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Pubbl. Lun, 15 Mar 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

La proporzionalità del trattamento sanzionatorio: per la Corte costituzionale è legittima la rapina impropria

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Federica Coppola



Il presente lavoro si pone l´obiettivo di analizzare l´iter giuridico che ha condotto all´individuazione della portata del principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio in materia penale, quale principio autonomo e tale da incidere su una valutazione della irragionevolezza intrinseca della fattispecie. Si evidenzia, nell´ultima pronuncia della Corte costituzionale n. 190/2020, un sindacato più incisivo della Consulta sulle scelte delle sanzioni penali, in continua tensione con la necessità di evitare di sostituirsi alla discrezionalità legislativa in materia.


ENG This paper analyses the legal process that has introduced the principle of proportionality as an autonomous principle in our Constitution, overcoming the traditional interpretation that considered it as a corollary of other principles. In the last judgment of the Constitutional Court n. 190/2020 the principle of proportionality has involved a judicial review about the unreasonable coiche of criminal penalties, with the risk of prejudice for the political discretion of the legislative authority.

Sommario: 1. Il principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio nella ricostruzione storica della giurisprudenza costituzionale; 1.1. Premessa introduttiva; 1.2. Il filone ermeneutico antecedente alla storica sentenza della Corte cost. n. 236 del 2016; 1.3 L’approdo evolutivo con la pronuncia della Corte cost. n. 236 del 2016; 2. Le argomentazioni della Corte cost. nella sentenza n. 190 del 2020; 2.1 La fattispecie in esame di rapina impropria ex art. 628 co. 2 c.p.; 2.2. Le coordinate ermeneutiche dettate dalla giurisprudenza nell’ipotesi in oggetto; 3. Considerazioni conclusive sul principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio nella prospettiva ordinamentale complessiva. 

1. Il principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio nella ricostruzione storica della giurisprudenza costituzionale

1.1. Premessa introduttiva

Il principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio assurge, nel contesto ordinamentale complessivo, a principio cardine nell’analisi della legittimità costituzionale dell’impianto normativo.

Tale principio impone la determinazione di un trattamento sanzionatorio adeguato non solo ex ante, in astratto, attraverso una previsione legislativa congrua rispetto al disvalore penale del fatto, ma anche ex post, in concreto, permettendo al giudice di realizzare un’operazione di dosimetria della pena quanto più possibile capace di adattarsi alla eterogeneità dei fatti prospettabili nelle ipotesi soggette al loro giudizio[1].

In premessa deve farsi riferimento, quale fondamento della ricostruzione del principio anzidetto, all’art. 25 co. 2 Cost. il quale riserva, in via esclusiva, alla discrezionalità politica del legislatore le scelte di politica criminale concernenti la previsione delle pene conseguenti alla realizzazione di fatti penalmente rilevanti.

Il costrutto normativo del principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio si desume, in ragione della mancanza di un suo esplicito riconoscimento costituzionale, sulla base del percorso interpretativo in subiecta materia[2] ed in via indiretta dalla lettura in combinato disposto degli artt. 3, 25 e 27 Cost[3].

Il trattamento sanzionatorio, in altri termini, deve essere proporzionato e adeguato non solo al disvalore oggettivo e soggettivo del fatto penalmente rilevante, e quindi alla sua gravità concreta e alla pericolosità del soggetto agente, ma anche ai fini della realizzazione della funzione rieducativa della pena.

La sanzione deve essere, quindi, personalizzata, rectius individualizzata, in conformità al fatto in concreto realizzatosi e al reo autore dello stesso.

Riferimento normativo è altresì alla Carta di Nizza, in particolare all’art. 49 co. 3, dal quale si delineano i principi di legalità e proporzionalità dei reati e delle pene; in tal senso, le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato.

La norma citata fa espresso riferimento alle pene inflitte, e quindi in una prospettiva concernente l’agire del giudice, ma a priori è necessario che siano previste dal legislatore a monte delle cornici edittali proporzionate e che permettano al giudice di agire in tal senso nella sua opera interpretativa[4].

1.2. Il filone ermeneutico antecedente alla storica sentenza della Corte cost. n. 236 del 2016.

La Corte costituzionale, in epoca anteriore alla innovativa sentenza n. 236 del 2016, adottava orientamento restrittivo, cauto, delle c.d. rime obbligate[5], nel senso che considerava ammissibile una censura di incostituzionalità per violazione del principio di proporzionalità nel solo caso in cui ci fosse un’unica alternativa al trattamento sanzionatorio così prospettato, così da evitare che la Consulta potesse adottare una scelta discrezionale tra le più eterogenee soluzioni.

In sintesi, la Corte poteva intervenire solo se la soluzione della declaratoria di incostituzionalità era l’unica strada possibile per evitare disfunzioni del sistema tali da comportare l’applicazione di sanzioni manifestamente sproporzionate rispetto al disvalore del fatto illecito.  

Il vaglio di costituzionalità della norma si fondava esclusivamente sul raffronto tra le fattispecie astratte, nel senso che si poneva a raffronto la norma censurata di violazione del principio di proporzionalità rispetto ad altra norma, assunta quale termine di confronto omologo in termini di disvalore penale del fatto, per valutare la sussistenza di una disparità di trattamento tra i soggetti che risultassero soggetti alle pene in esse stabilite.

Il c.d. tertium comparationis, quale fattispecie da utilizzare per il raffronto nel vaglio della Corte così delineato, assurge a una fattispecie utile ai fini del sindacato sulla proporzionalità della pena in quanto omogenea dal punto di vista strutturale rispetto all’ipotesi denunciata[6].

In questi termini il sindacato di proporzionalità del trattamento sanzionatorio si ancorava al principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost., per il tramite del raffronto con una fattispecie omologa, nel senso di valutare la ragionevolezza[7] di una sanzione prevista da una fattispecie analoga ai fini di un giudizio di coerenza del sistema.

Si riteneva sproporzionata, dunque, la pena che avrebbe comportato una disparità di trattamento, sub specie violazione del principio di uguaglianza formale[8], tra soggetti responsabili di reati diversi connotati da omogeneo disvalore penale.

Emblematica la giurisprudenza della Corte cost. nella sentenza n. 50 del 1980 secondo cui l’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare

«proporzione rispetto alle personali responsabilità […]; ed il dubbio di illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della pena prevista, quest’ultima appaia “ragionevolmente” proporzionata all’intera gamma di comportamenti riconducibile allo specifico reato»[9].

Il c.d. tertium comparationis assurgeva, quindi, a fattispecie implicitamente considerata bilanciata ed in tal modo utilizzata dalla Consulta per verificare l’adeguatezza della fattispecie di cui ne veniva denunciata la incostituzionalità per violazione del principio di proporzionalità.

Tale metodo fu criticato quale fallace nella sua stessa impostazione prospettica, in quanto si lasciava scegliere al giudice rimettente una fattispecie considerata aprioristicamente bilanciata in base a scelte discrezionali dello stesso[10].

In altri termini, alla luce di tali coordinate ermeneutiche, si evidenziava una «dinamica triadica del controllo di proporzione»[11], ovverosia si valutava il rispetto del principio di proporzionalità in base ad un mero raffronto tra le due fattispecie all’attenzione della Corte, senza indagare profili contenutistici e sostanziali della scelta di politica criminale adottata dal legislatore nella delineazione dell’impianto sanzionatorio della fattispecie ex se denunciata di violazione del principio di proporzionalità.

In epoca antecedente alla massima valorizzazione del principio di proporzionalità, avvenuto con la sentenza n. 236 del 2016, quest’ultimo si considerava quale mero principio complementare ad altri principi cardine del sistema costituzionale, tant’è che la dottrina ne valorizza la sua valenza quale «complemento e in appoggio a qualunque altro principio costituzionale richiamato a parametro della Corte»[12].

È in ragione di tali considerazioni che si comprende come il vaglio di costituzionalità alla luce del rispetto del principio di proporzionalità debba leggersi in ragione del combinato disposto degli artt. 3, 27 co. 3, 25 co. 2 Cost., ovverosia valorizzando i principi di uguaglianza, del fine rieducativo della pena, nonché della legalità del reato e delle pene.

In questi termini emerge la rilevanza del principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio in un’ottica relazionale intrasistematica[13].

Lo stesso concetto di proporzione è concetto «poliedrico»[14] in quanto, nella sua accezione più ampia, «opera a vari livelli, fungendo da metro o indice dei modi di rilevanza dei diversi fattori che influiscono sull’an e il quantum della punibilità»[15].

La criticità che ha maggiormente limitato il sindacato della Corte costituzionale in subiecta materia emerge con riguardo al disposto dell’art. 25 co.2 Cost., norma che riconosce al solo legislatore il potere di predeterminare le norme che disciplinano i reati e le rispettive pene, in tal senso estranee al sindacato della Corte in quanto facenti parte del nucleo fondante la discrezionalità legislativa in materia di scelte di politica criminale.

Il ragionamento a tre fattori (fattispecie denunciata – c.d. tertium comparationis – violazione della disparità di trattamento) permetteva di evitare un vaglio a due (norma costituzionale - norma oggetto di sindacato)[16] che avrebbe creato frizioni con l’art. 25 co. 2 Cost., in quanto avrebbe permesso alla Consulta di agire a maglie più larghe, intervenendo17] su una dosimetria della pena che la stessa avrebbe considerato proporzionata.

In definitiva, ciò che si evidenzia nella disamina comparatistica tra il sindacato della Corte cost., in epoca antecedente e posteriore alla sentenza del 2016, risiede nel cambiamento della veduta prospettica della Corte.

Si palesa una rivisitazione del sindacato dei giudici della Consulta, i quali hanno superato un sindacato che coinvolgeva il parametro di proporzionalità del trattamento sanzionatorio quale fattore estrinseco, mero coefficiente che permette un riequilibrio formale delle cornici edittali di fattispecie omologhe, valorizzandone, invece, la consistenza di fattore intrinseco alla valutazione sostanziale di ragionevolezza nella dosimetria della pena nella singola fattispecie penale.

È in questi termini di valutazione sostanziale di ragionevolezza che emerge il riferimento al principio di offensività quale parametro per vagliare il disvalore penale del fatto[18].

La pena descritta dal legislatore, quindi, deve permettere di parametrare l’offensività del fatto realizzatosi in concreto coerentemente con la forbice edittale scelta dal legislatore, in ragione della considerazione che se la pena non è idonea in astratto a favorire una dosimetria della pena[19] congrua e coerente con il disvalore del fatto, ancor meno ne sarà capace il giudice nell’opera di bilanciamento in concreto.

La scelta della pena, altrimenti, è resa patologica ex ante e si colora in tal senso fino alla sua applicazione ex post, e cioè sin dalla scelta di politica criminale in astratto operata dal legislatore, la quale condiziona l’applicazione che in concreto ne fa il giudice[20].

Emerge in definitiva la necessità di bilanciare, tanto in sede normativa quanto applicativa, la species e il quantum di pena alla necessaria rieducazione del reo.

Si evidenzia l’eventualità che le scelte di incriminazione e di scelta del trattamento sanzionatorio del legislatore possano essere sindacate sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto

«il giudizio di incostituzionalità si snoda lungo i meandri e le sfumature di valutazioni contenutistiche, certo tipiche del discorso legislativo ma altrettanto indubbiamente consentite dal parametro di ragionevolezza»[21].

L’obiettivo, in sintesi, consiste nel rendere quanto più possibile autonomo il vaglio di costituzionalità rispetto al principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio, prescindendo cioè dal riferimento ad altri principi cardine dell’ordinamento giuridico che ne debbano sostenere il giudizio di legittimità. Si vuole cioè valorizzare tale principio, da considerare non più mero riferimento ancillare del sindacato della Corte ma cardine autonomo del ragionamento dei giudici in tal sede.

La questione concerne la necessità di affrancare il principio di proporzionalità dal giudizio di uguaglianza con riferimento al c.d. tertium comparationis.

La proporzionalità, quindi, deve considerarsi quale parametro non meramente estrinseco, da evidenziarsi nel rapporto con le altre fattispecie, ma quale fattore per sindacare la ragionevolezza intrinseca della fattispecie coerentemente al disvalore penale dell’eterogeneità dei fatti in essa sussumibili.

L’iter argomentativo della Corte costituzionale si evolve perché da un riferimento marginale alla proporzionalità, quale principio accessorio rispetto al sindacato incentrato sul principio di uguaglianza, si valorizza quale nucleo centrale delle argomentazioni della Corte.

In questi termini si spiega la linea ermeneutica della Consulta[22], la quale, nell’ottica tradizionale, si limitava ad un sindacato di incostituzionalità per violazione del principio di proporzionalità quale corollario alla violazione di altri principi costituzionali espressamente riconosciuti; a tale impostazione originaria si aggiunge una limitatezza del sindacato sovraesposto, in quanto circoscritto ad una mera coerenza sistematica della pena per la fattispecie soggetta al sindacato rispetto ad altre fattispecie ad essa considerate omogenee, prescindendo da valutazioni sostanziali inerenti alla ragionevolezza della formula incriminatrice.

In definitiva, il problema è riconoscere espressamente l’autonoma giustiziabilità[23] del principio di proporzionalità in materia penale, svincolandolo cioè dal sindacato di ragionevolezza – proporzione ex art. 3 Cost. di carattere meramente relazionale, ma sviscerando valutazioni contenutistiche nella scelta della pena per la specifica fattispecie denunciata.

1.3. L’approdo evolutivo con la pronuncia della Corte cost. n. 236 del 2016

Nell’ipotesi in esame all’attenzione dei giudici della Consulta si pose la questione dei limiti al controllo della Corte costituzionale su scelte sanzionatorie compiute dal legislatore[24]. La problematicità concerne la possibilità che la Corte potesse intervenire per censurare scelte sanzionatorie del legislatore che non permettessero al giudice di determinare in concreto una pena in linea con il principio di proporzionalità[25].

Limite evidente ictu oculi alla questione in esame concerne la necessità di evitare che la Corte costituzionale possa sindacare spazi riservati alla discrezionalità politica esclusiva del legislatore per esplicita previsione di legge ex art. 25 co.2 Cost, in base cioè a scelte ad essa proprie di politica criminale.

In tale sentenza si precisa che

«è costante, nella giurisprudenza costituzionale, la considerazione secondo cui l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale e a quella di tutela delle posizioni individuali»

Da tali considerazioni emerge chiara l’interconnessione tra il rispetto del principio di cui all’art. 3 Cost. con la realizzazione della funzione general-preventiva della pena, quale capacità deterrente della pena nel dissuadere i consociati dalla realizzazione di comportamenti delittuosi, nonché special-preventiva, quale pena avvertita giusta dal reo a fini del suo reinserimento sociale.

Altresì, per quanto riguarda l’art. 27 co. 3 Cost., si specifica che

«il principio di proporzionalità esige un’articolazione legale del sistema sanzionatorio che renda possibile l’adeguamento della pena alle effettive responsabilità personali, svolgendo una funzione di giustizia»[26].

In particolar modo, si enfatizza lo stretto rapporto valoriale tra principio di proporzionalità e principio di colpevolezza, nell’ottica di considerare il primo quale necessario corollario del principio della responsabilità penale colpevole, tant’è che il principio di colpevolezza comporta che «è inammissibile una pena al di sopra della misura della colpevolezza» così come «la pena non può tendenzialmente risultare inferiore alla misura della colpevolezza»[27].

Con la sentenza n. 236 del 2016 la Corte costituzionale amplia e segue la tendenza a garantire un intervento più incisivo della Consulta rispetto ad ipotesi di censure di sproporzione del trattamento sanzionatorio.

In questa sede i giudici della Consulta delineano una serie di prescrizioni fondamentali alle quali il sindacato di proporzionalità del trattamento sanzionatorio deve conformarsi. Il principio di proporzionalità assurge, alla luce di tali coordinate ermeneutiche, a canone di incostituzionalità autonomo della fattispecie capace di incidere in nuce sulla irragionevolezza della previsione legislativa rispetto al disvalore penale del fatto. In particolare:

a) è necessario individuare nella fattispecie esaminata classi di ipotesi fattuali o sotto-fattispecie di minore disvalore, ovvero categorie di condotte criminose che possano rientrare nella fattispecie ma che siano obiettivamente di minore disvalore, così da apparire incongruo il loro disvalore rispetto al trattamento sanzionatorio, in particolare rispetto al minimo edittale[28];

b) di seguito, occorre verificare, partendo dal minimo edittale e considerando le possibili attenuanti applicabili alla fattispecie, se sia possibile giungere ad una pena congrua rispetto alle sotto-ipotesi di minore gravità in precedenza evidenziate;

c) in ultimo, ai fini della valutazione di congruità della pena così determinata, deve utilizzarsi il c.d. tertium comparationis, nel senso di valutare le fattispecie simili od omologhe per valutare la paventata sproporzionalità della pena così calcolata[29].

Dalle argomentazioni utilizzate dalla Consulta emerge una valorizzazione del principio di proporzionalità della pena in quanto non più limitato a corollario di altri principi, ed ancorato al dato del c.d. tertium comparationis, ma quale principio cardine di un ragionamento contenutistico e valoriale nell’ottica prospettica della coerenza tra l’offensività del fatto e la dosimetria della pena[30].

Ciò che emerge, in definitiva, è la necessità di concentrare l’indagine del rispetto del principio di proporzionalità della pena sul versante contenutistico, argomentativo, sostanzialistico, piuttosto che su dettagli tecnico – giuridici che rischiano frizione con l’insindacabilità delle scelte di politica criminale spettanti al legislatore[31].

Il pregio della sentenza risiede nell’aver motivato la illegittimità costituzionale prescindendo da un mero riferimento alla disparità di trattamento sanzionatorio conseguente al riferimento del c.d. tertium comparationis, ma enfatizzando l’irragionevolezza intrinseca alla previsione della pena quale violazione della finalità rieducativa della pena ex art. 27 co. 3 Cost[32].

Nella sentenza in esame la sproporzione del trattamento sanzionatorio si evidenzia quale patologia interna alla delineazione della fattispecie e sulla base del diretto confronto tra i profili del fatto, in termini di offensività e colpevolezza, e la cornice edittale delineata dal legislatore.

In definitiva,

«il giudizio, ora, assume una struttura bifasica in cui la verifica del rapporto di proporzione tra reato e pena interno alla fattispecie precede (senza più esservi subordinata) il tradizionale raffronto col tertium comparationis[33]».

In tal sede, infatti, la Corte costituzionale utilizza il canone del c.d. tertium comparationis non ex ante quale indice necessario ai fini di una valutazione di sproporzione del trattamento sanzionatorio rispetto a fattispecie omologhe in termini di disvalore penale, ma quale mero strumento, da utilizzare successivamente al sindacato intrinseco della norma, per individuare il trattamento sanzionatorio più idoneo a disciplinare le fattispecie censurate di incostituzionalità[34].

Permane, dunque, il ruolo fondante del raffronto con il c.d. tertium comparationis, quale criterio utile ai fini della successiva individuazione della cornice edittale idonea a delineare un trattamento sanzionatorio proporzionato rispetto al disvalore dei fatti considerati[35].

In questi termini può dirsi che

«il giudizio di proporzione per irragionevolezza intrinseca, di per sé povero di punti di riferimento chiari, si precisa ed acquista evidenza in rapporto ad una sorta di processo di concretizzazione»[36].

È proprio la corretta individuazione del c.d. tertium comparationis che permette di identificare la disciplina sanzionatoria sostitutiva che permette di evitare di «tracimare nel campo della discrezionalità legislativa»[37].

È l’omogeneità delle fattispecie, quale presupposto per l’individuazione del c.d. tertium comparationis, che delinea quelle c.d. rime costituzionalmente obbligate nelle quali si muove il sindacato di legittimità costituzionale della Consulta.

Può dirsi, in definitiva, che le argomentazioni della Corte costituzionale nella sentenza del 2016 si pongono quale antecedente cui si conforma la Consulta nel 2020 nell’escludere l’illegittimità costituzionale dell’art. 628 co. 2 c.p. in relazione alla violazione del principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio.

2. Le argomentazioni della Corte cost. nella sentenza n. 190 del 2020

2.1. La fattispecie in esame di rapina impropria ex art. 628 co. 2 c.p.

L’art. 628 c.p. rubricato “Rapina” prevede nella sua formulazione, rispettivamente ai co. 1 e 2 della disposizione, due diverse fattispecie criminose di c.d. rapina propria e impropria.

A latere delle specifiche connotazioni delle due ipotesi di reato, nucleo comune della norma incriminatrice è la qualificazione della fattispecie quale reato complesso, la cui definizione si ravvisa all’art. 84 c.p.

Trattasi di reato complesso quella fattispecie incriminatrice che consta, quali elementi costitutivi o circostanze aggravanti, fatti che costituirebbero per sé stessi reato.

Nella peculiare ipotesi di cui all’art. 628 c.p. la riunione di più reati quali elementi costitutivi di un unicum dà luogo ad un nuovo titolo di reato; in questa fattispecie, infatti, la rapina (art. 628 c.p.) è composta dal furto (art. 624 c.p.) e dalla violenza privata (art. 610 c.p.).

Per il tramite dell’istituto del reato complesso, così come si evince dal dictum dell’art. 84 c.p., si evita che l’interprete applichi il regime giuridico del concorso di reati laddove il legislatore abbia proceduto ad una unificazione normativa dei fatti che integrerebbero di per sé autonomi reati[38].

In altri termini, quindi, le due figure autonome di reato vengono considerate quale unica fattispecie dal punto di vista normativo, disciplinatorio e ontologico, in quanto facenti parte di un iter criminis unitario.

Trattasi di scelta di politica criminale volta a sanzionare diversamente il reo che compia due fattispecie criminose in un iter criminis caratterizzato da un proprio e diverso disvalore penale, anziché applicare il concorso dei due reati autonomi[39].

Il reato complesso si apprezza, quindi, «non nella semplice somma dei due illeciti, ma nella loro fusione secondo determinati nessi e schemi[40]».

Nella rapina propria, di cui all’art. 628 co. 1 c.p., la violenza privata precede il furto (la violenza, cioè, è commessa al fine di impossessarsi di cosa altrui), mentre nella rapina impropria, rispettivamente al co. 2 dell’art. cit., è il furto che precede la violenza privata (quest’ultima, infatti, è commessa al fine di assicurarsi il possesso della cosa sottratta o per assicurarsi l’impunità per il furto commesso).

Trattasi di fattispecie «simmetriche a parti invertite»[41], nel senso di comporsi degli stessi elementi, ovverosia violenza e minaccia.

Date tali premesse possono essere analizzate le singole figure di reato complesso rispettivamente ai co. 1 e 2 dell’art. 628 c.p.

L’ipotesi di rapina propria è disciplinata al co. 1 dell’art. 628 c.p. e punisce chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene.

Per quanto concerne il soggetto attivo autore del reato, trattasi di reato comune, suscettibile quindi di consumazione ad opera del quisque de populo.

Dal punto di vista oggettivo è necessario che si realizzino le due fattispecie di violenza e minaccia di cui all’art. 610 c.p. e il furto di cui all’art. 624 c.p. Per quanto riguarda i singoli elementi costitutivi, il furto si ravvisa nell’impossessamento e sottrazione della cosa mobile altrui; per violenza si intende l’energia fisica per vincere ostacolo reale o supporto, mentre per minaccia si considera il pregiudizio minacciato al fine di turbare o diminuire la libertà psichica o morale.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, invece, la fattispecie richiede il dolo, ovverosia la rappresentazione e previsione di tutti gli elementi costitutivi del reato.

La fattispecie, in ultimo, si considera tradizionalmente consumata con l’impossessamento della res[42].

L’ipotesi di rapina impropria, invece, si delinea al co. 2 dell’art. 628 c.p., il quale espressamente dispone che soggiace alla stessa pena, prevista per il co. 1 dell’art. cit., colui che adoperi violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione della res, per assicurare a sé od altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé od altri l’impunità.

Vi è una totale sovrapponibilità della fattispecie in punto di elemento oggettivo, nel senso di formarsi anch’essa dalla combinazione delle due autonome figure di reato della violenza o minaccia e del furto.

La differenza risiede nel fatto che cambia la consecutio temporum dell’iter criminis.

In sintesi, e richiamando quanto suddetto, trattasi di rapina propria quando l’impossessamento risulti contestuale alla violenza o minaccia alla persona ai fini della sottrazione della res, trattasi, invece, di rapina impropria quando la violenza e minaccia è adoperata immediatamente dopo la sottrazione.

Punctum dolens della fattispecie di rapina impropria è la definizione dell’espressione “immediatamente dopo”. L’interpretazione maggioritaria sul punto ritiene che tale locuzione non debba intendersi in senso letterale, ovvero considerando l’assenza di una soluzione di continuità meramente temporale tra le due fasi. Tale formula, invece, comporta la necessità che debba esservi, tra la sottrazione della cosa e la violenza o minaccia successiva, uno stretto legame tanto psicologico quanto temporale. Immediatezza, in sintesi, non come mera continuità temporale ma quale nesso di contestualità dell’azione complessiva[43].

In numerose occasioni, infatti, la giurisprudenza ha tentato di concretizzare l’espressione “immediatamente dopo” richiamando i concetti di flagranza o quasi flagranza di cui art. 382 co. 3 c.p.p[44].

La fattispecie di rapina impropria si considera, alla luce di tali considerazioni, una c.d. fattispecie a tempo «circoscritto» o «vincolato»[45].

Tra le questioni maggiormente problematiche connesse alla configurazione della fattispecie di rapina impropria si considera la configurabilità o meno del tentativo di rapina impropria (di cui al combinato disposto degli artt. 56 e 628 co. 2 c.p.).

La dottrina è sempre stata contraria all’ammissibilità del tentativo di rapina impropria, considerando invece configurabile, in alternativa, l’ipotesi di concorso tra furto tentato e violenza privata consumata. La negazione dell’ammissibilità del tentativo nella rapina impropria si fondava sulla considerazione che un’eventuale configurabilità della rapina impropria tentata avrebbe comportato un eccessivo rigore sanzionatorio. A latere di tale considerazione ontologica, la dottrina sottolineava come fosse necessario, per configurare la rapina impropria, la realizzazione dell’impossessamento, in quanto la stessa norma utilizza l’espressione “immediatamente dopo la sottrazione”, a contrario difficilmente configurabile nell’ipotesi di tentativo. In questi termini, l’interpretazione della dottrina si caratterizzava quale lettura ermeneutica strettamente letterale della norma di cui all’art. 628 c.p.

Per la giurisprudenza, invece, la fattispecie di rapina impropria si riteneva configurabile anche se non si perfezionava la sottrazione, e ciò alla luce di una lettura sistematica ed estensiva della norma. Tale opzione ermeneutica valorizzava la natura della fattispecie quale reato complesso che deve essere considerato un unicum non scindibile nei suoi presupposti, di talché non poteva essere considerato autonomamente il presupposto della sottrazione ex se.

La Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata sulla questione circa la ammissibilità del tentativo di rapina impropria con la sentenza n. 34952 del 2012, avallando la giurisprudenza maggioritaria che riteneva ammissibile il tentativo nell’ipotesi in esame.

Il tentativo di rapina impropria, in definitiva, si ritiene ammissibile non solo se è consumato l’uno o l’altro reato considerato quale elemento costitutivo della fattispecie, ma altresì nel caso in cui non sia consumato nessuno dei due, in quanto bisogna fare valutazione complessiva della fattispecie senza considerare i singoli segmenti del fatto[46].

La ammissibilità del tentativo di rapina impropria conferma la necessità, da sempre paventata dagli interpreti, di dover considerare il reato complesso un unicum non scindibile nelle sue singole componenti, altrimenti si andrebbe contro la ratio legis della norma nella scelta di politica criminale del legislatore.

2.2 Le coordinate ermeneutiche dettate dalla giurisprudenza nell’ipotesi in oggetto

Con la sentenza n. 190 del 2020 la Corte costituzionale cristallizza l’approccio ermeneutico adottato teso ad utilizzare il c.d. tertium comparationis quale elemento a sostegno del sindacato di legittimità, ma indice non sufficiente o dirimente ai fini della valutazione della proporzionalità del trattamento sanzionatorio, in quanto mero fattore a sostegno di una analisi incentrata sull’offensività della fattispecie coerentemente al parametro edittale di pena[47].

Le criticità prospettate dagli interpreti con riferimento alla fattispecie della c.d. rapina impropria si sono accentuate a fronte degli interventi legislativi che si sono succeduti nell’ottica dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio di tale ipotesi criminosa.

La ratio dei limiti edittali elevati per il reato in esame corrisponde ad una risposta del legislatore all’istanza di allarme sociale quale scelta di politica criminale[48].

In sintesi, prima dell’intervento della l. n. 103 del 2017 la cornice edittale del reato di rapina prevedeva un minimo da tre anni ad un massimo di dieci anni. Con l’intervento della legge citata si intervenne sul mero limite edittale minimo, elevandolo a quattro. Allo stesso modo si intervenne con la successiva l. n. 36 del 2019, la quale aumentò il minimo di pena a cinque anni.

L’illegittimità paventata dinanzi alla Corte costituzionale si evidenzia con riferimento agli artt. 3, 25 co. 2, 27 co. 3 e 117 Cost., da leggere in combinato disposto con l’art. 49 CEDU.

Le doglianze dei giudici rimettenti possono essere così riassunte.

Per quanto riguarda la violazione dell’art. 3 Cost., si considera la fattispecie di rapina impropria meno grave della rapina propria per quanto riguarda sia l’aspetto oggettivo che soggettivo del reato complessivamente considerato. Nell’ipotesi c.d. propria del reato di rapina la violenza e minaccia sono preordinati alla sottrazione della res e la consumazione si realizza con lo spossessamento; in ragione di tali considerazioni, l’iter criminis non appare lo stesso del co.2, che invece prescinde dall’evento dell’impossessamento e la violenza e minaccia si realizzano successivamente, senza preordinazione. Si aggiunga che il requisito dell’immediatezza nelle due componenti della fattispecie si ritiene, ad opera dei giudici rimettenti, inidoneo a legittimare lo stesso trattamento sanzionatorio. Secondo i giudici rimettenti, infatti, è palese una «diversa e meno grave struttura oggettiva del reato e diverso atteggiamento soggettivo quanto ad intensità del dolo e capacità a delinquere».

Con riferimento all’art. 25 co. 2[49] Cost., da leggere in combinato disposto con l’art. 27 co. 3 Cost.[50], si valorizzano i principi di offensività della fattispecie e di proporzionalità del trattamento sanzionatorio ai fini rieducativi della pena.

Il principio di proporzionalità della pena, infatti, deve leggersi in ragione della gravità del fatto in punto di offensività, quale «regola di carattere qualitativo in quanto mette in correlazione la qualità della tutela, penale e incidente sulla libertà personale, con la qualità, costituzionale, del bene giuridico»[51], nonché del fine rieducativo della pena che deve realizzarsi ex art. 27 co. 3 Cost. 

In definitiva, il rispetto di tale principio deve valutarsi ex ante, con riferimento alla pena edittale prevista dal legislatore nella fattispecie astratta, ed ex post in ragione della pena in concreto applicabile dal giudice per il rispetto del fine rieducativo della stessa.

Le critiche paventate dai giudici rimettenti afferiscono alla irrazionalità della scelta legislativa di sottoporre al medesimo trattamento sanzionatorio due fattispecie connotate da un diverso grado di offensività al bene giuridico tutelato, in ragione delle riflessioni sovraesposte circa le modalità concrete di realizzazione del fatto. Tali considerazioni sono inevitabilmente interconnesse con lo svilimento della funzione special preventiva della pena, in quanto risulta difficile per il reo considerare giusta una pena sproporzionata rispetto al fine rieducativo cui essa deve propendere.

Per i giudici rimettenti, infatti, l’equivalenza del trattamento sanzionatorio palesa «una vistosa indifferenza rispetto alle caratteristiche concrete del fatto», tant’è che «la disposizione (…) si rivela una disposizione “rozza” in cui tutto viene sacrificato sull’altare della “esemplarità” sanzionatoria». In definitiva, quindi, il disposto dell’art. 628 co. 2 c.p. in punto di determinazione della pena non può considerarsi «risposta sanzionatoria proporzionata»

I giudici rimettenti asseriscono che «non c’è bisogno dell’art. 628 co. 2 c.p.» nell’impianto normativo.

A tale conclusione giungono in ragione delle riflessioni suindicate ed a fronte della possibilità di sussumere i fatti astrattamente riconducibili al reato di cui all’art. 628 c.p. più adeguatamente nell’ipotesi di concorso di reati tra furto seguito da minaccia e violenza.

La differenza in punto di trattamento sanzionatorio tra l’ipotesi concorsuale di furto e violenza e quella di cui all’art. 628 c.p. appare irragionevole alla luce di quello che si presenta come unico elemento di discrimen, ossia l’immediatezza contestuale tra le due figure criminose. Si sottolinea, in particolar modo, l’inadeguatezza di tale elemento descrittivo ai fini di una obiettiva differenziazione tra i fatti sussumibili nelle ipotesi su delineate. Si aggiunga che tale differenziazione dipende, quindi, da un’espressione di per sé vaga ed incerta, qual è il concetto di immediatezza.

In questi termini, quindi, i rimettenti chiedono l’ablazione della fattispecie di cui all’art. 628 co. 2 c.p.

La Corte costituzionale si è espressa sulla questione dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 Cost., ed inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 117 co. 1 Cost. in relazione all’art. 49 CEDU (per mancanza di motivazione specifica sul punto da parte del giudice rimettente).

Per quanto riguarda la paventata violazione dell’art. 3 Cost., la Corte ha evidenziato come non vi sia alcuna irragionevole eguaglianza tra il co. 1 e il co 2 dell’art. 628 c.p. in quanto

«in entrambi i casi si tratta di condotte consapevoli e volontarie, in cui l’oggetto del dolo comprende, sia l’impossessamento della cosa mobile altrui, sia il ricorso alla violenza o alla minaccia (…) le condotte sono considerate nel contesto unitario di una medesima aggressione patrimoniale».

Allo stesso modo

«possono ritenersi situazioni variabili in punto di dolo e, più in generale, di capacità criminale desumibile dal fatto»; si tratta cioè di situazioni «diverse in fatto ma non distinguibili in principio».

Secondo la Corte, quindi, la ragionevolezza della equivalenza del trattamento sanzionatorio delle condotte di cui al co. 1 e co. 2 dell’art. 628 c.p. risiede nel fatto che le stesse si inseriscano in una condotta complessiva connotata dallo stesso disvalore penale.

Si valorizza, cioè, il requisito dell’immediatezza, quale contestualità e strumentalità tra violenza privata e lesione patrimoniale, quale discrimen che permette di differenziare ragionevolmente il co. 2 dell’art. 628 c.p. dalla fattispecie concorsuale di furto seguito da violenza o minaccia.

In sintesi, secondo la Corte, è il contesto nel quale si inseriscono le due figure criminose del reato complesso (furto - minaccia e violenza) che legittimano l’equiparazione della pena della rapina propria e impropria, così distinguendo tale fattispecie rispetto all’ipotesi di mero concorso di reati.

È il contesto dell’immediatezza nell’iter criminis, così come delineato, che connota e qualifica il disvalore penale complessivo del fatto di reato di cui all’art. 628 c.p.

La denunciata equivocità del concetto di immediatezza è contestata dalla Consulta a fronte dell’opera ermeneutica realizzata dalla giurisprudenza uniforme nel corso della parabola evolutiva in subiecta materia.

Secondo la Consulta, in definitiva, è ragionevole considerare equivalente il trattamento sanzionatorio cui soggiacciono le ipotesi di cui al co. 1 e co. 2 dell’art. 628 c.p., in quanto connotate dallo stesso disvalore penale, e la differenziazione in concreto potrà essere fisiologicamente realizzata con l’operazione di dosimetria della pena ex art. 133 c.p. nella cornice edittale così stabilita.

È il disvalore penale della fattispecie connotata dagli elementi della immediatezza e della contestualità, i quali surrogano alla mancanza dello spossessamento, che giustifica l’equiparazione del trattamento sanzionatorio rispetto all’ipotesi della c.d. rapina propria.

L’imperfetta coincidenza degli elementi strutturali dei reati di rapina c.d. propria e impropria non comporta necessariamente e automaticamente un diverso trattamento sanzionatorio, né il trattamento sanzionatorio ex art. 628 co. 2 c.p. risulta ex se manifestamente irragionevole.

La Corte costituzionale esprime, in ultimo, un monito al modus operandi del legislatore che si muove nell’ottica dell’inasprimento delle sanzioni penali quale scelta primaria di politica criminale. Dal dictat della Consulta si legge che

«la pressione punitiva attualmente esercitata riguardo i delitti contro il patrimonio è ormai diventata estremamente rilevante. Essa richiede perciò attenta considerazione da parte del legislatore alla luce di una valutazione, complessiva e comparativa, dei beni giuridici tutelati dal diritto penale e del livello di protezione loro assicurato».

3. Le considerazioni conclusive sul principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio nella prospettiva ordinamentale complessiva

La parabola evolutiva concernente il principio di proporzionalità ha avuto ad oggetto diverse fasi, le quali possono essere analizzate rispettivamente nella prospettiva antecedente alla sentenza del 2016, nella soluzione raggiunta in tal sede, per poi giungere alla soluzione interpretativa desunta dalla sentenza n. 190 del 2020 della Corte costituzionale.

Nella impostazione ermeneutica tradizionale si delineava un approccio formalistico del sindacato giudiziale circa la violazione del principio di proporzionalità del trattamento sanzionatorio in materia penale, incentrato sul mero ricorso al c.d. tertium comparationis, in quanto principio non autonomo ma corollario del principio di uguaglianza formale, da ravvisarsi in concreto nella disparità delle cornici edittali delle sanzioni.

Tale ricostruzione è stata superata dall’opzione interpretativa cristallizzatasi nella sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2016, la quale ha valorizzato una metodologia di controllo della violazione del principio di proporzionalità di natura sostanziale, enfatizzandone la valenza di principio autonomo del sistema. La Consulta si premura di delineare un decalogo utile a procedimentalizzare il controllo sulla irragionevolezza intrinseca del trattamento sanzionatorio nelle ipotesi di cui si paventa la censura costituzionale, relegando il criterio del c.d. tertium comparationis a mero indice per individuare la cornice edittale da sostituire in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della rispettiva sanzione.

La sentenza della Corte costituzionale n. 190 del 2020 conferma e completa il percorso evolutivo in subiecta materia, identificando il disvalore penale del fatto, corrispondente alla sanzione di cui si censura la illegittimità, quale oggetto del sindacato circa la violazione del principio in esame. Il c.d. tertium comparationis ivi assume la funzione di pietra ancillare a sostegno di un ragionamento sostanziale e valoriale della fattispecie penale, non meramente riconducibile ad una disparità quantitativa della cornice edittale rispetto ad una fattispecie omologa in astratto.


Note e riferimenti bibliografici

1] V. sul punto F. MAZZACUVA, Il principio di proporzionalità delle sanzioni nei recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale: le variazioni sul tema rispetto alla confisca, in La legislazione penale, 14. 12. 2020, p. 1, secondo cui «il principio di proporzionalità illumina da diverse angolazioni la materia penale, sovrintendendo tanto la selezione dei fatti illeciti alla luce degli interessi tutelati (…) quanto la determinazione dell’entità (ossia della misura, ma anche della tipologia) delle sanzioni». V. altresì C. GIOVANNINI, Il principio di proporzionalità: genesi, sviluppo e applicazioni pratiche, in De Iustitia n. 4/2019, p. 3, secondo cui trattasi di «principio endemico, che è entrato nel tessuto connettivo dell’ordinamento e che si riflette sulla correttezza dell’operato legislativo prima, giurisprudenziale poi».

[2] Cfr. in tema F. PALAZZO, Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale, in Principi, regole, interpretazione, contratti e obbligazioni, famiglia e successioni, Scritti in onore di Giovanni Fargiuele, a cura di G. CONTE e S. LANDINI, vol. I, Mantova, 2017, p. 321, secondo cui «un principio dal volto così poliedrico e duttile come quello di proporzione trova fatalmente nell’elaborazione giurisprudenziale la fonte effettiva del suo contenuto».

[3] V. sulla questione G. LEO, Politiche sanzionatorie e sindacato di proporzionalità, in Dir. pen. cont., 22.2.2017, p. 4, il quale evidenzia come al principio di proporzionalità si riconosca, pur se la Costituzione non ne faccia esplicito riconoscimento, «il rango di tratto fondamentale nel disegno che raffigura il volto costituzionale dell’illecito penale». Sul punto v. altresì M. CARTABIA, Ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Il costituzionalista riluttante, a cura di A. GIORGIS, E. GROSSO e J. LUTHER, Torino, 2016, p. 463, secondo cui il principio di proporzionalità si valorizza a «complemento e in appoggio a qualunque altro principio costituzionale».

[4] Cfr. R. SICURELLA, Art. 49 Carta dei diritti fondamentali dell’UE, a cura di R. MASTROIANNI – O. POLLICINO – S. ALLEGREZZA – F. PAPPALARDO – O. RAZZOLINI, Milano, 2016, p. 998, evidenzia la capacità potenziale del principio di proporzione del reato e delle pene per incentivare la tendenza al riconoscimento di un’autonomia dello stesso quale canone di ragionevolezza intrinseca della fattispecie.

[5] Espressione in V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, vol. II, Padova, 1984 p. 402 e ss., per descrivere le ipotesi in cui la Consulta non crea ex novo ma rende esplicito ciò che si desume palesemente dai dettati costituzionali.

[6] Con riferimento al tertium comparationis D. PULITANO’, Ragionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, pp. 46 - 47, secondo cui in merito al sindacato di ragionevolezza delle pene edittali, alla luce del principio di uguaglianza, possono emergere solo questioni di «coerenza assiologica delle pene edittali previste da norme appartenenti ad un dato sottosistema, o relative a fattispecie regolanti la stessa materia».

[7] Sul punto v. C. GIOVANNINI, Il principio di proporzionalità: genesi, sviluppo e applicazioni pratiche, op. cit., p. 2, secondo cui «siffatto principio è frequentemente affiancato a quello della ragionevolezza o trattato come sineddoche (…) in grado di convertire l’astrattezza della ragione in concretezza della proporzione».

[8] Cfr. G. LEO, Politiche sanzionatorie e sindacato di proporzionalità, op. cit., p. 5, secondo cui la proporzionalità assurge a «parametro occulto (…) profilo del principio di uguaglianza nella sua dimensione formale». Secondo l’A., infatti, «per lungo tempo le censure fondate sul principio di proporzionalità sono rimaste assorbite, in modo più o meno formale, da quelle incentrate sul principio di uguaglianza». Sul punto v. altresì O. DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale in un caso facile. A proposito della sent. 394 del 2006 sui falsi elettorali, in Riv. it. dir. proc. pen., n.1/2007, pp. 100 e ss., il quale evidenzia l’attitudine della Corte costituzionale ad un «giudizio trincerato sulla disparità di trattamento».

[9] Nella stessa sentenza la Corte cost. continua specificando che, con riferimento al rispetto del disposto di cui all’art. 27 co. 3 Cost., «l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità», enfatizzando la necessità che la valutazione di proporzionalità si realizzi tramite un approccio relazionale alle fattispecie omogenee, realizzando così una coerenza sistemica delle scelte punitive del legislatore.

[10] Cfr. O. DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte cost. in un caso facile. A proposito della sentenza n. 396 del 2016 sui falsi elettorali, op. cit., p. 120, secondo cui lo schema «tricuspide appare un mascheramento di valutazioni ancora più arbitrarie rispetto al mero doppio binario norma oggetto di sindacato – norma costituzionale».

[11] In questi termini I. GRIMALDI, Il principio di proporzionalità della pena nel disegno della Corte Costituzionale, in www.giurisprudenzapenaleweb.it, n.5/2020, pp. 1 e ss.

[12] In tal senso M. CARTABIA, Ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, op. cit., p. 463. Altresì V. MANES, Attualità e prospettive del giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. It. dir. proc. pen., n.2-3/2007, pp. 761 – 762, secondo cui il principio di proporzionalità assurge a «limbo concettuale».

[13] Sul punto S. COGNETTI, Il principio di proporzione, profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011, p. 50, secondo cui «nella scienza giuridica la proporzione stessa costituisce metodo imprescindibile di dosaggio e distribuzione – a livello legislativo, giurisdizionale e amministrativo – dell’uguaglianza nella valutazione dei presupposti applicativi di regole astratte ai soggetti destinatari». Altresì G. INSOLERA, Principio di uguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in Aa. Vv., Introduzione al sistema penale, vol. I, Torino, 2012, pp. 394 e ss., secondo cui «la tematica tradizionale della commisurazione della pena al delitto, della “scala penale”, non può essere infatti affrontata in termini assoluti, implicando necessariamente rapporti intra – sistematici e di congruità relativa che attraversano tutti i connotati di un diritto penale coerente con la Costituzione. Dall’assetto gerarchico dei beni, alla dimensione dell’offesa, al grado della sua realizzazione, in termini di pericolo o di danno, alla colpevolezza».

[14] Sulla «poliedricità» del concetto di proporzione G. INSOLERA, Democrazia, ragione e prevaricazione, Milano, 2003, pp. 36 - 38.

[15] In questi termini F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pp. 165 - 166.

[16] Sentenza emblematica in materia è Corte cost. n. 341 del 1994, sentenza con la quale si superò il mero raffronto intrasistematico tra fattispecie normative, avallando invece lo schema binario del raffronto tra principio di proporzionalità e norma censurata. In particolare la sentenza, in ragione del combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., condusse a «negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) e alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni».

[17] Emblematica è la riflessione di A. PAGLIARO, Sproporzione “irragionevole” dei livelli sanzionatori o sproporzione “irrazionale”, in Giur. cost., 1997, pp. 774 e ss., secondo cui il modus operandi cauto della Consulta è dovuto «alla difficoltà di razionalizzare il passaggio dal piano qualitativo delle valutazioni […] al piano quantitativo della misura della pena […]. La Corte […] non potrà mai razionalizzare in termini rigidi la traduzione quantitativa, l’espressione numerica […]».

[18] V. Corte cost. n.313 del 26.06.1990, in Foro. It,1990, I, p. 2385, con nota di G. FIANDACA, Pena “patteggiata” e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale, in Foro It., I, 1990, p. 2385, secondo cui «la Corte sembra implicitamente cogliere il nesso intercorrente tra prevenzione speciale rieducatrice e proporzione tra fatto e sanzioni: nel senso cioè che la proporzione fra trattamento e gravità dell’offesa, avvertita come tale dal reo, costituisce presupposto essenziale della potenziale accettazione psicologica di una punizione volta a favorire al condannato il recupero della capacità di apprezzare i valori tutelati dall’ordinamento».

[19] Sulle problematiche inerenti alla comminatoria edittale di pena G. MANNOZZI, Razionalità e “giustizia” nella commisurazione della pena: il just desert model e la riforma del sentencing nordamericano, Padova, 1996, pp.22 e ss., include il «dosaggio della comminatoria» tra le problematiche fondamentali della dottrina penalistica nell’ottica di una riforma globale del sistema sanzionatorio.

[20] Una prima considerazione in tal senso emerge da Corte cost. sentenza n. 313/90 definita «storica» secondo E. DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 797 e ss. (811), secondo cui «la necessità costituzionale che la pena deve tendere a rieducare […] indica proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»; in tale dictum della Corte emerge l’espresso riconoscimento del «principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra».

[21] In questi termini F. C. PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, p.2. Sul punto v. altresì G. LEO, Politiche sanzionatorie e sindacato di proporzionalità, op. cit., p. 11, secondo cui «vi sono situazioni nelle quali l’esigenza di ripristino della legalità costituzionale rende flessibili gli stessi confini di intangibilità dei margini riservati alla discrezionalità del legislatore penale». Sul punto v. altresì A. MORRONE, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamento e legittimazione politica della Corte cost., in Quad. Cost. n. 2/2019, p. 254, secondo cui il risultato dell’attività manipolativa della Corte cost. «può implicare il superamento di confini costituzionali, come la salvaguardia della separazione dei poteri».

[22] Cfr. giurisprudenza caratterizzata da «pendolarismo» secondo G. RICCIARDI, Il pendolarismo della Corte costituzionale nel sindacato di ragionevolezza: a proposito dell’irrazionale, ma ragionevole, disciplina sanzionatoria dell’immigrazione, in Crit. del diritto, 1, 2007, pp.48 e ss.; giurisprudenza che “vorrebbe ma non può” secondo D. BRUNELLI, La Corte costituzionale vorrebbe ma non può sull’entità della pena: qualche apertura verso un controllo più incisivo della discrezionalità legislativa?, in Giur. cost., n.1/2007, pp. 181 e ss.

[23] Sul punto cfr. F. COPPOLA, Le scelte sanzionatorie alla prova del principio di proporzionalità. Un’ipotesi di ‘valorizzazione’ dal confronto con il Sentencing system inglese, in Arch.Pen., n.3/2018, p. 3 secondo cui «l’assenza di un preciso referente normativo ha complicato la giustiziabilità di detto principio».

[24] Con tale pronuncia la Corte cost. ritenne fondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 co. 3 Cost., dell’art. 567 co. 2 c.p. nella parte in cui prevede la pena edittale della reclusione da un minimo di cinque ad massimo di quindici anziché la pena edittale della reclusione da minimo tre a massimo dieci anni.

[25] Cfr. F. CARINGELLA – A. SALERNO, Manuale ragionato di diritto penale, Dike, 2019, p. 403, secondo cui «l’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere».

[26] Cfr. F. CARINGELLA – A. SALERNO, ibidem, secondo cui «l’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere». In questi termini in giurisprudenza ex multis Corte cost. n. 409/1989, secondo cui «il principio di proporzionalità, nel campo del diritto penale […] equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso le pene, danni all’individuo (e ai suoi diritti fondamentali) e alla società, sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle […] incriminazioni»; in ragione di tali considerazioni si evidenzia come sin dai primi interventi della Consulta in materia emerge un monito alle scelte di politica criminale di intervenire sulle incriminazioni modificando la mera cornice edittale, prescindendo da valutazioni di sostanziale offensività della eterogeneità delle condotte in essa sussumibili.

[27] Sul punto W. FRISCH, Principio di colpevolezza e principio di proporzionalità, in I grandi temi del diritto e del processo penale, in Dir. pen. cont., n.3/4 2014, p. 165 e ss., il quale sostiene che «al principio di proporzionalità potrebbero essere eventualmente ricondotti i due corollari del principio di colpevolezza che riguardano la questione del quantum di pena» ed altresì che «gli ambiti di operatività dei due principi si intersecano, essendo entrambi rivolti alla risoluzione del problema criminoso».

[28] Sul punto cfr. F. COPPOLA, Le scelte sanzionatorie alla prova del principio di proporzionalità. Un’ipotesi di ‘valorizzazione’ dal confronto con il Sentencing System inglese, op. cit., p.6, secondo cui «il fil rouge della proporzionalità – razionalità pretenderebbe che ciascun range di pena sia costituito da sottomultipli del minimo edittale».

[29] In questi termini il tertium comparationis assurge a dato a conforto delle valutazioni contenutistiche, imprescindibili, così come evidenziato in precedenza da F. PALAZZO, Questioni di incostituzionalità in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur cost., 1980, I, p. 1316, secondo cui la mera comparazione formale tra fattispecie «è un dato muto, neutrale», non offrendosi quale criterio dirimente ai fini della valutazione della proporzionalità del trattamento sanzionatorio.

[30] V. sul punto P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. Pen. I 2017, p. 178, il quale valorizza l’utilizzo da parte della Consulta di criteri sostanziali – contenutistici e valoriali, che fino ad ora non avevano intaccato l’impianto collaudato dello schema triadico del giudizio di uguaglianza logico formale.

[31] Emblematica la riflessione di F. PALAZZO, Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale, op. cit., p. 324 e ss., secondo cui «il principio di proporzione, nonostante la sua apparente autoevidenza concettuale (…) presenta una straordinaria complessità di corretta traduzione normativa e di efficace controllo costituzionale. ciò dipende (…) anche e soprattutto dalle caratteristiche proprie dei giudizi ispirati alla proporzione. Infatti, tali giudizi (…) hanno carattere massimamente discorsivo, argomentativo e valutativo – storicamente e culturalmente condizionato – così da rivelarsi omogenei a quella della ‘discrezionalità legislativa’».

[32] Sul punto F. VIGANO’, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, in Dir. pen. cont. n.2/2017, commento alla sentenza n. 236 del 2016, p. 62 e ss. L’A. sottolinea come il tertium comparationis venga in rilievo nella parte ricostruttiva, e non motiva, della sentenza, in quanto la ratio della pronuncia valorizza «l’intrinseca sproporzione» della pena. V. altresì F. MAZZACUVA, Il principio di proporzionalità delle sanzioni nei recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale: le variazioni sul tema rispetto alla confisca, op. cit., p. 8, secondo cui «si comprende, allora, come la preferenza espressa dall’art. 27 co. 3 Cost. per la rieducazione del reo sia stata valorizzata dalla dottrina e dalla stessa Corte costituzionale per liberarsi dai lacci del tertium comparationis». V. ex multis A. MAZZOLA, La questione di legittimità delle pene tra il divieto di impugnazione delle pronunce della Corte costituzionale e l’assenza di soluzioni obbligate. Alcune considerazioni a margine della sentenza n. 40 del 2019, in Forum di quaderni cost., n.2/2020, nota n.4, secondo cui la Corte cost. con la sentenza n. 236 del 2016 si preoccupa di «sanzionare lo sviamento funzionale rispetto al finalismo rieducativo della pena».

[33] In questi termini E. COTTU, Giudizio di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena: verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen. proc., n. 4/2017, p. 473 e ss.

[34] Sul punto v. G. LEO, Politiche sanzionatorie e sindacato di proporzionalità, op. cit., p. 13, secondo cui, con riferimento all’utilizzo del tertium comparationis, «la comparazione non ha condizionato la rilevazione del vizio, volendo solo, ed a seguito di quella rilevazione, individuare (…) una soluzione alternativa obbligata». V. altresì C. GIOVANNINI, Il principio di proporzionalità: genesi, sviluppo e applicazioni pratiche, op. cit., p. 9, secondo cui il tertium comparationis in questa sede «non serve per stabilire se la pena è sproporzionata ma solo per individuare la sanzione». Secondo F. MAZZACUVA, Il principio di proporzionalità delle sanzioni nei recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale, op. cit., p. 8, «anche nella giurisprudenza costituzionale più recente il giudizio di proporzione non sembra avere smarrito del tutto la sua dimensione ‘comparativa’, per quanto non necessariamente secondo ‘rime obbligate’, specialmente laddove siano in discussione i limiti della cornice edittale». V. ex multis F. CONSULICH, La matematica del castigo. Giustizia costituzionale e legalità della pena nel caso dell’art. 73 comma 1 dpr 309 del 1990, in G.Cos., n.2/2019, pp. 1232 - 1241, secondo cui «l’unica strada percorribile» sarebbe il superamento del sindacato fondato sul tertium comparationis, in favore di una valutazione sostanziale di «ragionevolezza rieducativa» dell’impianto sanzionatorio delineato dal legislatore. Cfr. R. CABAZZI, Sulle rime obbligate in materia penale. Note a margine della sentenza della Corte cost. n. 40 del 2019, in Federalismi.it, n. 6/2020, pp. 42 e ss., secondo cui «si è pertanto finito con il ridimensionare il ruolo del tertium comparationis, ritenendo che si possa compiere un giudizio intrinseco di irragionevolezza quanto alla proporzionalità del sacrificio dei diritti fondamentali, cagionato dalla pena, rispetto al fine perseguito attraverso l’incriminazione». V. in tema P. INSOLERA, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità. Qualcosa di nuovo sotto al sole?, op. cit., p. 178, secondo cui, con riferimento al tertium comparationis, esso non appare più «ratio precipua posta a fondamento dell’iter motivazionale e della censura (‘prius’), ma, più marginalmente, mero ‘rimedio’, logicamente successivo rispetto alla stessa (‘posterius’), funzionale ad evitare ‘l’invasione di campo’ della Corte nell’intangibile sfera della ‘political question’, che riserva in via esclusiva al potere discrezionale del legislatore le valutazioni sulla calibratura delle reazioni sanzionatorie».

[35] Sul punto F. COPPOLA, Le scelte sanzionatorie alla prova del principio di proporzionalità. Un’ipotesi di ‘valorizzazione’ dal confronto con il Sentencing System inglese, op. cit., p. 5, secondo cui il limite della giustiziabilità riemerge in quanto il tertium comparationis continua ad avere un ruolo fondamentale, e lo spazio valutativo della Corte costituzionale permette una valutazione in negativo di ciò che risulti «sproporzionato rispetto ai valori in gioco, ma non di tracciarne in positivo il contenuto senza rifarsi a precedenti scelte del legislatore».

[36] In questi termini F. PALAZZO, Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale, op. cit., p. 324, secondo cui sono valutabili «due diversi schemi del giudizio di proporzione», l’uno basato sull’operatività necessaria ed esclusiva, per rendere evidente la sproporzione, del tertium comparationis, in un’ottica formalistica, l’altro basato sull’irragionevolezza intrinseca, che valorizza l’aspetto sostanziale della problematica.

[37] In questi termini V. MANES, La proposizione della questione di legittimità costituzionale in materia penale e le sue insidie, in V. MANES – V. NAPOLEONI (a cura di), La legge penale illegittima, Torino 2019, p. 358.

[38] Cfr. G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale parte generale, ed. VI, Zanichelli, 2014, p. 691.

[39]Cfr. S. RANIERI, Il reato complesso, Milano, 1940, pp. 10 e ss. «il reato complesso, infatti, in ogni caso, e indipendentemente da qualsiasi rilievo circa i principi sotto i quali va ricondotto, non è la somma dei reati che lo compongono (…) come del resto è dimostrato anche dalla pena da applicare, per le ipotesi di reato complesso, che è diversa da quella per le ipotesi di concorso, la quale non è giudicata adeguata alla particolare criminosità che palesa la perpetrazione di un reato complesso». Secondo l’A. il reato complesso esprime una «continuità di comportamento che, senza alcun sensibile intervallo tra i varianti che lo compongono, sbocca in un evento finale che tutti li assomma nella sua valutazione, e che rientrano, per questo, in una sola fattispecie di reato»; cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale parte generale, ed. X, Wolters Kluwer Cedam, 2017, p. 475, secondo cui debba guardarsi dal punto di vista ontologico, per valutare la sussistenza di una unità o pluralità di fatti – e quindi reato complesso unico o concorso dei reati che lo compongono – ai «comportamento tra loro in rapporto di connessione e comportamenti che tali non sono».

[40] V. sul punto S. PROSDOCIMI, v. Reato complesso, Dig. Pen., XI, Torino, 1996, p.220.

[41] In questi termini G. LEO, La Consulta esclude la manifesta irragionevolezza dei nuovi (ed elevati) minimi edittali di pena per la rapina impropria, in Sistema Penale, 3 agosto 2020.

[42] Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale parte speciale, I, a cura di C.F. GROSSO, Milano, 2008, p. 412.

[43] V. Cass. pen. Sez. II, 9.4.2009, n.30127, in Ced. Cass. n.244821.

[44] ex multis Cass. pen. Sez. VI, 16.10.2008 n. 39924, in Ced. Cass. n.242412.

[45] In questi termini CONCAS, Sottrazione, impossessamento e tentativo di rapina impropria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1955, p. 616; T. PADOVANI, Tentativo di sottrazione e tentativo di rapina impropria, in Giur. It., 1977, II, c.229.

[46] V. sul punto M. SANTISE – F. ZUNICA, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, ed. IV, Giappichelli editore, 2018, pag. 376, «la scansione del reato complesso in autonome figure di tentato furto e violenza o minaccia si scontra con la stessa costruzione normativa del delitto di rapina impropria il cui disvalore, che ne giustifica l’equiparazione alla rapina propria, deve ravvisarsi proprio nella maggiore gravità attribuita dal legislatore all’aggressione, contestuale e congiunta, di beni giuridici diversi, come la tutela del patrimonio e la sicurezza della persona».

[47] Cfr. V. MANES, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost, n.6/2016, p. 2210, secondo cui «non più fondante il ruolo del tertium comparationis […] esso serve “solo” a fornire “rime obbligate” e a declinare così l’intervento di “ortopedia giuridica” secondo giurisprudenza già rinvenibili nell’ordinamento […]».

[48] Sulla questione si è espresso A. PAGLIARO, Sproporzione “irragionevole” dei livelli sanzionatori o sproporzione “irrazionale”?, op. cit., p. 774 e ss., secondo cui vi è una «cronica» incapacità del legislatore di supplire alle istanze di difesa sociale.

[49] V. sul punto F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale, nozioni e aspetti costituzionali, Milano, 1965, p. 360, secondo cui «il significato dell’art. 25 co. 2 […] si precisa alla luce dell’art. 27 co. 3 e dell’esigenza rieducativa di cui è espressione».

[50] Cfr. G. DODARO, Uguaglianza e diritto penale, uno studio sulla giurisprudenza costituzionale, Milano, 2012, p. 187, secondo cui nel corso del tempo si è realizzata una «sinergica interazione tra (principio di) proporzione e finalità rieducativa capace di imprimere al primo una più incisiva capacità di penetrazione nel controllo di costituzionalità della misura della pena».

[51] Sul punto emblematica la ricostruzione di F. PALAZZO, Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale, op. cit., p. 323 e ss., secondo cui «il giudizio di offensività appartiene ai giudizi di proporzione di tipo formale in quanto si fonda sulla natura costituzionale del bene giuridico tutelato». L’A. ritiene che «il giudizio di proporzione assume carattere quantitativo quando viene contestata la corrispondenza della (misura della) pena rispetto alla posizione che il bene (di per sé meritevole) occupa nella scala di valori degli interessi tutelabili penalmente».

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