La conversione del rito sommario in rito ordinario: l´incostituzionalità dell´art. 702 ter
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Michele Nolasco
Il presente contributo trae ispirazione dalla disciplina dettata dal legislatore per il rito sommario di cognizione e dalla inapplicabilità a tale rito di alcuni meccanismi, previsti per il rito ordinario, volti a garantire la trattazione unitaria delle controversie, anche quando di competenza di giudici diversi. La pronuncia della Corte Costituzionale in commento, invero, si esprime proprio sulla impossibilità del giudice a quo di valutare la domanda riconvenzionale avente ad oggetto materia di competenza del giudice collegiale, id est la veridicità di un testamento in forma pubblica, in un giudizio introdotto con rito sommario di cognizione e della preclusione alla conversione del rito, operante in subiecta materia.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il rito sommario di cognizione: dal codice del 1865 al codice del 1940; 3. Il rito sommario di cognizione introdotto dalla l. n. 69/2009; 4. Il caso concreto; 4.1 Le ragioni ostative all'accoglimento delle argomentazioni dell'Avvocatura generale; 4.2 La natura del rito sommario; 4.3 La pregiudizialità; 5. Conclusioni.
1. Introduzione
La Corte costituzionale, con la sentenza del 04.11.2020, n. 253, depositata in data 26.11.2020 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 702-ter, secondo comma, ultimo periodo, nella parte in cui non prevede che nel rito sommario si applichino i criteri previsti per la realizzazione del c.d. simultaneus processus, neppur quando la decisione della controversia possa essere pregiudiziale rispetto alla causa principale decisa dal tribunale monocratico.
Invero, nel caso oggetto della presente trattazione, la domanda principale aveva ad oggetto la restituzione di beni, devoluti in successione da un genitore deceduto ai figli, il cui possesso era però nelle mani del coniuge in vita.
Quest’ultimo, id est la madre dei ricorrenti, nel costituirsi in giudizio, rivendicava la propria qualità di erede sulla base di un testamento pubblico di data anteriore e chiedeva in via riconvenzionale l’accertamento della nullità del testamento olografo, poiché vantava la qualità di erede in virtù del precedente testamento effettuato dal de cuius.
L'analisi della sentenza citata è anche l'occasione per un breve excursus del procedimento sommario di cognizione, nel quale si svolge la vicenda, così come introdotto dalla L. n. 69/2009 e della particolarità di tale processo sommario, della sua evoluzione e della sua natura.
Il legislatore, infatti, con l’inserimento degli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater, seppur apparentemente organici ed esaustivi, non ha tenuto conto di alcuni profili d’ombra della disciplina, tra cui proprio le deroghe introdotte ad alcuni importanti istituti processuali, non applicabili in considerazione del “fine primario” perseguito dal rito sommario: la velocità del procedimento.
Senza indugiare oltre, anticipando criticità che saranno oggetto di specifico approfondimento in un momento successivo, è bene prendere le mosse proprio prendere piede dalla breve ma necessaria analisi del rito sommario di cognizione, così come previsto dal legislatore del codice del 1865 e come poi modificato negli anni.
2. Il rito sommario di cognizione: dal codice del 1865 al codice del 1940
Invero, tra i problemi di maggior rilievo, che da sempre hanno interrogato la dottrina intenta allo studio delle norme processuali, occupa la scena il dilemma attraverso cui si impartisce la tutela giurisdizionale.
La contrapposizione, come è evidente sorta sin dall’antichità, tra procedimento ordinario ed altri procedimenti semplificati è giunta sino ai giorni nostri.
Orbene, dal momento in cui la parte da impulso al procedimento con il quale richiede la tutela giurisdizionale sino alla fase conclusiva, insita nell’emanazione del provvedimento, si delinea uno spatium temporis formato da una sequela di atti concatenati tra loro e diretti proprio all’emanazione di un atto conclusivo.
L’ampiezza di questo arco temporale è la chiave di tutto il problema della contrapposizione tra riti ordinari e riti differenti: da un lato è doveroso non affrettare i tempi della giustizia, per permetter alle parti di far valere le proprie ragioni e al giudice di conoscerle e decidere; dall’altro, però, non può nemmeno corrersi il rischio di emanare il provvedimento, rappresentativo della fine del procedimento, quando questo sia ormai inidoneo alla tutela delle ragioni della parte.
Dunque, come affermato da autorevole dottrina, «l’equilibrato contemperamento di queste due contrapposte esigenze costituisce il supremo obiettivo di ogni legislazione processuale in materia civile»[1].
Le lungaggini che spesso caratterizzano l’iter processuale hanno rappresentato la primaria ragione per cui i legislatori di tutte le epoche sono ricorsi a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, caratterizzati dalla riduzione dei tempi, permettendo al giudice di svincolarsi dalle solennità proprie del c.d. rito ordinario.
Tale previsione ha portato alla distinzione tra rito ordinario e tutti quei riti che, per diverse ragioni, possono qualificarsi come sommari. La locuzione evoca, però, una serie di istituti e procedure eterogenee, ancor oggi non facilmente qualificabili e che ha dato adito a mutevoli interpretazioni.
Anticipiamo sin d’ora, ma avremo modo di chiarire nel prosieguo, che sommario può riguardare tanto la cognizione del rito quando la mera procedura che determina l’emanazione del provvedimento: da una parte, dunque, riti speciali a cognizione piena; dall’altra, riti a cognizione sommaria. Tale distinzione è tanto facile da esprimere quanto difficile, in concreto, da rintracciare.
Il rito sommario di cognizione, introdotto dal legislatore del 2009, con L. n. 69[2], rappresenta uno degli strumenti che nel corso degli ultimi decenni hanno avuto – spesso con esito infausto – l’intento di deflazionare il carico giudiziario.
Le riforme che hanno riguardato il codice di rito, difatti, non hanno mai celato la doverosità di intervenire su esigenze contrapposte[3]: da un lato, rendere più snello ed agevole il rito civile, specie in materie delicate che richiedono una velocità di intervento a salvaguardia delle pretese azionate; dall’altro, però, il rispetto del garantismo alla base del nostro ordinamento e delle norme costituzionali a tutela del giusto processo.
La storia del nostro procedimento sommario può farsi risalire, per non andare troppo indietro nel tempo, all’unificazione del Regno di Italia e al bisogno di offrire al novellato territorio un codice di procedura civile, onde evitare di estendere a tutto il Regno la legislazione dello Stato sardo[4].
Nel progetto definitivo del codice, approvato dal Re Vittorio Emanuele II, venne accolta l’idea di ammettere solo due procedimenti: il rito ordinario, definito poi formale, ed il rito sommario ad udienza fissa. Il rito sommario si differenziava dall’ordinario perché la causa veniva sottoposta immediatamente dinanzi al giudice e aveva un ambito applicativo limitato: 1) alle domande di provvedimenti conservatori o interinali; 2) alle cause d’appello delle sentenze del pretore; 3) agli altri casi stabiliti dalla legge[5] [6].
Sebbene il codice del 1865 prevedesse espressamente la contrapposizione tra un procedimento formale ed uno sommario[7], solo successivamente, con il codice del 1940 v’è stato il superamento di detta distinzione[8].
Non va sottaciuto, peraltro, che già nel testo originario del codice erano previste altre forme procedimentali, che non miravano all’instaurazione di un processo a cognizione piena bensì determinavano un rito semplificato, da svolgere in camera di consiglio: il modello camerale ex art. 737 c.p.c. ed i procedimenti sommari ex art. 633 e ss. c.p.c..
Negli anni successivi all’introduzione del Codice del 1940 - che mantiene la dualità di procedimenti già prevista- però, l’evoluzione della società determinata anche dalla forma repubblicana e l’introduzione di una Costituzione differente rispetto al previgente Statuto Albertino, hanno comportato la previsione di ulteriori nuovi riti, volti a disciplinare singole controversie, superando la mera contrapposizione tra rito ordinario e rito sommario e frammentando il processo civile in una serie di strumenti di semplificazione procedimentale che son giunti sino ai giorni nostri.
Come affermato in dottrina[9], invero, nei decenni successivi all’entrata in vigore del codice del 1940, la pluralità di riti speciali, contenuti nel titolo IV del codice o in leggi speciali, costituivano solo «episodiche eccezioni che non scalfivano in alcun modo il primato e la centralità del rito ordinario nell’ambito della tutela dichiarativa dei diritti»[10].
A conferma di quanto evidenziato, difatti, vi è la l. 11 agosto 1973, n. 533[11], che ha novellato proprio il titolo IV del libro II del codice - originariamente prevista per la soluzione delle controversie in materia di lavoro- nonché la relatio operata dall’art. 5 della L. 2 marzo 1963, n. 320[12], anche per le controversie in materia di contratti agrari, o ancora l’estensione di dette discipline speciali anche in materia di incidenti stradali.
La proliferazione di questi riti sommari suggeriva l’inidoneità del processo ordinario ad adattarsi in modo adeguato alla tutela di alcune situazioni soggettive, ponendosi in palese contrasto con il rispetto non tanto del principio di uguaglianza formale quanto di uguaglianza sostanziale.
Si pensi, difatti, al nocumento che la risoluzione rallentata di una controversia sorta in un processo civile eccessivamente lento possa arrecare ad un soggetto debole, il quale attende solerte il riconoscimento di una vantata pretesa.
Al contrario, meno gravoso è per un soggetto giuridicamente e socialmente più forte, l’atto di attesa della risoluzione del conflitto, che, anzi, spesso può comportare anche un vantaggio.
Certo è che la discrezionalità del legislatore nella predisposizione di nuovi riti non può che fondarsi sul rispetto dei principi costituzionali, tra cui l’art. 3 ora menzionato, e non è certo ancorata a criteri di discrezionalità o di libertà d’azione. Anzi: la previsione di un assetto processuale differenziato per materia è giustificato dalla esistenza di ontologiche differenze[13] tra le situazioni giuridiche disciplinate.
Quanto detto, seppur “sommariamente” – per restare in tema – circa la proliferazione dei riti sommari, dunque, porta ad una fondamentale distinzione tra le due forme di riti ad oggi esistenti.
Da una parte, la predisposizione di procedimenti a cognizione e piena ed esauriente[14]; dall’altra, la necessità di prevedere forme di tutela a cognizione sommaria, esperita tramite l’introduzione di modelli ad hoc ovvero tramite strumenti cautelari.
La frantumazione dei modelli procedimentali[15], però, non è stata scevra di conseguenze – anche notevoli – proprio con riferimento alla concreta perseguibilità del fine che avevano previsto: l’ottimizzazione della macchina della giustizia e la tutela delle posizioni soggettive, specie più deboli.
Invero, con l’accrescimento del numero di riti si sono moltiplicati anche i relativi problemi circa l’identificazione, di volta in volta, del rito applicabile. A ciò si aggiunga che, come avremo modo di analizzare proprio con riferimento al caso de quo, la velocità con cui il legislatore deve intervenire nella determinazione di un nuovo procedimento o istituto si ripercuote sulla completezza ed organicità della materia – frettolosamente, appunto- trattata.
Dunque, la volontà di decongestionare “l’ingorgo”[16] del processo ordinario non ha portato i frutti auspicati, anzi, sotto determinati aspetti, ha solo reso più gravoso il compito degli operatori di diritto.
3. Il rito sommario di cognizione introdotto dalla l. n. 69/2009
L’eccessiva proliferazione di riti sommari, ognuno avente ad oggetto una materia differente, ha richiesto una semplificazione, invocata proprio con legge n. 69/2009.
Con la l. 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile, il legislatore prende atto della necessarietà di un intervento volto a semplificare il sistema, epurandolo dalla moltitudine di riti esistenti, spesso più confusionari che utili, come gran parte della dottrina[17] aveva a gran voce richiesto.
In disparte lo sfoltimento operato circa alcuni riti sommari, la cui utilità operativa era fortemente censurabile, la riforma del 2009 ha il pregio di essere innovativa per l’introduzione del procedimento sommario di cognizione[18], configurato come un modello autonomo e meramente opzionale, azionabile per tutte le controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica.
E' proprio in questo contesto che s'innesta la norma sottoposta al vaglio critico della Corte Costituzionale.
Il nuovo rito sommario di cognizione, invero, prevede una istruzione più rapida della causa e il provvedimento finale non è una sentenza ma una ordinanza che, se non impugnata in appello, ha la stessa idoneità ad acquisire giudicato.
Questo modello rappresenta per il legislatore uno strumento così forte e deflattivo della mole di lavoro gravante sui giudici che, all’art. 54 della stessa legge, invita il Governo ad emanare uno o più decreti in materia per la riduzione e semplificazione dei riti civili. In questo modo, dunque, il legislatore ritiene di non dover dare seguito a quella parte di dottrina – consistente – che auspicava non già un intervento di modifica del codice di rito bensì una revisione radicale dello stesso, con la previsione di un unico rito che fosse flessibile, modulabile in base alla complessità della controversia.
Giova sin d'ora anticipare, per correttezza espositiva, che un unico rito modulabile a seconda della materia mal si concilia con le diverse esigenze di tutela delle parti. Invero, la peculiarità del rito in esame -seppur sottoposto a censura- è ravvisabile nella possibilità di predeterminare quali materie e quali controversie possano essere devolute al giudice - si noti: monocratico - per una celere risoluzione delle questioni.
Quello che invece si desiderava, per dirlo con termini differenti, era la predisposizione di un modello processuale che ricordasse le funzioni a fisarmonica del Presidente della Repubblica, che si allargano e restringono a seconda della materia nella quale egli si trova ad operare. Così non è stato.
Anzi, è proprio su uno degli aspetti maggiormente innovativi del novellato rito, cioè sulla azionabilità per le sole controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, che dobbiamo porre l’accento, onde comprendere qual è il problema verificatosi nel caso che ci apprestiamo ad analizzare nel prosieguo.
Ancora una volta, giova evidenziare quali sono gli aspetti di maggior rilievo cui si soffermerà lo scrivente nell'analisi della controversa disciplina: da una parte, non può prescindersi dall'esame del caso concreto - come avremo modo di fare nell'immediato prosieguo - e delle posizioni vantate dalle parti; dall'altro, sarà necessario mettere il punto sulla natura del rito e sulla risoluzione di eventuali rapporti di pregiudizialità, come nel caso in esame.
4. Il caso concreto
Con ordinanza del 19 ottobre 2019, il Tribunale ordinario di Termini Imerese sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 702-ter, secondo comma, ultimo periodo, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Il giudice rimettente riferiva, infatti, che con ricorso per procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c., gli eredi nominati in un testamento olografo avevano agito nei confronti del proprio genitore che possedeva i beni devoluti in successione agli stessi, chiedendone la restituzione.
Il convenuto, nel costituirsi in giudizio, domandava in via riconvenzionale l’accertamento della nullità del predetto testamento, rivendicando la propria qualità di erede in ragione di un precedente testamento pubblico.
Il giudice a quo evidenziava, in punto di rilevanza, che la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto, in quanto di competenza dell'organo collegiale, non poteva essere accolta. Per tale ragione, in ossequio al dettato normativo, la domanda doveva essere dichiara inammissibile.
La norma sottoposta al vaglio della Corte, infatti, delimita l’ambito di applicazione del procedimento sommario esclusivamente alle cause devolute al tribunale in composizione monocratica. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente, però, premesso che la causa introdotta dal convenuto nel procedimento sommario aveva carattere pregiudiziale rispetto a quella formulata dai ricorrenti, riteneva che «la norma censurata, laddove prevede in ogni caso – e dunque anche in questa ipotesi – la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale di competenza collegiale», fosse in contrasto, in primo luogo, con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., atteso che la decisione separata delle due cause avrebbe potuto determinare un contrasto di giudicati.
In data 26 marzo 2020, si costituiva in giudizio il convenuto.
Questi deduceva che, se non fosse stato possibile seguire una interpretazione costituzionalmente orientata del sistema normativo e dunque permettere al giudice adito ex 702-bis c.p.c. di mutare il rito nell’ipotesi in cui viene proposta una domanda riconvenzionale pregiudiziale demandata alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale, le questioni sollevate dal Tribunale di Termini Imerese non potevano che ritenersi fondate.
Con atto depositato il 25 marzo 2020, interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale chiedeva il il rigetto delle questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione.
Ad avviso di quest’ultimo, «il Tribunale rimettente avrebbe già potuto disporre il mutamento nel rito, tenendo conto della giurisprudenza di legittimità[19], che l’ha ritenuto necessario in luogo della sospensione della causa pregiudicata ex art. 295 cod. proc. civ., ove quella pregiudicante penda dinanzi ad altro ufficio giudiziario».
La questione sarebbe stata quindi già risolta, nella prospettazione della difesa statale, da tale orientamento giurisprudenziale, che si pone nel senso auspicato dal giudice a quo.
4.1. Le ragioni ostative all'accoglimento delle argomentazioni dell'Avvocatura generale
L’art. 702-ter, nella parte censurata dal giudice a quo, prevede che se il giudice cui è sottoposta la controversia “rileva che la domanda non rientra tra quelle indicate nell’articolo 702-bis, con ordinanza non impugnabile la dichiara inammissibile. Nello stesso modo provvede sulla domanda riconvenzionale.”
Nel caso sottoposto al presente commento, il ricorrente aveva sottoposto al giudice una domanda rientrante tra quelle ex art. 702-bis in quanto di competenza del tribunale monocratico; al contrario, però, la domanda riconvenzionale del convenuto non rientrava tra quelle di competenza monocratica bensì collegiale poiché volta a riconoscere la validità di un testamento; per questa ragione il giudice avrebbe dovuto dichiararla inammissibile.
La particolarità, però, è che la domanda riconvenzionale, avente ad oggetto l’esistenza di altro testamento e per di più in forma pubblica, si poneva come questione pregiudiziale alla decisione sulla domanda principale di parte ricorrente e, dunque, non era ipotizzabile dichiarare inammissibile la riconvenzionale e separare i giudizi.
Se, difatti, un altro giudice avesse accolto la domanda formulata da parte convenuta, questa volta in modo autonomo, ne sarebbe derivata l’incompatibilità tra quel giudicato ed il giudicato formatosi nel procedimento ex art. 702-bis contemporaneamente rimasto in vita.
Il giudice rimettente, dunque, lamenta la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Innanzi tutto, con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., atteso che la decisione separata delle due cause potrebbe determinare un contrasto di giudicati.
La disposizione sarebbe irragionevole poiché, secondo quanto disposto dall’art. 34 cod. proc. civ., nell'eventualità in cui le due cause rientrassero nella competenza di un altro giudice, la proposizione - con domanda riconvenzionale - della causa pregiudiziale comporterebbe l'assegnazione ad altro giudice della trattazione.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 24 Cost., in quanto la disposizione censurata lascerebbe la facoltà in capo al ricorrente di incorrere in una sorta di "abuso del diritto", utilizzando i propri poteri processuali a danno dell'altra parte, ottenendo in tempi brevi una decisione sulla domanda principale.
Né ad avviso del Tribunale rimettente potrebbe essere effettuata, «a fronte della chiara formulazione letterale della norma censurata, un’interpretazione costituzionalmente orientata, nel senso di evitare la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale in un’ipotesi, come quella sottoposta al proprio esame, in cui ricorra un rapporto di connessione “forte” per pregiudizialità-dipendenza tra cause consentendo all’autorità giudiziaria adita di mutare il rito in quello ordinario».
Nel ritenere fondate le questioni ad essa sottoposte dal giudice a quo, la Corte fa alcune doverose puntualizzazioni, che lo scrivente ritiene di dover analizzare nella presente nota.
Orbene, come diffusamente analizzato nel prosieguo, il rito sommario ha svolto e continua a garantire importanti esigenze di celerità nell'ordinamento, in considerazione di alcuni interessi meritevoli di tutela e di alcune controversie di facile risoluzione.
Posto ciò, proprio per comprendere quest’ultimo con maggiore chiarezza il complesso intreccio di principi da tutelare nella fattispecie de quo, è certamente degno di nota è un focus on la natura del rito sommario introdotto nel 2009 e ulteriormente perfezionato nel 2014.
4.2. La natura del rito sommario
La Corte ha espressamente affermato che tale procedimento ha una struttura differente rispetto a quello ordinario poiché la durata dello stesso è circoscritta ad una sola udienza ed una eventuale udienza con carattere istruttorio.
La sommarietà di cui alla denominazione del procedimento, però, non deve indurre in errore circa la pienezza o meno della cognizione derivante da tale rito.
Sin dalla introduzione del nuovo rito nel codice, infatti, una delle questioni più dibattute è stata l’inquadramento del procedimento tra le categorie tradizionali.
Innegabile, d’altronde, è che negli anni precedenti a tale introduzione s’è fatto un grande abuso del termine “sommario”, rendendo arduo, dunque, circoscriverne concretamente portata e significato.
La previsione di una procedura meno articolata, più semplificata, svincolata dalle lungaggini processuali che – per quanto utili in determinate materie e controversie – può nuocere a determinati soggetti, non comporta ipso facto una conseguente sommarietà della cognizione di tali controversie, anzi, come evidenziato, l’ordinanza conclusiva del rito sommario ha eguale forza di cosa giudicata al pari della sentenza.
A questo punto, allora, è bene che si differenzi la sommarietà del procedimento dalla sommarietà della cognizione: entrambe le sommarietà hanno l’obiettivo ultimo di ridurre i tempi del processo ma le modalità attraverso cui addivenire al risultato finale sono differenti.
Nel procedimento sommario – nonostante quanto affermato da dottrina minoritaria[20]- non viene meno la pienezza della cognizione, poiché il giudizio tende alla certezza dei fatti in esso riportati, sia dall’attore/ricorrente sia dal convenuto/resistente.
Al contrario, nel giudizio sommario ci si accontenta di una verosimiglianza tra quanto dedotto e quanto accaduto, senza la necessarietà di una prova piena.
Dunque, con riferimento al procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis e ss., sorvolando sul pensiero minoritario di coloro i quali hanno guardato negativamente tale procedimento, la dottrina maggioritaria s’è apertamente schierata in favore del pieno riconoscimento della natura di giudizio a cognizione piena.
In primo luogo, il nomen juris prescelto dal legislatore non vincola l’interprete nell’attività di inquadramento sistematico dell’istituto. Si pensi, a tal proposito, all’annosa questione circa la natura della responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001[21].
In secondo luogo, non è degno di nota neppure il dato della collocazione del procedimento all’interno del rito cautelare e non nel libro II[22], in coda all’art. 190 c.p.c.[23], come da alcuni ritenuto più corretto.
Invero, prima dell’emanazione della l. n. 69/2009, veniva fatto presente l’intento di introdurre un procedimento che fosse sì sommario ma non cautelare, in alternativa al giudizio ordinario.
Accantonati questi elementi, che la dottrina contrapposta ha elevato a chiari indici rivelatori di una sommarietà anche della cognizione e non solo del rito, è bene focalizzare l’attenzione sugli indici positivi, sicuramente più confacenti alla tesi che si vuole sostenere.
Il primo aspetto da considerare è proprio la formulazione letterale dell’art. 702-ter, comma 5, c.p.c., che altro non è che la riproduzione dell’art. 669- sexies in materia cautelare, con una sola differenza: nel rito sommario di cognizione, il giudice procede con gli atti di istruzione che ritiene “rilevanti”; nel rito cautelare, al contrario, procede con solo quelli che ritiene “indispensabili”.
La norma cautelare, invero, prevede che il giudice «sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto».
Nonostante la disposizione faccia riferimento ad uno snellimento della procedura, insito proprio nella possibilità di omettere le formalità "non essenziali", ciò non va a ledere in alcun modo la assoluta pienezza di cognizione del rito, nel quale è tutelata la qualità della cognizione e della formazione della prova.
La differenza tra il rito cautela sopra riportato a titolo esemplificativo e il rito ordinario è ravvisabile nella possibilità di evitare la lungaggine delle memorie di cui all’art. 183 c.p.c.[24], la precisazione delle conclusioni e della conseguente appendice scritta. Tale sacrificio di momenti processuali del rito ordinario, però, avviene per scelta dello stesso soggetto che sceglie questo rito, prediligendo la velocità che comporta, ritenendo preferibile “la giusta durata del processo” e non la sua eccessiva durata.
A conferma della contrapposizione tra due "categorie" di riti - i riti sommari, da una parte, e il rito ordinario, dall'altra - si può far leva proprio sul dettato contenuto nell’art. 54 della legge n.69, con il quale il legislatore si rivolge al Governo affinché operi una riduzione e semplificazione dei riti e lo invita a scegliere il modello del rito sommario di cognizione in tutte quelle materie in cui «sono prevalenti i caratteri della semplificazione della trattazione o della istruzione della causa». Orbene, in altre parole, l'atteggiamento di favore dello stesso legislatore verso un rito più snello ed efficiente non è in alcun modo celato.
Ciò non implica, però, che tale rito possa essere riadattato anche in quelle controversie ove non vi è alcuna trattazione semplificata della controversia e che, al contrario, richiedono una istruzione della causa complessa, come nel caso di specie.
In ultimo, prima di tornare all’analisi della pronuncia della Corte Costituzionale che ha ispirato il presente commento, sarà bene sottolineare che anche sotto il profilo funzionale [25]è da escludersi la sommarietà della cognizione derivante dal rito in esame.
Tali procedimenti, difatti, sono da sempre stati impiegati per la realizzazione di esigenze specifiche ed ulteriori rispetto al mero accertamento dei diritti in tempi brevi.
Si pensi, a titolo esemplificativo, a quanto avvenuto per evitare l’abuso del diritto di difesa da parte del convenuto, quando quest’ultimo abbia torto. Nel ricorso per decreto ingiuntivo[26], invero, è il debitore a doversi opporre e a dover dare prova del pagamento del suo debito[27].
In tale procedimento[28], infatti, il requisito della prova scritta del credito viene richiesto per garantire l’economia dei giudizi ed addivenire in tempi celeri ad una decisione.
Ed ancora: nel procedimento cautelare, che in più occasioni abbiamo paragonato e confrontato, il periculum in mora assicura l’urgenza di provvedere, fermo restando che la sopravvenuta o scoperta inesistenza di tale elemento essenziale determina l’onere risarcitorio in capo al soggetto che ha esperito il giudizio sine titulo.
In conclusione, non v’è dubbio – per lo scrivente, confortato dal giudizio conforme della citata Corte Costituzionale – che il processo sommario di cognizione può correttamente annoverarsi tra i processi speciali che sono sì semplificati ma a cognizione piena[29] .
Rientrano in questa particolare categoria, anche i procedimenti di classe dinanzi ai tribunali macro-regionali[30]/[31] e soprattutto l’ormai noto procedimento per equa riparazione in caso di violazione della ragionevole durata del procedimento, c.d. Legge Pinto[32].
4.3. La pregiudizialità
Così ampiamente trattato e risolto il problema della natura del rito, la cui analisi era necessaria ai fini della comprensione del dictum del giudice delle leggi, non resta che l’ulteriore disamina della pregiudizialità, alla base della piena risoluzione del caso sottoposto al vaglio della Corte.
Con riferimento all’istituto della pregiudizialità[33], è doveroso ricordare la distinzione tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica, così come affermata da un intervento chiarificatore della giurisprudenza[34],.
La distinzione[35] tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica, invero, nasce con l’intento di estendere l’ambito applicativo del giudicato, includendovi anche le questioni pregiudiziali e permettendo così il superamento della tesi tradizionale[36], tutt’oggi vigente, per cui il giudicato ha valore tra le parti.[37]
Tornando al tema in esame, come ampiamente esposto, il secondo periodo del comma 2 dell’art. 702- ter c.p.c. permette al giudice di pronunciare sull’inammissibilità anche solo della domanda riconvenzionale, quando quest’ultima abbia ad oggetto materia di competenza del tribunale collegiale e quindi rientri nell’ambito applicativo del rito sommario di cognizione, come nel caso di specie.
In tale caso, però, il giudice dovrebbe proseguire con l’analisi della domanda originariamente sottoposta al suo esame[38], lasciando che altro giudice si pronunci sulla domanda (un tempo) riconvenzionale, a meno che non si possa operare una conversione del rito ai sensi del terzo comma.
La ratio alla base di tale divisione è insita nella volontà di evitare che la costituzione del convenuto, con la proposizione di una domanda riconvenzionale non rientrante nella cognizione del giudice adito da parte ricorrente, abbia il sol fine pretestuoso di dilazionare i tempi della giustizia[39], andando a vanificare l’esperimento del rito sommario, che è ontologicamente un rito più snello.
Nel rito ordinario il giudice avrebbe applicato l’art. 281-nonies c.p.c.[40] o la separazione ai sensi dell’art. 279, comma 2, n. 5 c.p.c. (richiamato dallo stesso art. 281-nonies c.p.c.) ovvero la trattazione congiunta dinanzi al tribunale in composizione collegiale.
Nel rito sommario, invece, l’obbligatoria separazione delle cause ha comportato l’intervento della Corte Costituzionale, la quale non ha mancato di evidenziare come la pregiudizialità tecnica sia l'esistenza di un collegamento tra i fatti, in virtù del quale la decisione di uno influenza anche la comprensione e la decisione dell'altro.
La Stessa Suprema Corte ha espresso un orientamento, ormai granitico, in virtù del quale sussiste un rapporto di pregiudizialità- dipendenza tra cause allorquando una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo o comunque elemento fattispecie di un’altra situazione sostanziale e, dunque, sia necessario garantire uniformità di giudicati affinché la decisione del processo principale possa poi definire, in tutto o in parte, il tema dibattuto.
Nei casi di sussistenza di tale nesso, il codice di rito individua una serie di meccanismi volti ad evitare la trattazione separata, assicurando il c.d. simultaneus processus.
Questi criteri, però, lasciano spazio, ancora una volta, alla particolarità del rito con il quale è stata introdotta la domanda principale: il rito sommario di cognizione, che deroga ai meccanismi tradizionali.
Negli anni, la Corte costituzionale ha più volte avuto il severo compito di ricordare che l’interpretazione adeguatrice ha pur sempre un insuperabile limite nel dato letterale della disposizione e che «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale[41]».
La finalità perseguita dal legislatore del 2009 – che è quella di consentire in ogni caso che la domanda principale sia definita celermente nelle forme del procedimento sommario di cognizione – è sì lodevole[42] e legittima, in quanto funzionale al principio di ragionevole durata del processo, ma è anche censurabile sotto differente aspetto.
Non può negarsi, invero, che la norma censurata pone una conseguenza sproporzionata e quindi sia irragionevole ex art. 3 Costituzione poiché prevede che in ogni caso, quindi a prescindere dal tipo di connessione sussistente tra la domanda riconvenzionale e quella principale, la declaratoria di inammissibilità della prima, ove demandata ex lege alla cognizione del tribunale in composizione collegiale.
Se da un lato la stessa Corte riconosce in campo al legislatore, una ampia discrezionalità in materia di conformazione degli istituti processuali, non può prescindere dal controllare la costituzionalità frutto di tale riconoscimento.
Pertanto, una volta riconosciuto che vi sia stato il superamento del limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute e che, all’esito di un ulteriore giudizio di comparazione tra interessi costituzionalmente garantiti, tale violazione non è in alcun modo frutto di un bilanciamento degli interessi rilevanti, la Corte non può far altro che censurare la norma.
La Corte, infatti, nella fattispecie ora in esame ha sancito che, proprio in virtù del più volte ricordato nesso di pregiudizialità, «la sorte della causa pregiudicata è condizionata – logicamente e processualmente – da quella della causa pregiudicante».
Il riferimento alla valutazione che sarà chiamato ad effettuare sulla domanda principale ai sensi del comma 5 della norma sottoposta a censura, invero, è la possibilità che il rito venga convertito da ordinario a sommario.
Il giudice cui è sottoposta la controversia nella forma semplificata deve, difatti, compiere alcune imprescindibili precisazioni di carattere preliminare: verificare la sussistenza dei presupposti processuali generali – in mancanza dei quali, il rito non potrebbe procedere nemmeno nelle forme ordinarie o se fosse stato incardinato in modo tradizionale – e dei presupposti c.d. speciali, richiesti proprio dal rito prescelto ed in esame.
Sebbene il codice non lo dica in termini incontrovertibili, il giudice ha la facoltà di operare un preliminare vaglio della questione, utile a comprendere se questa potrà essere decisa con rito sommario o se sarà doveroso convertire il rito[43] e permettere alle parti di affrontarsi nel contraddittorio di cui all’art. 183 c.p.c..
Così argomentando, risultano ineluttabili gli inconvenienti della trattazione separata della causa pregiudicata, con procedimento sommario, e della causa pregiudicante, con procedimento ordinario, che potrebbero portare al conflitto di giudicati.
E, anche se vari istituti, più volte delineati nel corso della trattazione, consentono il raccordo fino alla possibilità di revocazione per contrasto di giudicati, resta fermo che gli inconvenienti esaminati, derivanti dalla trattazione separata, non compensano in alcun modo il beneficio insito nella rapidità conseguente alla separazione e trattazione distinta.
La mancata previsione di una eccezione alla inammissibilità della domanda riconvenzionale quando questa sia soggetta alla riserva di collegialità, in virtù della formulazione categorica della norma censurata, infatti, impediscono la prevalenza dell’interesse alla celerità del procedimento rispetto alla connessione sussistente tra le domande.
Invero, può osservarsi che, se la domanda principale introdotta con il rito del procedimento sommario e quella riconvenzionale pregiudicante, soggetta a riserva di collegialità, sono proposte davanti a due giudici diversi, secondo la giurisprudenza di legittimità - richiamata dalla decisione della Corte- il giudice del procedimento sommario non può sospendere il corso della prima causa ai sensi dell’art. 295 c.p.c.[44] ma deve mutare il rito fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. per le memorie, aprendosi così alla disciplina in materia di connessione della cause.
La giurisprudenza di legittimità non si è discostata da quanto anzidetto, nell'analoga situazione in cui due cause siano state proposte, entrambe in via principale, davanti allo stesso giudice con due procedimenti differenti: una con il rito sommario e l'altra con rito ordinario.
Quindi nell’una e nell’altra ipotesi di cause proposte in processi distinti, legate dal nesso di pregiudizialità necessaria, è stata affermata l’illegittimità della sospensione, impugnata con regolamento di competenza, del procedimento sommario avente ad oggetto la causa pregiudicata, riconoscendosi invece la necessità del mutamento del rito per assicurare il simultaneus processus.
A ben vedere, dunque, questa disparità di trattamento stride «in ragione della perentorietà testuale della disposizione censurata, quando le due cause siano proposte fin dall’inizio in uno stesso processo, seppur con il rito del procedimento sommario», allorché la domanda riconvenzionale abbia ad oggetto materia da sottoporre alla collegialità e, dunque, sia esclusa dall’ambito applicativo del rito sommario:
E', dunque, «distonica, specie nell’assetto normativo successivo all’emanazione dell’art. 183-bis cod. proc. civ., nel quale è demandata al giudice adito la valutazione ultima circa il rito – ordinario o sommario – più adeguato per la trattazione della causa, una disposizione come quella censurata che, di contro, tale facoltà esclude, imponendo la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale che veicoli una causa attribuita al tribunale in composizione collegiale senza consentire al giudice stesso di valutare l’opportunità, in alternativa, di disporre il mutamento del rito».
Il potere del giudice di conversione del rito ordinario in sommario, infatti, è subordinato alla sussistenza di due presupposti speciali: in primo luogo, l’appartenenza della causa alla competenza del tribunale in composizione monocratica; in secondo luogo, la semplicità della lite e dell’istruttoria probatoria.
Se non può negarsi la violazione dell’art. 3 Cost., non potrà nemmeno sottacersi che la disposizione censurata viola il diritto di difesa del convenuto garantito dall’art. 24 Cost..
Nell’assetto costituzionale non v’è alcuna indicazione di un diritto alla simultaneità del processo, neppure nell’art. 111 Cost., questo in quanto tale principio si inserisce nell’ambito della discrezionalità conformativa del legislatore ed è la risultante di regole processuali finalizzate, laddove possibile, a realizzare un’economia dei giudizi[45] e a prevenire il conflitto tra giudicati, ma la sua inattuabilità non lede, in linea di principio, il diritto di azione, né quello di difesa, se la pretesa sostanziale dell’interessato può essere fatta valere nella competente, pur se distinta, sede giudiziaria con pienezza di contraddittorio e difesa.
Al contempo, però, nella comparazione tra due esigenze - ugualmente importanti per quanto opposte - quali quella della rapidità del processo e quella del simultaneus processus [46] una preclusione di tal natura non può che ritenersi lesiva della tutela giurisdizionale della parte, in questo caso il convenuto, cui è negata la trattazione congiunta di due giudizi strettamente connessi tra loro.
In conseguenza di una scelta compiuta dall’attore, il quale decide di dar maggior rilevanza alla velocità del rito, posto che la sua domanda lo permette, il convenuto vede inesorabilmente dichiarata inammissibile la propria domanda.
È impensabile, a dirla tutta, che una mera svista – o una inesatta comprensione del fenomeno- da parte del legislatore del 2009 (ed anche del successivo legislatore intervenuto nel 2014) circa la possibilità di operare ex ante un raccordo, permesso nel giudizio ordinario, possa comportare un tale aggravio per il convenuto.
È altresì impensabile, proprio con riferimento alla natura del rito sommario, che tale meccanismo debba determinare la velocizzazione del soddisfacimento della pretesa dell’attore a discapito, però, del convenuto, specie quando la domanda di quest’ultimo sia pregiudiziale e legata da una connessione forte con quella principale.
5. Conclusioni
In conclusione, evidenziato il paradosso nel quale è incorso il legislatore, seppur animato da buoni propositi che, come spesso avviene, sono stati mal realizzati, la soluzione pratica al caso di specie è stata fornita dalla Corte costituzionale.
Il giudice delle leggi, infatti, oltre a ritenere fondate le ragioni che hanno spinto il giudice a quo a sottoporle la questione di diritto, ha altresì evidenziato il potere del giudice adito di mutare il rito, fissando l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. e procedere trasformando il rito sommario in rito ordinario, così portando le parti sullo stesso piano.
In disparte ogni ulteriore approfondimento circa la distinzione tra cause semplici e cause complesse, discrimen in base al quale dovrebbe operarsi o meno la conversione del rito, ciò che preme sottolineare è l’assoluta necessità che tale possibilità venga riconosciuta, indipendentemente dalla formulazione letterale – seppur erronea- della disposizione frutto del legislatore.
Proprio per sopperire a tale formulazione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 702-ter c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice adito possa disporre la trasformazione del rito sommario in rito ordinario, allorquando la domanda riconvenzionale dinanzi a lui proposta sia pregiudiziale per la decisione della principale ma non rientri tra le materie per cui sarebbe azionabile il rito speciale sommario.
D’altronde, una parte della dottrina[47] ha suggerito, in passato, quando son sorte le prime difficoltà applicative in merito, di non affrettarsi nel dichiarare l’inammissibilità della domanda riconvenzionale, poiché spesso tali situazioni debbono risolversi con la conversione del rito, seppur questa discrezionalità affidata al magistrato ben si presti a creare difformi precedenti, configurandosi come una norma in bianco o, come affermato da taluni, come un «contenitore che l’interprete deve sforzarsi di riempire di significato»[48].
È certamente vero che parte ricorrente, che in principio aveva ritenuto di poter optare per un rito più celere, non beneficerà più della velocità offerta dal procedimento speciale sommario ma è anche vero che, come poc’anzi detto, nella valutazione di interessi contrapposti bisogna tener conto di quale sia sacrificabile e quale no.
Opinando in senso contrario[49], cioè permettendo alla sommarietà del rito di prevalere sulla doverosa realizzazione del simultaneo processo, si eleverebbe il fattore temporale a discapito di quello pregiudiziale ed è palese che tale parallelismo non ha alcun ragion d’essere.
Se, invero, sul piatto della bilancia – della Giustizia, sia chiaro – vengono posti la celerità del procedimento e la connessione tra le controversie, che andrebbe a minare la stessa celerità, quest’ultima non potrebbe in alcun modo avere un peso prevalente e, dunque, essere preferita alla decisione congiunta di questioni tra loro non solo collegate ma addirittura poste in condizioni di pregiudizialità.
Semmai, a voler essere drastici, l’originario ricorrente potrà dogliarsi dell’eccessiva durata del procedimento ordinario – astrattamente meno tempestivo rispetto a quello da lui prediletto – con un altro procedimento speciale: il ricorso per eccessiva durata del processo (c.d. ricorso ex legge Pinto, già menzionato).
Non è certo un segreto che negli ultimi anni si sia fatto un frequente utilizzo dello strumento fornito dal legislatore della Legge Pinto, sia nei casi in cui la poca tempestività con cui si è addivenuti all’emanazione del provvedimento finale fosse imputabile all’operato dell’organo giudicante, sia nella differente ipotesi in cui il comportamento delle parti abbia determinato, colposamente o meno, il rallentamento della definizione della controversia.
[1] G. CHIOVENDA, Le forme nella difesa giudiziale del diritto, in Riv. it. Scienze giuridiche, 1901; P. CALAMANDREI, ripreso da G.BALENA, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità, in Giusto proc. civ, 2006
[2] Consultabile su www.gazzettaufficiale.it
[3] A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, 2° ed., VOL. VI, parte II, per cura di P. DEL GIUDICE, Storia della procedura, Torino, 1902
[4] F. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, p. 13 e ss
[5] Invero, nel 1860, la legislazione del Regno di Sardegna si arricchiva di R.D. con i quali venivano riconosciute le nuove province, unificate al Regno di Italia. Cfr. R.D. 18 marzo 1860, n. 4004; R.D. 22 marzo 1860, n. 4014; R.D. 30 giugno, n. 4139; R.D. 3 dicembre, n. 4497.
[6] M. ABBAMONTE, Il procedimento sommario di cognizione e la disciplina della conversione del rito, Milano, 2017, p. 34 e ss.
[7] P. CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, in Opere Giuridiche, a cura di M. CAPPELLETTI, Vol.IV, Napoli, 1970
[8]Cfr. G. CHIOVENDA, La riforma del procedimento civile proposta dalla Commissione per il dopoguerra. Relazione e testo annotato, Napoli, 1920, p. 66
[9] M. ABBAMONTE, op cit. , p. 43 e ss.
[10] In tali termini G. GUAGLIONE, La semplificazione dei riti – d.lgs. 150/2011, Relazione tenuta all’Incontro di studio dal C.S.M. in materia civile
[11] Recante la “Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie”, consultabile in olympus.uniurb.it
[12]Secondo cui «La domanda per la decisione delle controversie richiamate all'articolo 1 si propone nei modi previsti dagli articoli 163 e seguenti del Codice di procedura civile. La trattazione della causa, innanzi le Sezioni specializzate previste dalla presente legge, si svolge secondo le norme dettate dagli articoli 429 e seguenti del Codice stesso, in quanto applicabili», consultabile su www.gazzettaufficiale.it
[13] Cfr. G. FINOCCHIARO, La necessità di indicare regole processuali diverse risponde ai principi di efficienza e proporzionalità, in Guida dir., 2011, 63 e ss.
[14] Si pensi al procedimento di opposizione al verbale di accertamento del codice della strada di cui all’art. 204-bis del d.lgs. n. 285/1992, basato sul modello del ricorso in materia di diritto del lavoro
[15] In questi termini C. PUNZI, Le riforme del processo civile e degli strumenti alternativi per la soluzione delle controversie, in Riv. dir. proc., 2009, p. 5
[16] Così si è espresso G.BALENA, La delega per la riduzione e la semplificazione dei riti, in Foro.it, 2009, p. 351
[17] Cfr. A.BUCCI – A.M. SOLDI, Le nuove riforme del processo civile, Padova, 2009; A. PROTO PISANI, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero, in Foro.it, 2009
[18] C. PUNZI, Novità legislative e ulteriori proposte di riforma in materia di processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, mostrava molto scetticismo circa la concreta utilità di un nuovo rito sommario che si andava ad aggiungere ai modelli man mano introdotti dai precedenti legislatori.
[19] Il riferimento è alla Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 2 gennaio 2012, n. 3 e alla Corte di cassazione, sezione sesta civile, sottosezione terza, ordinanza 7 dicembre 2018, n. 31801.
Nell’ordinanza del 2018, invero, la Corte aveva statuito che «nel giudizio sommario non può mai disporsi la sospensione ai sensi degli artt. 295 o 337 c.p.c.: infatti, qualora nel corso di un procedimento introdotto con il rito sommario di cognizione […] insorga una questione di pregiudizialità rispetto ad altra controversia si determina la necessità di una istruzione non sommaria e, quindi, il giudice deve disporre il passaggio al rito della cognizione piena; sicchè, nell’ambito del rito sommario, è illegittima l’adozione di un provvedimento di sospensione».
L’Avvocatura, però, omette di considerare che, nel caso di specie, al giudice non è attribuita la facoltà di conversione, come auspicato dalla stessa giurisprudenza di legittimità citata, ed è questa una delle ragioni che hanno indotto la rimessione della questione al giudice delle leggi.
[20] A.A. ROMANO, Appunti sul nuovo procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ. 2010, 1, p. 168; F.P. LUISO, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur.it., 2009, p. 1568 e ss.
[21] Anche in tal caso, la dottrina si è divisa tra fautori del riconoscimento di una natura amministrativa della responsabilità e contrapposto orientamento che inquadrava l’istituto in ambito penale.
[22] M. DE CRISTOFARO, in AA. VV., Codice di procedura civile commentato, “La semplificazione” dei riti e le altre forme processuali, 2010-2011, a cura di C. CONSOLO, Milano, 2012, p. 32
[23] Collocato, per l’appunto, nel Libro II (Processo di cognizione), Titolo I (Procedimento davanti al Tribunale), Capo II (Istruzione della causa).
[24] Che prevede al sesto comma un articolato sistema di deposito memorie e termini per replica alle stesse che, se da un lato garantisce la piena formazione della prova e dell’istruttoria, dall’altro dilata – quasi sine die-il termine di conclusione del procedimento.
[25] A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela sommaria, in I processi speciali (studi offerti a Virginio Andrioli dai suoi allievi), Napoli, 1979, p. 312..
[26] Cfr. art. 633 e ss. c.p.c.
[27] Cfr. E. GARBAGNATI, Il procedimento d’ingiunzione, Milano, 1991, p. 5 e ss.
[28] La sommarietà nel procedimento per l’ottenimento di un decreto ingiuntivo è data da tre indici: l’assenza di contraddittorio; la decisione sulla base delle sole prove documentali prodotte dal ricorrente; ambito di cognizione limitato ai fatti costitutivi e alle questioni rilevabili d’ufficio emergenti ex actis. Cfr. E. GARBAGNATI, Il procedimento di ingiunzione, Milano, 2012,
[29] C. BESSO MARCHEIS, Il nuovo rito ex art. 702-bis c.p.c.: tra sommarietà del procedimento e pienezza della cognizione
[30] Vedi art. 140-bis, comma 11, c.p.c.
[31] Cfr. F. SANTAGADA, Il processo di classe davanti ai tribunali macro-regionali, in Giust. civ., 2010,
[32] L. 24 marzo 2001, n. 89, che prende il nome dal suo estensore, Michele Pinto. Nel corso degli anni, il cattivo funzionamento del sistema giudiziario ed il connesso “buon funzionamento” della disciplina contenuta in tale legge, hanno costretto il legislatore a dover modificare di volta in volta l’entità dei risarcimenti da corrispondere ai cittadini, il cui diritto alla giusta durata del processo veniva leso dalle lungaggini processuali. Si è passati, difatti, da un risarcimento pari ad € 1.500,00 per ogni anno di ritardo ad € 400,00. Tale riduzione è emblematica del numero di condanne che lo Stato ha subìto a causa della lentezza della “macchina della Giustizia”.
[33]Tale istituto determina profili di criticità in quanto si innesta nel complesso tema dei limiti all’efficacia del giudicato e alla possibilità che questo abbia mero valore interno, tra le pari, ovvero sia estendibile anche ai terzi.
Il tema, di non immediata comprensione, richiederebbe una trattazione separata ed una compiuta analisi delle due dottrine che nel corso degli anni si sono scontrate: da un lato Chiovenda, secondo cui il giudicato si limita al rapporto interno ed esclude i rapporti pregiudiziali; dall’altro chi, invece, per estendere l’ambito oggettivo del giudicato, come Satta, ritiene di dover comprendere anche le questioni pregiudiziali.
[34] Corte di Cass. 2 marzo 2005, n. 6170
[35] Cfr. S. SATTA, Nuove riflessioni in tema di accertamento incidentale, in Foro.it, 1948, p. 64 e ss.
[36] La tesi è da attribuire a Giuseppe Chiovenda, il quale veniva definito il “Maestro” della procedura civile e che era il maestro sia di Satta che di Andrioli, i quali hanno ripreso la sua teoria sul giudicato e l’hanno modificata, andando a creare quello scontro dottrinale che ha caratterizzato la scena giuridica.
Cfr. F. CIPRIANI, Giuseppe Chiovenda tra Salvatore Satta e Virgilio Andrioli, in Il Foro Italiano, 2002, p. 130 e ss.
[37] Cfr. G. CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, vol. III, rist., Milano, 1993, 231;
[38] Di avviso contrario circa tale possibilità è Trib. Bari, 22 aprile 2010, in Giurisprudenzabarese.it.
Il giudice monocratico, infatti, ritiene che nel caso in cui la domanda riconvenzionale sia di competenza collegiale, la dichiarazione di inammissibilità di cui all’art. 702-ter comma 2 c.p.c. vada estesa anche a quella principale, coinvolgendo tutto il procedimento.
[39] Cfr. G.OLIVIERI, Il procedimento sommario di cognizione (primissime brevi note), in www.judicium.it
[40] Secondo cui, in caso di connessione «tra cause che debbono essere decise dal tribunale in composizione monocratica, il giudice istruttore ne ordina la riunione» a meno che non ritenga di dover disporre la separazione «a norma dell’art. 279, secondo comma, numero 5».
[41] Cfr. sentenza n. 232 del 2013; nonché, conformemente, sentenze n. 174 del 2019, n. 82 del 2017 e n. 36 del 2016[42] Cfr. Corte Cost. 20 giugno 2019, n. 172, con cui il giudice delle leggi riconosce che «la nuova disciplina del procedimento in esame risponde, infatti, a una precisa scelta del legislatore; quella di fare, al riguardo, ricorso ad una istruttoria deformalizzata in vista dell’obiettivo, di rilievo costituzionale, di assicurare, nel rispetto dei principi fondamentali che governano il processo, la celerità e con ciò la “ragionevole durata” dello stesso.
Scelta, questa, che innegabilmente rientra nell’ampio margine di discrezionalità riservato al legislatore in materia processuale (ex plurimis, sentenze n. 45 del 2018 e n. 191 del 2016) e che, comunque, risponde ad una logica non estranea al sistema del nostro codice di rito».
[43] A. SALETTI, La semplificazione dei riti, in Riv. dir. proc., 2012
[44] Con riferimento a due giudicati tra loro contrastanti, cfr. Cass. Civ. 8 maggio 2009, n. 10623. Nella pronuncia citata, la Corte ha statuito che «ove sulla medesima questione si siano formati due giudicati contrastanti, al fine di stabilire quale dei due debba prevalere occorre fare riferimento al criterio temporale, nel senso che il secondo giudicato prevale in ogni caso sul primo, purché la seconda sentenza contraria ad altra precedente non sia stata sottoposta a revocazione, impugnazione peraltro ammessa esclusivamente ove la decisione oggetto della stessa non abbia pronunciato sulla relativa eccezione di giudicato».
[45] A conferma dell’atteggiamento benevolo della Corte circa l’economia processuale, si veda la sent. n. 58/2020 in cui statuisce che il legislatore, anche processuale, dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, limite che, con riferimento all’art. 24 Cost., viene superato solo qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire.
Si rimanda anche ad altri precedenti: ex plurimis, Corte cost. n. 271/2019; Corte cost. n. 199/2017; Corte cost. n. 44/2016.
[46] Per alcuni autori, il processo sommario di cognizione dovrebbe concludersi in un’unica udienza. Cfr. A. RONCO, Il procedimento sommario di cognizione, in Il nuovo processo societario, a cura di S. CHIARLONI, Bologna, 2004, p. 541 e ss.
[47] M. CATALDI, Il procedimento sommario di cognizione, Milano, 2013, p. 112 e ss; M. MINARDI, Il processo sommario di cognizione. Seconda lettura, in www.altalex.com, 23 luglio 2009, par. 5.2
[48] Cfr. M. BINA, Il procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2010, par. 3.
[49] Interessante è il pensiero di G. BALENA, Il procedimento sommario di cognizione, in Foro.it, 2009, V, p. 330 e ss.
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GIURISPRUDENZA
Corte costituzionale
Sent. 16 luglio 2013 n. 232 in penale.it
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Sent. 3 aprile 2017 n. 82 in giurcost.org/decisioni
Sent. 14 luglio 2017 n. 199 in giurcost.org/decisioni
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Tribunale
Trib. Bari, 22 aprile 2010 in giurisprudenzabarese.it