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Pubbl. Sab, 20 Mar 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Il ruolo della buona fede nelle vicende contrattuali sopraggiunte da squilibrio alla luce del covid-19

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Alice Mendolia



La clausola generale di buona fede può fungere da rimedio manutentivo per eliminare lo squilibrio sopravvenuto del contratto e obbligare le parti ad avviare nuove trattative per concludere un nuovo regolamento di interessi. Obbligo coercibile in sede giudiziale con rimedio in forma specifica ex art. 2932 cod. civ.


ENG The general clause of good faith can act as a maintenance remedy to eliminate the supervening imbalance of the contract and oblige the parties to start new negotiations to conclude a new regulation of interests. Obligation enforceable in court with specific remedy pursuant to art. 2932 Civil Code.

Sommario: 1. Gestione delle sopravvenienze contrattuali; 2. Attualità del brocardo latino “pacta sunt servanda est”; 3. Strumenti di reazione in caso di contratto squilibrato; 3.1 Il nuovo filone giurisprudenziale; 4. Evoluzione storica della clausola di buona fede in ambito contrattuale; 4.1 Buona fede: regola di comportamento o regola di validità del contratto?; 5. Il ruolo della buona fede all’ombra dell’emergenza sanitaria da Covid-19; 6. Relazione tematica della Corte di Cassazione e il richiamo alla clausola di buona fede; 7. Osservazioni conclusive.

1. Gestione delle sopravvenienze contrattuali

Il tema delle sopravvenienze contrattuali, che perturbano l’equilibrio originario del contratto, da sempre interroga la dottrina e la giurisprudenza sulla adeguatezza dei rimedi che l’ordinamento giuridico mette a disposizione delle parti dell’accordo negoziale.

Nella prassi commerciale, non di rado, i regolamenti negoziali sono privi di clausole finalizzate a disciplinare i rapporti tra le parti nel caso in cui si verifichino eventi imprevisti, tali da alternare il rapporto di sinallagmaticità originariamente esistente tra le prestazioni dedotte[1].

A tal proposito, negli ultimi decenni, si è progressivamente manifestato lo sforzo di una parte della giurisprudenza di affrontare il problema delle sopravvenienze che alterano l’equilibrio del contratto ricorrendo alla clausola generale di buona fede e al principio costituzionale di solidarietà sancito dall’art. 2 Cost.

Invero, la consapevolezza della assenza di uno strumento rimediale di carattere generale[2] offerto all’autonomia contrattuale per riequilibrare il sinallagma contrattuale[3] ha persuaso gli interpreti della necessità di individuare tale rimedio nella clausola di buona fede[4], letta e interpretata alla luce del disposto normativo di cui all’art. 2 Cost.

In questa prospettiva, certamente nuova per il nostro ordinamento, la buona fede acquista il ruolo di fonte dell’obbligo di rinegoziare le condizioni contrattuali al sopraggiungere, dopo la stipula del contratto, di eventi di entità tale da squilibrare il rapporto di proporzionalità tra le prestazioni reciprocamente assunte.

Il sopraggiungere di determinati eventi altera l’alea del rischio economico che la parte ha consapevolmente assunto. Si badi bene che l’obbligo di buona fede di rinegoziare le clausole negoziali non è giustificato dalla ‘oggettiva’ iniquità del contratto, che sarebbe in questo caso frutto di una scelta consapevole dei contraenti, ma dalla iniquità soggettiva dovuta all’aumento esponenziale del rischio economico a cui la parte risulta esposta dopo lo squilibrio.

L’iniquità oggettiva del contratto, quindi, continua a rappresentare un limite alla efficacia integrativa della clausola di buona fede.

La clausola di buona fede non può essere invocata come strumento per ricondurre ad equità un contratto oggettivamente iniquo se questo esprime le reali preferenze delle parti; opinando in senso contrario si consentirebbe una ingiustificata compressione della libertà negoziale delle parti.

L’iniquità su cui la clausola di buona fede ha il potere di incidere è quella che scaturisce da perturbazioni esterne che, modificando l’originario equilibrio del contratto, danno vita ad un contratto soggettivamente ingiusto.

Quindi, ancorché le sopravvenienze possano aver apportato un oggettivo miglioramento dell’equilibrio del contratto, il fatto che il nuovo equilibrio non rispecchi le reali preferenze delle parti lo rende soggettivamente iniquo.

2. Attualità del brocardo latino “pacta sunt servanda est”

Questa ricostruzione del ruolo della clausola di buona fede all’interno delle relazioni contrattuali presenta evidenti profili di novità rispetto al passato, e si pone in contrasto con il tradizionale e pregresso orientamento della giurisprudenza che ne esclude simili effetti[5].

La tesi tradizionale, valorizzando il brocardo latino pacta sunt servanda est, che impone alle parti di rispettare il regolamento contrattuale frutto delle loro volontà, esclude che la buona fede possa estendere i suoi effetti fino al punto di consentire ad una delle parti di obbligare l’altra ad una riapertura delle trattative qualora il contratto sia sopraggiunto da squilibrio.

Ciò trova, peraltro, fondamento normativo in una delle norme più importanti sulla disciplina del contratto l’art. 1372 cod. civ.[6].

L’art. 1372 cod. civ. stabilisce che il contratto produce tra le parti lo stesso effetto che produce la legge; il legislatore quindi equipara, sul piano degli effetti, la legge al contratto e ciò al fine di conferire al vincolo contrattuale un valore per così dire ‘assoluto’.

La necessità di riconoscere al contratto valore assoluto tra le parti è dettata da una esigenza generale, quella di favorire le pratiche negoziali e assicurare la certezza e la sicurezza dei traffici commerciali[7].

3. Strumenti di reazione in caso di contratto squilibrato

Occorre adesso, al fine di rendere maggiormente lineare il tema oggetto di discussione, svolgere una breve digressione sui rimedi contrattuali proposti dall’attuale quadro normativo in caso di squilibrio sopravvenuto[8].

Ciò che è emerso finora è che al verificarsi di certi eventi, in mancanza di previsioni contrattuali all’uopo predisposte, i rimedi di cui dispongono le parti sono quelli contenuti nel capo XIV del titolo II del libro IV del Codice civile[9].

Il capo XIV, dedicato allo scioglimento del contratto, disciplina al suo interno la risoluzione per inadempimento agli artt. 1453-1462 cod. civ., l’impossibilità sopravvenuta agli artt. 1463-1466 cod. civ. e l’eccessiva onerosità agli artt. 1467-1469 cod. civ.

La operatività di queste fattispecie presuppone il verificarsi di un fatto, successivo alla stipula del negozio, che rende la prosecuzione del rapporto contrattuale non più soddisfacente in relazione agli interessi che lo stesso doveva soddisfare[10].

È evidente, infatti, che l’impossibilità sopravvenuta così come la eccessiva onerosità sopravvenuta di una delle prestazioni precludano alle parti la possibilità di dare attuazione al regolamento di interessi deciso al momento della stipula.

Quanto detto consente di approfondire la seguente riflessione alla luce delle scelte di sistema che il Codice civile adotta in tema di rimedi contrattuali.

Si è già evidenziato che gli strumenti di reazione previsti dall’ordinamento in caso di vizio sopravvenuto sono perlopiù di tipo caducatorio.

Ebbene, dando uno sguardo agli strumenti rimediali previsti dal codice nelle ipotesi in cui il vizio che affligge il contratto è originario ci si accorge, ancora una volta, che l’ordinamento esprime una preferenza per i rimedi di tipo caducatorio piuttosto che per quelli di tipo conservativo.

La ratio della scelta del legislatore del 42’ rispecchia l’esigenza di tutelare la volontà dei contraenti cristallizzata nel regolamento negoziale, motivo per il quale se quella volontà non è perseguibile allora l’unica alternativa rispettosa dell’autonomia contrattuale diventa lo scioglimento del vincolo. In senso contrario le parti risulterebbero vincolate ad un contratto che non rispecchia le loro reali preferenze e quindi lesivo della loro libertà negoziale.

Ed invero, ancorché l’ordinamento mostri una tendenziale preferenza a favore del rimedio caducatorio, va detto che esso non è l’unico rimedio predisposto a favore dei contraenti e questo accade sia nel caso di vizi originari sia nel caso di vizi sopravvenuti.

A fronte della evidente rigidità che caratterizza il rimedio caducatorio, il legislatore prevede che le parti possano evitare lo scioglimento del vincolo ricorrendo a rimedi di carattere manutentivo.

Il rimedio manutentivo permette di conservare il rapporto contrattuale epurandolo da quei difetti che gli impediscono di rispecchiare le reali preferenze degli stipulanti[11].

Si pensi, ad esempio, all’art. 1432 cod. civ. che in presenza di un difetto che rende annullabile il contratto consente alla parte, avvantaggiata dal vizio, di offrire la modifica del regolamento contrattuale per evitare la pronuncia giudiziale di annullamento.

Anche l’art. 1450 cod. civ. prevede a favore del contraente contro il quale è azionata la rescissione di evitare lo scioglimento del vincolo offrendo alla controparte una modifica del contratto secondo equità.

Di analogo tenore è il disposto normativo di cui all’art. 1467 cod. civ. che, con riferimento ad una ipotesi differente da quelle enunciate in precedenza[12], prevede la possibilità per il contraente che trae vantaggio dallo squilibrio sopravvenuto di evitare la risoluzione offrendo una equa rideterminazione delle condizioni contrattuali.

Gli artt. 1432, 1450 e 1461 cod. civ., ancorché riferiti a vizi contrattuali differenti, presentano dei tratti comuni; in primis è di tutta evidenza il fatto che si tratti di norme a carattere speciale non estendibili in via analogica a casi ulteriori a quelli per i quali esse sono previste.

Inoltre, nelle fattispecie indicate la scelta dell’utilizzo del rimedio manutentivo è rimessa in via esclusiva alla parte del rapporto che riceve un vantaggio dal vizio/sopravvenienza contrattuale che inficia il contratto o che ne altera l’equilibrio.

La circostanza che il rimedio manutentivo sia un rimedio di parte riflette, invero, la considerazione secondo cui le parti sono i migliori ‘giudici’ dei propri affari, pertanto in presenza di un contratto che non rispecchia le loro reali preferenze solo loro possono valutare la opportunità di conservare il vincolo, elidendo il vizio, ovvero di caducare il contratto.

Infatti, mentre il rimedio caducatorio libera le parti da un precedente vincolo ritenuto inidoneo a realizzare le loro aspettative, il rimedio manutentivo conserva il vincolo obbligando i contraenti ad un nuovo regolamento espressione di un nuovo equilibrio contrattuale.

Ancora, un’ulteriore differenza attiene al ruolo che il giudice assume a seconda che il rimedio azionato sia di tipo manutentivo o risolutivo. Quando la domanda giudiziale persegue lo scioglimento del vincolo negoziale il giudice svolge una funzione dirimente, essendogli affidato l’accertamento sulla sussistenza dei requisiti che la norma richiama ai fini dello scioglimento del vincolo e del relativo addebito di responsabilità[13].

Invece, in tema di rimedi conservativi la scelta del se e del come giungere ad un accordo che permetta di conservare il vincolo spetta alle parti; il giudice non gode del potere di modificare il regolamento negoziale per consentire la prosecuzione del rapporto contrattuale. 

La nostra tradizione giuridica esclude, salvi casi eccezionali[14], che il giudice possa provvedere egli stesso, qualora le parti non giungano ad un accordo comune, a ricondurre il contratto ad equità[15].

Quindi in assenza di una volontà comune degli stipulanti, l’alternativa alla conservazione del contratto squilibrato è la risoluzione.

Questo breve excursus normativo consente di corroborare la tesi giurisprudenziale che per anni ha escluso in modo categorico la presenza nell’ordinamento giuridico di un rimedio manutentivo di carattere generale.

Senonché, nonostante il fatto che questa tesi trovi riscontro nelle norme del Codice civile, essa si presta alle facili critiche di chi osserva che questa rigida interpretazione dei principi codicistici trascina con sé il rischio di garantire l’autonomia negoziale solo sul piano formale.

Infatti, se la parte svantaggiata dallo squilibrio non può pretendere da parte dell’altro contraente la revisione dei termini contrattuali, quando ciò sia possibile e non implichi un sacrificio apprezzabile, la sua libertà negoziale risulterà inevitabilmente compromessa. In questo caso la scelta di sciogliere il vincolo negoziale nient’altro sarà se non una scelta obbligata e per niente espressione di una libera volontà del soggetto.

Ciò è quello che più di frequente si verifica in alcuni rapporti negoziali, ad esempio nei contratti relazionali che instaurano situazioni di dipendenza di una parte all’altra. Ad esempio, nei rapporti di durata ovvero in quei rapporti in cui la prestazione di una parte è calibrata sulle peculiari richieste dell’altra. In questi casi lo scioglimento del vincolo non è la soluzione migliore per entrambe le parti, infatti per una di loro il pregiudizio derivante dallo scioglimento del contratto potrebbe essere particolarmente gravoso[16].

3.1 Il nuovo filone giurisprudenziale

Ed è ragionando in questi termini che una tesi minoritaria, sviluppatasi di recente in seno ad una parte della giurisprudenza, pur confermando le esigenze sottese al principio di pacta sunt servanda est, ha cercato di conciliare l’aspettativa di certezza e stabilità dei rapporti contrattuali con la necessità di tutelare la parte gravata dallo squilibrio.

I sostenitori di questa tesi, invero, evidenziano un fatto e cioè che spesso l’unico strumento di reazione di cui dispone la parte che soffre lo squilibrio è quello caducatorio; strumento che come già detto non sempre risulta coerente con la volontà del contraente che vi ricorre.

In questi casi il contraente svantaggiato trarrebbe maggiore profitto dalla continuazione del rapporto negoziale piuttosto che dalla sua cessazione, quindi il suo interesse reale è quello a rivedere i termini negoziali e ricondurre il contratto a quella equità originaria specchio delle effettive volontà dei contraenti[17].

In questa prospettiva la tesi in esame individua quale rimedio dello squilibrio sopravvenuto la clausola di buona fede; essa in quanto fonte legale di integrazione degli obblighi contrattuali permette alle parti di superare lo squilibrio sopravvenuto evitando la stretta via della risoluzione.

La buona fede, infatti, letta alla luce del principio costituzionale di solidarietà integra il regolamento contrattuale e impone ai contraenti di compiere uno sforzo reciproco orientato a soddisfare tutti gli interessi che, in modo oggettivo, emergono dall’operazione negoziale.

Si osserva che non è più accettabile una visione delle relazioni contrattuali in cui lo sforzo di ciascuna parte sia egoisticamente preordinato alla esclusiva realizzazione del solo interesse individuale. L’interesse individuale di una parte si somma all’interesse dell’altra parte e l’insieme di questi interessi, oggettivizzati nel regolamento, esprime la causa concreta che il contratto intende realizzare. Quindi la cooperazione diventa strumento propedeutico alla realizzazione della causa in concreto perseguita dal negozio giuridico[18].

Pertanto, l’obbligo a carico della parte avvantaggiata dallo squilibrio di avviare nuove trattative per ristabilire l’equilibrio, quando l’altro contraente ne faccia richiesta, è immediato riflesso del generale principio di solidarietà che impernia, attraverso la clausola di buona fede, anche le relazioni contrattuali.

Inoltre, attenzionando il panorama normativo internazionale emerge che un ruolo siffatto non è del tutto nuovo alla clausola di buona fede. Già i principi Unidroit prevedono che sulla base della clausola di buona fede i contraenti, al sopraggiungere di eventi pervasivi dell’equilibrio del contratto, possano reciprocamente pretendere una ricontrattazione degli obblighi e dei diritti negoziali con la possibilità, qualora l’obbligo venga disatteso, di azionare il preteso diritto in sede giudiziale.

Analogie si rinvengono poi nell’esperienza tedesca e in quella anglo-americana in cui la prassi giurisprudenziale si è da tempo espressa in favore della possibilità per il giudice di modificare il rapporto negoziale per adeguarlo al mutamento delle circostanze sopravvenute utilizzando il criterio guida della buona fede[19].

L’approccio espansivo alla clausola di buona fede a cui la giurisprudenza dimostra di aderire senza tradire la tradizionale portata del principio pacta sunt servanda est ridisegna i contorni applicativi di quest’ultimo contemperandolo con un altro principio di matrice romanistica: il principio rebus sic stantibus[20]. Per vero, la necessità che le parti rispettino gli obblighi negoziali assunti va conciliata con il bisogno di evitare che le parti continuino ad essere avvinte ad un regolamento contrattuale che, per cause esterne e imprevedibili, non rifletta più la volontà originaria che li aveva determinati alla stipula del contratto.

La regola rebus sic stantibus trova riscontro a livello normativo nelle disposizioni che consentono alle parti di risolvere il contratto per impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenuta; queste norme, infatti, prendono in considerazione l’ipotesi in cui il regolamento vincoli le parti a qualcosa di diverso da quello che era stato originariamente voluto.

È stato già detto, tuttavia, che questi rimedi non sempre rappresentano un valido strumento di tutela per il contraente che subisce lo squilibrio, perché dallo scioglimento del contratto conseguono dei pregiudizi che sarebbero evitabili con la riapertura delle trattative e la rinegoziazione delle condizioni contrattuali.

4. Evoluzione storica della clausola di buona fede in ambito contrattuale

La clausola di buona fede era già presente nel Codice civile del 1865 e veniva disciplinata dal disposto normativo di cui all’art. 1124. La norma, tuttavia, si presentava all’interprete con una formulazione letterale particolarmente concisa e sintetica: “i contratti debbono essere eseguiti di buona fede”.

L’art. 1124 cod. civ., peraltro, rappresentava l’unico dato normativo espressamente riferito alla clausola di buona fede; altre norme presenti nel codice, invece, pur senza un richiamo diretto alla clausola generale, risultavano comunque ispirate ad una logica di correttezza e lealtà analoga a quella che caratterizza la buona fede[21].

Va rilevato, tuttavia, che il generale atteggiamento manifestato dalla giurisprudenza e dalla dottrina di quei tempi, rispetto alla scelta del legislatore di inserire nel codice una norma sulla buona fede, è stato poco più che vicino all’indifferenza. Invero, salvo alcune posizioni critiche che addirittura non ravvisavano alcuna necessità di introdurre nel Codice civile una norma sulla buona fede, la restante parte degli operatori giuridici ha dimostrato un certo disinteresse al tema della interferenza degli obblighi di buona fede con le relazioni negoziali.

Il cambio di passo si registra con l’avvento del Codice civile del 1942 con il quale il legislatore decide di dedicare alla clausola di buona fede una disciplina più corposa e dettagliata di quella precedentemente contenuta nel codice del 1865.

A questa tendenza normativa, orientata a riconoscere dignità all’istituto della buona fede, si associa anche un lento percorso di erosione di quelle tesi giurisprudenziali più restie a riconoscere un ruolo autonomo della buona fede nell’ambito del negozio giuridico.

Successivamente, poi, con l’avvento della carta costituzionale il principio di buona fede ha avuto modo di espandersi ulteriormente, data la sua evidente inclinazione a migrare nell’ambito delle relazioni commerciali quel generale dovere di solidarietà sociale ed economica che ispira la Costituzione.

Oggi, quindi, nella sua più recente evoluzione, la clausola della buona fede assume svariate funzioni in ambito contrattuale; in primis essa è fonte dell’obbligo di condurre in modo corretto la fase delle trattative che preludono alla stipula del negozio giuridico, ex art. 1337 cod. civ.[22].

L’efficacia della buona fede, dunque, intercetta il comportamento delle parti ancor prima della stipula del negozio giuridico. Anche in assenza di un regolamento che vincoli le parti ad obblighi specifici essa è di per sé fonte di obblighi comportamentali preordinati a favorire un confronto leale e trasparente.

Un’altra funzione riconosciuta alla clausola di buona fede è quella di canone ermeneutico per la interpretazione del regolamento contrattuale; ai sensi dell’art. 1366 cod. civ. il contratto deve essere interpretato secondo buona fede.

Pertanto, qualora dovessero emergere dei dubbi sul significato da attribuire alle clausole contrattuali la buona fede potrà essere valorizzata come criterio di interpretazione. Ciò al fine di scongiurare che l’interpretazione di una o più clausole possa essere strumentalizzata da uno dei contraenti per produrre effetti distorsivi nella sfera giuridica dell’altra parte.

Ancora, alla clausola generale di buona fede un certo orientamento riconosce effetti limitativi dell’esercizio del diritto. Si badi bene, però, a questo proposito nessuna norma giuridica le attribuisce apertis verbis simile effetto.

Questa conclusione sarebbe, piuttosto, conseguenza del fatto che secondo alcuni autori la clausola di buona fede rappresenta nel nostro ordinamento il fondamento giuridico da cui trae origine il generale divieto di abuso del diritto. Cioè mancando nel sistema normativo una disposizione di carattere generale che vieta di abusare del diritto la giustificazione di tale divieto andrebbe individuata nella clausola generale di buona fede[23].

Infine, tra le funzioni che vengono riconosciute alla clausola di buona fede, e che suscita maggiore interesse, vi è quella che le attribuisce il ruolo di fonte che integra il regolamento contrattuale con obblighi ulteriori rispetto a quelli a cui i contraenti si sono espressamente impegnati[24].

In altre parole, il regolamento che disciplina gli interessi delle parti sarebbe composto tanto da regole stabilite dai contraenti quanto da obblighi ulteriori che discendono direttamente dalla clausola di buona fede. Si pensi, ad esempio, all’obbligo per le parti del rapporto contrattuale di eseguire prestazioni non previste nel contratto[25], o comunque di eseguirle con modalità diverse da quelle ab origine pattuite qualora ciò si renda necessario per agevolare l’altra parte; oppure ancora l’obbligo per una delle parti di tollerare modifiche della prestazione quando ciò non ne alteri la sostanziale utilità[26].

La ricostruzione in ultimo svolta sul ruolo della clausola di buona fede troverebbe un referente normativo nella lettura coordinata di due norme dedicate alla materia dei contratti, l’art. 1374 e l’art. 1375 cod. civ.

Invero, prima di spiegare il percorso ermeneutico che ha consentito di giungere alla configurazione della clausola generale come fonte integrativa del contratto, è bene svolgere qualche considerazione sulla interpretazione che dell’art. 1374 cod. civ. forniva la giurisprudenza precedente a quella in ultimo citata.

Orbene, per alcuni decenni dopo l’entrata in vigore del Codice civile del 42’ l’orientamento prevalente nella giurisprudenza considerava quale unica norma sulla buona fede, destinata ad operare nella fase di esecuzione del contratto, l’art. 1375 cod. civ.

L’art. 1375 cod. civ., infatti, stabilisce che l’esecuzione del contratto deve avvenire secondo buona fede, e a questo proposito era considerato scontato il riferimento esclusivo agli obblighi inseriti nel regolamento negoziale. Cioè la buona fede, in base all’art. 1375 cod. civ., costituiva il parametro di valutazione del comportamento delle parti nella fase di esecuzione del contratto in riferimento agli obblighi specifici che le stesse si erano assunte.

Questa lettura così riduttiva dell’art. 1375 cod. civ., tuttavia, qualificava la clausola di buona fede come mero parametro valutativo della correttezza delle condotte dei contraenti senza nulla aggiungere agli obblighi già dedotti in contratto. Ciò, in verità, trovava conforto nella formulazione dell’art. 1374 cod. civ., il quale pur disciplinando le fonti che integrano il contratto ometteva di richiamare, tra gli altri, la clausola di buona fede.

Ebbene, nonostante questo “mero accidente di redazione”[27] in tempi più recenti la Corte di Cassazione ha maturato l’esigenza di estendere il campo applicativo della clausola di buona fede attraverso l’interpretazione coordinata degli artt. 1374 e 1375 cod. civ.

Vero è che l’art. 1374 cod. civ. non fa espresso riferimento alla buona fede, senonché essa può esservi ricondotta “attraverso la previsione di cui all’art. 1375 cod. civ. (e all’altra norma di cui all’art. 1175)”.

La Corte di Cassazione chiarisce, poi, che l’integrazione del contratto ad opera della buona fede richiede un procedimento ermeneutico differente da quello necessario quando l’integrazione avviene ad opera di “previsioni normative puntuali”.

Infatti, senza dimenticare la particolare natura della buona fede, quale clausola generale e “valvola di sicurezza” dell’ordinamento, va detto che in questo caso l’operazione di integrazione del contratto può esplicarsi solo in sede giudiziale ad opera del giudice[28].

Quindi, a tutt’oggi, la clausola generale di buona fede assume all’interno dell’ordinamento giuridico funzioni eterogenee ma pur sempre riconducibili alla medesima categoria, ovvero quella di regola di condotta.

La violazione della clausola di buona fede, quindi, integra un illecito contrattuale[29] e obbliga chi lo ha commesso a risarcire i danni causati con la propria condotta.

4.1 Buona fede: regola di comportamento o regola di validità del contratto?

Sul punto va dato atto di un recente intervento della Corte costituzionale che sulla natura della clausola di buona fede ha fornito delle precisazioni di rilevante spessore e grande novità, affermando che la buona fede può assurgere anche a regola di validità del contratto.

Questa conclusione, nondimeno, viene raggiunta dopo che qualche anno prima la Corte di Cassazione[30] si era già confrontata con la possibilità di riconoscere alla buona fede il ruolo di regola di validità del contratto[31]. In questo caso la Suprema Corte aveva escluso in modo categorico la possibilità di attribuire alla buona fede la funzione di parametro di validità del contratto, circoscrivendone la operatività al ruolo di regola di comportamento.

La questione, però, viene alla ribalta quando in tema di validità della caparra confirmatoria si sollecita l’intervento della Corte costituzionale per valutare la legittimità costituzionale delle norme che la regolano. Il factum principis, oggetto di causa, atteneva alla manifesta sproporzione della somma pattuita a titolo di caparra confirmatoria e l’assenza in capo al giudice di poteri equitativi[32].

La Corte costituzionale, tuttavia, rigettava la questione di legittimità costituzionale spiegando che in quel caso non era necessaria una norma ad hoc che attribuisse al giudice un potere manutentivo equiparabile a quello previsto dall’art. 1384 cod. civ., relativo alla clausola penale, perché egli dispone già di questo potere sulla base della clausola generale di buona fede.

A questo proposito si afferma che la buona fede è sì norma di comportamento ma anche norma di validità del contratto, motivo per cui la sua violazione ne determina la nullità ai sensi dell’art. 1418 cod. civ. Il potere equitativo sarebbe dunque ricavabile dal giudice, in materia di caparra confirmatoria, dalla clausola di buona fede che in quanto regola di validità del contratto se violata consente di decretare la nullità del medesimo ai sensi dell’art. 1418 cod. civ.

A rigor del vero, però, deve dirsi che la pronuncia della Corte costituzionale è stata oggetto di molte critiche e ad oggi rappresenta una pronuncia isolata, essa infatti non è stata seguita dalla giurisprudenza successiva. Pertanto, salvo questa breve parentesi che ha visto la buona fede trasformarsi in regola di validità del contratto, la giurisprudenza dominante continua a definire la buona fede come regola di comportamento.

5. Il ruolo della buona fede all’ombra dell’emergenza sanitaria da Covid-19

Invero, non tutte le questioni inerenti la vis expansiva della clausola di buona fede possono considerarsi ad oggi sopite. La circostanza che ha permesso di tornare a discutere di alcuni aspetti, apparentemente risolti dalla giurisprudenza precedente, è stata occasionata dal verificarsi di un evento di scala mondiale che ha toccato in modo trasversale ogni settore della vita individuale e relazionale, producendo effetti drammatici sul piano economico e sociale[33].

La pandemia causata dal Covid-19 ha messo in crisi i traffici commerciali su scala globale, ma ha anche evidenziato, in ambito nazionale, la lacunosità e la insufficienza del nostro sistema normativo per far fronte a simili eventi.

È emerso che le norme che regolano i rapporti negoziali sono più inclini a tutelare e garantire l’autonomia contrattuale sotto il profilo formale più che sostanziale. Ciò è causa di evidenti deficit di tutela a svantaggio della parte che, a causa di fattori esterni sopravvenuti, si trova a patire uno squilibrio contrattuale certamente imprevedibile al momento della stipula.

Se a questo si aggiunge che l’unico rimedio azionabile in giudizio, per evitare di rimanere vincolato al contratto divenuto squilibrato, è quello risolutorio si capisce bene che la libertà negoziale della parte ne risulta sostanzialmente svuotata.

La risoluzione non appare un rimedio conveniente perché magari la parte che subisce lo squilibrio ha già impiegato del capitale e con la risoluzione del contratto non ha la possibilità di recuperare l’investimento fatto[34].

Vero è che tradizionalmente l’impianto codicistico è destinato a regolare relazioni negoziali di tipo paritario e ciò ha sempre reso superfluo, se non sconveniente, la previsione di strumenti di correzione di squilibri contrattuali, ma va detto anche che le vicende prese in esame registrano il verificarsi di un mutamento delle posizioni dei contraenti.

L’originaria parità degli stipulanti risulta alterata dal sopraggiungere di eventi che perturbano l’equilibrio del contratto, ponendo una delle parti in una condizione di dipendenza rispetto all’altra. In questa prospettiva la scelta di risolvere il contratto, da parte di chi patisce lo squilibrio, diventa una scelta obbligata che di certo non rispecchia la sua volontà reale.

6. Relazione tematica della Corte di Cassazione e il richiamo alla clausola di buona fede

Ed è proprio in ragione delle riflessioni fin qui svolte che la Suprema Corte di Cassazione, nella Relazione tematica di luglio 2020, ha fatto richiamo alla clausola generale della buona fede per superare i problemi connessi allo squilibrio sopravvenuto del contratto[35].

Ancora una volta la buona fede è chiamata a rivestire il ruolo di valvola di sicurezza, consentendo al sistema di adattarsi alle contingenze esterne che emergono dalla realtà fattuale ed evitando rigide chiusure di sistema che impediscono una lettura delle norme attuale e coerente con i cambiamenti sociali ed economici che la caratterizzano.

La Suprema Corte nella relazione tematica prende atto della disciplina vigente in tema di rimedi contrattuali che opera in caso di sopravvenienze squilibranti, soffermandosi sull’analisi dell’istituto dell’impossibilità sopravvenuta e dell’istituto della eccessiva onerosità sopravvenuta.

A proposito del rimedio della impossibilità sopravvenuta la Corte ne mette subito in evidenza i limiti di operatività in relazione a fattispecie concrete come quelle generate dall’emergenza Covid-19.

Si è detto, infatti, che l’impossibilità sopravvenuta come causa di scioglimento del contratto può esplicare i suoi effetti a condizione che una delle due prestazioni sia divenuta completamente e definitivamente ineseguibile. A dire il vero questa condizione di rado si è verificata nelle vicende contrattuali travolte dagli effetti della pandemia, perché più che una assoluta e definitiva ineseguibilità della prestazione si è registrata una soggettiva inattuabilità (della medesima), connessa all'indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa[36].

Per queste ragioni la Cassazione prende in considerazione la disciplina contenuta negli artt. 1256 e 1464 cod. civ., che si occupano rispettivamente di impossibilità temporanea e di impossibilità parziale, vagliando i possibili scenari conseguenti all’applicazione di queste norme alle vicende contrattuali in esame.

Avuto riguardo all’art. 1256 cod. civ. si sottolinea che, dopo la concessione di un primo periodo di sospensione dell’adempimento delle prestazioni, anche in questo caso se l’impossibilità perdura per un tempo eccessivo l’esito a cui la norma conduce è sempre la risoluzione del contratto.

L’art. 1464 cod. civ., invece, attribuisce a parte creditrice qualche spazio di manovra in più, egli può scegliere se chiedere la risoluzione del contratto oppure la riduzione della prestazione che deve ancora eseguire.

Successivamente la Cassazione esamina il rimedio della eccessiva onerosità sopravvenuta che è rimedio diverso da quello precedente perché quest’ultimo affonda le sue radici nella alterazione del c.d. sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta.

Le disposizioni di cui agli artt. 1467 e seguenti del Codice civile, invece, postulano il verificarsi di una situazione diversa e cioè una eccezionale sproporzione del valore economico delle prestazioni dedotte in contratto dovuta a fattori esterni e imprevedibili. La oscillazione del valore di mercato di una prestazione è un evento fisiologico se contenuto entro parametri di ragionevolezza e prevedibilità, ed è pertanto un rischio economico accettabile.

Quando, però, la variazione di valore eccede la ragionevole prevedibilità e crea una sproporzione eccezionale ecco che il rimedio posto a favore della parte svantaggia è quello contenuto nell’art. 1467 cod. civ.

Tuttavia, la Corte osserva che questo è un rimedio volto a rimuovere il vincolo, non a riequilibrare il sinallagma.

Il risultato finale, quindi, è quello di fare terra bruciata delle relazioni d’impresa dato che esso conduce alla definitiva risoluzione del rapporto e non anche ad una transitoria riduzione dei corrispettivi.

Peraltro, come già detto all’inizio di questa trattazione, solo uno dei contraenti, quello avvantaggiato dallo squilibrio, può offrire la modifica delle condizioni del contratto per riportarlo ad equità ed evitare così la risoluzione del vincolo.

Facoltà assai riduttiva se si pensa che ad esercitarla può essere appunto la parte che dallo squilibrio non subisce alcun pregiudizio e che potrebbe non subirne alcuno anche in caso di scioglimento del vincolo.

Va segnalato, in ogni caso che con l’avvento della pandemia da Covid-19 il legislatore ha cercato di porre dei rimedi ai problemi connessi alla difficolta di adempiere le prestazioni dedotte in contratto[37]. L’art. 91, decreto-legge del 17 marzo 2020, n. 18, convertito con legge n. 13/2020 prevede che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

In via esemplificativa, dunque, ai fini della imputabilità della responsabilità da inadempimento o da ritardo nell’adempimento va tenuto conto dell’obbligo a carico di parte debitrice di rispettare le misure di contenimento.

L’obbligo di rispettare le misure di contenimento è considerato al pari di un evento di forza maggiore che impedendo al debitore di eseguire la prestazione rende l’inadempimento a lui non imputabile perché scusato dall’ordinamento.

La norma, quindi, non mostra particolari segni di novità perché si limita a delineare una soluzione a cui si sarebbe potuti pervenire anche senza un intervento normativo all’uopo predisposto, ma facendo richiamo dei principi già espressi dal Codice civile.

Degna di maggiore nota, invece, è la delega al governo per la revisione del Codice civile[38].

Invero, nel disegno di legge presentato al Senato della Repubblica si prevede la possibilità per le parti di pretendere la rinegoziazione del contratto, secondo buona fede, qualora per cause eccezionali o imprevedibili essi siano divenuti eccessivamente onerosi; e che qualora manchi l’accordo tra le parti sia possibile chiedere al giudice di adeguare le condizioni contrattuali per ripristinate l’equilibrio del contratto[39].

Il progetto di legge per la revisione del Codice civile, dunque, sembra dare riscontro, anche a livello legislativo, di quella generale esigenza di tutela dei rapporti obbligatori gravati da squilibri sopravvenuti che è già presente da tempo nella giurisprudenza di legittimità[40].

Orbene, riconducendo la trattazione agli approdi più recenti raggiunti dalla Corte di Cassazione, e tornando ad esaminare la Relazione tematica di luglio 2020, va detto che non è indifferente il fatto che alle medesime conclusioni del progetto di legge pervenga anche la Suprema Corte.

L’aspetto ictu oculi più interessante riguarda il nuovo ruolo assegnato al giudice nella rideterminazione delle condizioni contrattuali in caso di mancato raggiungimento dell’accordo tra le parti[41].

Il giudice ispirato dal criterio della buona fede potrebbe, con provvedimento giurisdizionale ex art. 2932 cod. civ., calibrare il regolamento originario in base ai mutamenti fattuali e obbligare la parte dissenziente a dare esecuzione ad un contratto nuovo e certamente diverso da quello in origine stipulato[42].

Non bisogna tuttavia dimenticare che qui il richiamo che si fa dell’art. 2932 cod. civ. è parzialmente diverso da quello che generalmente si fa allorché l'oggetto del contratto da concludere sia già determinato prima dell'intervento del magistrato, la cui pronuncia si limita a tenere il posto di una volontà già definita nel suo oggetto o di una previsione di legge.

Infatti, il provvedimento giurisdizionale, che obbliga le parti ad eseguire il contratto “rinegoziato”, sarà di certo influenzato dalle volontà espresse dalle parti ma allo stesso tempo sarà il risultato di una ponderazione degli interessi fatta giudice, al quale è affidata in ultimo la valutazione sul modo migliore per comporre gli interessi delle parti.

Tutto quanto detto stimola verso la ricerca di un rimedio manutentivo che non esaurisca la propria funzione nell’ambito dei problemi connessi alla pandemia da Covid-19 ma che sia capace di assumere portata stabile e generalizzata.

7. Osservazioni conclusive

Appare con grande evidenza l’intento perseguito dalla Corte di Cassazione di riconsiderare il ruolo del giudice nell’ambito dei rapporti di natura negoziale tra privati. Il principio di intangibilità del contratto come principio assoluto inizia a perdere, agli occhi degli operatori giuridici, quel profilo di inderogabilità che tradizionalmente lo ha caratterizzato.

Di certo lo shock economico da pandemia[43] ha accelerato il processo orientato a riconoscere al giudice un ruolo più penetrante nelle relazioni contrattuali, ma viene da pensare che esso non è stato il fattore scatenante di questo cambio di rotta. Infatti, già da tempo la dottrina e la giurisprudenza discutono della possibilità di estendere il rimedio in forma specifica di cui all’art. 2932 cod. civ. alle ipotesi di rifiuto di rinegoziare il contratto in caso di squilibrio sopravvenuto.

Invero, affermare un obbligo di rinegoziazione delle condizioni contrattuali senza affiancare a questo obbligo un valido rimedio coercitivo lascerebbe, di fatto, la parte toccata dallo squilibrio scoperta da una tutela effettiva. Di fronte al rifiuto opposto dall’altra parte, il contraente potrebbe ambire ad un mero ristoro dei danni, peraltro limitato all’interesse negativo cioè al danno causato dall’inutile impiego di tempo in trattative infruttuose.

Invece, riconoscere la estendibilità dell’esecuzione in forma specifica all’obbligo di contrarre sollecita le parti ad intavolare nuove trattative per addivenire alla stipula di un nuovo contratto; nella consapevolezza che qualora una di loro dovesse assumere un comportamento scorretto e sleale il giudice avrebbe il potere di intervenire e dettare le regole del nuovo regolamento di interessi a cui le parti dovranno dare esecuzione.

Il tema della gestione delle sopravvenienze, poi, era già stato preso in seria considerazione alla luce dei principi Unidroit operanti nel mercato internazionale. Essi da tempo prevedono la possibilità per la parte svantaggiata dallo squilibrio di invocare la tutela giudiziaria qualora l’altra parte si rifiuti di ottemperare all’obbligo di intavolare nuove trattative.

Una parte della dottrina aveva peraltro sostenuto la possibilità di estendere all’ordinamento nazionale le regole sottese ai principi Unidroit senza tuttavia ricevere il plauso della giurisprudenza, contraria a simili operazioni ermeneutiche.

In ogni caso oggi la tendenza, dimostrata peraltro anche a livello legislativo ancorché non ancora pienamente compiuta, è quella di riconoscere al giudice un ruolo che sia funzionale alla tutela dell’autonomia privata attraverso la valorizzazione del generale principio di buona fede.

Per queste ragioni è auspicabile un celere intervento del legislatore per risolvere le problematiche ivi illustrate.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Negli scambi commerciali che operano su livello internazionale è frequente il ricorso a clausole finalizzate a gestire le sopravvenienze; si pensi alle clausole di hardship che possono essere o di adeguamento automatico, indicizzazione del contratto al fine di prevenire gli effetti negativi della svalutazione, o di rinegoziazione con le quali le parti prevedono che in caso di sopravvenienze vi è l’obbligo di rinegoziare. Altri tipi di clausole riconoscono lo ius variandi con la possibilità per una delle due parti o di un terzo di modificare il contratto.

[2] F. Miniscalco, “Covid-19 e diritto dei contratti: è maturo il tempo per introdurre, in via generale, la rinegoziazione del Contratto”, https://www.diritto.it/, 19 novembre 2020.

[3] Nel caso di specie il riferimento è ai rapporti contrattuali generati da contratti geneticamente conformi al tipo, e comunque anche nel caso di contratti atipici originariamente coerenti con la volontà contrattuale degli stipulanti in cui tuttavia a causa di eventi imprevisti e straordinari risulti pesantemente perturbato l’equilibrio originario.

[4] La buona fede a cui si fa cenno è quella oggettiva, intesa come regola di comportamento dei contraenti, e non anche quella di tipo soggettivo, riferita alla percezione emotiva che l’individuo ha sulla conformità del suo agire rispetto alle regole giuridiche

[5] Preme a questo proposito sottolineare che la giurisprudenza con grande fatica, e dopo numerose dispute, è giunta a riconoscere effetti giuridici ‘autonomi’ alla clausola di buona fede, la quale nel codice civile del 1865 veniva sostanzialmente ricondotta nella categoria giuridica della equità.

[6] Art. 1375 cod. civ. “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge. Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge.”

[7] La maggiore propensione degli individui ad intrattenere relazioni commerciali è soprattutto frutto della consapevole affidabilità che ciascuno può riporre negli obblighi assunti dall’altra parte data la coercibilità degli stessi in sede giudiziale.

[8] In merito una attenta analisi delle questioni e degli istituti coinvolti è presente in F. Macario, “Regole e prassi della rinegoziazione al tempo della crisi”, http://giustiziacivile.com/, Giustizia Civile Riv. Trim., numero 3 – 2014.

[9]  V. Roppo, Diritto Privato, G. Giappichelli Editore, Settima edizione, giugno 2020, pag. 493 seg.

[10] Esamina il problema delle sopravvenienze anche G. Villanacci, “Interessi e sopravvenienze contrattuali”, http://www.personaemercato.it/, 16 maggio 2016.

[11] Art. 1432 Mantenimento del contratto rettificato, art. 1450 Offerta di modificazione del contratto.

[12] Nelle ipotesi precedenti il contratto è viziato ab origine, mentre l’art. 1467 cod. civ. prende in considerazione un caso di difetto sopravvenuto.

[13] La sentenza che dichiara la risoluzione per inadempimento presuppone un vaglio sulla gravità dell’inadempimento contestato al debitore. Ancora, in materia di vizi originari, è il giudice che deve accertare la ricorrenza dei requisiti richiesti dalla norma di riferimento perché venga pronunciata una sentenza di rescissione, annullamento o nullità del contratto.

[14] Art. 1660 cod. civ. Variazioni necessarie al progetto “Se per l'esecuzione dell'opera a regola d'arte è necessario apportare variazioni al progetto e le parti non si accordano, spetta al giudice di determinare le variazioni da introdurre e le correlative variazioni del prezzo. Se l'importo delle variazioni supera il sesto del prezzo complessivo convenuto, l'appaltatore può recedere dal contratto e può ottenere, secondo le circostanze, un'equa indennità. Se le variazioni sono di notevole entità, il committente può recedere dal contratto ed è tenuto a corrispondere un equo indennizzo”. Art. 1526 cod. civ. Risoluzione del contratto “Se la risoluzione del contratto ha luogo per l'inadempimento del compratore, il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto a un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. Qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo d'indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l'indennità convenuta. La stessa disposizione si applica nel caso in cui il contratto sia configurato come locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita al conduttore per effetto del pagamento dei canoni pattuiti.”

[15] C. Granelli, “Autonomia privata e intervento del giudice”, juscivile, 2018, 3.

[16] Vedi D. Sgambato, “Le sopravvenienze contrattuali nei rapporti di impresa”, Scuola Dottorale di Ateneo

Graduate School, Dottorato di ricerca in Diritto, Mercato e Persona, Ciclo XXIX, 2017, che analizza il problema dello squilibrio sopravvenuto nei rapporti tra imprese.

[17] C. M. Bianca, Diritto Civile, Il contratto, Giuffrè, Terza Edizione, maggio 2019, pag. 178 seg.

[18] Vedi Corte di Cassazione, sez. III civile, sentenza dell’8 maggio 2006, n. 10490 “La definizione del codice è, in definitiva, quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall'ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell'autonomia privata  […] ma è noto che, da parte della più attenta dottrina, e di una assai sporadica e minoritaria giurisprudenza […] si discorre da tempo di una fattispecie causale "concreta", […] ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.”

[19] G. Chinè, M. Fratini, A. Zoppini, Manuale di diritto civile, Settima edizione, Nel Diritto Editore, 2016, pag. 753. Vedi anche A. Lestini, “Sopravvenienze e rimedi contrattuali: l’intervento del giudice “nel” contratto”, in https://www.ratioiuris.it/, Numero LXIV, 27 gennaio 2021.

[20] Il principio rebus sic stantibus soddisfa l’esigenza di temperare il principio pacta sunt servanda est che impone alle parti di rispettare gli obblighi assunti in ambito negoziale. Quest’ultimo, invero, obbliga le parti all’adempimento delle prestazioni dedotte senza prendere in considerazione possibili mutamenti fattuali tali da rendere il negozio incompatibile con gli interessi che le parti intendevano realizzare. Questo spiegherebbe la ragione per cui si ritiene che ogni accordo negoziale contenga, anche in modo implicito, la clausola rebus sic stantibus in relazione alla quale è possibile ritenere che il contratto vincola fintanto che le condizioni rimangono tali.

[21] Si pensi all’art. 1669 che prevedeva la finzione di avveramento della condizione qualora il suo verificarsi fosse stato impedito dal comportamento del debitore.

[22] Art. 1337 cod. civ. Trattative e responsabilità precontrattuale “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.

[23] La buona fede fungerebbe da limite interno all’esercizio del diritto in quanto le facoltà e i poteri ad esso connessi non possono essere strumentalizzati per conseguire risultati in contrasto con il fine che la legge intende perseguire con l’attribuzione del diritto.

[24] C. M. Bianca, Diritto Civile, op. cit., pag. 453 seg.

[25] Cass. civ., sez. III. del 9 marzo 1991, n. 2503, in https://www.jstor.org/.

[26] G. Chinè, M. fratini, A. Zoppini, op. cit. pag. 754, La funzione attribuita alla buona fede di fonte integrativa di obblighi contrattuali diversi e ulteriori a quelli previsti nel contratto discende dall’adesione da parte della giurisprudenza alla cosiddetta concezione precettiva. I sostenitori della concezione precettiva assegnano alla buona fede “il ruolo di autonoma fonte di obbligazioni”. “La buona fede, da iniziale strumento di valutazione dei comportamenti delle parti in termini di conformità al regolamento negoziale, finisce per essere fonte di ulteriori e non pattuiti obblighi per le stesse parti; […]”)

[27] Così la Cassazione nella Relazione tematica di settembre 2010, n. 116, definisce l’assenza di riferimento alla buona fede da parte dell’art 1374 cc

[28] Corte di Cassazione, Relazione tematica di settembre 2010, n. 116, “dando luogo ad “un’operazione integrativa giudiziale”, fondata sulla legge e comunque orientata da criteri desumibili dal contesto normativo al quale la clausola inerisce.”; Analizza le motivazioni della Suprema Corte anche C. Di Luca Cardillo,” Buona fede”, in https://www.altalex.com/, del 24 febbraio 2014.

[29] Sulla natura dell’illecito conseguente alla violazione del principio di buona fede va chiarito che se esso precede la stipula del contratto si è soliti parlare di responsabilità precontrattuale.

[30] Corte di Cassazione, Sez. Un., del 19 dicembre 2007, n.26724.

[31] Nella specie si discuteva della validità del contratto di intermediazione finanziaria stipulato in violazione degli obblighi di informazione previsti dalla legge a carico dell’intermediario finanziario.

2 Si sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385 cod. civ. per la mancanza all’interno della disciplina sulla caparra confirmatoria della previsione di un potere giudiziale che consentisse di ricondurre ad equità la somma pattuita così come presente nell’art. 1384 cod. civ.

[33] I. Stellato, “Le "sopravvenienze contrattuali" alla prova del Covid-19. La pandemia ha riacceso il dibattito sulle circostanze fattuali o giuridiche, estranee al dominio delle parti, che alterano il nesso sinallagmatico tra le prestazioni corrispettive”, https://www.altalex.com/, 20 settembre 2020.

[34] Si pensi ad un contratto di locazione commerciale in relazione al quale il conduttore ha affrontato delle spese per la ristrutturazione e l’adattamento dei locali all’attività da svolgere.

[35] E. Russo, La Corte di Cassazione introduce l’obbligo legale di rinegoziazione dei contratti d’impresa, https://www.internews.biz/, 7 settembre 2020. P. Marini, “Contratti squilibrati dalla crisi: rinegoziarli, se possibile, non risolverli”, https://www.altalex.com/, 28 settembre 2020.

[36] La Cassazione chiarisce che il tipo di obbligazioni che più hanno sofferto la capacità di esecuzione da parte del debitore sono quelle di natura pecuniaria, per le quali si ricorda l’orientamento costante in giurisprudenza che nega la assoggettabilità al rimedio di cui all’art. 1463 cod. civ. in virtù del noto brocardo “genus numquam perit”.

[37] F. Todisco, “Sopravvenienze: la rilevanza dell’emergenza sanitaria sulla sorte dei contratti”, http://www.salvisjuribus.it/, 1 novembre 2020. Vedi anche F. Zemignani, “La buona fede integrativa e l'obbligo di rinegoziazione: una rimeditazione al tempo del covid-19”, http://giustiziacivile.com/, 17 dicembre 2020.

[38] Si badi che questo progetto di riforma del codice civile è stato presentato precedentemente alla crisi economica causata dalla pandemia da Covid-19, ciò conferma la maturata esigenza di modificare l’impianto codicistico al di là della emergenza sanitaria. Vedi sul punto F. Gambino, “Il rinegoziare delle parti e i poteri del giudice”, juscivile, 2019, 4; interessante anche il contributo di G. Travan, “Buona fede integrativa e potere correttivo del giudice” (nota a Tribunale Treviso, sentenza n. 1956/2018), in https://www.magistraturaindipendente.it/, 12 ottobre 2018.

[39] Senato della Repubblica XVIII Legislatura disegno di legge presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia, comunicato alla presidenza il 19 Marzo 2019, Delega al Governo per la revisione del codice civile, in https://www.senato.it/,  “Sempre nell’ambito dei rapporti contrattuali, si prevede di disciplinare il diritto delle parti di pretendere la rinegoziazione dei contratti secondo buona fede qualora divengano eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili, ovvero di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali, qualora non si raggiunga un accordo tra le parti.”

[40] Corte di Cassazione, Relazione Tematica n. 116 Roma, 10 settembre 2010 “Di recente è stato sostenuto che sulla base della buona fede contrattuale integrativa può incardinarsi anche il fondamento dell’obbligo di rinegoziazione dei contratti di durata nei casi di significativa alterazione dell’economia contrattuale determinata da cause esterne non previste e sopravvenute.

[41] A. Lestini, “Sopravvenienze e rimedi contrattuali: l’intervento del giudice “nel” contratto”, op. cit.

[42] Corte di Cassazione, Relazione tematica di luglio 2020, n. 56 “Qualora si ravvisi in capo alle parti l’obbligo di rinegoziare il rapporto squilibrato, si potrebbe ipotizzare che il mancato adempimento di esso non comporti solo il ristoro del danno, ma si esponga all'esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.. Al giudice potrebbe essere ascritto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell'accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario.

[43] Corte di Cassazione, Relazione tematica di luglio 2020, n. 56.