono, poi, i “custodi del diritto” (in primis i pontefici e poi, con la laicizzazione della conoscenza giuridica, gli studiosi del settore, gli advocati e i praetores) a garantire questo ordine, consentendo allo ius di trovare compiuta realizzazione e a porsi quale base fondativa della comunità: è stato, infatti, Cicerone ad esaltare nel De Republica (51 a.C.) l’importanza del lavoro dei giuristi, centrale – soprattutto – nel periodo repubblicano.
Egli considera il ius come «logos della repubblica, e il fondamento della sua virtù. Un logos che non è solo pensiero, ma che, in quanto ragione disciplinante, ha dalla sua il vantaggio di essersi incarnato in «ordine normativo e regola sociale […]; in fedeltà agli dèi e ai culti […]; in tempra morale […]; in principio etico»[13].
Il diritto assolve, inoltre, ad una funzione identitaria, dissolta nel sentire della comunità: «Perché il popolo possa farsi repubblica non basta che sia moltitudine; occorre che questa massa si presenti intrinsecamente strutturata e coesa; che vi sia un disciplinamento condiviso, e la diffusa percezione di un bene comune. Il diritto, il ius, nelle sue molteplici manifestazioni […] è la trama di questo tessuto; la chiave di volta dell’intera costruzione: senza popolo non c’è repubblica, ma senza diritto non può darsi identità di un popolo»[14].
Da ciò è possibile considerare il diritto come una realtà capace di esprimere la società, di identificarla insieme alla sua storia e alla sua cultura, così come avviene per la religione.
Di posizioni diverse sono, invece, le opinioni che ricercano il significato di ius in maniera del tutto originale, risalendo addirittura ad un’accezione che esprime le tradizioni culinarie.
Pur essendo dotate di carattere immaginifico, meritano, comunque, di essere citate per la straordinarietà del messaggio che trasmettono. Il riferimento è, innanzitutto, agli studi compiuti da Isidoro di Siviglia – teologo vissuto tra il VI e VII secolo – e, in particolare, ad una delle sue opere più conosciute, le Etymologie (636).
L’illustre pensatore ebbe modo di individuare l’origine del vocabolo in questi termini: «lo ius, ossia il brodo, o sugo, è stato così denominato dai maestri cuochi con riferimento allo ius, ossia al diritto, in quanto norma del condimento»[15].
Da una simile definizione traspare, di certo, un contenuto diametralmente opposto rispetto ai precedenti, ma riesce ugualmente ad esprimere un notevole significato. Ciò che viene in rilievo è quel dato inconfondibile, che intende il diritto come la sostanza della società: esso è ciò che le conferisce sapore, esaltandone l’essenza.
Solo attraverso questo speciale strumento una comunità di persone riesce ad interagire pacificamente, riflettendo la naturale socialità dell’uomo che passa anche attraverso di esso.
Della medesima opinione, sembra essere l’etimologia individuata da Ernout e Meillet, i quali ricercano il significato di ius nei termini yuh (inteso come brodo di carne) e di juxa, juse (nel senso di zuppa di pesce).
Il vocabolo, inoltre, esprime nella lingua francese e provenzale più risalenti il significato di salsa e di succo (sauce, jus)[16]. Sulla stessa linea di pensiero, infine, bisogna collocare la definizione resa dall’Oxford Latin Dictionary, secondo il quale il termine in questione deriverebbe da yus, indicando, anche in questo caso, un brodo di carne o di pesce, una salsa[17].
Pur nella totale divergenza di opinioni e nella molteplicità di contenuti variamente individuati, da un’analisi critica delle diverse argomentazioni prospettate si può ricavare questo dato incontrovertibile: sia se lo si consideri nel significato di salvezza (e quindi, di sacrificio e di purificazione, praticati con riti precisi da seguire), sia in riferimento all’accezione di succo, di sostanza, di ciò che conferisce sapore, il diritto è imprescindibile per la società, è inimmaginabile una società senza diritto.
È consentito sostenere, per questi motivi, che il diritto è la società ed esso rappresenta la sua più genuina manifestazione.
2. L’esperienza giuridica medievale
Non si può proseguire la riflessione senza aver prima analizzato – seppur in maniera sommaria – i tratti distintivi che hanno contrassegnato la giuridicità medievale. Contrariamente a quanto asserito dalla diffusa opinione comune, la civiltà medievale fu una civiltà prolifica sotto ogni punto di vista – economico, artistico, letterario, politico, filosofico e teologico – coinvolgendo conseguentemente la stessa giuridicità.
Continuare a reputare questo segmento della storia quale momento oscuro dell’umanità, significa soltanto proseguire con quei maliziosi riduzionismi abilmente formulati dalla speculazione moderna, della quale, in certa misura, la cultura contemporanea resta ancora erede.
A gettare le basi di un’immagine così carica di gravi pregiudizi, furono – per primi – gli intellettuali umanisti, i quali si proponevano come missione quella di costruire una nuova civiltà, promettendosi di fondarla su basi recuperate dal mondo classico, del quale, per altro, erano ammirati conoscitori.
A tal riguardo, può essere validamente indicato come emblema che manifesta concretamente questa mentalità, la maggiore opera prodotta dallo storico e umanista romagnolo Flavio Biondo, le Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades (1474).
In essa, dopo aver esaltato le gesta della gloriosa civiltà romana, si descrive, infatti, una media aetas come parentesi buia tra due luminose civiltà: l’antica e la moderna.
Ad evidenziare l’approccio semplicistico e ricco di preconcetti nei confronti del periodo medievale – operato, come detto, della storiografia e della riflessione moderna – sono stati, negli ultimi decenni, autorevoli studiosi e medievisti, che hanno dimostrato la straordinaria vivacità della civiltà medievale (si pensi agli incommensurabili studi attuati dal medievista Jacques Le Goffe o alla preziosissima riflessione compiuta dallo storico del diritto Paolo Grossi), le cui meritevoli attività di ricerca debbono essere elevate a necessari punti di orientamento.
Volgendo, ora, l’attenzione sulla complessa storia medievale, si possono distinguere, dal punto di vista giuridico, quelle peculiarità che – così come avviene per ogni momento storico – la contraddistinguono. Il dato che merita di essere evidenziato è, in primis, l’assenza di una realtà politica assoluta, come, invece, era stata quella romana.
Con il crollo dell’Impero romano (che convenzionalmente viene individuato nel 476 d.C.), la società proto-medievale, animata ormai da nuovi protagonisti – soprattutto di provenienza germanica – non avvertì la necessità di costruire un nuovo apparato politico-amministrativo a vocazione universale come quello romano.
Alla base di questa nuova mentalità, riposa, in buona sostanza, il “disinteresse” del potere politico rispetto al campo della produzione giuridica. Vi è, infatti, un vero e proprio atteggiamento di «appartatezza»[18] mostrato dal sovrano nei confronti del giuridico, un’assenza che sarà la vera protagonista nei lunghi secoli medievali e che consentirà al diritto di manifestarsi liberamente in tutta la sua concreta natura.
Proprio in grazia di un sistema politico incompiuto, la società medievale ha conosciuto un pullulare di particolarismi, producendo un’esperienza giuridica frutto di una vera e propria rielaborazione del diritto romano con le consuetudini locali.
Questo originale metodo di approccio al fenomeno giuridico ha consentito a che si producesse un generale atteggiamento di reverenza verso la prassi, elevando la consuetudine a fonte primaria di diritto, alla quale è inferiore lo stesso potere politico, in questo momento raffigurato dal Principe.
Quest’ultimo, infatti, non è ritenuto degno di creare il diritto, ma svolge, nonostante questo, il nobile ruolo di custodirlo.
La sua funzione si risolve soltanto nello iurisdicere, nello svelare agli uomini un diritto già esistente, che deve essere solo ricercato e poi manifestato attraverso quegli strumenti che non sono, appunto, creativi ma espressivi di una realtà[19].
Ciò che distingue la norma consuetudinaria è che essa non è limitata ad una mera ripetizione di atti, ma assurge ad un vero e proprio fatto normativo, cui partecipano per la sua formazione tutte le forze sociali e naturali.
Ed è proprio questo l’aspetto ad essere di straordinaria importanza, attraverso il quale si manifesta tutta l’essenza giuridica medievale. Significative di tale concezione sono le parole di Alberto Magno, che meritano di essere riportate nella loro eloquente espressività: «La lex è la norma che si origina da tre soggetti: il popolo, per la cui utilità è posta, che la accetta e la osserva; il maestro di diritto, che la individua e la redige in forme tecnicamente appropriate; il principe, che vi appone il crisma della sua autorevolezza»[20].
Nonostante l’eccellente enunciazione offerta dal Doctor Universalis, occorrono, tuttavia, alcune precisazioni aventi lo scopo di respingere ogni incursione deformante per la comprensione del messaggio appena proposto.
Pur ricorrendo nel linguaggio giuridico medievale il termine lex – così come individuato, tra gli altri, da Albero Magno – non bisogna cadere in facili fraintendimenti, soprattutto se si seguono gli schemi presi in prestito dalle influenti concezioni moderne, alle quali, in larga misura, la cultura giuridica contemporanea resta ancora legata.
Il termine in questione, infatti, non rimanda al concetto di legge inteso dai giuristi nella modernità giuridica – nel suo senso, cioè, di strumento coercitivo che si impone su una comunità – ma esprime, latu sensu, un momento nel quale la consuetudine acquista una validità, una auctoritas, grazie all’intervento del sovrano[21].
Vi è, infatti, una partecipazione complessiva nella formazione del diritto – il quale non è esclusivo appannaggio di un singolo gruppo ristretto o mezzo ridotto a strumento di autorità – in cui ogni frammento della società viene assortito al bene comune. Ciò consente al popolo di acquistare la qualità di universitas, cioè di una realtà compiuta e complessa.
Come è noto, la comunità è composta da singoli, ma questi al di fuori di essa sono un nulla, specie dal punto di vista giuridico.
Evocativo di tale stato di cose è il brocardo attribuito a Cipriano “Extra Ecclesiam nulla salus” che può valere non solo per ciò che riguarda le realtà ultime dopo la morte, ma anche la vita quotidiana del singolo uomo pellegrino sulla terra: al di fuori della comunità, non solo ecclesiastica, non può esserci salvezza.
Le comunità, a partire da quelle più sperdute nel mondo rurale fino a giungere a quella universale, nel momento in cui «se habeant in unum corpus»[22], fondano quell’articolato sistema medievale definibile come “società di società”, nel quale regna un’autentica armonia sociale.
Sono, appunto, i corpi intermedi ad esprimere questo ordine, nel quale campeggia – in maniera vibrante – il diritto, supremo motore dell’effervescente civiltà medievale.
2.1. L’ordine del diritto comune
Il dirompente crollo della civiltà romana ha comportato, come naturale conseguenza, il diffondersi di un atteggiamento di paura ed incertezza in seno alla mentalità occidentale.
Tale sentimento di timore, si pone alla base, paradossalmente, del nuovo scenario nel quale si modella un’esperienza giuridica peculiare, aderente alle istanze dell’uomo medievale.
Infatti, sono le forze della natura e della società che – come si è visto – dirigono l’azione quotidiana dell’uomo; quest’ultimo riserba un atteggiamento di completa impotenza dinanzi a simili eventi, accettandoli per come sono, senza aver pretesa di domarli.
Dal punto di vista giuridico si parla, stricto sensu, di reicentrismo, perché è la res a sprigionare, per sé stessa, forza giuridica, in guisa di un’entità misteriosa ed impenetrabile, orientando la condotta stessa dell’uomo. Sono le cose ad esprimere, così, straordinaria capacità ordinativa e a porsi al centro del cosmo giuridico.
Si diffonde, per questo, un singolare atteggiamento di umiltà nei confronti del mondo, la cui conoscenza resta impermeabile nel profondo, dimostrando l’inarrivabile sapienza divina.
Molti sono gli studiosi e i letterati che manifestano una simile forma mentis. I versi del Sommo Poeta Dante sembrano riassumere al meglio questa filosofia, esprimendo tutta la limitatezza della ragione umana, che può essere sostenuta e completata solo grazie alla Rivelazione, a Dio che si avvicina all’uomo: «State contenti, umana gente al quia/ ché, se potuto aveste veder tutto,/mestier non era parturir Maria»[23].
Tale comportamento, si dimostra bel lungi dall’essere identico a quello tipico della modernità, nel quale si concepisce – e si pretende – all’opposto, una visione di uomo chiamato ad essere il protagonista della storia, un homo faber, in grado di realizzare sé stesso e di plasmare il cosmo, con evidenti conseguenze giuridiche che verranno descritte in prosièguo.
Nel contesto medievale è la prassi, per i motivi anzi richiamati, ad elevarsi a fonte primaria di diritto, una prassi costruita dall’inestimabile conoscenza giuridica sedimentata nei lunghi secoli medievali, formulata soprattutto dall’attività notarile.
Accanto a questo, è, poi, l’imponente fioritura economica, culturale e sociale – culminata nell’XI secolo – ad esprimere l’obliata (dai moderni) vivacità medievale.
I fautori di questo grandioso progresso furono i commercianti e gli artigiani, autentici protagonisti della società del tempo, che non si limitarono ad attivarsi soltanto per uno sviluppo economico, ma contribuirono ad una ricucitura fondamentale tra cultura e società, per il tramite dei noti sistemi corporativi.
Sono, poi, le scuole a contribuire alla rinnovata sembianza culturale. Esse sono realtà ben distanti dalle esclusive strutture culturali dedicate ad un particolare ceto, ma centri di sapere aperto a tutti, favorendo, in tal modo, una preziosissima circolazione della conoscenza[24].
Il radicale mutamento sociale, economico e culturale, prima descritto, è destinato ad influenzare profondamente la sfera del diritto. Un’evoluzione giuridica favorita, inoltre, dalla nascita della scuola di Bologna, punto di riferimento culturale per l’Europa del tempo e centro di studio del diritto, magnifico progetto voluto dallo straordinario maestro Irnerio.
Grazie alla lungimirante opera di studio intrapresa nel contesto bolognese, il diritto riesce ad acquistare una propria autonomia[25].
Ed è in questa raffinata ottica che gli studiosi bolognesi, indirizzati dal principio della “reductio ad unum”, ebbero modo di riconsiderare l’importanza del Corpus iuris civilis quale fonte normativa per eccellenza in grado di ordinare la nuova ed articolata società medievale.
La riscoperta della compilazione giustinianea fu possibile proprio per il diffondersi della speculazione aristotelica e del suo principio di unità, in cui il naturale ordine del Creato si riflette completamente nell’intrinseca natura umana, manifestando, in tutto ciò, la maestosa bontà divina.
Questa rivalutazione del diritto giustinianeo è, inoltre, animata dall’interpretatio. Tramite essa, il giurista non svolge un’attività di semplice esegesi, ma ricerca una soluzione che sia in grado di storicizzare il diritto, facendolo, cioè, aderire alla realtà.
È evidente quel prestigioso lavoro di mediazione tra il dato della validità, riferito ai testi normativi dell’autorevole compilazione giustinianea e quello della effettività, relativo alla fattualità del diritto.
Altrimenti detto, l’attività del giurista si risolve in una sintesi tra l’autorità dei testi legislativi, ritenuti flessibili, e la storicizzazione del diritto. Non essendovi alcun interesse per il potere politico nella produzione del diritto, ecco che è il prezioso lavoro della scienza giuridica a svolgere la nobile missione dedita alla costruzione di una nuova esperienza.
L’attività interpretativa necessita, poi, di essere incoraggiata dall’aequitas: solo attraverso di essa si può raggiungere un ordine tra le cose in grado di generare quell’armonia che tende al sommo bene, all’equità per eccellenza, a Dio.
Nell’Europa medievale si intravede, per questo, un’unità, che, armoniosamente, si raggiunge partendo dalla diversità.
Occorre, tuttavia, segnalare che non di unità politica si parla, ma di unità sociale e culturale. Una realtà unita dall’aequitas intesa non come «querula istanza di misericordia»[26], ma come autentica anima della società medievale.
È evidente come l’intera dimensione giuridica del tempo, imperniata su quel dato fattuale orientato ad attuare l’ideale supremo di giustizia, trovi nell’aequitas un «criterio misuratore infallibile»[27].
Reicentrismo, interpretatio quale strumento per l’attuazione dell’equità, incompiutezza politica, sono i pilastri su cui è costruito il sistema di diritto comune, inteso, da un lato, come incontro armonioso tra il Corpus iuris civilis e il Corpus iuris canonici, testi che esprimono il dato formale e di validità; dall’altro, la sfera sociale, e dunque fattuale, incarnata dalle consuetudini locali, dallo ius mercatorum, dagli statuti comunali, autentiche fonti che esprimono tutte la sottomissione del potere politico alla realtà giuridica vivente nella comunità.
La concezione universale del diritto, espressa dal diritto comune, si fonde con i diversi ordinamenti locali, i quali, sollevati da qualsiasi forma di incursione del potere politico, esprimono spontaneamente – attraverso i loro genuini sistemi normativi – la propria autonomia.
Il termine ius commune, rimanda, pertanto, ad un diritto che è comune a doppio titolo: da un lato, è un diritto diffuso su tutte le terre civilizzate d’Europa; dall’altro, è un diritto costruito assorbendo l’esperienza giuridica romana e canonica, concorrendo, così, all’unità giuridica del continente[28].
Un aneddoto, che merita di essere ripreso, rivela ancora una volta la prevalenza della effettività sulla formalità: Bartolo da Sassoferrato, insigne commentatore, nell’attività giuridica, «prima formulava le decisioni e poi si faceva indicare dal suo amico Tigrinio i passi del Corpus iuris, che loro potevano adattarsi[29]».
Un ultimo aspetto peculiare: nella formulazione dello ius commune da parte della scienza giuridica europea, non risultava elaborato alcuno schema di rigida gerarchia delle fonti tale da affermare la prevalenza di un sistema di diritto su di un altro (essendo presente quella molteplicità prima descritta).
Al contrario, come naturale conseguenza, poteva accadere che il diritto universale cedesse dinanzi a quello particolare, a quello di un singolo feudo o di una minuta porzione territoriale[30].
2.2. Presenza giuridica della Chiesa
Non si può non affrontare l’analisi del ruolo giuridico della Chiesa nella religiosa società medievale. Il vuoto lasciato dalla mancata presenza dello Stato – così come descritto in precedenza – venne ben presto ricolmo dalla presenza viva ed articolata della Chiesa, che, forte dell’autorità divina ricevuta, riuscì ad estendere la sua presenza – concretata, inoltre, per il tramite di un’efficace e particolareggiata organizzazione parrocchiale – fin nei luoghi più remoti della società.
Una presenza che, sin dai primi secoli, sentì l’esigenza di dotarsi di una compagine ben organizzata ed efficiente in grado di svolgere la missione salvifica riconosciutale dal Vangelo.
Essa fu decisamente convinta dell’importanza del diritto – nella sua storicità – quale «cemento sociale»[31]; ed infatti, come afferma lo storico del diritto Paolo Grossi, «la salvezza eterna dei fedeli la si gioca proprio qui, nel tempo e nelle temporalità»[32].
Il diritto canonico è un diritto peculiare: non modellato su quello statuale, anzi nettamente distinto, in cui la teologia e il diritto si fondono. Infatti, la visione salvifica della Chiesa prende spunto dal Corpus mysticum, nel quale il singolo è destinato a proiettarsi e solo in esso può trovare esistenza e salvezza.
Espressione chiara e solenne di tale visione è il pensiero dell’Apostolo Paolo espresso nella Lettera ai Romani sul quale è stato costruito il sistema giuridico della Chiesa, adottando anche una conseguente visione gerarchica: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un sol corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri»[33].
Su questa tesi espressa da San Paolo si fonda, sostanzialmente, quella visione di unità tanto cara alla teologia medievale, che si risolve, in particolar modo, in una concezione gerarchica ed ordinata del cosmo (modellandosi, con ciò, sulla riflessione aristotelica, che – come si è visto – in tale periodo trova grande riscoperta e gode di profonda ammirazione).
Realtà gerarchica che rispecchia fedelmente quell’ordine e quella gerarchia celeste voluti da Dio. Il carattere strumentale del diritto canonico – teso alla salus animarum – segna, di conseguenza, un divario incolmabile con il diritto laico.
Non è un diritto fine a sé stesso, ma svolge una funzione pastorale a sostegno dell’uomo, visto nelle sue fragilità e debolezze. Possedendo un simile ruolo funzionale, adattandosi, quindi, alle caratteristiche del singolo individuo preso in considerazione, ne consegue che non possa essere considerato quale regola universale egualmente valida per tutti.
Sembrerebbe, questa, una vera e propria aberrazione se la si guardasse con gli occhi tipici dei giuristi moderni, abituati a vedere nell’uguaglianza formale della legge un emblema di progresso e di grande civiltà.
Per la Chiesa tutto questo, ancora oggi, sarebbe una vera e propria mostruosità.
A tal riguardo, possono soccorrere, ancora una volta, le magistrali parole di Grossi: «la legge canonica non può essere uguale per tutti se tutti non sono concretamente uguali, perché la legge canonica – che non è una garanzia formale ma aiuto sostanziale – deve tener conto delle humanae fragilitates che ha di fronte e, per ordinarle adeguatamente, deve conformarsi ad esse, sacrificare logicità, sistematicità, unitarietà formali ed ‘elasticizzarsi’ come una veste che vuol essere aderente ai diversi corpi sottostanti»[34].
Questi valori di fondo favorirono il nascere di istituti finalizzati a modellarsi su tali realtà concrete, tra i quali spiccano quelli delle discordantiae.
Esse sono soluzioni pratiche che riflettono un distacco verso ogni costruzione formalistica nel momento in cui la charitas lo esiga. Ed è in ciò che si esaurisce, in buona sostanza, l’essenza del diritto canonico. Un’essenza pervasa dalla costante distinzione tra ius divinum e ius humanum: «il primo, superiore, contraddistinto da una immutabilità assoluta, universale, perpetua […]; il secondo, e inferiore […], plasticissimo e mobilissimo»[35].
Tra loro sussiste un formidabile rapporto dialettico teso alla salus animarum: «il primo in relazione di necessità, il secondo di utilità; il primo rivelato dalla generosità d’Iddio stesso perché necessario per l’accesso al Regno, il secondo escogitato dallo zelo pastorale della Chiesa perché utile e facilitante; il primo composto da poche regole essenziali, costituzionali […], il secondo di un complesso enorme di regole accumulatesi nella vita storica della Chiesa dietro le cure pastorali della sacra gerarchia»[36].
Una malleabilità, quella delle discordanze, che seppur in apparenza scandalosa – in quanto passibile di ineguale applicazione – esprime la natura del diritto canonico come strumento, proprio perché sostenuto da un’attenzione specifica ai diversi contesti e alle diverse esigenze delle persone.
Essa non è un arbitrio del giudice, anzi è autentica fonte del diritto e disposizione stessa della divinità[37].
Ne consegue che il giudice, avendo come bussola orientativa quella dell’equità, rimedia, con tale prezioso strumento, alle lacune del diritto positivo; ha, tuttavia, anche il potere di non applicare la norma positiva – laddove esistente – quando, nel caso specifico posto alla sua attenzione, la ritiene motivo di pericolo spirituale per la persona sottoposta a giudizio[38].
La Chiesa, madre di giustizia, non può discostarsi, di conseguenza, dall’equità, quale strumento in grado di garantire una giustizia sostanziale, indirizzandosi verso una prospettiva ultraterrena.
Per questo, non vi è un’applicazione automatica, fedele, pedissequa della legge; ma la si applicherà o la si mitigherà in riferimento alle circostanze concrete.
Risulta, allora, comprensibile come nella visione della Chiesa tutto ciò che è peccato, tutto ciò che è illecito, non è accompagnato da formulazioni astratte, con conseguenti punizioni astratte.
Anzi, «esiste piuttosto il peccatore da condurre in salvo nel Regno non dimenticando per un istante tutto il suo carico di umane fragilità»[39].
Ancor oggi la dottrina giuridica della Chiesa segue questa tradizione millenaria, conformandosi principalmente alle teorie giusnaturaliste proposte dai grandi Padri della Chiesa.
Esso è un diritto che esprime una giuridicità concreta, priva di formalismi astratti, cercando continuamente di modellarsi sulle esigenze quotidiane dell’uomo.
Da ciò ne deriva che, ordinando una comunità diversa da quella terrena, «che ha per suo confine il cielo»[40], il diritto canonico esprime una mentalità giuridica peculiare, tesa a rendere valore al carattere della strumentalità.
Non essendo, dunque, fine a sé stesso, lo ius Ecclesiae ripudia ogni formulazione logica ed astratta, nutrendo un costante scetticismo per le costruzioni giuridiche irrigidite all’interno di un sistema.
Come si vedrà nei paragrafi che seguono, l’accusa che può essere mossa alla modernità giuridica si esplicita nel voler ridurre ostinatamente il diritto entro i rigidi confini formali della legge, manifestando, così, una inequivocabile mentalità potestativa.
Nel diritto canonico, ancora oggi, ciò verrebbe considerato un approccio deviante. Infatti, con l’avversione a qualsiasi forma di statuizione formale, il diritto della Chiesa pone forte attenzione al confronto tra il particolare e l’universale, finendo per valorizzare soprattutto il particolare[41].
Invero, anche l’esperienza giuridica della Chiesa ha sperimentato – in tempi relativamente recenti – un momento dedito alla codificazione del diritto; tuttavia, oltre a trattarsi di una codificazione tardiva rispetto a quelle statuali dell’Ottocento, è anche – e soprattutto – singolare ed impareggiabile.
Il Codex, promulgato nel 1917, esprime, infatti, una normazione del tutto eccezionale: non si propone di rinnegare il passato – come avvenuto, ad esempio, nella codificazione napoleonica – anzi attribuisce grande valore alle tradizionali forme di interpretazione, giungendo a conferire «addirittura ai principi generali, all’equità canonica, allo stile e alla prassi della Curia Romana, alla opinione comune dei maestri»[42] straordinaria rilevanza giuridica.
Avendo un carattere strumentale e particolare, il diritto canonico non può riconoscere la preminenza della norma generale ed astratta, ma, al contrario, pone significativa considerazione al particolare, all’uomo peccatore che chiede di essere aiutato nella ricerca della propria salvezza.
Un aiuto che può avvenire soltanto considerando il contesto, esprimendo, cioè, una mentalità empirica, che pone attenzione alle circostanze della condotta umana, considerando la norma come intrinsecamente elastica[43].
Il diritto canonico può essere validamente indicato come prezioso modello da seguire, in quanto esprime un paesaggio giuridico multiforme, che incarna perfettamente il modo di essere il diritto.
Sicuramente è un diritto preposto a disciplinare i caratteri religiosi della vita, ma questa dimensione precipuamente pastorale non può impedire di cogliere l’approccio metodologico sottostante. Il “segreto” del diritto canonico sta, in definitiva, nella particolare mentalità pragmatica, che vede la norma come uno strumento pronto a piegarsi alle esigenze quotidiane dei singoli.
3. La modernità giuridica e il culto della legge
La riflessione, ora, prosegue nella sua parte centrale, analizzando il nodo fondamentale del presente elaborato.
Volgendo lo sguardo al complesso scenario sorto in seguito al crollo dell’universo medievale, si può scorgere una presenza costante e nuova, divenuta la grande protagonista di questo momento: il potere politico.
La figura del Principe moderno è, infatti, una presenza che, progressivamente, assurge ad immagine centrale della nuova civiltà, proponendosi come realtà indispensabile per il benessere della comunità.
Sul piano giuridico, non potevano che esservi determinate conseguenze: il nuovo protagonista della storia riesce, infatti, ad invadere gradualmente il terreno della produzione giuridica, anteriormente considerato espressione della realtà delle cose, e quindi, appartenente alla società e all’ordine naturale.
Una simile possibilità d’intervento riesce a farsi strada grazie al novello sfondo di pensiero ora dominante, che, a partire dal Trecento, influenza il sistema culturale europeo.
Esso si incarna in una diversa concezione di uomo, secondo la quale l’anelito di libertà e di rinnovamento – da sempre intrinseco nella natura umana – può essere attuato soltanto per il tramite della volontà, supremo mezzo di autorealizzazione e – soprattutto – di dominio del mondo.
Tutto si risolve, per questo, in una rinnovata mentalità ricompresa entro le forme dell’individualismo e del volontarismo. L’uomo nuovo, dominatore del cosmo, attraverso la volontà, si emancipa dalla riduttiva condizione medievale, riuscendo a trovare solo in sé stesso capacità di pienezza e di espressione.
Un’emancipazione che contagia soprattutto il Principe. Il suo processo di liberazione ha come progetto un’egemonia di potere, con una valenza di indubbio sapore politico. Egli è colui che cerca di essere il protagonista della società, che vuole annullare ogni dialogo con essa e con il mondo delle cose, cercando il più possibile quella solitudine di dominio garantita dallo Stato, nuova immagine di potere e di assolutizzazione.
La sua volontà riesce a manifestarsi e ad imporsi in grazia di una strategia attenta di invasione del campo della produzione giuridica, avendo sempre in riferimento quella concezione di potere politico inteso in termini di potestà compiuta ed omnicomprensiva.
È la Francia a sperimentare per prima, all’interno del variegato panorama politico europeo, questa nuova esperienza giuridica. A partire dal Duecento, infatti, la monarchia francese prende sempre più coscienza della centralità del diritto per l’attuazione di un progetto statuale, di un progetto tendente all’attuazione di un sistema di potere ben accentrato e – soprattutto – monistico. All’antico pluralismo delle fonti, si sostituisce, per questo – a partire dal Seicento – «il protagonismo della legge»[44], concepita non più in quel vecchio significato di lex inteso da Alberto Magno, ma come loy, legge nella sua accezione moderna, strumento di volontà connotato dei caratteri della generalità, dell’astrattezza e della formalità.
Vi è, di conseguenza, un diverso obbiettivo che informa la nuova esperienza giuridica: la lex medievale – come si è visto – era espressione della comunità, del sentire sociale, e possedeva una chiaro valore ordinamentale in grado di rispondere ai bisogni quotidiani dell’uomo; la loy, invece, più che proporsi di possedere un determinato contenuto e di pervenire ad un preciso scopo, guarda soltanto ad un aspetto esteriore e formalistico; è solo uno strumento in grado di esprimere una forza giuridica per il sol fatto di aver seguito un iter formale di approvazione.
Lo scopo principale del progetto assolutistico proposto dal sovrano è, per questo, quello di monopolizzare la produzione giuridica riducendola a leggi, a strumenti di volontà suprema. I germi di questa nuova mentalità giuridica si diffondono nella Francia cinquecentesca, parallelamente al consolidarsi degli Stati nazionali.
Essi vengono rivelati per la prima volta da un osservatore attento come Michel de Montaigne, scrutandone la loro intima natura. Egli, nei suoi Essais (1580), così scrive: «Le leggi si mantengono in credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il fondamento mistico della loro autorità; non hanno altro fondamento, ed è bastante. […] Chi obbedisce loro per il motivo che sono giuste non dà loro la obbedienza dovuta»[45].
È agevole comprendere, allora, come la legge possa essere considerata tale nel momento in cui proviene dall’unico soggetto sovrano, divenuto sempre più un legislatore invadente.
Dalle parole di Montaigne, traspare, di conseguenza, un significato di legge intesa come fonte indiscussa, proprio perché fondata su un significato “mistico” scaturente dal formalismo che le è dato dal sovrano: quest’ultimo si è trasformato, infatti, in colui che è ritenuto il solo in grado di leggere la società e la natura, e di regolarle in norme.
Partendo dalla moderna concezione del diritto, Grossi formula, per questo, la teoria sulle mitologie giuridiche moderne, descrivendo, in tal modo, una visione distorta ed illusoria del fenomeno giuridico.
L’utilizzo del termine “mitologia”, riferito alla modernità, sembra esprimere un singolare ossimoro. Infatti, l’età moderna è ricca di conquiste sul piano tecnico e scientifico ed è animata da un metodo di ricerca assai rigoroso.
È un periodo, inoltre, nel quale si superano le verità dogmatiche proposte dalla Chiesa per aprirsi alla conoscenza del mondo attraverso un approccio nuovo e diverso, orientato a leggervi le verità in esso custodite; verità non più rivelate (e quindi indiscusse e non verificabili), ma, al contrario, scoperte nella natura delle cose[46]. Seguire, invece, una conoscenza basata sulla mitologia significa affidarsi ad una certezza indiscussa, fondata su una verità di incerta provenienza, i cui contenuti sono ritenuti validi, ma indimostrabili.
Tuttavia, pur avendo conosciuto teorie innovative fondate su un perfetto e razionale metodo di ricerca, l’Illuminismo giuridico sente il bisogno, paradossalmente, di aggrapparsi al mito per sostenere le proprie tesi. Infatti, la secolarizzazione e il metodo scientifico, sostenute con spirito battagliero dalla cultura razionalista a partire dal Seicento, hanno finito per riabilitare ciò che invece volevano superare.
Gli studi di Grossi evidenziano in maniera molto acuta e critica questo aspetto di straordinaria importanza, giustificando il ricorso al sintagma “mitologia giuridica” per connotare la modernità.
Egli scrive: «le nuove conquiste politico-giuridiche palesavano la loro debolezza senza il tenace sostegno delle metafisiche religiose, domandavano a loro volta di poggiare non sulle sabbie mobili della storia ma più in là, più a fondo o, se vogliamo, più al di sopra dove i venti storici non arrivavano a squassare e sradicare»[47].
Sorgono, per questo, dei veri e propri dogmi giuridici, che esprimono verità assolute ed incontrovertibili, oggetto di venerazione e di culto da parte dei giuristi e dei raffinati intellettuali di questo momento. Credenze che spaziano dallo stato di natura al contratto sociale; dalla rappresentanza politica all’uguaglianza giuridica; dalla volontà generale alla completezza dell’ordinamento.
Tutte esprimono suadenti ed eleganti costruzioni astratte capaci di colmare quella carenza di assoluto generata dalle moderne formulazioni; teorie che, se messe a contatto diretto con la società e con la storia, sarebbero immediatamente crollate, comportando una pericolosa instabilità sociale.
Ed ecco giustificato il ricorso alla mitologia. Il diritto, allora, conosce un forte riduzionismo; esso viene strumentalizzato come veicolo espressivo di potere, raggiungendo un conseguente valore potestativo. Simili concezioni, per la verità, non sono formulate per la prima volta nel Settecento.
Il Cinquecento francese si distingue già come periodo di preparazione di tale espressione. Ciò emerge dagli scritti di un altro importante pensatore dell’epoca, Jean Bodin, fautore di una profonda riflessione politico-giuridica enunciata ne Les Six Livres de la République (1576).
A riguardo, egli così si esprime: «c’è molta differenza tra diritto e legge, il primo registra fedelmente l’equità; la legge, invece, è soltanto comando di un sovrano che esercita il suo potere»[48].
Bisogna, ad ogni modo, segnalare come il Principe, in questo momento storico, attraverso il suo intervento nelle vesti di legislatore, non ha ancora occupato tutto lo spazio giuridico.
La legge è, di certo, concepita come regola derivante dal suo potere e come mezzo espressivo dalla sua volontà; ma, in Bodin è possibile ancora registrare una distinzione tra la legge – intesa come manifestazione della suprema volontà politica – e il diritto, espressione della società e dei suoi bisogni. Il vero momento di grande illusione culminerà, invece, nei secoli immediatamente successivi, quando si pretenderà una forzata e piena coincidenza tra diritto e legge, tra volontà del potere politico e realtà dell’ordinamento giuridico, prescindendo da qualsiasi contenuto di equità e di giustizia.
Ciò trova compimento, in buona sostanza, grazie al supporto di quel progetto trionfante proposto dall’Illuminismo, poi attuato dagli sconvolgimenti segnati dalla Rivoluzione francese.
Tale programma consiste nella costruzione, da parte di filosofi, politici e giuristi settecenteschi, di una costellazione artificiosa di persuadenti dogmi politici e giuridici, inattaccabili nella loro retoricità in quanto fondati su vere e proprie credenze.
3.1. La Rivoluzione Francese: una rivoluzione borghese per l’attuazione di uno Stato monoclasse
Le mitizzazioni sopra descritte, necessarie, come detto, per garantire un supporto chiamato a colmare quella pericolosa condizione d’inconsistenza sottesa ai nuovi princìpi, sono attuate proprio dagli eventi rivoluzionari del 1789. Il XVIII secolo segna, per questo, un punto di rottura con il precedente regime ed è animato da eventi che incidono sulla storia politica e giuridica d’Europa.
Tra di essi bisogna annoverare il Giacobinismo, una di quelle correnti che rende multiforme lo stesso spirito rivoluzionario. Esso testimonia l’immagine più radicale della Rivoluzione, impegnandosi più di tutti nella creazione di un ordine giuridico e socio-politico permanenti.
La nuova immagine di spicco della storia francese intuisce che la stabilità del nuovo ordine può essere assicurata soltanto dalle grandi credenze, stimate, ormai, come certe, assolute e salvifiche per l’uomo moderno.
Il movimento più estremo della Rivoluzione, si propone, per questo, la costruzione di uno Stato centralizzato, cercando di fucinare la società con l’aiuto di un sistema coercitivo.
Ciò che lo agita è, infatti, una completa disapprovazione per il magma sociale, brulicante di movimenti inarrestabili dal potere e facilmente influenzabili dalle autorità scomode ed avversarie.
Dimostra, al contrario, immensa fiducia per il potere politico (potere, ovviamente, non inteso in maniera pluralista) cui è affidata la somma funzione di controllo sociale.
Dal punto di vista giuridico, vi sono immancabili conseguenze. Le ambizioni assolutiste giacobine pongono al centro del cosmo giuridico l’attività del Parlamento, un’attività considerata onnipotente perché custode della sovranità popolare, la più grande idea mitologica di questo tempo.
Essa si palesa come suprema mitologia in quanto l’assemblea parlamentare si propone di agire al posto del popolo, senza, però, ammettere alcun mezzo di controllo da parte di quest’ultimo[49]. Sorge, pertanto, quell’imponente statalismo che perdurerà, pressappoco, fino ai nostri giorni, e nel quale campeggia un rigoroso monismo giuridico.
Ciò che germoglia dalla primavera rivoluzionaria è una nuova civiltà, ma di civiltà elitaria si tratta. Una civiltà che, sotto il profilo giuridico, accetta sempre più la convinzione della grande stabilità di governo fornita dall’ordinamento giuridico.
La Rivoluzione, infatti, è stata innescata dalle istanze di egemonia del terzo stato, che, divenuto ormai una parte consistente nell’economia liberale francese, ha rivendicato un posto di potere. Un potere conquistato con la propaganda della rappresentanza parlamentare e con le “favole” che vengono raccontate intorno ad essa, con l’obbiettivo ben riuscito di rendere effettivo il nuovo sistema di potere.
Si realizza, così, una monopolizzazione della produzione giuridica e la consequenziale edificazione di uno Stato monoclasse, uno Stato accentratore, pronto a ridurre la complessità sociale.
Lo spirito del nuovo ordine riposa in un sistema di credenze giuridiche che esprimono «il vincolo stretto ed esclusivo tra Stato e volontà generale, fra la volontà normativa dello Stato, la legge, e la volontà generale: soltanto al primo è dato di esprimerla, soltanto alla seconda è dato di manifestarla»[50].
Lo Stato monoclasse, dunque, si trasfigura nell’unica realtà produttrice del diritto e la legge ne è l’unica fonte. L’invadente intervento dello Stato nella produzione giuridica ha consentito, di certo, una trasformazione del diritto in norme chiare e certe, limpide nella formulazione e poggiate su una sapiente base tecnica.
Se è vero affermare che da questo nuovo sistema scaturisce gloriosa la certezza del diritto, è pur vero che vi sono, di contro, alcune gravi conseguenze derivanti da un’esasperazione di questo valore.
Il diritto, infatti, si riduceva soltanto nel diritto statuale, esiliando i fatti e la società civile dal mondo della produzione giuridica. Ed è proprio per questo che la nuova esperienza giuridica viene definita dal grande giurista Grossi assolutismo giuridico.
Parlare di assolutismo significa descrivere una realtà giuridica nella quale non vi è spazio alcuno per il pluralismo delle fonti e per la complessità sociale; ciò che possiede rilevanza è la sola volontà del legislatore, è solo lui a decidere cosa deve essere diritto, attraverso una formalizzazione giuridica che prescinde da qualsiasi contenuto; vi è, di conseguenza, un incontro-scontro tra due soggetti: lo Stato e l’individuo.
Essi sono i soli protagonisti della nuova dimensione giuridica, espressione di un ingenuo riduzionismo. Assolutismo giuridico significa anche una cultura giuridica incapace di comprendere la complessità, riducendosi ad un sistema semplicistico, un sistema pronto ad ascoltare le sue coerenti logiche astratte, ma sordissimo nel captare il mutamento sociale.
Infatti, le costruzioni astratte formulate dall’illuminismo giuridico, esprimono una linearità, un ordine preciso, un insieme di geometrie perfette che sono e restano tali in forza della loro esistenza fuori della storia e della società.
Tutto può e deve essere cristallizzato in un testo di legge. L’insopportabile conseguenza è quella di un’artificiosa paralizzazione del fenomeno giuridico, unita, poi, ad un assurdo distacco dalla società. L’assolutismo giuridico si avvale, inoltre, del giusnaturalismo moderno per corroborare le proprie teorie.
Un diritto naturale statico, che vive fuori dal mondo ed esprime una condizione antistorica di uomo; il segno che meglio esprime questa nuova filosofia, lo si può trovare nell’utilizzo delle parole utilizzate dal moderno legislatore: la nuova fonte del diritto, la legge, e soprattutto le “Carte dei diritti” che si diffondono per la prima volta nella rinnovata società francese in seguito alla Rivoluzione, non parlano di persona, ma di individuo. Un individuo abs-tractus, cioè estratto dalla sua condizione storica e sociale.
Risulta evidente come in un così artefatto progetto si possa parlare facilmente di sovranità popolare, di rappresentanza e, soprattutto, di uguaglianza. Parlare di individuo non significa parlare di persona, perché quest’ultima è avvolta in una densa rete di rapporti sociali, con i suoi bisogni e i suoi desideri, in continuo dialogo con l’altro.
L’individualismo borghese respinge simili teorie, poggiandosi, invece, su argomentazioni metastoriche nelle quali è conferito un ruolo di protagonista all’individuo; ma egli è un soggetto anonimo: senza storia, senza bisogni, senza desideri.
La sua natura coincide con un solo ruolo, il ruolo dell’avere. La proprietà, infatti, assurge ad immagine fondativa della nuova civiltà, essendo tesa, quest’ultima, a conferire attenzioni e – soprattutto – diritti a chi più possiede. La visuale egocentrica borghese, trovando fondamento nella dimensione economica, perviene a posizioni appartate ed egoistiche.
La vita dell’individuo, esaltata dal guadagno, è condotta non in un’autentica apertura verso l’altro, ma in relazioni vòlte al soddisfacimento individuale.
La solitudine dell’individuo moderno e il vuoto sociale nel quale è inserito, comportano notevoli effetti negativi sul modo di intendere la libertà. In maniera superficiale, si guarda ad essa come ad un’assenza di qualunque legame, invece, la libertà vera consiste in una corretta relazione con la libertà dell’altro.
Nella modernità giuridica è impossibile riconoscere questo tipo di libertà, giacché si vive in un mondo beatamente astratto ed individuale.
Nel nuovo assetto borghese, è la proprietà – come si è visto – ad essere al centro del nuovo ordine. Il diritto privato, di conseguenza, assume una portata mai conosciuta prima: «Proprietà e contratto, divenuti ormai cardini anche politici del nuovo regime, non potevano essere rimessi a un ricco ma incontrollato proliferare di usi che dottori e giudici si impegnavano a ridurre in ampii schemi categoriali; dovevano, anzi, essere rigorosamente controllati anche per garantire al nuovo cittadino quello spazio libero preteso dal ceto borghese verso il potere politico»[51].
Si assiste, dunque, alla statalizzazione del diritto privato, espressa dalla sola voce dello Stato: la legge. In ambito privato è, in particolare, il Codice ad avere il privilegio di veicolare la volontà dello Stato, in quanto esso è la legge per eccellenza ed è dotato di tutti quei caratteri in grado di ricomprendere e di disciplinare perfettamente ogni situazione giuridica, concorrendo, così, a costruire un altro grande mito predicato dalla modernità giuridica: il dogma della completezza dell’ordinamento.
4. Riflessioni conclusive
L’excursus storico-giuridico proposto, corredato dell’importante supporto reso da alcuni pensatori che hanno offerto il proprio contributo alla comprensione del fenomeno giuridico sotto molteplici sfaccettature e diversi momenti storici, consente di formulare talune considerazioni.
Soffermando l’attenzione sulla moderna manifestazione del diritto, si possono evidenziare quelle caratteristiche che meritano di essere sottoposte a critica.
Come si è visto, il moderno legislatore si propone di ordinare puntigliosamente la società, pretendendo di farlo attraverso il suo mezzo espressivo di potere, la legge. Una simile concezione manifesta un ingenuo riduzionismo, esplicandosi come esplorazione disorientata che ha condotto a distorcere l’immagine pluralista del diritto.
Infatti, identificando tutto il diritto nella legge, non solo si opera un’innaturale manifestazione giuridica, ma si segue un grande progetto illusorio, giacché accanto al formalismo costruito dallo Stato, vivono parallelamente numerose altre fonti capaci di ordinare la società; fonti provenienti dal basso, espressione del magma sociale, che sono impossibili da soffocare. Inoltre, il cercare di regolare la società cristallizzando tutto in un testo di legge – quasi che si adottasse una formula magica e definitiva – e pretendendo, con ciò, di costruire un ordinamento giuridico completo, sembra apparire anch’essa un’operazione semplicistica e fuori della realtà. Infatti, la società è una dimensione viva e mutevole, destinata ad evolversi con il trascorrere del tempo.
Di conseguenza, sperimentando, essa, sempre più nuove istanze, riesce difficile, per il legislatore, inserirle tutte in un testo formale o, addirittura, prevederle. Ciò non significa, si badi bene, demonizzare la legge espellendola dal novero delle fonti del diritto; significa soltanto ridimensionare la sua portata, riconoscendo la capacità ordinativa offerta da altre fonti scaturenti dalla società.
Sono, poi, i giuristi a rendere vivo il diritto. La stessa legge resterebbe un testo morto senza il loro inestimabile lavoro. Sono loro, infatti, che, essendo quotidianamente a contatto con la società, contribuiscono a manifestare la capacità ordinativa del diritto, compresa quella della legge.
Si pensi, inoltre, ai numerosi istituti nati, negli ultimi decenni, proprio dalla creatività dei giuristi: istituti come il leasing o il factoring – e molti altri – non sono concepiti dalla mente del legislatore, ma costruiti dalle soluzioni pratiche di avvocati e notai. L’intervento della legge, infatti, è avvenuto successivamente, inserendo tali figure nel Codice civile.
Occorre, allora, riconsiderare l’approccio moderno al fenomeno giuridico, il quale, nella post-modernità, sembra attraversare un periodo di crisi, dovuto all’imponente evoluzione determinata –soprattutto – dal fenomeno dalla globalizzazione.
L’esperienza giuridica medievale, può essere considerata, allora, come valido modello di riferimento, in quanto esprime, all’opposto, una giuridicità genuina, senza proporsi di adottare il diritto come mezzo esclusivo di potere. Infatti, dal confronto tra diritto medievale con quello moderno, emergono all’attenzione del giurista queste differenze fondamentali: il primo esprime una capacità ordinativa spontanea, aderendo ai sempre nuovi bisogni della collettività e mirando ad una concreta giustizia sociale, dando vita a quel rapporto dialettico qualificabile come ius/iustum; il secondo, invece, esprime un diritto sottoposto al potere politico, è solo lo Stato a decidere cosa deve possedere rilevanza giuridica, ingabbiando il fenomeno giuridico entro un forzato rapporto definibile in termini di ius/iussum.
Riscoprire la vera giuridicità spetta, oggi più che mai, al giurista, avendo come prezioso punto di orientamento il modello medievale. Seguire questa esperienza non vuol dire, tuttavia, ritornare al passato – ciò si dimostrerebbe un’operazione antistorica e assurda – ma avere sempre come riferimento un’esperienza giuridica capace di porre attenzione ai bisogni della società, valorizzando l’attività interpretativa e la creazione di tecniche capaci di rispondere ai bisogni dell’uomo, senza mai dimenticare che il diritto è ius.
[1] A. GUARINO, Diritto privato romano, Jovene, Napoli, 2001, 128-137.
[2] P. GROSSI, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari, 2003, 48.
[3] A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino, 2017, 5.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] A. GUARINO, Diritto privato romano, op. cit., 95-96. L’Autore, ripercorrendo la complessa evoluzione del diritto romano, afferma che fu l’attività dei pontefici, insieme, poi, alla laicizzazione dell’interpretazione giuridica operata degli «iuris prudentes» a partire dal III secolo a.C., ad essere centrale nella costruzione dell’ordinamento giuridico romano. Egli sostiene, infatti, che i giuristi, «attraverso lo studio specialistico del diritto coglievano con viva sensibilità le istanze di rinnovamento della società romana».
[7] Ivi, 64. Così l’Autore, ricordando l’antica grafia originaria che doveva essere ious. Sul punto, si veda, inoltre,
A. GUARINO, Diritto privato romano, op. cit., 2001, 89.
[8] Ibidem.
[9] A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, op. cit., 77.
[10] ibidem.
[11] Ivi, 63.
[12]Thesaurus linguae latinae, Volumen VIII, Leipzig, Lipsiae, MCMLVI-MCMLXXIX, 678.
[13] A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, op. cit., 124.
[14] Ivi, 125.
[15] ISIDORO, Etimologie o origini, vol. 1, a cura di A.V. CANALE, Utet, Torino, 2006, 637.
[16] A. ERNOUT, A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris, 2001, 330.
[17] Oxford Latin Dictionary, 1968-82, 984.
[18] P. GROSSI, L’Europa del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2007, 39. Il termine è coniato dall’Autore per indicare l’estraneità di qualunque forma di potere politico rispetto alla sfera di produzione del diritto.
[19] P. GROSSI, L’Ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 2006, 135-143.
[20] ALBERTO MAGNO, cit. in P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, op. cit., 141.
[21] Per una più approfondita disamina del tema, si veda ivi,135-143.
[22] Ivi, 199.
[23] DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto III, v. 37-39.
[24] P. GROSSI, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale, CEDAM, Padova, 1968, 134.
[25] Per una più approfondita conoscenza del tema, si veda F. CALASSO, Medioevo del diritto, Giuffré, Milano, 1954, 368.
[26] H.U. KANTOROWICZ, La lotta per la scienza del diritto, Forni, Bologna, 1988 citato in P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, op. cit., 172.
[27] F. CALASSO, Introduzione al diritto comune, Giuffrè, Milano, 1970, 167.
[28] P. GROSSI, Prima lezione di diritto, op. cit., 54.
[29] H.U. KANTOROWICZ, La lotta per la scienza del diritto, Forni, Bologna, 1988 citato in P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, op. cit., 172.
[30] P. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, op. cit., 233-234.
[31] Ivi, 112.
[32] Ivi, 113.
[33] PAOLO DI TARSO, Lettera ai Romani, 12, 4-5.
[34] Ivi, 120.
[35] Ivi, 121.
[36] Ibidem.
[37] ivi, 122.
[38] ivi, 214.
[39] ivi, 216.
[40] P. GROSSI, Società, diritto, stato, Giuffré, Milano, 2006, 130.
[41] ivi, 132.
[42] Ibidem.
[43] Ivi, 134.
[44] P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, op. cit., 31.
[45] M. DE MONTAIGNE, Essais, Libro III cap. XII, cit. in P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, op. cit., 31.
[46] ivi, 43-44.
[47] Ivi, 45.
[48] J. BODIN, Les six Livres de la Republique, lib. I, cap VIII – De la souveraineté, cit. in P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, op. cit., 36.
[49] ivi, 134.
[50] P. GROSSI, Ritorno al diritto, Laterza, Roma-Bari, 2015, 36.
[51] P. GROSSI, Società, diritto, stato, op. cit., 47