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Pubbl. Gio, 15 Apr 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

La responsabilità medica e i danni da pratiche sanitarie inadeguate alla luce della legge Gelli-Bianco

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Stefania Cici



La legge Gelli-Bianco e in precedenza la legge Balduzzi, hanno avuto il pregio di restituire al sistema della responsabilità medica una maggiore chiarezza e stabilità che erano state da tempo messe in crisi da una disciplina alquanto scoordinata e oscura. Si è assistito ad una nuova riqualificazione della natura della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria e della struttura nella quale opera, che ha comportato una serie di ricadute anche sul piano dell’onere della prova e dei termini di prescrizione. L’autrice, partendo proprio da tali considerazioni, si pone lo scopo di analizzare le novità introdotte in materia dai recenti interventi dottrinali e giurisprudenziali.


ENG The Gelli-Bianco law and previously the Balduzzi law, have the advantage of restoring greater clarity and stability to the system of medical liability that had long been challenged by a rather uncoordinated and obscure discipline. There has been a new redevelopment of the nature of the responsibility of the healthcare professional operator and of the structure in which it operates, which has led to a series of repercussions also in terms of the burden of proof and limitation periods. The author, starting precisely from these considerations, aims to analyze the innovations introduced on the subject by recent doctrinal and jurisprudential interventions.

Sommario: 1. Premessa; 2. Il caso; 3. L’inquadramento della responsabilità medica; 4. L’onere della prova alla luce della legge Gelli-Bianco; 5. La perdita di chances; 6. Autodeterminazione e consenso informato; 7. Risarcimento e liquidazione del danno; 8. Conclusioni

1. Premessa

La disciplina della responsabilità medica è stata sottoposta ad un’accorta opera di modificazione ed integrazione da parte del legislatore che si è finalmente impegnato a predisporre delle coordinate stabili al fine di rinnovare e ricucire quel rapporto di fiducia tra paziente-cittadino e sanità, che fino a quel momento, era stato messo a dura prova dalla dilagante diffusione del cosiddetto fenomeno della medicina difensiva e dell’overdeterrence.

Il primo problema che è stato affrontato, ha riguardato l’individuazione della esatta natura della responsabilità medica al centro di numerose querelle: in particolare si è ricondotto sotto l’alveo della responsabilità da inadempimento, ex art. 1218 e 1228 c.c., la responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata e nella categoria della responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., quella del medico, salvo i casi nei quali lo stesso agisca nell’ambito di un contratto d’opera professionale sottoscritto direttamente con il paziente.

Effettivamente con questo sistema del c.d. doppio binario ed il superamento del contatto sociale si è voluta assicurare una maggiore garanzia al paziente-danneggiato, collocando al centro del nucleo normativo il suo diritto alla salute, ex art. 32 Cost. e di conseguenza permettendone la concreta attuazione.

Sono stati, inoltre, inseriti nuovi elementi, quali la previsione di un’azione diretta da parte del paziente nell’eventualità di danneggiamenti; l’esperimento del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità all’esercizio dell’azione di risarcimento per danni; l’obbligo di copertura assicurativa tanto per l’esercente la professione sanitaria quanto per la struttura ospedaliera; la creazione di un fondo di garanzia per i casi di insolvenza e liquidazione del danno da attività sanitaria commisurate sulla base di tabelle prestabilite.

2. Il caso

Con ordinanza n. 12906 del 26 giugno 2020 la Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta in materia di responsabilità medica asserendo che, ai fini della determinazione della responsabilità, è necessario accertare preliminarmente la sussistenza effettiva del nesso causale tra condotta ed evento dannoso mediante l’applicazione del principio, tradizionalmente accolto, del “più probabile che non”, confermando in tal modo il precedente orientamento. Nello specifico i giudici della Consulta accoglievano il ricorso proposto dagli attori sulla base di quattro motivi e rinviavano, alla Corte di Appello competente, la trattazione della causa.

Le parti citavano in giudizio l’azienda sanitaria di Pisa ed il medico ivi operante per chiedere ed ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito del decesso di un loro congiunto, avvenuto a causa della inesatta diagnosi e conseguente pratica di inadeguati trattamenti sanitari. Contemporaneamente l’azienda sanitaria presentava domanda di manleva da parte della compagnia assicurativa Carige s.p.a. Il Tribunale di Pisa accoglieva le domande e procedeva alla liquidazione dei danni patrimoniali e non, dichiarando, inoltre, l’inammissibilità della domanda proposta dal medico M contro l’ASL e l’assicurazione. I giudici di secondo grado, in parziale riforma della sentenza, dimezzavano gli importi delle somme oggetto di liquidazione.

Atteso ciò le parti ricorrevano ai giudici di legittimità per i seguenti motivi: violazione e falsa applicazione dell’art. 41 c.p. e degli artt. 2043 e 1227 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nullità della sentenza e procedimento per violazione degli artt. 112 e 360 c.p.c. ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

3. L’inquadramento della responsabilità medica

La materia della responsabilità medica[1] è alquanto complessa, poiché costituita da una serie di rapporti che coinvolgono non solo il medico ed il paziente, ma altresì l’intera struttura sanitaria, pubblica o privata, nella quale lo specialista svolge le proprie mansioni. Si ritiene che quest’ultimo risponda, nell’eventuale causazione di danni, a titolo di responsabilità extracontrattuale, atteso che riveste la qualifica di soggetto terzo rispetto ai due contraenti principali, i quali aderiscono formalmente ad un contratto che prevede la sottoposizione del paziente alle cure di cui lo stesso abbisogna e da cui scaturisce in capo alla struttura sanitaria una responsabilità di tipo contrattuale.

Questo sistema del doppio binario è stato inserito con la legge n. 24/2017, c.d. legge Gelli-Bianco, che ha apportato sostanziali modifiche al sistema normativo rinnovando e riequilibrando il rapporto sussistente tra medico, paziente e struttura sanitaria.

Precedentemente, infatti, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 589/1999,  orientamento ribadito e confermato in diverse pronunce fino al 2008, era intervenuta in materia introducendo la teoria del c.d. “contatto sociale” in base al quale, tra medico e paziente, si instaurerebbe un rapporto obbligatorio derivante da altro contratto sottoscritto fra ente ospedaliero e paziente; quest’ultimo non risulterebbe riconducibile all’alveo della responsabilità aquiliana, in quanto, la stessa, si basa sul generico dovere del neminem laedere; di talché, atteso il rimando operato all’art. 1173 c.c., che prevede tra le fonti delle obbligazioni ogni altro atto o fatto idoneo a produrle, anche la responsabilità medica veniva reindirizzata nella categoria della responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c., poiché fondata sul contratto di spedalità, ex. art. 1228 c.c.

Qualche tempo prima nella legge Balduzzi il legislatore aveva richiamato l’attenzione di dottrina e giurisprudenza sul tema dell’esatta qualificazione della responsabilità medica facendo riferimento, nell’art. 3, alla categoria della responsabilità ex delicto.

Tuttavia parte della giurisprudenza, sulla scorta del rinvio operato al concetto di diligenza pretesa al debitore nell’adempimento dell’obbligazione contratta, ex art. 1176, comma 2, c.c., riconosce ugualmente nella categoria della responsabilità contrattuale la disciplina di attinenza per l’operatore sanitario, essendo convinta che la normativa de quo contenga soluzioni maggiormente tutelanti per i pazienti sulla base delle disposizioni riguardanti i più lunghi termini prescrizionali ed il più vantaggioso regime probatorio.

L’attività medica si contraddistingue per essere prima facie una prestazione a carattere professionale, inquadrabile nella disciplina generale, ex artt. 2229 ss. c.c. e, in quanto tale, si pone quale obbligazione di mezzi e non di risultato, ove il risultato costituisce il fine di una successione di azioni poste in essere dal sanitario, il quale, nello svolgimento dei propri incarichi, ha il dovere di osservare pedissequamente le linee guida e buone pratiche emesse dal Ministero ed accreditate dalla comunità scientifica. La diligenza che gli si richiede è di tipo qualificato sulla scorta dei principi dettati dall’art. 1176 c.c., comma 2, c.c. e, dunque, non quella del buon padre di famiglia, ma di livello maggiore poiché fondata sulla fiducia che il paziente ripone nelle specifiche competenze dell’operatore sanitario.

Quindi, in questa ottica, la responsabilità prevista dall’art. 2043 c.c. non deriva dalla violazione del principio generico del neminem leadere, ma dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, quale quello alla vita e alla salute riferibili al danno perpetrato.

Con la legge n. 189/2012 è stata inoltre depenalizzata la responsabilità del medico per colpa lieve, quando lo stesso si sia attenuto alle pratiche standardizzate; tuttavia, non viene esclusa la responsabilità civile ex 2043 c.c. in caso di eventi nefasti per il paziente.

L’art. 7, comma 3, della legge n. 24/2017 comprende una clausola di salvezza con cui si prevede che nell’ipotesi in cui il sanitario abbia assunto un’obbligazione direttamente con il paziente risponderà per inadempimento dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1218 c.c.

È necessario chiarire che la responsabilità del sanitario non si arresta ad una erronea esecuzione della prestazione ma sussiste anche nel caso di inadeguata informazione offerta al paziente e di omessa richiesta di strumenti necessari per le cure a cui deve sottoporsi e non presenti all’interno del complesso in cui lo stesso è collocato.

Occorre, oltretutto, un’ulteriore precisazione, qualora il medico rivesta la qualifica di primario all’interno della struttura ospedaliera, acquista una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti che sono in cura presso di lui, in virtù della quale assume, inoltre, l’onere di supervisionare il comportamento degli altri medici nell’espletamento delle attività e il dovere di impartire loro direttive ed ordini, essendo tenuto ad interessarsi allo stato di salute dei pazienti perfino quando non è stato direttamente coinvolto nella visita. Ha dunque l’obbligo di vigilanza diretta e indiretta in ogni fase della prestazione sanitaria, ragione per la quale è direttamente responsabile delle azioni o omissioni poste in essere dagli altri sanitari. Tuttavia, non gli viene attribuita una funzione di assoluto controllo ma, quanto meno, un impegno di supervisione ed interessamento delle pratiche messe in atto da coloro che operano all’intero del reparto a lui assegnato.

La struttura sanitaria, al contrario, soggiace ad una responsabilità di natura contrattuale, poiché il paziente sottoscrive con la stessa un contratto basato sul modello descritto dall’art. 1336 c.c., relativo all’offerta al pubblico, per mezzo del quale l’azienda ospedaliera assume l’obbligo di protezione nei confronti del paziente anche per i fatti dolosi o colposi commessi dai medici, soggetti terzi, di cui si avvale in virtù del principio cuius commoda eius et incommoda.[2]

4. L’onere della prova alla luce della legge Gelli-Bianco

La disciplina della responsabilità medica, anche in relazione alla prova del nesso causale, si può dunque sintetizzare in quattro fasi.

La prima caratterizzata dal c.d. cumulo di responsabilità che aveva dato origine ad un sistema fondato sulla responsabilità avente natura sia contrattuale che extracontrattuale. Attraverso questo procedimento il paziente aveva la possibilità di agire congiuntamente nei confronti del medico e dell’azienda ospedaliera. L’onere della prova[3] gravava sui debitori che dovevano provare la causa di non imputabilità della condotta, mentre al danneggiato spettava l’incombenza di produrre la prova dell’esistenza del contratto di assistenza, il peggioramento o mancato miglioramento delle proprie condizioni di salute ed altresì il nesso di causalità tra azione/omissione ed il determinarsi dell’evento lesivo.

La seconda fase ha preso le mosse dalla summenzionata sentenza degli Ermellini n. 589/1999 con cui è stato diffuso il concetto di contatto sociale, «che consacra la costruzione dottrinale della obbligazione senza prestazione, assumendola a chiave di lettura del rapporto paziente – medico dipendente della struttura sanitaria»[4]. Secondo tale ricostruzione il medico rispondeva delle eventuali violazioni poste in essere sulla scorta del combinato disposto degli artt. 1218 – 1228 c.c., che facevano sorgere in capo al paziente il dovere di provare non soltanto il peggioramento o mancato miglioramento della propria salute ma anche la negligenza dell’operatore, che doveva essere commisurata al grado di diligenza richiesta per gli esercenti le professioni intellettuali, ad eccezione dei casi nei quali gli interventi da compiere erano di facile esecuzione poiché in tal caso la colpa si presumeva. Questa visione, che pur aveva favorito di gran lunga il paziente sgravandolo dall’onere di provare il nesso causale tra evento e danno, d’altra parte, aveva dato vita alla dicotomia tra performance di facile e di difficile esecuzione, rendendo alquanto complessa la dimostrazione del nesso causale per il paziente nelle operazioni maggiormente ardue. Le Sezioni Unite con sentenza n. 577/2008, finalmente intervenute in materia, eliminarono questo meccanismo distributivo dell’onere della prova, affermando che quest’ultimo doveva essere così ripartito: al medico spettava la dimostrazione dell’adempimento della prestazione o l’intervento di un evento fortuito interruttivo del nesso di causalità ed al paziente spettava «un onere di allegazione dell’inadempimento efficiente»[5].

La terza fase è contraddistinta dalla emanazione della legge Balduzzi con la quale, per la prima volta, si riconduceva sotto l’alveo della responsabilità aquiliana la prestazione medica nefasta, fino a giungere alla quarta fase, quella attuale, della legge n. 24/2017, con cui è stata confermata tale impostazione e con cui si è dato seguito ad una serie di miglioramenti e riforme dell’intero sistema sanitario.  L’onere della prova in questo caso grava sul paziente-danneggiato che dovrà dimostrare ciascuno degli elementi costitutivi della fattispecie.

Per meglio chiarire il quadro concernente le disposizioni sulla distribuzione dell’onere probatorio, occorre preliminarmente richiamare all’attenzione la disciplina generale contenuta nell’art. 2697 c.c. secondo la quale spetta all’attore il gravoso compito di provare i fatti a sostegno della propria pretesa ed al convenuto la modificazione od estinzione del diritto. Nel caso di esercizio dell’azione ex art. 1218 c.c. sarà il debitore-convenuto a dimostrare il suo adempimento ovvero la corretta esecuzione della propria prestazione mentre l’attore dovrà provare la fonte del diritto per cui agisce, il contratto di spedalità e l’assistenza, l’inadempimento della controparte ed il peggioramento della propria condizione di salute. Si è assistito, invece, ad un’inversione dell’onere della prova in relazione all’esperimento dell’azione ex art. 2043 c.c., che prevede l’incombenza per il creditore-paziente di dimostrare ogni elemento del caso particolare. Il giudice, dunque, al fine di accogliere la domanda di risarcimento del danno dovrà accertare la sussistenza degli elementi essenziali cioè: inadempimento o colpa, nesso causale e danno da cui è scaturito l’evento.

Nella responsabilità contrattuale il danno individua la conseguenza economica negativa, immediata e diretta, sofferta dal creditore per l’inadempimento del debitore; nella responsabilità extracontrattuale a questa si aggiungono gli effetti del fatto lesivo, determinante il danno, che si dovrà procedere a liquidare.

Soffermandosi sull’analisi della responsabilità da fatto illecito, l’art. 2043 c.c. configura il nesso di causalità come la relazione tra la condotta materiale, il fatto doloso o colposo ed il danno ingiusto cagionato che si avrà l’obbligo di risarcire; da ciò si evince che il nesso di causalità si scompone in due momenti: accertamento del nesso tra azione-omissione ed evento e nesso tra evento e danno. Quest’ultimo si differenzia dalla sua quantificazione, che è limitata al mancato guadagno patito come conseguenza diretta e immediata del danno, ex art. 1223 c.c. Siffatta distinzione è stata riconosciuta dalla giurisprudenza, secondo la quale il nesso tra evento e danno sarebbe riconducibile all’art. 1223 c.c. in relazione alla liquidazione, mentre il primo rapporto si trarrebbe dalla causalità materiale, ex artt. 41 e 42 c.p.

L’accertamento del nesso causale, al fine dell’imputabilità della colpa al soggetto danneggiante, risulta alquanto complesso in particolar modo in ambito medico, giacché numerosi sono i fattori che si insinuano nella determinazione dell’evento. Per tali e tanti motivi, dottrina e giurisprudenza, hanno elaborato diverse teorie relative alla verifica del c.d. nesso di causalità: la teoria della conditio sine qua non, della causalità adeguata e della causalità scientifica, che risulta attualmente quella più accreditata. Quest’ultima è fondata sul principio secondo il quale «la legge di copertura necessaria per la verifica del nesso in astratto»[6] è pari al 51% e «nel riparto degli oneri probatori, è affidata alle cure dell’attore. Accertata la legge di copertura, sul piano scientifico, la verifica della sussistenza del nesso si estrinseca in un ragionamento logico, basato in concreto sulle prove della circostanza»[7], di talché il giudice nell’operazione di verifica è coadiuvato da un CTU, che ha l’obbligo di illustrare in maniera chiara e concisa gli elementi scientifici al fine di provare la sussistenza o meno del nesso di causalità al giudicante.

Nella sentenza de quo l’errore è stato determinato dall’omessa diagnosi del medico che ha condotto al decesso del paziente. In questi casi l’unico mezzo per poter ricostruire la vicenda fattuale fa riferimento al decorso causale ipotetico, che richiede anzitutto l’individuazione del comportamento che si sarebbe dovuto tenere per determinare se in quel caso l’evento lesivo non si sarebbe verificato. «Inoltre la verifica si svolge su due piani paralleli. Il comportamento alternativo lecito che, già in astratto e sulla base delle conoscenze scientifiche di quel momento, era in grado di contenere il rischio, cioè aveva efficacia impeditiva, è un piano di accertamento. Il secondo riguarda l'evitabilità in concreto, che manca ove si accerti la preesistenza di malattie congenite o altre condizioni di salute tali da rendere il comportamento lecito inutile, controproducente o impossibile»[8].

La legge Balduzzi e successivamente la legge Gelli-Bianco ai fini dell’accertamento della colpa fanno ricorso alle c.d. leggi medico-scientifiche: una volta verificata la corretta esecuzione della prestazione, sulla base delle linee guida ministeriali, dovrebbe essere provata l’innocenza del sanitario; allo stesso modo, il discostamento da queste dovrebbe essere indice di colpevolezza. Tuttavia, questo non basta per dimostrare che effettivamente quella determinata operazione sia stata compiuta o meno in maniera corretta: «una volta dimostrata l'esecuzione difforme, possiamo dire con certezza che se il trattamento fosse stato effettuato lege artis il paziente avrebbe avuto x probabilità di sopravvivenza o guarigione. Dove x è la percentuale fornita dai casi epidemiologici e clinici a disposizione della scienza medica. Riconosciuto il danno alla salute (evento) sarà risarcibile la chance di successo (conseguenza)»[9].

Dunque, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, il sistema civilistico si basa sul principio del “più probabile che non” sulla base del quale, un evento-conseguenza, è imputabile ad un preciso individuo solo e soltanto se questo risulti più probabilmente determinato dal comportamento posto in essere da quest’ultimo.  

I termini prescrizionali delle azioni sono assoggettati alle disposizioni generali in materia di responsabilità: per quella contrattuale, ex art. 2946 c.c., il termine è quello ordinario decennale, per la responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2947 c.c., il termine è di cinque anni.

5. La perdita di chances

La perdita di chance[10] indica la perdita di probabilità di conseguire una determinata utilità o vantaggio, nello specifico ad essa vengono assegnati i seguenti significati: «a) perdita di probabilità di migliorare la propria situazione, con connessa definitiva impossibilità di ottenere una determinata utilità (in precedenza prospettabile); b) perdita di probabilità di migliorare la propria situazione, con mera diminuzione delle probabilità di ottenere una determinata utilità; c) perdita di probabilità di mantenere una determinata situazione, cioè aumento del rischio di verificazione di un determinato pregiudizio»[11].

Secondo alcuni autori la chance non costituisce un’autonoma fattispecie avendo valore solo e soltanto quando si inserisce in una sequenza causale di atti che costituiscono il presupposto logico-giuridico di un risultato finale che il soggetto tenta di raggiungere. Tale orientamento è stato in un secondo tempo superato ed altresì corroborato dalla giurisprudenza; ormai la chance costituisce una forma autonoma di risarcimento del danno.

Il danno da perdita di possibilità può essere liquidato unicamente quando il danneggiato risulti in grado di provare l’esistenza del nesso di causalità tra danno e consistente perdita della probabilità di successo.

I profili problematici si riscontrano nella quantificazione del danno in merito alla sua esatta qualificazione, ex art. 2056 c.c. in combinato disposto con l’art. 1223 c.c. e, cioè, se debba considerarsi il danno emergente, quello facente parte del patrimonio del soggetto danneggiato, o il lucro cessante, inteso come lesione futura. Poco tempo fa si è tentata una sintesi dei contrapposti orientamenti e sono stati entrambi recepiti dall'impostazione con cui si afferma che «la chance costituisce una posta attuale del patrimonio, ossia un bene della vita autonomo e tutelabile in sé: altro è il risultato avuto di mira (per esempio vincere un concorso), altro è la possibilità di conseguirlo. La chance, intesa come possibilità di un risultato, è un bene della vita autonomamente apprezzabile, purché ovviamente si tratti di una possibilità statisticamente seria».

6. Autodeterminazione e consenso informato

Con la legge 22 dicembre 2017 n. 219 è stato introdotto nel nostro ordinamento il c.d. consenso informato[12], con cui è stato previsto per il medico l’obbligo di rendere edotto il paziente circa le implicazioni dell'intervento, le inevitabili complicazioni, gli effetti raggiungibili e gli eventuali rischi, affinché lo stesso sia libero di autodeterminarsi e di esprimere liberamente il proprio consenso o dissenso sull'opportunità di procedere a tali pratiche soppesando vantaggi e rischi. Il dovere di informazione attiene anche alle fasi preliminari e posteriori dell’intervento nonché alle condizioni in cui versa la struttura sanitaria.

La funzione di suddetta disposizione è quella di garantire la libertà del paziente, ex art. 13 Cost. in combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost.

Il consenso informato in questa ottica assume autonoma rilevanza, tanto da costituire un’autonoma figura di danno risarcibile.

In passato però la tutela risarcitoria riguardava i soli casi in cui emergevano complicazioni determinatesi a seguito di trattamenti sanitari eseguiti in violazione del consenso informato. Oggi tale indirizzo si dimostra essere totalmente superato attesa la finalità insita nella ratio legis volta a garantire la vita umana nonché la dignità ed identità della persona. Difatti il risarcimento opera sia quando si manifestino conseguenze negative, c.d. complicazioni, sia quando ciò non accada in quanto sussiste ugualmente la compromissione di un bene giuridico costituzionalmente tutelato.

Al fine dell’accoglimento della domanda il paziente è tenuto a dimostrare l’omissione delle corrette e complete informazioni da parte del sanitario ed altresì il nesso causale tra la condotta e l’offesa patita. La lesione che si determina deriva dall’effetto sorpresa causato dalla mancata conoscenza della propria patologia e del trattamento sanitario a cui si viene sottoposti. L’obbligo informativo, infatti, permetterebbe al paziente di rifiutare l’intervento, rimandarlo o effettuarlo presso altro nosocomio.

Dunque, le conseguenze negative consistono in un turbamento emotivo e fisico determinato dalla impreparazione. I danni così interpretati dovranno essere liquidati sulla base dell’equo apprezzamento affidato al giudicante in quanto i danni non patrimoniali, con tali caratteristiche, non possono in alcun modo essere inglobati nei valori tabellari prestabiliti, atteso che ci si riferisce tanto ai danni morali quanto a quelli alla salute.

La Corte di Cassazione con riguardo a questi danni non patrimoniali, nella sentenza n. 90/2018 e nell’ordinanza n. 7513/2018, si è espressa in questi termini: «si riconosce la duplice essenza del danno non patrimoniale: che va distinto in danno dinamico-relazionale, quale modificazione peggiorativa della vita della vittima e danno morale, corrispondente al patimento emotivo in tutti i suoi aspetti. La sofferenza interiore e la modificazione negativa delle dinamiche relazionali rappresentano — in tale prospettiva — danni diversi e autonomamente risarcibili»[13].

7. Risarcimento e liquidazione del danno

Anche la normativa risarcitoria[14] è stata oggetto di profonde trasformazioni da parte del legislatore del 2017: con gli artt. 5 e 6 della legge Gelli-Bianco è stato introdotto il c.d. principio di gradualità con cui si prevede che il giudice possa discrezionalmente discostarsi dai valori tabellari, quantificando il danno patito dal paziente sulla base della condotta assunta dal danneggiante anziché sull’effettivo danno sofferto dal danneggiato. Dunque, tanto più il medico si atterrà alle linee guida e buone pratiche ministeriali, tanto più il valore dell’importo da rendere sarà inferiore.

Tale ricostruzione appare tuttavia contrastare con i principi di integrale risarcimento del danno e di funzione riparatoria della responsabilità civile.

Tuttavia, è oramai risaputo che non sussiste alcun obbligo di integrale risarcimento del danno, atteso che sarebbe alquanto arduo quantificare in maniera effettiva i danni non patrimoniali derivanti da lesioni di diritti come quello alla salute o alla vita; oltretutto è la stessa Corte Costituzionale che quando ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni relative all’integrale risarcimento del danno lo ha fatto unicamente in relazione al mancato rispetto dell’art. 3 Cost. I giudici della Consulta, riprendendo tale orientamento e hanno affermato di recente che: «il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 cod. ass. — per il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona — va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata»[15]. Dunque, il risarcimento del danno non patrimoniale derivante da una lesione o aggravamento delle condizioni di vita ha natura riparatoria e non compensativa; di talché ciò non impedisce al legislatore di introdurre un parametro discrezionale per il giudice nella commisurazione del danno.

Per quanto attiene all’altro punto, la funzione riparatoria della responsabilità civile ha oggigiorno carattere polifunzionale; difatti, le Ss. Uu. della Corte di Costituzione con sentenza n. 16601/2017, da ultimo, perseguendo il suddetto orientamento, hanno stabilito che: «accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo-riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale [...] che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva»[16].

La criticità, tuttavia, risiede nell’esatta interpretazione dell’art. 7, comma 3, della legge n. 24/2017 in merito all’inquadramento del risarcimento e cioè se esso abbia natura punitiva o premiale. La ratio legis pare sia rivolta alla compressione del diffuso fenomeno della medicina difensiva e dell’overdeterrence, ragione per la quale appare verosimile che il fine della norma dovrebbe essere quello di rendere meno onerosa la quota da liquidare valorizzando piuttosto l’aspetto premiale in essa sussistente. Tuttavia, tale riduzione del danno risarcibile non opera nei confronti della struttura sanitaria, essendo soggetto avente un capiente patrimonio in grado di poter liquidare integralmente il danno cagionato.

Nonostante nel nostro ordinamento siano state immesse figure di risarcimento punitive, i c.d. punitive demages, in forza del principio costituzionale ex art. 23, la Corte ha affermato che i giudici italiani non hanno la facoltà di emettere sentenze aventi un carattere punitivo-deterrente.

Tra i danni non patrimoniali risarcibili ex art. 2059 c.c. rientrano anche quelli determinati dal decesso di un prossimo congiunto causato dalla condotta illecita posta in essere da un terzo. I familiari di quest’ultimo, dunque, avranno diritto ad un ristoro per il danno esistenziale patito, che ha riguardo nello specifico la perdita del rapporto parentale, bruscamente interrotto, dal verificarsi del fatto-reato. La relazione parentale, intesa come unione di affetti e scambievole solidarietà della vita familiare, è un bene costituzionalmente tutelato che riguarda una sfera intangibile della persona umana. Esso si differenzia tanto dal diritto alla salute quanto da quello morale, difatti nella quantificazione il giudice deve essere accorto e non incorrere nella c.d. duplicazione del danno che va a liquidarsi.

Ai fini dell’accoglimento della domanda la prova non corrisponde all’evento morte, piuttosto l’attore dovrà dimostrare nell’immediatezza la sofferenza patita o il peggioramento delle condizioni e abitudini di vita ed il giudice dovrà accertare anche il legame concreto sussistente tra chi reclama il risarcimento e la vittima dell’illecito.

8. Conclusioni

Negli ultimi anni si è assistito ad un inasprimento delle sanzioni civili e penali in materia di responsabilità medica che, se da un lato hanno permesso di rendere effettiva la tutela predisposta nell’art. 32 Cost., dall’altro hanno determinato un’allarmante diffusione dei fenomeni della c.d medicina difensiva e dell’overdeterrence. Difatti, prima la legge Balduzzi e successivamente la legge Gelli – Bianco hanno cercato di rimodulare il rapporto medico – paziente e struttura sanitaria predisponendo sostanziali modifiche al corpo normativo. Si è introdotto il sistema del doppio binario e si è dato al paziente-danneggiato la possibilità di adire il giudice per far valere le proprie pretese esperendo azione diretta e contestuale nei confronti tanto dell’operatore sanitario che della struttura nella quale lo stesso opera. Riassumendo, quindi: il paziente ha diritto ad una adeguata informazione che gli consenta di fare consapevolmente le proprie scelte e di decidere se sottoporsi o meno ad un determinato trattamento terapeutico; la perdita di chance, cioè la possibilità di raggiungere un determinato vantaggio od utilità, diventa un danno risarcibile sia sul piano del lucro cessante che del danno emergente; vengono approntante le tabelle, i cui valori devono essere annualmente aggiornati al fine di rendere la quantificazione e successiva liquidazione del danno un accertamento non totalmente discrezionale per il giudice; i medici e le strutture sanitarie hanno l’obbligo di essere assicurati al fine di rendere più agevole il risarcimento del danno nel caso della causazione di un evento nefasto lesivo per il paziente che avrà diritto a vedersi rimborsare l’illecito subito.

Da tutto ciò si evince come tante sono state le novità che negli anni sono accorse in questo campo e quante ancora siano le sfide che il legislatore dovrà affrontare al fine di tutelare in maniera adeguata i protagonisti della responsabilità medica.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Sulla responsabilità medica si v. R. La Russa, La riforma della responsabilità sanitaria nel diritto civile: l’istituzione del “doppio binario” ed il nuovo regime assicurativo, tra obbligo di copertura e possibilità di autotutela, in Resp. civ. e prev., fasc. 1, 2019, p. 349 ss.; A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2017, pp. 915 – 982; R. Galli, Nuovo corso di diritto civile, Milano, 2017, pp. 690 – 750; E. Migliaccio, Ancora in tema di responsabilità medica e onere della prova, in Dir. fam. pers., 2019, fasc. 3, p. 1239 ss.

[2] R. La Russa, La riforma della responsabilità sanitaria nel diritto civile: l’istituzione del “doppio binario” ed il nuovo regime assicurativo, tra obbligo di copertura e possibilità di autotutela, cit., p. 349 ss.

[3] Sull’onere della prova e il nesso causale si v. G. Gioia, La prova del nesso causale nella responsabilità medica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, fasc. 4, p. 1341 ss.; E. Migliaccio, Ancora in tema di responsabilità medica e onere della prova, cit., p. 1239 ss.; F. Piraino, Il nesso di causaità, in Eur. dir. priv., 2018, fasc. 2, p. 399 ss.

[4] E. Migliaccio, Ancora in tema di responsabilità medica e onere della prova, cit., p. 1239 ss.

[5] E. Migliaccio, Ancora in tema di responsabilità medica e onere della prova, cit., p. 1239 ss.

[6] G. Gioia, La prova del nesso causale nella responsabilità medica, cit., p. 1341 ss.

[7] G. Gioia, La prova del nesso causale nella responsabilità medica, cit., p. 1341 ss.

[8] G. Gioia, La prova del nesso causale nella responsabilità medica, cit., p. 1341 ss.

[9] G. Gioia, La prova del nesso causale nella responsabilità medica, cit., p. 1341 ss.

[10] F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, Napoli, 2019, pp. 962-964 e 1041-1042.

[11] G. E. Napoli, La perdita di chance nella responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 2018, fasc. 1, p. 52 ss.

[12] Sul consenso informato si v. P. Ziviz, Le sabbie mobili del danno da lesione all’autodeterminazione nel trattamento sanitario, in Resp. civ. prev., 2019, fasc. 5, p. 1485 ss.; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in NGCC, 2018, p. 247 ss.; Sardella, La nuova responsabilità sanitaria: Pagina 13 di 35 quali novità in tema di consenso informato, in Danno resp., 2019, p. 161 ss.; Guerra, Lo “spazio risarcitorio” per violazione del solo diritto all'autodeterminazione del paziente. Note a margine di un percorso giurisprudenziale, in NGCC, 2010, p. 617 ss.

[13] P. Ziviz, Le sabbie mobili del danno da lesione all’autodeterminazione nel trattamento sanitario, cit., p. 1485 ss.

[14] Sul risarcimento del danno si v. N. C. Sacconi, Condotta dell’esercente la professione sanitaria e quantificazione del risarcimento, in Resp. civ. prev., 2018, fasc. 4, p. 1351 ss.; M. Bona, Manuale per il risarcimento dei danni ai congiunti. Patrimoniali – non patrimoniali, Rimini, 2014, p. 215 ss.; D.P. Triolo, La responsabilità extracontrattuale, Frosinone, 2017, p. 11 ss.

[15] N. C. Sacconi, Condotta dell’esercente la professione sanitaria e quantificazione del risarcimento, cit., p. 1351 ss.

[16] N. C. Sacconi, Condotta dell’esercente la professione sanitaria e quantificazione del risarcimento, cit., p. 1351 ss.