I gruppi parlamentari e la concezione eurounitaria di P.A.: è possibile qualificarli «organismi di diritto pubblico»?
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Antonio Gusmai
Il contributo si occupa dell’annosa tematica della natura giuridica dei gruppi parlamentari. Questi ultimi, infatti, nonostante sul piano costituzionale risultino essere soggetti della rappresentanza politica coinvolti nel circuito democratico, vivono tutt’oggi in una dimensione giuridica piuttosto incerta. Provando a superare le tradizionali tesi sinora sostenute dalla dottrina e recepite in parte dalla giurisprudenza, l’articolo è teso a dimostrare la natura di «organismi di diritto pubblico» dei raggruppamenti assembleari.
Sommario: 1. Note preliminari. 2. Le tre “classiche” macro-tesi sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari. 3. I raggruppamenti assembleari quali «organismi di diritto pubblico».
1. Note preliminari
Indagare la natura giuridica dei gruppi politico-parlamentari vuol dire affrontare una questione annosa, tutt’oggi irrisolta, spesso poco analizzata da un punto di vista squisitamente costituzionale.
Come si è già provato a spiegare in altra sede[1], il rapporto di rappresentanza politica è stato tradizionalmente raffigurato attraverso una triade[2], in forza della quale tra rappresentati e rappresentanti si interpone la necessaria mediazione del partito politico[3]. Cionondimeno, tale trilateralità pare aver recentemente subito un’alterazione patologica proprio a causa dell’ampia autonomia riconosciuta, all’interno delle dinamiche assembleari, ai gruppi parlamentari. Autonomia che, come è stato recentemente dimostrato, è determinata in primis da valori economici, essendo divenuti i bilanci dei raggruppamenti parlamentari finanche maggiori di quelli dei partiti politici[4]. Del resto, lo si vedrà meglio infra, questi ultimi, su un piano strettamente costituzionale, hanno operato come veri e propri soggetti della rappresentanza politica, in grado di “istituzionalizzare” le forze politiche trasformando in concreto, mediante i lavori delle commissioni permanenti, i programmi elettorali in provvedimenti normativi.
Ciò che si intende dire è che, soprattutto a seguito della “svolta” maggioritaria del 1993, i gruppi parlamentari hanno conosciuto un significativo rafforzamento della propria autonomia politica rispetto al partito di riferimento, disvelando così il quarto “lato” della geometria variabile del circuito rappresentativo. Ecco perché, nell’introdurre una questione che è qui possibile soltanto lambire, sembra opportuno rimarcare come l’originaria triade si sia rivelata essere un quadrilatero. Una forma geometrica rimasta latente nella prima fase repubblicana – quando tra partiti e gruppi politici intercorreva uno stretto rapporto di subordinazione dei secondi a favore dei primi – ma che ha successivamente arricchito il triangolo elettori-partiti-eletti di un quarto elemento, i gruppi parlamentari appunto. Gruppi, i quali, nel pieno rispetto delle vigenti disposizioni regolamentari, hanno così potuto farsi essi stessi rappresentanti diretti delle presunte nuove istanze sociali provenienti dagli elettori. In particolare, attraverso scissioni, fusioni e costituzioni di nuovi gruppi in corso di Legislatura essi hanno rescisso l’originario legame con il partito (o coalizione di partiti) di cui il gruppo medesimo era espressione ad inizio Legislatura.
In tal modo, il gruppo parlamentare ha mostrato la propria potenziale funzione rappresentativa autonoma, mettendo in crisi tutte quelle dottrine aventi come comune denominatore l’idea che la rappresentanza sia triangolare, con i gruppi quali meri organi amministrativi delle Camere o meri organi di partito, così da neutralizzare la rappresentatività politica del gruppo medesimo[5]. Idea, quest’ultima, della cui validità è lecito dubitare sol che si pensi al fatto che è bastata la semplice variazione del sistema elettorale – nel 1993 – per consentire, in un sistema politicamente frammentato come è il nostro, il germogliare, all’interno delle Assemblee legislative, di nuovi «partiti parlamentari»[6] non corrispondenti al quadro politico esistente al momento delle elezioni.
Un fenomeno, quello dei partiti parlamentari, che, oltre a dimostrare l’ontologica esistenza costituzionale dei gruppi politici, neppure la recente modifica dell’art. 14, co. 4 r.S. sembra aver arrestato: come dimostra la formazione del gruppo “Italia Viva-PSI” [7], la novella regolamentare non si è rivelata uno strumento idoneo a limitare l’incipiente creatività delle forme e delle forze della politica. In effetti, un’interpretazione alquanto lata della disposizione citata ha permesso di aggirare il divieto di costituzione di nuovi gruppi in corso di Legislatura, con inevitabili ripercussioni sulla tenuta del rapporto di rappresentanza e sulla responsabilizzazione delle forze politiche elette in Parlamento[8].
Ed è proprio per tal motivo che, soprattutto a seguito della entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 2020, si potrebbe pensare, all’interno di un Parlamento sensibilmente ridotto nella propria dimensione numerica, di introdurre adeguate modifiche regolamentari tese a scongiurare ipotesi di distorsione patologica del rapporto rappresentativo. Tra queste, in particolare, a rilevare potrebbe essere l’eliminazione del requisito numerico per la costituzione di un gruppo, in modo da consentire, all’interno del Parlamento, la formazione di raggruppamenti politici soltanto se questi corrispondono a partiti che si sono presentati alle elezioni e hanno superato lo sbarramento elettorale[9].
Senza poter qui ulteriormente approfondire gli effetti della riduzione del numero dei parlamentari sui meccanismi di formazione e di funzionamento dei gruppi, le riflessioni da ultimo svolte intorno alla patologia del “quadrilatero” della rappresentanza politica, come tale connotante una sorta di (corto)circuito del rapporto rappresentativo medesimo, tornano utili al fine di esprimere qualche osservazione intorno alla natura giuridica dei gruppi politici, permettendo di analizzarla, in considerazione della sua «ontologia»[10], da una specola più propriamente costituzionale.
L’argomento appare tutt’altro che semplice[11]. La stessa modifica da ultimo intervenuta sul testo dell’art. 14 r.C., ne costituisce l’emblema: piuttosto che gettar luce sulla problematica, la novella regolamentare sembra aver positivizzato la discrasia tra teorie privatistiche e pubblicistiche in voga, negli ultimi anni, sia in dottrina che in giurisprudenza, accogliendo, invero, le tesi che sostengono la «natura giuridica mista» dei raggruppamenti assembleari. Si legge, infatti, che «i Gruppi parlamentari sono associazioni di deputati» (connotazione privatistica), previste dalla «Costituzione e dal Regolamento» in qualità di «soggetti necessari al funzionamento della Camera»[12] (espressione dal tenore pubblicistico).
Alla radice di tali difficoltà di inquadramento epistemologico v’è forse un duplice ordine di ragioni. In primis la circostanza che, in argomento, sono mancati studi specifici della giuspubblicistica italiana, la quale ha soltanto incidentalmente lambito la tematica in occasione di contributi relativi allo studio dei partiti politici[13]. In secondo luogo, il fatto che, consultando le varie definizioni di «gruppo parlamentare» contenute in questi lavori, «si ha talvolta l’impressione che esse, più che a qualificare giuridicamente il soggetto, tendano a descriverne il ruolo e le attività»[14].
Ad ogni buon conto, nelle pagine che seguono, passati in rassegna i principali orientamenti di dottrina e giurisprudenza, si proverà a riflettere sulla natura giuridica dei gruppi. Si tratta di una problematica che, a guardar bene, non si limita soltanto agli aspetti essenziali della disciplina giuridica applicabile, ad esempio, in caso di controversie di lavoro insorte tra il gruppo ed il personale alle sue dipendenze.
Approfondire la natura giuridica dei gruppi parlamentari può significare – e, probabilmente, significa soprattutto – studiare le implicazioni per così dire “processuali” della rappresentanza politica, figurando anch’essi quali soggetti indefettibili del processo rappresentativo moderno. È appena il caso di precisare, invero, che è possibile realmente comprendere il funzionamento della democrazia rappresentativa soltanto se, assieme alle regole ed ai principi costituzionali che identificano la forma di Stato e di governo repubblicana, si indaga il concreto atteggiarsi delle disposizioni parlamentari che scandiscono, sul piano applicativo, tempi e modi della rappresentanza stessa[15]. È attraverso queste ultime, infatti, che si sostanzia e vengono in essere le dinamiche democratico-rappresentative. Si realizza, cioè, l’indirizzo politico dello Stato. Ciò che si vuol dire è che le manifestazioni del pluralismo politico-sociale si inverano, specie in una democrazia parlamentare, attraverso delicati equilibri procedurali interni alle Assemblee legislative, in grado persino di riflettersi sul significato stesso delle disposizioni costituzionali[16]. Se ci è consentito dirla con stretta logica aritmetica, il «diritto parlamentare» sta al «diritto costituzionale» come il «diritto processuale» sta al «diritto sostanziale».
Come si è già avuto modo di precisare, tuttavia, oggetto di analisi sarà la dimensione giuridica dei gruppi politico-parlamentari, non già la relativa morfologia più propriamente costituzionale, la cui decisività è, in ogni caso, emersa anche da queste brevi annotazioni introduttive[17]. Ed è per tal motivo che è parso doveroso inquadrare, sia pure brevemente, lo stretto rapporto intercorrente tra i due possibili piani d’analisi, strettamente giuridica e squisitamente costituzionale. D’altronde, isolare le due dimensioni impedirebbe, forse, la possibilità di comprensione dei reali equilibri costituzionali che innervano il nostro ordinamento giuridico-formale.
2. Le tre “classiche” macro-tesi sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari
L’acceso dibattito dottrinale sulla natura giuridica dei gruppi, come s’è detto, ha precipuamente preso le mosse dalla difficile definizione dei rapporti intercorrenti tra partiti politici e gruppi parlamentari.
Volendo sintetizzare i vari orientamenti, le correnti di pensiero che si sono nel tempo succedute appaiono essere tre. Dapprima hanno trovato affermazione le tesi «pubblicistiche» e, in opposizione ad esse, si sono poi sviluppate le altre due: quelle «privatistiche» e, da ultimo, le tesi intermedie c.d. «miste».
Secondo i fautori della prima corrente di pensiero, il raccordo esistente tra partito politico e gruppo parlamentare sarebbe assai tenue, per alcuni finanche giuridicamente irrilevante[18]. In particolare, si dice – e sul punto converge una risalente giurisprudenza di merito[19], oltre che una pronuncia del giudice delle leggi[20] – il gruppo altro non è che un «organo delle Camere», in quanto ad esse strutturalmente e funzionalmente incorporato[21]. In altre parole, si tratterebbe di «istituzioni»[22] dell’ordinamento parlamentare che, seppur dotate di ampia autonomia normativa, politica e amministrativa, rileverebbero pur sempre quali strumenti attraverso cui le Assemblee legislative – a loro volta organi complessi – sono concretamente messe in grado di perseguire l’attuazione dei propri fini[23]. Pertanto, si conclude, nel nostro ordinamento costituzionale non esisterebbe «alcuna definizione giuridica del rapporto tra partito e gruppo»[24], intercorrendo tra essi una «relazione funzionale […] legata specificamente all’indirizzo politico del partito che è assunto e fatto proprio dagli iscritti del gruppo»[25].
Sempre nell’alveo delle tesi pubblicistiche, per vero, non sono mancate critiche a tali ricostruzioni teoriche, vista la difficoltà di sussumere il gruppo parlamentare nella macro-categoria «organicistica» teorizzata dai cultori del diritto amministrativo[26]. Contro tali tesi, s’è detto, «organo» è un «ufficio» particolarmente qualificato da una norma come idoneo ad esprimere la volontà della persona giuridica e ad imputarle l’atto e i relativi effetti[27]. In nessun caso, invece, il gruppo parlamentare esprimerebbe la volontà della Camera o del Senato, non impegnando, né operando, per conto di dette istituzioni[28]. Di talché, i gruppi parlamentari non potrebbero essere «una parte del tutto». Al più «operano all’interno delle Camere, ma non fanno parte di esse in virtù di un rapporto di immedesimazione organica perché – ed è questo l’elemento decisivo – non curano gli interessi dell’istituzione, ma curano interessi propri», delle volte persino «in conflitto con quelli della stessa istituzione»[29]. Si è giunti così a ritenere che i gruppi sarebbero «associazioni (necessarie) di diritto pubblico»[30], ossia «enti pubblici indipendenti» riconosciuti dall’ordinamento parlamentare[31]. O, al più, rientranti nella categoria delle «c.d. autonomie funzionali», come tali non soggette né a poteri di indirizzo e di direttiva, né a forme di controllo da parte dello Stato[32]. Anche a tali varianti pubblicistiche, però, sono state mosse puntuali obiezioni, risultando assai difficile far rientrare i gruppi parlamentari nella categoria «funzionale degli enti pubblici»[33] a causa della mancanza di una chiara disposizione normativa tesa ad inquadrare in tal senso la natura giuridica dei gruppi[34].
In perfetta antitesi con tali ricostruzioni, sono germogliate tesi di stampo privatistico, le quali hanno considerato i gruppi parlamentari meri «organi di partito»[35]. In sostanza tali tesi sembrano partire dai seguenti presupposti: a) il patrimonio dei gruppi parlamentari appartiene agli stessi gruppi e non si confonde con il patrimonio delle Camere e, dunque, in definitiva, con quello dello Stato; b) di conseguenza i raggruppamenti si presenterebbero come «associazioni minori» comprese in quelle maggiori rappresentate dai partiti; c) molti partiti considerano, nei fatti, i gruppi parlamentari come sub-organizzazioni inserite all’interno della propria struttura associativa; non da ultimo, d) i gruppi sarebbero, di fatto, già costituiti prima delle elezioni[36]. Anche in questo caso, alcuni altri sostenitori delle tesi riconducibili a quelle privatistiche, hanno sollevato critiche alla configurazione del raggruppamento come «organo di partito». Si è sostenuto, invero, come precipuo argumentum a contrario, che, poiché tale assunto presupporrebbe inoperante il divieto di mandato imperativo ex art. 67 Cost. (a vantaggio di vincoli di gruppo e discipline di partito), la tesi dei gruppi come «organi dei partiti» non potrebbe essere accolta. Non resterebbe, pertanto, che definire i gruppi come «mere associazioni non riconosciute» a cui applicare la normativa comune ex artt. 36, 37 e 38 del Codice civile[37]. O, tutt’al più, «soggetti privati (associazioni politiche) esercenti pubbliche funzioni»[38]. I gruppi, come i partiti, sarebbero ad ogni modo «organizzazioni autonome di diritto privato»[39] che, «impadronendosi degli organi delle Camere (specie attraverso la conferenza dei capigruppo e le commissioni permanenti), le dirigono»[40]. Punto debole di tali tesi, ha però notato parte della dottrina, resterebbe la presenza del «gruppo misto», vista la «necessaria adesione» ad esso dei parlamentari che non effettuino una chiara scelta politica iniziale subito dopo le elezioni[41].
In una posizione mediana rispetto a tali dottrine, si pongono le c.d. «tesi miste», comprendenti, cioè, aspetti sia pubblicistici che privatistici della problematica relativa alla natura giuridica dei gruppi. Tra i primi e più autorevoli sostenitori di tali tesi v’è Biscaretti Di Ruffia, il quale ha definito i gruppi parlamentari come «unione istituzionale». Egli, invero, ravvisando una connessione stabile di due «uffici», uno dello Stato e uno di partito, giunge a considerare i gruppi al contempo «organi delle Camere» e «organi di partito»[42]. Si tratterebbe, insomma, volendo riassumere le varie posizioni, di riconoscere ai gruppi una natura «mista e dualistica», ponendo l’accento sulla loro peculiare posizione di raccordo tra i partiti e le Assemblee legislative[43]. Come è stato detto di recente ragionando sulla «natura ambigua» del precitato art. 14, comma 01 r.C, in definitiva i gruppi sarebbero «associazioni di natura privatistica quanto alla loro struttura di base e alle tipologie di rapporti che possono intrattenere e nei confronti dei terzi, ma [sarebbero] al contempo soggetti a vincoli giuridici di natura pubblicistica, dettati in stretta connessione al ruolo e ai compiti che essi svolgono all’interno delle assemblee rappresentative»[44].
Tali argomentazioni sembrano essersi da tempo consolidate nella giurisprudenza comune[45]. Lo stesso giudice della nomofilachia, nell’analizzare la natura giuridica dei gruppi parlamentari al fine di risolvere un conflitto di giurisdizione nell’ambito di un giudizio riguardante obbligazioni contratte da un raggruppamento politico, ha sottolineato la necessità di distinguere «due piani»: uno propriamente parlamentare, «in relazione al quale i gruppi costituiscono gli strumenti necessari per lo svolgimento delle funzioni proprie del Parlamento»; l’altro, più marcatamente politico, nei cui riguardi «i gruppi parlamentari sono da assimilare ai partiti politici, ai quali va riconosciuta la qualità di soggetti privati, dato che nel nostro assetto costituzionale e nel generale quadro ordinamentale i partiti politici assumono la configurazione e il profilo di soggetti privati» nei cui confronti, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni civilistiche sulle associazioni non riconosciute[46].
3. I raggruppamenti assembleari quali «organismi di diritto pubblico»
Ragionando a livello primario, come ha ampiamente mostrato la giurisprudenza citata, l’emergere della necessità di qualificare la natura giuridica dei raggruppamenti parlamentari sembra aver avuto un precipuo scopo: quello di individuare gli aspetti essenziali della disciplina giuridica applicabile a casi pratici. Su tutte, questioni relative alle obbligazioni assunte dal gruppo, alla disciplina dei rapporti di lavoro con i dipendenti e, non da ultimo, ai motivi attinenti alla giurisdizione, vista l’importanza che assume in materia la previa conoscenza del giudice competente a ius dicere[47].
Considerate le difficoltà, de iure condito, di definire il gruppo parlamentare «Pubblica Amministrazione» – e, nel caso di specie, organo dello Stato o ente pubblico atipico soggetto alla c.d. «giurisdizione domestica» delle Camere – si è ritenuto di riconoscere ai raggruppamenti la stessa natura giuridica dei partiti politici. E, in effetti, così facendo è stato agevolmente risolto ogni dubbio circa l’applicazione anche ad essi della disciplina civilistica, con il conseguente radicamento della giurisdizione del giudice ordinario[48].
Resta adesso da capire se, alla luce dei moderni sviluppi della scienza del diritto pubblico, sia possibile andare oltre la qualificazione «mista» dei gruppi parlamentari, cercando di superare le ambiguità derivanti dal contemporaneo riconoscimento, a tali enti, della natura pubblica e privata. In uno scenario, come quello attuale, in cui lo stesso diritto pubblico-amministrativo non appare più essere l’esclusivo «prodotto della storia individuale di ciascuna nazione», dacché «i sistemi amministrativi nazionali sono sempre meno legati a contesti puramente nazionali»[49].
A tale scopo potrebbe tornare utile fare riferimento al concetto europeo di «Pubblica amministrazione a geometria variabile», dal quale è derivata, tra le altre (si pensi al noto fenomeno delle società in house) la nozione di «organismo di diritto pubblico». Nella contemporaneità, infatti, la tradizionale nozione di Pubblica amministrazione intesa quale Stato-apparato sembra esser stata sostituita da una diversa concezione, caratterizzata dall’ampliamento del novero dei soggetti giuridici riconducibili all’interno di tale categoria. In particolare, ai già numerosi enti pubblici nazionali e locali in senso proprio si sono affiancati organismi aventi struttura tipicamente di diritto privato, cui sono state attribuite funzioni di rilievo pubblicistico. A livello eurounitario, pertanto, la nozione di soggetto pubblico non è intesa come una categoria monolitica, essendo stata elaborata, tanto sul piano normativo quanto nell’interpretazione giurisprudenziale, sulla base delle diverse esigenze sottese alla normativa delle singole materie nelle quali il riferimento al soggetto pubblico è apparso necessario e obbligatorio. Ipotesi questa, vista l’inevitabile istituzionalizzazione del gruppo politico all’interno delle Assemblee legislative, che sembra poter riguardare anche il regime giuridico dei raggruppamenti parlamentari, una volta costituitisi in seno alle Camere[50].
Sebbene non sia questa la sede opportuna per approfondire la tematica, appare necessario qui dar conto del fatto che, nel diritto europeo e, ormai, in quello amministrativo nazionale, nella nozione cangiante di Pubblica amministrazione, ispirata a criteri sostanzialistici e funzionalistici, è possibile ricondurre l’«organismo di diritto pubblico»[51]. Qualifica, questa, attribuibile a un «qualsiasi soggetto», avente anche natura giuridica privata, che mostra di possedere tre requisiti: a) deve essere stato istituito «per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale»; b) deve essere dotato di «personalità giuridica»; e, non da ultimo, c) la sua attività deve essere «finanziata in modo maggioritario dallo Stato»[52].
Come noto, attraverso tale ampliamento del concetto di Amministrazione pubblica si è cercato di evitare che, nella contrattualistica pubblica, soggetti sostanzialmente pubblici, ma formalmente privati come le società potessero eludere la disciplina prevista a garanzia degli affidamenti delle commesse pubbliche. E così, quando un «qualsiasi soggetto», anche «in forma societaria», soddisfi tutti e tre i suddetti requisiti, dovendo essere considerato «amministrazione aggiudicatrice», potrà essere soggetto alla disciplina prevista dal c.d. Codice degli appalti [53].
È evidente che la materia dei contratti pubblici ha una logica a sé, assai distante dalle regole del diritto parlamentare. A guardar bene, però, il riferimento analogico a tale disciplina non appare totalmente peregrino. Se lo si prende in considerazione da un punto di vista puramente giuspubblicistico, infatti, esso è in grado di offrire una definizione di ciò che oggi può e deve considerarsi «soggetto pubblico», a prescindere dalla veste giuridico-formale dell’ente di riferimento. La nozione di organismo di diritto pubblico, del resto, è stata elaborata per «coprire situazioni c.d. di confine» tra pubblico e privato, come a tratti sembra essere quella riguardante la natura giuridica dei gruppi parlamentari[54].
Mutatis mutandis, gli elementi necessari affinché un ente possa essere considerato «organismo di diritto pubblico» sembrano essere posseduti anche dai gruppi parlamentari. Invero, a) essi si formano nelle Camere per dare concreta attuazione all’indirizzo politico, con ciò soddisfacendo il primo elemento richiesto dalla normativa citata: il gruppo non può che essere istituito per «soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale» e, in particolare, per dare concreta attuazione al circuito della rappresentanza politica. Anzi, sotto questo aspetto, la funzione di inverare l’indirizzo politico che spetta a ciascun gruppo, ben può definirsi il supremo «interesse generale»[55].
Quanto al secondo dei requisiti richiesti (la personalità giuridica), appare evidente che i gruppi, una volta costituiti all’interno del Parlamento secondo le regole prescritte dai regolamenti di ciascuna Camera, non possono che assumere rilievo per il diritto pubblico, dismettendo la veste di mera associazione non riconosciuta appartenente alle forze politiche esistenti al di fuori delle Assemblee, prima del momento elettorale e dell’inizio della Legislatura[56]. Pertanto, b) la procedura di costituzione del gruppo all’interno della Camera, un po’ come per le associazioni l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, sembra conferire a tale peculiare tipologia di ente politico un’automatica acquisizione della personalità giuridica pubblica. Non riconoscere soggettività giuridica a tali gruppi equivarrebbe a confonderli totalmente con il partito politico, equiparando l’attività dei gruppi politici interna al Parlamento a quella svolta al di fuori del recinto istituzionale[57]. Diversamente, la stessa “parte” pubblica insita nelle tesi c.d. «miste», se si escludesse il riconoscimento della personalità giuridica, perderebbe ogni fondamento, di fatto riducendo la natura giuridica del gruppo ai postulati delle dottrine privatistiche[58].
Per ciò che da ultimo attiene alla compresenza del terzo requisito, ossia c) quello «del finanziamento pubblico maggioritario»[59], come s’è visto ai gruppi «sono assicurate a carico del bilancio della Camera le risorse necessarie allo svolgimento della loro attività». Con ciò, elidendo ogni dubbio circa la derivazione pubblicistica delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle attività dei raggruppamenti[60].
Se tali postulati possono ritenersi corretti, ricorrendo tutti e tre gli elementi necessari per la qualificazione dei gruppi come soggetti a rilevanza pubblicistica – seppur temporanei in quanto esistenti per ciascuna singola Legislatura[61] – non sembra sussistere alcuna condizione ostativa affinché i gruppi parlamentari possano assumere la qualifica di «organismi di diritto pubblico».
Sul piano applicativo, le conseguenze di una tale classificazione non appaiono scalfire in toto i postulati della giurisprudenza affermatasi negli ultimi anni: a conoscere delle obbligazioni contratte dal gruppo con i terzi (su tutte le controversie riguardanti i rapporti di lavoro), continuerebbe ad essere il giudice ordinario. Ciò che invece sarebbe destinato a mutare è la sola fase di selezione del soggetto privato esterno al gruppo. E tanto, sia detto per inciso, a migliore garanzia dell’efficienza, della trasparenza e del buon funzionamento delle Assemblee legislative, visto che i gruppi utilizzano fondi ad essi attribuiti dalle Camere (organi costituzionali dello Stato). Invero, nel caso in cui il raggruppamento parlamentare decidesse di intrattenere rapporti giuridici di natura economica con soggetti terzi ai due rami del Parlamento, il gruppo figurerebbe quale «amministrazione aggiudicatrice» ex art. 3, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 50 del 2016 e, dunque, quale soggetto obbligato al rispetto delle regole previste per le procedure di evidenza pubblica. Quanto all’instaurazione dei rapporti di lavoro, assumendo il gruppo le vesti di Amministrazione, dovrebbe essere chiamato ad espletare procedure concorsuali, previa pubblicazione di un bando pubblico, ai fini della selezione del personale interno[62]. Cosicché, il gruppo, come avviene per il pubblico impiego una volta terminata la fase di selezione del personale o, per le Stazioni appaltanti, esaurita la fase pubblicistica a seguito dell’aggiudicazione, non può che restare soggetto alle regole del diritto privato[63].
L’inizio della Legislatura – pertanto – sembrerebbe giuridicamente segnare la linea di confine tra la fase «privatistica» del gruppo politico e quella «pubblicistica» del gruppo stesso: costituendosi in seno alle Camere, il raggruppamento “pubblicizza” la sua attività politica, intanto trasformatasi in «parlamentare», entrando così a far parte dell’ordinamento giuridico dello Stato. Ciò significa che i membri del gruppo politico, una volta eletti, sembrano mantenere lo status di membri di un’associazione di diritto privato (gruppo-partito), fino al momento della scelta di iscriversi al gruppo parlamentare. Una volta iscritti, i parlamentari, pur mantenendo la qualità di membri dell’associazione «gruppo-partito politico», appaiono sommare, in aggiunta, la qualifica di membro del «gruppo-politico parlamentare» avente in sé il compito, assieme a tutti gli altri gruppi, di realizzare l’indirizzo politico. Funzione, quest’ultima, necessariamente pubblica che, come tale, fa assumere ai gruppi politico-parlamentari la natura di «organismi di diritto pubblico», determinata non già dal mero fatto di essere interni alle Camere, ma perché funzionalmente deputati al perseguimento dell’indirizzo politico. Sembra proprio essere quest’ultimo a causare una sorta di mutazione genetica del gruppo, in grado di trasformare giuridicamente, all’interno del Parlamento, l’«associazione politica» in «organismo di diritto pubblico».
In definitiva, questa la maggiore utilità scientifica di una tale classificazione, considerare i gruppi parlamentari come «organismi di diritto pubblico», consente chiaramente di distinguere i gruppi politici esterni al Parlamento (i partiti), da quelli che in esso invece si vanno formando, in tal guisa mettendo in luce gli inevitabili profili pubblicistici di tali formazioni politiche, profili che, accogliendo le tesi c.d. «miste», in sede applicativa non di rado sembrano rimanere adombrati.
Del resto, la stessa Consulta, nel ritenere i gruppi parlamentari «espressioni istituzionali del pluralismo politico», sembra abbia ben chiara la loro rilevanza pubblicistica. Se così non fosse, in tutte le decisioni susseguitesi negli anni avrebbe certamente evitato di specificare che si tratta, in ogni caso, di una realtà «istituzionale»[64].
[1] Sul punto, per i necessari riferimenti teorici, come tali impossibili da compulsare in poche righe, sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, Profili evolutivi di un soggetto della rappresentanza politica, Cacucci, Bari, 2019, 271-295.
[2] Si veda, su tutti, G. Azzariti, Cittadini, partiti e gruppi parlamentari: esiste ancora il divieto di mandato imperativo?, in Dem. dir., 2009, 345-346; Id., Il rapporto partito-eletto: per un’interpretazione evolutiva dell’art. 67 della Costituzione, in Pol. dir., 3/2013, 275 ss., il quale parla, a più riprese, di un «triangolo» costituito da tre soggetti: «eletti-partiti-elettori».
[3] Come ha evidenziato N. Bobbio, Rappresentanza e interessi, in G. Pasquino (a cura di), Rappresentanza e democrazia, Laterza, Bari, 1988, 23-24, è proprio «l’intermediazione dei partiti fra elettori ed eletti» ad aver «semplificato il sistema della rappresentanza e semplificandolo lo ha reso di nuovo possibile». Nello stesso senso dello studioso torinese, H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., La democrazia, il Mulino, Bologna, 1981, 57 ha fatto incisivamente notare che «solo l’illusione o l’ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici».
[4] Si veda, nello specifico, un recente studio della fondazione Openpolis, dal titolo “Partiti deboli, democrazia fragile”, consultabile al seguente indirizzo: https://www.openpolis.it/esercizi/la-vera-cassa-sono-igruppi-parlamentari/.
[5] Infatti, come più oltre si vedrà, si riesce a mantenere in piedi la tesi del c.d. triangolo della rappresentanza politica proprio attraverso tale processo di inglobamento del gruppo parlamentare o all’interno della dimensione privatistica (organo del partito politico) o all’interno delle Camere (organo a mera rilevanza giuspubblicistica).
[6] In merito alla questione dell’autonomia del gruppo dal partito politico si veda S. Curreri, I gruppi parlamentari nella XIII legislatura, in Rassegna parlamentare, 2/1999, 272 ss. e Id., I nuovi gruppi parlamentari tra problematiche giuridiche e prospettive politiche, in Forumcostituzionale, 24 aprile 2006, 1 ss. Il fenomeno dei partiti di formazione proprio dai parliamentary parties che ha preso vita la tendenza a formare raggruppamenti politici, Raggruppamenti che poi, come visto, hanno caratterizzato in maniera significa i successivi sviluppi del rapporto rappresentativo. Sulla genesi dell’«organizzazione parlamentare» in Inghilterra, G.D. Ferri, Studi sui partiti politici, Edizioni Dell’Ateneo, Roma, 1950, 13 ss., il quale rammenta che, nella storia inglese, il cosiddetto Parliamentary Party risale alla seconda metà del XVII secolo, mentre la vera e propria Party Organisationiniziò ad affermarsi coll’Associazione Liberale di Birmingham. Di «parliamentary party anglosassone», inteso come «nucleo che ha germinato il partito», discutono invece G. Negri – G.F. Ciaurro, Gruppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 2. Per di più, è appena il caso di far notare che nello stesso Stato liberale i gruppi erano “puramente” parlamentari, non essendosi i partiti ancora evoluti in associazioni solidamente ramificate nel tessuto sociale. Tali esperienze storiche dimostrano che in Parlamento possono mancare i partiti, ma in nessun caso i gruppi, i quali, proprio per tal motivo, come anticipato, devono ritenersi una realtà ontologica sul piano costituzionale-sostanziale.
[7] Costituito il 18 settembre 2019. Formalmente l’iniziativa origina da una lettera diretta al Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, con la quale il senatore Riccardo Nencini (proveniente dalla componente P.S.I. del Gruppo Misto, del quale era l’unico membro) comunica l’avvenuta costituzione del nuovo gruppo “Italia Viva-PSI”. Esso è composto, prevalentemente, da senatori renziani provenienti dal gruppo “Partito Democratico”, anche se non mancano membri provenienti da altri gruppi (come la senatrice Gelsomina Silvia Vono, inizialmente iscritta al gruppo “MoVimento 5 Stelle”; e Donatella Conzatti, proveniente dal gruppo “Forza Italia-Berlusconi Presidente”). Sulla discussa e assai discutibile vicenda si veda G. Maestri, Il nuovo gruppo “Psi-Italia viva” al Senato: le falle della riforma “antiframmentazione” del Regolamento, in laCostituzione.info, 19 settembre 2019; A. Mannino – S. Curreri, Diritto parlamentare, FrancoAngeli, Roma, 2019, 72 ss.; U. Ronga, Partiti personali e vicende dei gruppi parlamentari nell’esperienza recente. Contributo allo studio della XVII e della XVIII Legislatura, in federalismi.it, n. 12/2020, 227 ss.; M. Podetta, La nuova disciplina dei Gruppi al Senato tra demagogia riformista, dubbi costituzionali e distorsioni applicative, in Costituzionalismo.it, n. 1/2020, parte II, spec. 197 ss.
[8] Proprio in merito alla costituzione meramente parlamentare del gruppo politico “Italia Viva – PSI” torna a riflettere S. Curreri, Si scioglierà il gruppo parlamentare Italia Viva – P.S.I. al Senato?, in www.lacostituzione.info, 21 gennaio 2021, il quale rileva come, qualora il senatore Nencini dovesse “ritirare” il simbolo del “PSI”, a rischio sarebbe la perduranza stessa del gruppo, a causa della discutibile vicenda che ne ha caratterizzato la genesi.
[9] Una distorsione del rapporto rappresentativo, quest’ultima, che sembra destinata a produrre effetti ancor più negativi all’interno di un consesso assembleare sensibilmente ridotto, come quello che si avrà a partire dalla XIX Legislatura. Distorsione per risolvere la quale si potrebbe pensare di eliminare il requisito numerico per la costituzione di un gruppo, estendendo anche alla Camera dei deputati quel requisito c.d. politico-elettorale introdotto con la riforma del Regolamento del Senato del 20 dicembre 2017. A rilevare, cioè, specie in un Parlamento ridimensionato, non dovrebbe più tanto essere la consistenza numerica del raggruppamento, quanto la corrispondenza ad una formazione politica che si è presentata alle elezioni ed ha ricevuto consensi da una frazione del corpo elettorale. In tal modo, si potrebbe pensare, ad esempio, come avviene nel Senato belga, di introdurre la regola per cui i parlamentari possono organizzarsi in gruppi seguendo l’ordine delle liste nelle quali sono stati eletti, senza possibilità di scelta. O, per meglio dire, assicurando all’eletto la possibilità di aderire, naturalmente anche in corso di Legislatura nel rispetto dell’art. 67 Cost., a due soli gruppi: quello generato dalla forza politica di appartenenza presentatasi alle elezioni o, come unica alternativa, al gruppo Misto (nel Senato belga, invece, il parlamentare che abbandona il gruppo diviene “indipendente”). Il tutto, magari, per evitare verticalizzazioni nelle associazioni politiche, nell’auspicabile vigenza di almeno due innovazioni legislative: A) l’adozione di un sistema elettorale di stampo proporzionale, che sappia fra fronte alla probabile torsione maggioritaria derivante dalla riduzione del numero dei parlamentari in relazione alla rappresentatività dei territori; B)l’adozione di una nuova legge sui partiti che imponga a tutti gli iscritti il rispetto di requisiti minimi di democrazia interna. Per un esame più esaustivo di simili problematiche, come detto acuite dalla recente riduzione del numero degli eletti di cui alla legge costituzionale n. 1 del 2020, si rinvia ad A. Gusmai, Alcune riflessioni sui gruppi parlamentari dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1 del 2020, in Forumcostituzionale, 1/2021, 22-38.
[10] Anche se non si è ancora affrontata nel merito la questione attinente alla natura giuridica dei gruppi, è doveroso evidenziare che tanto nel caso in cui si ritenga il Parlamento composto da gruppi-organi, quanto nel caso in cui si intenda il Parlamento come organo complesso frazionato al proprio interno in gruppi-associazioni, v’è la presenza di un elemento comune necessario. Invero, comunque si vogliano qualificare, i gruppi sono parte necessaria di un organo costituzionale – il Parlamento, appunto – che di per sé è organo collegiale, ossia rappresenta esso stesso, sul piano istituzionale, un Gruppo di rappresentanti, matrice del fenomeno. Poiché però, per poter funzionare, il Parlamento ha bisogno di frazionarsi al proprio interno in gruppi politici tra loro contrapposti – si pensi alla composizione di organi collegiali ristretti, come le commissioni permanenti, da formarsi in proporzione ai gruppi presenti in Parlamento, ecco che, sul piano costituzionale-sostanziale, sembra possibile sostenere che i gruppi siano una realtà inscindibile dalle Assemblee legislative. Per tal motivo, essi paiono doversi intendere alla stregua di una entità istituzionale ontologica. L’ontologia costituzionale dei gruppi parlamentari è – come intuibile – una tesi sostenibile in conseguenza della vigenza di democrazie rappresentative. Senza i rappresentanti che svolgono i lavori all’interno di un’Assemblea rappresentativa, i gruppi sembrano perdere importanza, potendo assumere le manifestazioni politico-democratiche connotazioni solipsistiche. Per i necessari approfondimenti teorici sulla ontologica esistenza costituzionale dei gruppi politici sia nuovamente consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, op. cit., 101-109.
[11] Per un’esaustiva ricognizione dei vari orientamenti dottrinali, si veda A. Ciancio, I gruppi parlamentari, op. cit., 30-39. Altra valida rassegna, arricchita da puntuali riferimenti giurisprudenziali, è quella di S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parlamento della Repubblica: organi, procedure, apparati, n. 12, Roma, II, Camera dei deputati, 2008, 659-704.
[12] Così l’art. 14, r.C., al comma 01, aggiunto il 25 settembre 2012 ed entrato in vigore il 12 ottobre dello stesso anno.
[13] In tal senso anche A. Ciancio, I gruppi parlamentari. Studio intorno a una manifestazione del pluralismo politico, Giuffrè, Milano, 2008, 30.
[14] È questo un rilievo mosso da S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 659- 660, il quale come esempio emblematico riporta le definizioni che ne danno D. Resta, Saggi sui gruppi parlamentari, Grafica 2000, Città di Castello, 1983, 34, secondo cui «i gruppi parlamentari sono organi interni delle Camere a struttura collegiale dotati di ogni potere decisionale e vincolati all’indirizzo politico del partito, costituenti centro d’imputazione di attività nell’ambito delle Camere e che danno vita ad un ordinamento speciale dotati di potestà regolamentare la cui costituzione è obbligatoria in base a quanto statuito dalle norme costituzionali e dai Regolamenti delle Camere in quanto l’esistenza di essi è necessaria all’esistenza delle Camere stesse»; ed E. Colarullo, Rappresentanza politica e gruppi delle assemblee elettive, Atti del Convegno tenutosi a Cagliari il 25 settembre 1999, Giappichelli, Torino, 2001, 95, a parere del quale i gruppi «sono al contempo organi del Parlamento e proiezione dei diversi orientamenti della rappresentanza».
[15] Del resto, A. Mannino, S. Curreri, Diritto parlamentare, FrancoAngeli, Milano, 2019, 17, hanno evidenziato che il diritto parlamentare si configura come complesso di regole «strettamente collegato al principio democratico, che ispira e condiziona al contempo la forma di stato, la forma di governo e, di conseguenza, l’organizzazione e il funzionamento delle Camere, cui la Costituzione affida il compito di esprimere e realizzare la sovranità del popolo».
[16] Non a caso, non mancano critiche alla «concezione del diritto parlamentare come legge materialmente costituzionale, destinata a prevalere sulle disposizioni della Costituzione scritta e/o ad anticiparne le evoluzioni». Così M. Manetti, Regolamenti e compromesso parlamentare, in Costituzionalismo.it, n. 2/2017, Parte I, 55. Situazione, questa, già nota a L. Elia, Riforma dei partiti mediante le norme dei Regolamenti parlamentari, in Giornale di storia costituzionale (numero speciale su I regolamenti parlamentari nei momenti di svolta della storia costituzionale italiana, a cura di E. Gianfrancesco, N. Lupo), n. 15/2008, 201 ss. In argomento, si veda, anche, V. Onida, Audizione, in Indagine conoscitiva dell’esame delle proposte di legge costituzionale C. 1585 cost. approvata dal Senato, e C. 1172 cost. D’Uva, recanti «modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari» e della proposta di legge C. 1616, approvata dal Senato, recante «disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari, Resoconto stenografico, 21 marzo 2019, 5, secondo il quale la riforma dei regolamenti parlamentari «non è un tema costituzionale in senso stretto».
[17] Per maggiori ragguagli sia consentito il rinvio ad A. Gusmai, Il gruppo parlamentare, 314 ss.
[18] Di tale avviso, di recente, sembra essere M. Luciani, Governo (forme di), in Enc. dir. Annali III, Giuffrè, Milano, 2010, 555, nt. 133, il quale scrive: «si consideri che, per entrare nel recinto delle istituzioni, i partiti sono costretti a diventare altro da sé: i gruppi parlamentari, sia giuridicamente che politicamente, sono cosa diversa dai partiti. Essi non sono loro organi […], ma sono piuttosto organi delle Camere».
[19] Cfr. Trib. Roma, 29 aprile 1960, in Giur. cost., 1961, 295 ss., il quale ha stabilito che i gruppi parlamentari «hanno la natura di organi interni delle Camere e sono perciò organi dello Stato».
[20] Il riferimento è a Corte cost., sent. n. 1130 del 1988, che qualifica i gruppi consiliari «organi nei quali si raccolgono e si organizzano all’interno dell’assemblea i consiglieri eletti al fine di elaborare congiuntamente le iniziative da intraprendere e di trovare in essi gli adeguati supporti organizzativi per poter svolgere adeguatamente i propri compiti» (Considerato in diritto n. 3).
[21] Sul punto, cfr. V. Sica, Le associazioni nella Costituzione italiana, Jovene, Napoli, 1957, 116 ss., il quale inequivocabilmente sostiene che «la relazione delineata tra partito e gruppo non ne implica alcuna confusione; essa si articola e esaurisce nel vincolo associativo che lega gli iscritti del gruppo al partito corrispondente. Il gruppo parlamentare non è un organo del partito, al contrario è un organo della Camera nella quale è costituito» (p. 217); A. Savignano, I gruppi parlamentari, Morano Editore, Napoli, 1965, 209 ss., il quale ritiene che «la formazione dei gruppi parlamentari è ispirata […] ad un unico principio, consistente nella necessaria corrispondenza che deve intercorrere tra i gruppi medesimi e i partiti politici. […]. I gruppi parlamentari, di conseguenza, nonostante costituiscano la proiezione parlamentare dei partiti politici, vanno qualificati come organi interni delle Camere» (p. 219); F. Pergolesi, Diritto costituzionale, XIV ed., Cedam, Padova, 1960, 535-536, secondo cui «gli stretti vincoli di connessione tra gruppi e partiti […] inducono a ritenere esatta la qualifica dei primi quali organi dei secondi, ma ciò soltanto in linea di fatto (o di realismo sociologico), non anche da un punto di vista giuridico formale. Infatti i gruppi, considerati quali entità a sé stanti, sono previsti dalla stessa costituzione, come obbligatori al fine essenziale della determinazione della rappresentanza proporzionale nelle varie commissioni […], ma con possibilità di ampliamento dell’attività, attraverso i capi gruppi, per collaborare, ad es., con gli uffici di presidenza nella predisposizione concordata dei lavori parlamentari e per l’audizione (da parte del Presidente della Repubblica), nel corso e per la soluzione delle crisi ministeriali […]. Sembra pertanto che i gruppi non possano non essere considerati quali organi ognuno della propria Camera (e quindi anche, in lato senso, dello Stato)»; G.F. Ciaurro, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Studi per il XX anniversario dell’Assemblea Costituente, IV, Vallecchi, Firenze, 1969, 233 ss., il quale qualifica i gruppi parlamentari «organi delle Camere in senso tecnico» (pp. 239-240); Id., Le istituzioni parlamentari, Giuffrè, Milano, 1982, 271. Dello stesso avviso, poi, sono G.D. Ferri, Studi sui partiti politici, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1950, 157; M. Pacelli, La posizione giuridica di membro del Parlamento, in Rass. dir. pubbl., 1969, 554 ss.; G. Silvestri, I gruppi parlamentari tra pubblico e privato, in Studi per Lorenzo Campagna, II, Giuffrè, Milano, 1980, 280 ss.; D. Resta, Saggi sui gruppi parlamentari, op. cit., 34-35; A. Summa, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parl., nn. 11-12/1988, 48; G. Negri – G.F. Ciaurro, Gruppi parlamentari, in Enc. giur., XV, Roma, 1989, 7; F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1988, 224; M.L. Mazzoni Honorati, Lezioni di diritto parlamentare, Giappichelli, Torino, 1999, 116.
[22] Secondo la celebre tesi di S. Romano, L’ordinamento giuridico, op. cit., 27 ss., già applicata in relazione ai gruppi politici da A. Predieri, I partiti politici, in P. Calamandrei – A. Levi (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, I, Editore G. Barbera, Firenze, 1950, 213-214.
[23] Così, G.F. Ciaurro, Le istituzioni parlamentari, op. cit., 282 ss. In tal senso, anche, G. Negri – G.F. Ciaurro, Gruppi parlamentari, op. cit., 6, i quali ritengono che «i gruppi parlamentari si configurino giuridicamente come istituzioni dell’ordinamento parlamentare che hanno la struttura formale di associazioni politiche e le funzioni sostanziali di organi delle Camere; laddove il loro eventuale collegamento organico con i partiti appartiene piuttosto alla loro configurazione sociologica».
[24] G.F. Ciaurro, op. ult. cit., 286.
[25] V. Sica, Le associazioni nella Costituzione italiana, op. cit., 114.
[26] Uno dei primi e più autorevoli studi che sembra estendere ai gruppi le dottrine organicistiche, è quello di P. Virga, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1967, 254, il quale definisce i raggruppamenti parlamentari «unità organiche del Parlamento». Sviluppano il rapporto organico tra partito e gruppo, sebbene aderiscano alle teorie c.d. «miste», anche S. Tosi – A. Mannino, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 1999, 156 ss. Si fa strada, così, anche in relazione ai gruppi parlamentari, la teoria dell’immedesimazione organica, secondo cui l’organo – la persona che agisce per l’ente – non avrebbe una propria soggettività distinta da quella dell’ente, ma sarebbe l’ente stesso, lo impersonifica, mancando un distacco formale. Partendo da tali premesse è possibile definire il rapporto organico come il rapporto organizzativo di inserimento funzionale nella persona giuridica, comprendente specifici diritti, doveri e poteri, finalizzato al perseguimento dei fini istituzionalmente attribuiti all’ente. L’applicazione corretta di tali tesi, come appare evidente, escluderebbe ogni dualismo di soggetti e, pertanto, ogni distinzione, una volta costituito il raggruppamento all’interno delle Camere, tra gruppo politico-partitico e gruppo parlamentare.
[27] Secondo il classico e ancora attuale insegnamento di M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Giuffrè, Milano, 1993, 142.
[28] In tal senso, G.U. Rescigno, Gruppi parlamentari, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, 794, il quale perentoriamente afferma: «qualunque sia la definizione adottata di organo, essa non si può applicare mai al gruppo parlamentare. Organi della Camera sono il presidente, la giunta per il regolamento, le commissioni permanenti, giacché le loro decisioni si imputano a tutta la Camera, ma in nessun caso il gruppo, che agisce sempre in nome e per conto proprio, o, tutt’al più, in nome e per conto del partito di cui è espressione». Consapevole di tali obiezioni, parte della dottrina ha così sostenuto che quello di «organo» deve essere considerato un concetto più ampio, nel quale ricomprendere anche chi svolge atti ed attività indirizzati ai fini istituzionali dell’ente (come l’«attività consultiva», cfr. D. Resta, Saggi sui gruppi parlamentari, op. cit., 33), ovvero chi comunque assolve a competenze che è interesse dell’ente che siano assolte (come nel caso del «soggetto privato che esercita funzioni pubbliche», cfr. A. Pizzorusso, I gruppi parlamentari come soggetti di diritto: pagine di un saggio giuridico, Pacini Mariotti, Pisa, 1969, 91).
[29] Così, S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 665.
[30] Cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1975, 509; e T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1984, 309.
[31] Sul punto, A. Manzella, Il Parlamento, il Mulino, Bologna, 1977, 39. In modo adesivo, anche I.W. Politano, La natura giuridica del gruppo parlamentare, in Amm, it., 7-8/1988, 1104 ss.
[32] In tal senso, A. Ciancio, I gruppi parlamentari, op. cit., 240, facendo propria la definizione di «enti ad autonomia funzionale» offerta da V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Giappichelli, Torino, 2006, 114 ss., in qualche modo, così, tirando in ballo il «principio di sussidiarietà orizzontale», equiparando i gruppi parlamentari agli ordini professionali di categoria, camere di commercio, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, ecc. (p. 241). La stessa Autrice, nelle pagine precedenti, definisce i gruppi «manifestazioni del pluralismo sociale, che operano all’interno di un’organizzazione pubblica in posizione esponenziale di una determinata comunità politico-sociale e che vengono riconosciuti dall’ordinamento come attributari di una autonomia, anche normativa» (p. 239).
[33] La nozione di «ente pubblico», come noto, non può ritenersi fissa e immutabile. E ciò comporta che un soggetto, che per certi fini costituisce un ente pubblico, potrebbe non esserlo ad altri fini, in considerazione, ad esempio, della disciplina da applicare al caso concreto. Si è da ultimo sviluppato in dottrina e in giurisprudenza, un approccio «funzionale» al problema della natura giuridica dell’ente. Si pensi a Cons. St., sez. VI, 26 maggio 2015, sent. n. 2660, il quale ha affermato che «questa nozione “funzionale” di ente pubblico, che ormai predomina nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ci insegna, infatti, che il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa», dovendo «di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica».
[34] Si veda ancora S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 673, il quale precisa che «se anche vogliamo utilizzare l’aggettivo «pubblico» per definirne la natura – in virtù del fatto che operano prevalentemente nell’ambito delle istituzioni pubbliche – i gruppi parlamentari non sono soggetti ad alcuna normativa di carattere speciale che caratterizza gli enti pubblici, né appaiono in alcun modo inquadrabili nelle categorie che la dottrina, la giurisprudenza e la legge n. 70 del 1975 (c.d. legge sul parastato) hanno elaborato in materia di enti pubblici. Infatti, nonostante l’atipicità degli enti pubblici e della loro capacità giuridica, vi è sempre, per essi, un quid pluris rispetto alla normale capacità giuridica di diritto comune, cosa che non si rinviene nella disciplina dei gruppi parlamentari. Risulterebbe quindi una qualificazione priva di qualsiasi contenuto giuridico».
[35] Tra le più autorevoli, si veda P. Rescigno, L’attività di diritto dei Gruppi parlamentari, in Giur. cost., 1961, spec. 303 ss.; V. Zangara, Prerogative costituzionali, Giuffrè, Milano, 1970, 94; C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, UTET, Torino, 1982, 625.
[36] Si veda R. Ceccarini, Gruppi parlamentari e partiti politici. Considerazioni sulla natura giuridica, in Parlamento, fasc. nn. 1-2/1980, 49 ss.
[37] In tal senso, da ultimo, S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., spec. 684 ss.
[38] Come sostenuto da A. Tesauro, I gruppi parlamentari, in Rass. dir. pubbl, 1967, 201 e 207; P. Petta, Gruppi parlamentari e partiti politici, in Riv. it. sc. giur., 1970, 229. Tale tesi, sembra in parte trovare un qualche riscontro negli argomenti contenuti in Corte cost. sent. n. 396 del 1988. In tale pronuncia, invero, la Consulta non manca di rimarcare che, il vigente sistema costituzionale, è improntato al criterio del pluralismo delle istituzioni e nelle istituzioni, criterio che consente ai privati di svolgere in forma privata funzioni un tempo ritenute di pertinenza esclusivamente pubblica (cfr. il Considerato in diritto n. 7, il quale richiama, sul punto, anche Corte cost., sent. n. 173 del 1981).
[39] Cass. civ., Sez. Un., 29 dicembre 2014, n. 27369. Per la giustizia amministrativa, si veda Cons. St., Sez. IV, 28 ottobre 1992, n. 932, in cui si legge che «i gruppi consiliari regionali, al pari dei gruppi parlamentari, sono formazioni associative a carattere politico e temporaneo, proiezione nell'ambito del consiglio regionale dei partiti politici, il cui apparato organizzativo interno, ove esistente, è del tutto distinto e avulso dalle strutture burocratico-amministrative di supporto del consiglio regionale e della regione nel suo complesso, né, d'altra parte, l'attività del gruppo, che è svolta nel nome e nell'interesse esclusivo del gruppo medesimo, può essere ritenuta come svolta nell'interesse della regione, alla quale essa non è in alcun modo imputabile», Conforme, T.A.R. Trento, 13 dicembre 1993, n. 345, secondo cui «i gruppi consiliari regionali, parimenti ai gruppi parlamentari, costituiscono, nella regione Trentino-Alto Adige, delle formazioni di natura associativa a carattere politico e temporaneo (cessano, infatti, con la scadenza della legislatura), e si configurano quali proiezioni, nell'ambito regionale, dei partiti politici, la cui organizzazione, qualora esistente, risulta distinta ed estranea alle strutture burocratico amministrative di supporto del consiglio regionale e della regione nel suo complesso».
[40] G.U. Rescigno, Gruppi parlamentari, op. cit., 796.
[41] Cfr. S. Antonelli, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Studi Urbinati, XXXIII, Milano, 1964, 275; G.F. Ciaurro, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 227, 244 ss.; G. Silvestri, I gruppi parlamentari tra pubblico e privato, op. cit., 287; D. Resta, Saggi sui gruppi parlamentari, op. cit., 30; C. Gatti, I gruppi parlamentari nella Germania occidentale e in Italia, Franco Angeli, Milano, 1986, 115; A. Summa, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Il Parl., nn. 11-12/1988, 47; A. Manzella, Il Parlamento, II ed., op. cit., 72. Più in generale, «sulla libertà di non associarsi» quale presupposto della stessa libertà di associazione, cfr. Corte cost., sent. n. 69 del 1962. A commento di tale pronuncia, si veda V. Crisafulli, In tema di libertà di associazione, in Giur. cost., 1962, 742 ss.; R.G. De Franco, Libertà di “non associarsi” e “specifica” garanzia ex art. 18 della Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, 1107 ss.; E. Cheli, In tema di “libertà negativa” di associarsi, in Foro.it, I, 1962, 1843 ss.; e ivi, S. De Fina, Libertà di associazione e associazioni coatte, I, 1963, 479 ss.
[42] Cfr. P. Biscaretti di Ruffia, Diritto costituzionale, Jovene, Napoli, 1968, 757.
[43] Su tali orientamenti dottrinali, cfr. G.D. Ferri, Ancora sui partiti politici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, 594 ss.; S. Antonelli, Sulla natura giuridica dei gruppi parlamentari, in Studi Urbinati, XXXIII, Milano, 1964, 289 ss.; M. Bassani, Partiti e Parlamento, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano-Varese, 1965, 65; G. Ferrara, Il Presidente di assemblea parlamentare, Giuffrè, Milano, 1965, 36; A. Pizzorusso, I gruppi parlamentari come soggetti di diritto: pagine di un saggio giuridico, Pacini Mariotti, Pisa, 1969, 96 ss.; S. Tosi, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 1974, 145 ss.; T. Martines, Il Consiglio regionale, Giuffrè, Milano, 1981, 47; S. Tosi – A. Mannino, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 1999, 159; S. Curreri, Partiti e gruppi parlamentari nell’ordinamento spagnolo, Firenze University Press, Firenze, 2005, 180 ss., e 278.
[44] L. Di Majo – M. Rubechi, Gruppi parlamentari, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Aggiornamento, UTET, Torino, 2015, 233.
[45] Così, già, la Corte d’Appello di Roma, 9 marzo 1962, in riforma della precitata decisione del Tribunale del 29 aprile 1961 che, invece, come visto, ha qualificato i gruppi parlamentari «organi interni delle Camere» e «poteri dello Stato». La pronuncia del giudice di seconde cure è rinvenibile in Giur. cost., 1962, 1269 ss.
[46] Il riferimento è a Cass., Sez. Un., ord. 19 febbraio 2004, n. 3335, da ultimo confermata da Cass. civ., Sez. lav., 4 gennaio 2018, n. 92.
[47] Su tali profili, S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 684 ss.
[48] A sostegno dell’impossibilità di qualificare i gruppi parlamentari come enti pubblici, si è fatto spesso riferimento alla legge del 20 marzo 1975, n. 70 (c.d. legge sul parastato), intervenuta per cercare di mettere ordine nella congerie degli enti pubblici preesistenti. Il legislatore ha individuato quattro categorie di enti pubblici: enti necessari; enti a statuto speciale; altri enti pubblici; enti inutili. La dottrina ha ritenuto di non poter sussumere in nessuna di queste categorie i gruppi parlamentari. Cfr. S. Banchetti, La natura giuridica dei gruppi parlamentari, op. cit., 670 ss.
[49] Così S. Cassese, La formazione e lo sviluppo dello Stato amministrativo in Europa, in S. Cassese – P. Schiera – A. von Bogdandy (a cura di), Lo Stato e il suo diritto, il Mulino, Bologna, 2013, 18 e 45.
[50] Sul concetto europeo «a geometria variabile» di Pubblica amministrazione, cfr., da ultimo, R. Garofoli – G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Neldiritto Editore, Molfetta, 2018, 176 ss.
[51] Per un approfondimento della tematica, non può, qui, che rinviarsi agli studi della dottrina amministrativistica. Tra i molti contributi, si veda, almeno, G. Torregrossa, I principi fondamentali dell’appalto comunitario, in Aa.Vv., Appaltare in Europa, Rionero in Vulture, 1992, 3 ss.; E. Scotti, I nuovi confini dell’organismo di diritto pubblico alla luce delle più recenti pronunce della Corte di Giustizia, in Foro.it, IV, 1999, 140 ss.; S. Cassese, L’Ente Fiera di Milano e il regime degli appalti, in Giorn. dir. amm, 2000, 549 ss.; M.P. Chiti, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, CLUEB, Bologna, 2000; B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico. Profili sostanziali e processuali, Giuffrè, Milano, 2003; G. Corso, Impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, ente pubblico: la necessità di un distinguo, in Servizi pubblici e appalti, n. 4/2004, 91 ss.; e, ivi, R. De Nictolis, L’organismo di diritto pubblico. Profili relativi alla giurisdizione, 97 ss.; L. Perfetti – A. De Chiara, Organismo di diritto pubblico, società a capitale pubblico e rischio di impresa, in Dir. amm., 2004, 135 ss.; R. Garofoli, L’organismo di diritto pubblico, in M.A. Sandulli – R. De Nictolis – R. Garofoli (diretto da), Trattato dei Contratti pubblici, I, Giuffrè, Milano, 2008, 572 ss.; M. Libertini, Organismo di Diritto pubblico, rischio d'impresa e concorrenza: una relazione ancora incerta, in Contr. e impr., 2008, 1202 ss.; D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Jovene, Napoli, 2009; F. Merusi, La legalità amministrativa. Altri sentieri interrotti, il Mulino, Bologna, 2012, 52 ss.; V. Medaglia, Contributo per una ricostruzione unitaria della nozione di ente pubblico nella truffa aggravata, in Cass. Pen., 2014, 3584 ss.
[52] La prima definizione normativa di organismo di diritto pubblico risale alla direttiva 89/440/CE, al fine di individuare la sostanziale natura giuridica di quell’elevato numero di enti operanti nell’ambito dei singoli Stati membri che, pur avendo connotazioni pubblicistiche, in quanto patrimonializzati (o controllati o sovvenzionati) dallo Stato o da altro ente pubblico, non fossero tuttavia qualificabili come pubblici alla stregua di una valutazione formale, non essendo riconducibili nel novero delle persone giuridiche di diritto pubblico tassativamente individuate nell’Allegato I della previgente direttiva 71/305/CEE. E così, l’art., 1 lett. b), della suddetta direttiva, ha stabilito che debbono considerarsi «amministrazioni aggiudicatrici» (dunque, Pubbliche amministrazioni), oltre che lo Stato e gli enti pubblici territoriali, gli «organismi di diritto pubblico», ovverosia quei soggetti giuridici «istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale, dotati di personalità giuridica e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è sottoposta a controllo di questi ultimi, oppure i cui organi di amministrazione, di direzione o di vigilanza sono costituiti da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali, o da altri organismi di diritto pubblico». Siffatta impostazione sostanzialista è stata pienamente confermata dal Legislatore europeo anche nell’impianto delle nuove direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/25/UE del 26 febbraio 2014, le quali hanno riprodotto pedissequamente la nozione di organismo di diritto pubblico elaborata dalle abrogate direttive nn. 17 e 18/2004.
[53] Cosicché, la normativa comunitaria, con il chiaro intento di disvelare la «pubblicità» sostanziale che si nasconde sotto diverse forme, ha fatto propria una nozione realistica di ente pubblico, atteso il carattere non tassativo degli elenchi previsti nel citato Allegato I della direttiva 71/305/CEE. In sede nazionale, riproducendo il contenuto delle suddette direttive (cfr. nota precedente), l’art. 3, comma 1, lett. d) del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), definisce l’organismo di diritto pubblico come «qualsiasi soggetto, anche in forma societaria, il cui elenco non tassativo è contenuto nell’Allegato IV (al Codice): 1) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; 2) dotato di personalità giuridica; 3) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designato dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico». In argomento, R.G. Rodio, Su alcuni profili problematici dei contratti esclusi, in F. Garella – M. Mariani – L. Spagnoletti – E. Toma (a cura di), I nodi del Codice dei contratti pubblici, Cacucci, Bari, 2018, 47 ss.
[54] La citazione è tratta da S. Vinti, Organismo di diritto pubblico, in Enciclopedia Treccani (Diritto on line), 2016, § 1.
[55] Su tale requisito, per quanto affrontato in giurisprudenza in relazione alle società partecipanti alle pubbliche gare, si veda almeno, Corte giust. UE, 15 gennaio 1998, in C-44/96, Mannesmann e 10 novembre 1998, in C-360/96, BFI Holding; Corte giust. UE, 22 maggio 2003, causa C-18/2001, Taitotalo. Per la giurisprudenza nazionale, invece, Cons. St., Sez. VI, 22 gennaio 2004, ord. n. 167 (caso Grandi Stazioni S.p.A.); Cons. St., Sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574.
[56] Sotto tale aspetto, dunque, non possono che essere considerati «persone giuridiche pubbliche» ai sensi dell’art. 11 del Codice civile.
[57] Come ha opportunamente rilevato parte della dottrina, i gruppi esistono in quanto previsti da norme giuridiche di rango costituzionale e primario (Regolamenti parlamentari) e, pertanto, non possono che avere anche una natura pubblicistica. In tal senso, A. Pizzorusso, I gruppi parlamentari come soggetti di diritto, op. cit., 91 ss.
[58] È interessante notare che a proposito del requisito della personalità giuridica, il giudice della nomofilachia, a Sezioni Unite, ha chiarito che un organismo può avere sostanza di diritto pubblico, pur rivestendo una forma di diritto privato e pur essendo costituito in forma di società, perché non è tanto la veste giuridica che conta, quanto l’effettiva realtà interna dell’ente e la sua preordinazione al soddisfacimento di un certo tipo di bisogni, cui anche le imprese a struttura societaria sono in grado di provvedere (cfr. Cass. civ., SS.UU., 7 ottobre 2008, n. 24722, caso Viareggio Porto S.p.A.). Nella giurisprudenza sovranazionale, si veda, in merito, Corte giust. UE, Sez. I, 3 ottobre 2013, in C-59/2012.
[59] Si tratta del requisito della c.d. «influenza pubblica dominante», fattore indiziante della sussistenza del finanziamento maggioritario dell’attività ad opera di un soggetto pubblico (nel nostro caso, delle Camere). Più in generale, in merito a tale requisito, Corte giust. UE, 3 ottobre 2000, causa C-380/98, University of Cambridge c. H.M. Treasury, ha avuto modo di osservare che per finanziamento rilevante occorre intendere le erogazioni concesse da un’amministrazione senza alcun vincolo di sinallagmaticità rispetto ad una controprestazione posta a carico del soggetto ricevente. Quanto poi al profilo relativo all’individuazione della misura percentuale che determina la prevalenza del finanziamento fornito dal soggetto pubblico, la Corte di giustizia ha ritenuto che vada applicato un canone di tipo quantitativo, sostenendo che per «in modo maggioritario» sia da intendersi «più della metà»: occorre tenere conto, quindi, della globalità delle entrate di cui il soggetto «finanziato» si avvale, applicando a valle di tale ricognizione il criterio percentuale.
[60] Cfr. l’art. 14, comma 01, r.C., secondo cui «ai Gruppi parlamentari, in quanto soggetti necessari al funzionamento della Camera, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dal Regolamento, sono assicurate a carico del bilancio della Camera le risorse necessarie allo svolgimento della loro attività». Dello stesso tenore l’art. 16, comma 1, r.S., il quale prevede che «ai Gruppi parlamentari è assicurata la disponibilità di locali, attrezzature e di un unico contributo annuale, a carico del bilancio del Senato, proporzionale alla loro consistenza numerica, per le finalità di cui al comma 2. Nell'ambito di tale contributo a ciascun Gruppo spetta comunque una dotazione minima di risorse finanziarie, stabilita dal Consiglio di Presidenza tenuto conto delle esigenze di base comuni ai Gruppi».
[61] Appare ormai pacifico il fatto che il gruppo parlamentare abbia una “vita” che duri dalla sua costituzione sino al termine della Legislatura, più il periodo di prorogatio (ossia fino al giorno precedente la prima riunione delle nuove Camere). In merito, P. Rescigno, L’attività di diritto dei Gruppi parlamentari, in Giur. cost., 1961, 307. Da ultimo, in giurisprudenza, si veda Cass. civ., Sez. lav., 4 gennaio 2018, n. 92, secondo cui «il gruppo parlamentare si costituisce e viene ad avere giuridica esistenza all'inizio di ogni legislatura e cessa al termine della stessa, in base alle norme dei rispettivi regolamenti di Camera dei deputati e Senato della Repubblica».
[62] Come prescritto dal d.lgs. n. 165 del 2001 (c.d. Testo Unico del pubblico impiego), il quale, all’art. 35, comma 1, prevede che l’assunzione nelle amministrazioni pubbliche può avvenire mediante procedure selettive, volte all’accertamento della professionalità richiesta e che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno. La disciplina della procedura concorsuale è dettata dal d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, e, come chiarito da Cons. St., Sez. II, 2 novembre 2012, n. 4583, trova applicazione diretta solo per i concorsi statali, mentre non assume efficacia cogente ed inderogabile per quelle amministrazioni (come l’Agenzia delle entrate) alle quali la legge riconosce e garantisce autonomia organizzativa, assoggettandole ad una disciplina derogatoria rispetto a quella applicabile alle amministrazioni dello Stato (potrebbe essere proprio questo, vista l’ampia autonomia normativa, organizzativa e finanziaria riconosciuta dai regolamenti, il caso dei gruppi parlamentari). Ad ogni modo, ai sensi del successivo art. 36 comma 2 d.lgs. n. 165 del 2001, le amministrazioni pubbliche, al solo fine di rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal Codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
[63] Come noto, nella contrattualistica pubblica, l’«aggiudicazione» rappresenta il momento con cui si conclude la fase di scelta del soggetto privato. Più precisamente, essa costituisce l’atto finale dei procedimenti di gara pubblica. Formalmente è l’atto amministrativo mediante il quale, in base alle risultanze della gara, è accertato e proclamato il vincitore. Dopo tale momento, in vista della stipulazione del contratto, ha inizio la fase c.d. privatistica, la cui conoscenza, in caso di controversie, è demandata alla giurisdizione ordinaria. Per ciò che qui rileva, è appena il caso di rammentare che il tema della capacità di diritto privato della P.A. ha registrato una ben precisa evoluzione. Si è assistito al passaggio da una pressoché totale negazione, in capo al soggetto pubblico, di un’effettiva autonomia privata, ad un suo progressivo riconoscimento, culminante nell’affermazione del suo carattere generale. Sul punto, non sembra potersi prescindere dalla considerazione dell’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990 (legge sul procedimento amministrativo), come modificato dalla legge n. 15 del 2005, a tenore del quale «la Pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente». Il riconoscimento della generale capacità di diritto privato della P.A. induce a ritenere applicabili alla stessa, salve esplicite deroghe, le regole di diritto comune. Gli addentellati normativi che confermano tale assunto appaiono individuabili: a) nell’art. 21-sexies, l. n. 241/1990, che conferma, in tema di recesso, il principio generale di soggezione dell’amministrazione al diritto comune; b) nell’art. 30, comma 8, d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale sancisce che «per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile».
[64] La qualifica dei gruppi parlamentari quali «espressioni istituzionali del pluralismo politico», è da ultimo ribadita in Corte cost., ord. n. 60 del 2020. Ma la giurisprudenza è granitica. Si vedano, anche, Corte cost., sentt. n. 174 del 2009; n. 193 del 2005; n. 298 del 2004 e n. 49 del 1998).