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Pubbl. Gio, 11 Feb 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Per la Corte Costituzionale ai detenuti ex art. 4-bis ord. pen. non può essere negato l´accesso ai trattamenti premiali

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Alessandro Carrà
AvvocatoUniversità degli Studi di Messina



Al detenuto per reati di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso non può essere negato l´accesso ai trattamenti premiali previsti dal sistema penitenziario per il solo fatto della sua mancata collaborazione con la giustizia; permane, in ogni caso, la presunzione di pericolosità sociale in capo al detenuto non collaborante, ma non in modo assoluto, giacché la stessa può essere superata qualora vi siano elementi tali da escludere che il detenuto abbia mantenuto dei collegamenti con l´associazione criminale o che vi sia il pericolo di un loro ripristino. Nota a Corte Costituzionale, 23 Ottobre 2019, n. 253.


ENG The detainee for crimes of mafia association or in mafia context cannot be denied access to the reward treatment provided by the penitentiary system for the only fact of his lack of collaboration with the justice system; in any case, the presumption of social dangerousness for the non-cooperating prisoner remains, but not absolutely, since the same can be overcome if there are elements such as to exclude that the prisoner has maintained links with the criminal association or that there is a danger of their restoration. Note to the Constitutional Court, 23 October 2019, n. 253.

Sommario: 1. Premessa: il caso affrontato dalla sentenza; 2. Origine e ratio  dell’art. 4-bis Ord. Pen. e del “ doppio binario penitenziario"; 3. Le questioni di costituzionalità sollevate; 4. I parametri costituzionali invocati (segue); 4.1. Il principio di ragionevolezza (brevi cenni); 4.2. La funzione rieducativa della pena (brevi cenni); 5. La pronuncia della Corte; 6. Conclusioni: conseguenze e prospettive derivanti dalla pronuncia. 

1.Premessa: il caso affrontato dalla sentenza

Con la sentenza della Corte Costituzionale, 23 Ottobre 2019, n. 253 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. Penitenziario [1] nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ostativi[2] possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia,  « allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti».[3]

In particolare, la Consulta ha ritenuto illegittima la presunzione assoluta di pericolosità sociale dei condannati non collaboranti operata dalla norma censurata, poiché in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., stabilendo che la stessa debba essere sostituita da una presunzione relativa, ovverosia che possa cedere a prova contraria[4].

La questione, come la Corte stessa non manca di precisare, non attiene al c.d. ergastolo ostativo, giacché non si estende alle preclusione alla concessione della liberazione condizionale all’ergastolano che abbia già scontato ventisei anni di carcere e non collabori con la giustizia[5], bensì riguarda l’impossibilità per coloro i quali sono stati condannati per i reati ostativi di cui all’art. 4-bis Ord. Penitenziario ad accedere ai permessi premio qualora non abbiano esercitato utile collaborazione con la giustizia; quest’ultimo requisito, che può trovare realizzazione anche dopo la condanna, consiste nell’essersi adoperato per evitare il verificarsi di ulteriori conseguenze dell’attività delittuosa o nell’aver fornito un concreto aiuto all’autorità giudiziaria nella raccolta di prove ed elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e l’individuazione degli autori dei reati.[6]

Pertanto,  la Corte, con la predetta pronuncia ha definitivamente censurato l’art. 4- bis nella parte in cui prevede che « la scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza rescissoria del legame con il sodalizio criminale»[7]; infatti, sebbene a parere della Consulta non sia irragionevole la presunzione che il condannato che non collabori abbia mantenuto il collegamento con l’organizzazione criminale, è irragionevole pretendere che la presunzione « non possa essere vinta da prova contraria, giacché l’assolutezza della presunzione, non consentendo «una specifica ed individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza»  del  percorso carcerario del condannato e per le sue « conseguenze afflittive ulteriori», si pone in contrasto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza e con il principio per cui la pena irrogata deve tendere alla rieducazione del condannato.

La pronuncia in esame, le cui conseguenze sulla fase dell’esecuzione della pena per i condannati per i reati ostativi sono evidenti e verranno di seguito analizzate, ha, in estrema sintesi, scardinato l’assolutezza del “doppio binario penitenziario”, ossia quel sistema introdotto dal legislatore degli anni novanta per differenziare il trattamento penitenziario dei condannati per reati di criminalità organizzata o altri reati dall’elevato disvalore, la cui commissione giustifica una giudizio prognostico di pericolosità sociale.[8]

2.Origine e ratio dell’art. 4-bis Ord. Pen. e del “ doppio binario penitenziario”

Al fine di poter procedere all’analisi dei passaggi fondamentali della sentenza n. 253/2019 emessa dalla Corte Costituzionale, occorre prima soffermarsi sulla ratio legis della disposizione dichiarata incostituzionale.[9]

L’art. 4-bis è stato introdotto nella legge sull’ordinamento penitenziario con il d.l 13 maggio 1991, n. 152, conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, « sull’onda del crescente allarme sociale alimentato dalle terribili stragi di mafia consumatesi nell’arco di tutto il decennio precedente»[10], giacché si era in quegli anni affermata l’idea che determinati fenomeni criminali, per la loro eccezionale pericolosità e gravità, esigessero una risposta differenziata ed antitetica rispetto al modello di progressività di trattamento consolidatosi negli anni precedenti[11], concretizzatasi in una pena detentiva quanto più possibile scontata al chiuso delle mura carcerarie.

Tale disciplina si applicava, come detto, ai reati contenuti nella norma e definiti ostativi, i quali venivano, a loro volta, suddivisi in “reati di prima fascia”, ossia quelli commessi per finalità di terrorismo o di eversione e i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art 416-bis c.p. o per agevolare l’attività di organizzazioni mafiose, ed i reati di “seconda fascia”, ovverosia i delitti positivizzati agli articoli 575, 628 comma 3 e 629 comma 2 c.p. e il delitto di cui all’art 73 T.U.S; per quel che riguarda i primi, la legge prevedeva che i condannati avrebbero potuto accedere alle misure alternative alla detenzione o al lavoro all’esterno solo nel caso in cui fossero stati acquisiti elementi probatori che facessero escludere l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata o eversiva[12], mentre per i condannati per i reati di seconda fascia il requisito per l’accesso alle misure premiali era meno rigoroso, giacché non veniva richiesta l’acquisizione di elementi tali da fra escludere il collegamento, bensì l’assenza di elementi che facessero presumere tale rapporto perdurante con l’associazione criminale.[13]

La predetta disciplina, però, restò in vigore solamente per tredici mesi, in quanto, con il D.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in L. 7 agosto 1992, n.356, il primo comma dell’art. 4-bis Ord. Pen. venne interamente riscritto; l’esigenza di un ulteriore ricorso alla decretazione d’urgenza fu dettata, comprensibilmente, dal clima di allarme e di terrore scaturito dalla strage di Capaci ed, infatti, mirava ad irrigidire la disciplina dei condannati per i reati ostativi, in particolare quelli associativi,[14] subordinando la concessione delle misure premiali ai condannati per reati di “prima fascia” al non surrogabile requisito dell’effettiva collaborazione con la giustizia[15].

In applicazione esegetica dell’art 4- bis Ord. Pen., così come modificato nel 1992, il condannato per un reato ostativo di “prima fascia” collaborante con la giustizia potrebbe ottenere di accedere ad una misura alternativa o premiale anche in deroga ai limiti generali posti dall’ordinamento penitenziario, allorché il condannato non collaborante non può usufruire in assoluto di alcuno strumento premiale volto a favorire il reinserimento sociale[16], ad eccezione della  sola misura della liberazione anticipata[17].

La collaborazione con la giustizia diviene, dunque, una sorta di “onere”[18] per il detenuto che voglia beneficiare dei premi legati al proprio percorso rieducativo, tant’è che taluno in dottrina ha affermato che, in questo caso, il legislatore si è servito del sistema penitenziario « non solo come strumento di neutralizzazione (…), bensì anche come strumento di orientamento di tali condannati verso scelte di collaborazione con la giustizia»[19].

Il soggetto non collaborante, infatti, veniva considerato dalla legge in modo automatico socialmente pericoloso, giacché si presumeva in maniera assoluta perdurante il collegamento con il gruppo criminale di provenienza.

Al contrario, per quanto riguarda i casi di prestata collaborazione, non scattava un automatismo simile, poiché la concessione dei benefici era subordinata al giudizio di merito circa la sussistenza dei presupposti per la concessione della misura premiale dinanzi alla Magistratura di Sorveglianza, la quale non poteva esimersi «dall’acquisire le informazioni da parte del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica competente e da parte del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale, così come prescritto ai commi 2 e 3 bis dell’art. 4 bis o.p.»[20].

Per un lungo periodo, la Corte Costituzionale ha rigettato tutte le censure di illegittimità della norma in esame sollevate[21]: sin dalla prima sentenza sul punto – n. 306/1993-  seppur riconoscendo che la decisione di collaborare può derivare esclusivamente da mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi concessi dalla legge e che la scelta legislativa sottesa alla norma in esame determina «una rilevante compressione della finalità rieducativa della pena»[22],  la Consulta afferma che la collaborazione con la giustizia sia di per sé indicativa della recisione dei rapporti con il crimine organizzato o eversivo ed approva la linea seguita dal legislatore, volta a « privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività».

Ancora più emblematica di qual sia stata la posizione della Corte circa l’art. 4- bis Ord. Pen., fino alla sentenza in commento, è la pronuncia n. 135/2003, nella cui parte motiva si legge che, essendo l’accesso ai benefici dipendente dalla libera volontà del condannato, non sia riscontrabile alcun vulnus all’art. 27, comma 3, Cost., non risolvendosi la previsione in un automatismo.

Pertanto, come già anticipato, la sentenza n. 253/2019 ha segnato una svolta sostanziale nel sistema penitenziario, abbattendo il precedente regime preclusivo nei confronti dei  condannati non collaboranti, sulla base della convinzione che « il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente - negandogli benefici riconosciuti a tutti - se non collabora. In questo caso, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti».[23]  

Non può tacersi, in ogni caso, come taluno ha sottolineato[24], che il predetto “cambio di rotta ” poteva ritenersi preannunciato, alla luce dei recenti arresti con cui il giudice delle leggi ha ribadito « il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur, legittima funzione della pena».[25]

3.Le questioni di costituzionalità sollevate

La sentenza n. 253 del 2019 origina da due distinte ordinanze sollevate rispettivamente dalla prima sezione della Corte di Cassazione[26] e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia[27], le quali sono state riunite nel giudizio dinanzi alla Consulta, giacché entrambe, oltre ad investire l’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen. in relazione all’impossibilità per il detenuto che non abbia collaborato con la giustizia di ottenere permessi premio, indicano, seppur con argomentazioni e ragioni parzialmente differenti, i medesimi parametri di legittimità costituzionale, ossia gli articoli 3 e 27 della Costituzione.

Inoltre, anche le fattispecie al vaglio dei due giudici a quibus erano sovrapponibili, poiché riguardavano delle richieste di permesso premio, in assenza di collaborazione con la giustizia, da parte di due condannati alla pena dell’ergastolo per reati ostativi: segnatamente, nel caso di specie, per delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis c.p. e per altri delitti connessi a tale  fenomeno criminale.

Com’è intuitivo, sulla base disciplina in quel momento vigente, in applicazione esegetica dell’art. 4- bis Ord. Pen., al magistrato era impedita la valutazione nel merito di tali istanze provenienti da detenuti non collaboranti, poiché la presunzione assoluta di pericolosità sociale di cui alla  predetta norma negava ab origine tale possibilità.

Pertanto, non sussistendo altro modo per procedere ad una valutazione nel merito che quello di adire la Corte Costituzionale censurando l’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen. nella parte in cui prevede la più volte citata presunzione assoluta di pericolosità sociale, è evidente la rilevanza della questione ed in questo senso i due giudici a quibus hanno argomentato nelle rispettive ordinanze di rimessione sul punto della sussistenza di tale requisito.[28].

Del medesimo tenore sono state le argomentazioni dei due giudici rimettenti circa la non manifesta infondatezza della questione, giacché, stante la presenza nella disposizione censurata della presunzione assoluta di pericolosità sociale, non è possibile attuare in concreto i principi di gradualità e alla flessibilità della pena e della risposta sanzionatoria dell’ordinamento, considerate dalla giurisprudenza costituzionale corollari imprescindibili dell’art. 3 e dell’art. 27, comma 3, Cost. così come la non sacrificabilità della finalità rieducativa della pena a beneficio di qualsiasi altro, seppur legittimo, scopo.[29]

Invero, per quanto riguarda le argomentazioni delle questioni nello specifico, occorre preliminarmente ribadire quanto detto sopra, ossia che sebbene entrambi i giudici a quibus adducano quali parametri di legittimità costituzionale,  il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3, Cost. e il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, comma 3, Cost., le motivazioni delle due ordinanze mostrano delle differenze significative.

Infatti, laddove la Corte di Cassazione, pur argomentando sulla  violazione dell’art. 27, comma 3, Cost. in relazione alla peculiare e contingente  funzione del permesso premio di consentire al detenuto di curare specifici interessi affettivi, culturali o lavorativi[30], imposta prevalentemente la questione sull’irragionevolezza delle presunzioni assolute limitative di diritti fondamentali e sul conseguente contrasto con l’art. 3 Cost. nel caso in cui non siano suffragate da  «dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit»[31], il Tribunale di Sorveglianza di Perugia concede uno spazio più ampio alle argomentazioni relative alla violazione del principio della funzione rieducativa della pena, sulla scorta della convinzione che « impedire una valutazione del caso concreto che valorizzi l’individualizzazione della risposta sanzionatoria, imponendo una preclusione di accesso ai benefici in assenza di collaborazione, lede l’essenza stessa dell’ideale rieducativo con il rischio di preoccupanti derive verso il diritto penale d’autore» [32].

Più specificamente, secondo il Tribunale di Sorveglianza perugino, la presunzione assoluta al vaglio è inevitabilmente in contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena, in quanto la più recente interpretazione di tali principi nel quadro del sistema penitenziario da parte del giudice delle leggi[33] impone «valutazioni soltanto individualizzate che accolgano l’elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale organizzato di appartenenza, ma non esclusivo, con l’obbiettivo di garantire alla magistratura di sorveglianza lo spazio per un vaglio approfondito e globale del percorso rieducativo eventualmente condotto dall’istante»[34].

Per la Corte di Cassazione, invece, ad essere irragionevole è qualsiasi preclusione assoluta, ove arbitraria ed irrazionale, e, nello specifico, appare esserlo, secondo i giudici di legittimità, quella contenuta nell’art. 4- bis, comma 1, Ord. Pen., dal momento che la predetta norma, nell’operare la censurata preclusione all’accesso ai benefici penitenziari a tutti i detenuti per reati ostativi non collaboranti, non effettua alcuna distinzione fra soggetti che continuano a mantenere un collegamento con un’organizzazione criminale e gli altri che, pur non collaborando, abbiamo effettivamente reciso il legame con l’organizzazione.

A sostegno della superiore tesi, la Corte di Cassazione cita le  ordinanze n. 57/2013 e  n. 48/2015  della Consulta, con cui, relativamente alla fase delle indagini preliminari e alla fase dibattimentale, è stata abbattuta la presunzione assoluta di pericolosità sociale con riferimento ai soggetti indagati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416- bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo e agli indagati per concorso esterno in associazione mafiosa; con riferimento alla fase di esecuzione della pena la Cassazione  cita nell’ordinanza di rimessione le sentenze n. 239/2014, n. 76/2017 e n. 149/2018, «in cui vengono affermati principi fondamentali tra cui la progressività trattamentale, la flessibilità della pena e la non sacrificabilità della finalità rieducativa della pena sull’altare di qualsiasi altra funzione, con la conseguente legittimità delle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari solo allorquando siano sorrette da una valutazione individualizzata del trattamento penitenziario che passi necessariamente attraverso una valutazione discrezionale del caso concreto da parte della Magistratura di Sorveglianza»[35].

Inoltre, sempre a sostegno della tesi dell’irragionevolezza della preclusione, la Cassazione richiama testualmente la requisitoria del procuratore generale, il quale ha affermato che la presunzione in esame, riferita ad un ampio e diversificato novero di condotte delittuose, impedisce ad una indefinita e multiforme categoria di condannati «il diritto a ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilità di verificare in concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosità sociale».[36]

Di fatto, secondo il procuratore generale e la Corte di Cassazione, è vero che la collaborazione appare un’indicazione inequivocabile del distacco dall’organizzazione criminale, ma è, altresì, vero che la rescissione del legame con il sodalizio può e deve essere provata anche in altro modo, poiché la scelta di non collaborare può dipendere da motivazioni non in conflitto con il percorso di rieducativo del condannato, quali, ad esempio, il timore per l’incolumità propria e dei propri familiari, la resistenza morale a denunciare un parente o il rifiuto di una collaborazione meramente utilitaristica.

Queste sono, dunque, le  questioni rimesse al vaglio della Corte Costituzionale dai giudici rimettenti, a cui si aggiunge nel quadro complessivo la costituzione  nel giudizio di legittimità dei ricorrenti nei giudizi a quibus e del Garante Nazionale della libertà delle persone private, i quali,  hanno lamentato, altresì, la violazione dell’art. 117 Cost. in combinato disposto con il parametro interposto di cui all’art. 3 Cedu[37], richiamando anche la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Viola c. Italia[38], nel frattempo pronunciata a Strasburgo in data 13 giugno 2019, e chiedendo alla Consulta, sulla scorta dei principi esegetici desumibili da quest’ultima pronuncia, di valutare l’opportunità di estendere la sua pronuncia, ex art. 27 della legge n. 87/1953, all’art. 4- bis, comma 1, Ord. Pen. nella parte in cui subordina alla collaborazione con la giustizia ex art. 58- ter Ord. Pen. l’accesso alle misure alternative alla detenzione ( non solo, quindi, per quanto riguarda l’accesso ai permessi premio).

In ogni caso, relativamente a quest’ultima doglianza, sebbene da più parti in dottrina si auspicasse «una possibile pronuncia consequenziale che, andando ad involgere il meccanismo preclusivo di cui all’art. 4- bis, comma 1, o.p. nella sua interezza, facesse venire meno la preclusione di accesso non solo con riferimento ai permessi premio ma a tutti i benefici richiamati dall’art. 4 bis comma 1 o.p.»[39], la Corte ha osservato che il fatto che entrambi i ricorrenti erano stati condannati all’ergastolo ostativo era una mera contingenza, in quanto la questione non involgeva tale pena perpetua, a differenza della sentenza Viola c. Italia, il cui riferimento è stato ritenuto dal giudice delle leggi inopportuno; in quel caso, infatti, il giudizio riguardava il  meccanismo preclusivo di accesso ai benefici penitenziari per i condannati per i delitti ostativi di cui all’art. 4- bis o. p. solo in relazione al permesso premio, senza che venisse contestata la legittimità costituzionale divieto di accesso alla liberazione condizionale per l’ergastolano ostativo che non collabori con la giustizia.[40]

Quanto poi al parametro dell’art. 117 Cost., in combinato disposto con l’art. 3 Cedu, invocato dai ricorrenti nei giudizi a quibus, la Consulta ha osservato che nessuna delle due ordinanze di rimessione ne fa menzione: pertanto la valutazione di tale ulteriore profilo di illegittimità non le è consentito.

Occorre, infine, per completezza, fare menzione dell’intervento nel giudizio di legittimità costituzionale dell’Avvocatura dello Stato, la quale ha sostenuto la validità della scelta legislativa compiuta nella norma in esame anche di fronte alla peculiare natura del permesso premio, atteso che la predetta disposizione assolverebbe a fondamentali esigenze di sicurezza della collettività e di prevenzione generale.[41]

Non occorre approfondire ulteriormente quest’ultima tesi, dal momento che, com’è stato più volte anticipato, con la pronuncia n. 253 del 2019 la Corte Costituzionale ha mostrato di aderire a tutt’altro orientamento, avendo dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4- bis nella parte in cui prevede la presunzione assoluta di pericolosità sociale per i detenuti per reati ostativi.

Di seguito verranno presi in esame i passaggi cruciali dell’iter logico-argomentativo del giudice delle leggi in questa sentenza destinata a segnare uno snodo fondamentale nel percorso evolutivo del nostro sistema penitenziario.

  

4. I parametri costituzionali invocati (segue)

Appare opportuno, prima di passare all’esame dei temi cruciali affrontati dalla Corte nella pronuncia n. 253 del 2019, soffermarsi brevemente, dal punto di vista concettuale, su quelli che sono stati i parametri costituzionali addotti dai giudici rimettenti che hanno definito il perimetro del sindacato rimesso alla Consulta, ossia i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena, rispettivamente sottesi agli articoli 3 e 27, comma 3, Cost.

4.1. Il principio di ragionevolezza (brevi cenni)

Come da più parti rilevato[42], parlare del principio di ragionevolezza equivale a parlare del lavoro quotidiano della Consulta, giacché, ad oggi, il sindacato sulla ragionevolezza delle leggi risulta essere regolarmente invocato dalle parti, anche a prescindere da ogni riferimento al principio di uguaglianza, dal quale si è definitivamente emancipato.

Infatti, sin dalle prime pronunce[43], il giudizio di ragionevolezza « è stato ancorato al principio di uguaglianza e, dunque, all’art. 3 Cost., verificandosi così, in primo luogo, se le differenziazioni introdotte in sede di disciplina legislativa siano compatibili con tale principio»[44]; in questa accezione, il canone della ragionevolezza mirerebbe esclusivamente alla valutazione delle disposizioni normative che potrebbero contenere delle ingiustificate disparità di trattamento fra cittadini, avendo, perciò, una struttura ternaria che si concreta in un giudizio volto a stabilire se tra la norma supposta incostituzionale ed un'altra che regola la stessa materia o una situazione equiparabile (cd. tertium comparationis) esistono incongruità o contraddizioni insanabili.[45]

«Nei decenni successivi, la Corte costituzionale italiana è andata ancora oltre ed ha iniziato ad ampliare lo scrutinio di ragionevolezza, sganciandolo dal principio di uguaglianza, e dichiarando incostituzionale una disposizione o una norma (Disposizione e norma) non più in virtù dell’art. 3, co. 1, Cost., ma perché irragionevole tout court. In molti casi, poi, la ragionevolezza è stata invocata per respingere la questione di costituzionalità proposta»[46].

Il principio di ragionevolezza ha, dunque, acquisito oggi una propria autonomia rispetto alla Carta costituzionale, tant’è che da più parti si sottolinea che il principio in parola viene utilizzato, dal punto di vista logico-ermeneutico, come complemento e a sostegno di qualsiasi altro parametro costituzionale invocato nel giudizio; v’è, dunque, un intimo legame tra la ragionevolezza ed il resto dell’alveo dei  principi costituzionali, poiché, per la sua pervasività e onnipresenza, il canone in parola spiega costantemente la sua influenza su tutti gli altri valori  costituzionali.[47]

Il sindacato di ragionevolezza, intesa nella seconda accezione descritta, viene definito «giudizio di ragionevolezza in senso stretto»[48], poiché prescinde da raffronti con altre norme, avendo, piuttosto, il fine di esaminare la rispondenza degli interessi e dei valori tutelati dalla legge ai principi della Costituzione o al bilanciamento degli stessi.

Nei giudizi nei quali si discute di valori e di principi, e, alle volte, si esige il complesso e delicato bilanciamento fra essi: infatti,  bisogna «applicare una logica aperta e flessibile, in cui i principi e i valori assunti a parametro, di volta in volta, si definiscono e si riempiono di contenuti, collocandosi in un ordine relazionale sempre diverso»[49].

Il flessibile canone della ragionevolezza, che, infatti, si presta a più rappresentazioni , costituisce un parametro fondamentale, come ribadito numerose volte dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea; al contempo, il predetto canone è carico di un’intrinseca discrezionalità,  in quanto può coinvolgere, in una ipotetica fattispecie, il bilanciamento di diritti fondamentali, valori e principi, anche extra-giuridici, aprendo la via sindacati di proporzionalità, congruità, pertinenza, etc.[50]

«La ragionevolezza, inoltre, può consistere anche in una valutazione di adeguatezza, proporzionalità, coerenza e non difformità rispetto al sistema, necessità e plausibilità del mezzo (legge) rispetto al fine perseguito».[51]                                                                                                                                      

L’eterogenea tavola dei significati attribuibili al principio di ragionevolezza ha, spesso, reso velleitari i vari tentativi di un suo inquadramento concettuale in una sfera unitaria esegetica.

Pertanto, più che proporne una definizione, risulta più utile proporre uno schema delle varie funzioni attribuibili al sindacato di ragionevolezza[52]; tali funzioni, sommariamente elencate, sono i giudizi sulla finalità della legge rispetto agli scopi costituzionali, sulla pertinenza e congruità dei mezzi rispetto ai fini, sull’arbitrarietà della legge, sulla sua coerenza con l’ordinamento etc.

Delineato brevemente il quadro concettuale intorno al principio di ragionevolezza, ai fini dell’esame della sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, risulta di particolare interesse soffermarsi su quelli che l'ex presidente della Consulta Cartabia, nel 2013, definiva gli «ambiti emergenti»[53] in cui il principio in esame ha assunto un grande rilievo, ossia il bilanciamento dei diritti in conflitto e quello degli automatismi legislativi.[54]

Da quanto sin qui detto, appare di evidente percezione la pertinenza della predetta osservazione in relazione alla  vicenda in esame, giacché la Corte costituzionale per dirimere le questioni ha dovuto, come vedremo, operare un bilanciamento fra esigenze e valori di rango primario tra loro contrastanti: ad esempio i principi legati alla sicurezza nazionale e alla funzione general-preventiva della pena con la funzione rieducativa e il divieto di trattamenti disumani per il detenuto ed, inoltre, fulcro della vicenda è la supposta illegittimità di un automatismo legislativo, quale la preclusione automatica ai permessi premio per i detenuti non collaboranti in virtù della presunzione assoluta di pericolosità sociale di cui all’art. 4- bis, comma I, ord. pen.

4.2. La funzione rieducativa della pena (brevi cenni)

L’evoluzione del concetto di pena e, in generale, del diritto penale è stata brillantemente sintetizzata nell’espressione «lunga fuoriuscita dalla vendetta»[55], giacché da una funzione essenzialmente retributiva della pena, ossia pena come vendetta, passando per una funzione general-preventiva, secondo cui la pena spiega effetto intimidatorio e di conseguenza educativo nei confronti di tutti i consociati, si è arrivati alle più moderne concezioni che attribuiscono alla pena carattere general- preventivo, ove l’obiettivo a cui tendere è la risocializzazione del condannato[56]; parallelamente, si è sviluppata una teoria definita dell’emenda, subito, però, tacciata come assoluta, poiché l’unico fine della pena secondo tale concezione sarebbe quello della rigenerazione morale del reo in un ambito strettamente etico-individuale, «come se davvero lo scopo perseguito dallo Stato nell’esercizio di un magistero possa essere quello di promuovere il benessere morale dei cittadini “uti singuli”, indipendentemente da ogni preoccupazione circa le conseguenze sociali dei loro comportamenti»[57].

La Costituzione, come più volte accennato nel corso dell’esposizione, contiene una norma dedicata alla natura e al finalismo della pena, ossia l’art. 27, comma 3[58].

Dopo aver enunciato, rispettivamente al primo e secondo comma della predetta disposizione, il principio di responsabilità penale personale e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva, il terzo comma così recita : «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Pertanto, oltre  a disporre divieto di trattamenti disumani, la predetta norma assume una posizione forte sulla funzione della pena, che a tenore letterale, deve tendere alla rieducazione del condannato, superando i  limiti della teoria della prevenzione speciale e dell’emenda.

La rieducazione, infatti, pur condividendo  con l’emenda morale la convinzione della centralità ed essenzialità dell’esperienza afflittiva della pena ai fini dell’obbiettivo perseguito, non ricerca la rigenerazione morale dell’individuo, interessandosi piuttosto a promuovere il radicamento e la consapevolezza di quei valori fondamentali senza i quali la convivenza civile non sarebbe possibile; allo stesso modo, pur essendo vicina alla risocializzazione, la rieducazione mira a promuovere solo alcuni fondamentali valori della convivenza civile, non aspirando affatto a «promuovere quell’improbabile e sostanzialmente velleitaria operazione di socializzazione secondaria o sostitutiva di carenti processi di socializzazione primaria con cui la rieducazione-risocializzazione è stata fatta tradizionalmente coincidere»[59].

Nei suoi arresti giurisprudenziali più risalenti, la Corte Costituzionale ha fatto propria una concezione polifunzionale della pena, secondo la quale il principio rieducativo « dovendo agire in concorso con le altre funzioni della pena, non può essere inteso in senso esclusivo ed assoluto», per cui la rieducazione va posta «nell’ambito della pena, umanamente intesa ed applicata», perché «pur nella importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio»[60].

A partire dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso comincia, poi, il lungo « cammino di valorizzazione»[61] della rieducazione ad opera della Consulta, che attribuisce a tale funzione della pena il rango di « fine ultimo e risolutivo della pena»[62] ed individua un vero e proprio diritto del condannato alla rieducazione.[63]

Nel processo di valorizzazione della pena occorre, altresì, segnalare la sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988, con la quale viene dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile; quest’ultima pronuncia ha avuto, altresì, il merito di ancorare per la prima volta il principio di colpevolezza alla finalità rieducativa della pena[64].

Nel segno di continuità con questa linea giurisprudenziale si colloca, in tempi più recenti, la sentenza n. 322 del 2007 emessa dal giudice delle leggi, nella quella si sottolinea che la colpevolezza «svolge un ruolo “fondante” rispetto alla funzione rieducativa della pena...., poiché non avrebbe senso rieducare chi non ha bisogno di essere rieducato, non versando almeno in colpa rispetto al fatto commesso»[65]; con ciò si intende che la funzione rieducativa non può essere sacrificata dal legislatore a vantaggio di altre funzioni della pena che possano essere perseguite a prescindere dalla rimproverabilità dell’autore del fatto illecito.

E’ nel solco di questa apertura giurisprudenziale verso la centralità e la non sacrificabilità della funzione rieducativa che si deve inquadrare la sentenza n. 253 del 2019, i cui passaggi motivazionali salienti verranno presi in esame nel paragrafo che segue.

5. La pronuncia della Corte

A fronte delle questioni formulate e degli interventi spiegati nel giudizio di legittimità, la Corte Costituzionale ha dovuto, innanzitutto, delimitare il perimetro del proprio thema decidendum[66], escludendo recisamente, come già anticipato, l’ergastolo ostativo e la liberazione condizionale da quello che è l’oggetto della questione, ossia il meccanismo ex art. 4 -bis ord .pen. che impediva in modo assoluto ai condannati per reati ostativi non collaboranti l’accesso ai permessi premio disciplinati dall’art. 30-ter, ord. pen.

Definito il perimetro del giudizio, la Consulta effettua, nella motivazione della sentenza n. 253/2019 in esame, un breve excursus sull’evoluzione dell’art. 4- bis, ord. pen, per la quale si rimanda a quanto detto nel secondo paragrafo.

Di seguito viene menzionata la sentenza n. 306/1993, che già aveva sollevato perplessità sul fatto che collaborare con la giustizia sarebbe la sola possibile indicazione della volontà del condannato di sottoporsi alla rieducazione penitenziaria in maniera fruttuosa: «da un lato, infatti, la scelta può essere dettata da ragioni opportunistiche, dall’altro non è solo la scelta collaborativa a poter essere apprezzata in chiave di ravvedimento del condannato».[67]

Quindi, la Consulta, dopo aver dichiarato di esaminare nel merito le sole questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, poiché osserva che queste, riferendosi anche ai condannati per reati di contesto mafioso e non solo a quelli per partecipazione in associazione mafiosa, assorbirebbero, se fondate, quelle rilevate dalla Cassazione,[68] afferma che non è la presunzione di attualità del collegamento con la matrice criminale in assenza di collaborazione, in sé, a risultare incostituzionale, bensì la assolutezza di tale presunzione.

Tale illegittimità costituzionale risulta tale, a giudizio della Corte, secondo tre distinti profili di seguito presi in esame ed esplicitati.

In primo luogo, la Corte rileva che «mentre è corretto premiare la collaborazione con la giustizia prestata anche dopo la condanna, non è costituzionalmente ammissibile punire la mancata collaborazione, impedendo al detenuto non collaborante l’accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti», e ciò perché si determinerebbero conseguenze afflittive ulteriori rispetto alla condanna subita a carico del detenuto non collaborante.

Infatti, « un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante»(considerando n. 8).

Pertanto, non trattandosi di un regime premiale, il quale mediante l’utilizzo di diversi parametri valutativi potrebbe essere giustificato[69], bensì di un regime peggiorativo, la Corte, in prima battuta, ne ha rilevato il contrasto con gli articoli 3 e 27, comma 3, Cost. per violazione dei principi di proporzionalità della pena, della funzione rieducativa e del principio di ragionevolezza-uguaglianza, inteso nella sua natura trilatera, ossia come giudizio volto a stabilire se tra la norma supposta incostituzionale ed un'altra che regola la stessa materia o una situazione equiparabile ( cd. tertium comparationis), esistono incongruità o contraddizioni insanabili; in questo caso con le norme che regolano la concessione dei permessi premio ai detenuti “non ostativi”.

Quanto al secondo profilo, la Consulta rileva che «l’assolutezza della presunzione impedisce al magistrato di sorveglianza di valutare in concreto il percorso carcerario del singolo condannato[..]» ponendosi «in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale» (considerando n. 8.3); infatti, la stessa Corte, da ultimo nella già menzionata sentenza n. 149/2018, citata anche da Tribunale di sorveglianza di Perugia, afferma che occorre una valutazione differenziata e peculiare in materia di benefici penitenziari, pena il contrasto con la Costituzione.

Proseguendo su tale falsariga, nella sentenza in esame si legge  che  al magistrato di sorveglianza deve essere consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto, giacché  il permesso premio rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma del trattamento rieducativo e tale valutazione avviene non in maniera statica, ma progressiva, ossia, regolarmente, in tutto l’arco di tempo della detenzione.

Infatti, com’è stato rilevato anche dalla Corte, l’inammissibilità assoluta della concessione dei permessi premio ai detenuti per reati ostativi «può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada»[70]; pertanto, ritenendo sia fase valutativa, sia la fase, eventualmente, applicativa della misura premiale strumenti essenziali ai fini dell’attuazione concreta della funzione rieducativa, la presunzione assoluta di pericolosità sociale di cui all’art. 4- bis, comma 1, ord. pen. è stata dichiarata incostituzionale anche sotto il profilo del contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost.

Infine, il terzo ed ultimo profilo di incostituzionalità rilevato dalla Corte attiene alla non rispondenza della presunzione assoluta censurata al criterio dell’id quod plerumque accidit e, di conseguenza, all’irragionevolezza del meccanismo preclusivo in esame; in questo caso si tratta del risultato di un «giudizio di ragionevolezza in senso stretto»[71], poiché l’irragionevolezza non si deduce dal raffronto dell’art . 4- bis, comma, 1 ord. pen. con un'altra o più  norme, bensì dall’esame della «generalizzazione a base statistica» su cui si fondava l’automatismo in parola.

«Per non essere irragionevole, però, questa generalizzazione deve poter essere contraddetta nei singoli casi – tanto più con il trascorrere della detenzione – dalla presenza di elementi che ne smentiscano il presupposto. In sostanza, la detenzione può determinare cambiamenti sia nel detenuto sia nel contesto esterno in cui egli potrebbe essere ricollocato, sia pure brevemente e temporaneamente con il permesso premio. E questi eventuali cambiamenti devono poter essere oggetto di una specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza» (considerando n. 8).

Pertanto, in applicazione esegetica del dettame della Corte, essendo rilevabili o ipotizzabili, tramite il predetto criterio dell’id quod plerumque accidit, molteplici casi in cui la generalizzazione statistica per cui un detenuto per delitti ostativi non collaborante abbia mantenuto i collegamenti con la matrice criminale e continui ad essere pericoloso può venire contraddetta, un meccanismo fondato su un parametro che non tenga conto delle possibili e probabili peculiarità del caso concreto non può che essere irragionevole; sarebbe invece ragionevole una presunzione che possa essere, invece, contraddetta nei singoli casi, tramite la valutazione di ulteriori parametri indicativi dell’esito positivo del trattamento rieducativo sul detenuto.   

Come già rilevato supra, quello degli automatismi legislativi è uno degli «ambiti emergenti»[72] in cui il principio di ragionevolezza ha assunto un rilievo sempre maggiore, poiché, come viene sottolineato nella sentenza in esame, in caso di presunzioni legali o altro meccanismo legislativo che non lasci spazio a prova contraria, la Consulta stessa ha più volte ribadito che il parametro per valutarne l’illegittimità è la possibilità o meno di «formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa». (considerando n. 8.3)

Occorre, tuttavia, sottolineare che, sebbene con la pronuncia in esame la presunzione assoluta di collegamento con l’ambiente criminale da assoluta divenga relativa, tale automatismo può essere superato solo sulla scorta di «valutazioni particolarmente rigorose»[73], che non si limitino alla mera partecipazione al percorso rieducativo o alla regolare condotta carceraria, tali per cui si possa escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, ricalcando, quasi specularmente, la disciplina prevista per i casi di collaborazione, inesigibile, impossibile o irrilevante[74], ove la prova dei requisiti a supporto della concessione dei benefici ricade sul detenuto che ne presenti richiesta.[75]   

In conclusione, dopo aver argomentato sui tre profili relativi all’illegittimità costituzionale della norma censurata, la Corte ha ritenuto di dover estendere, in via consequenziale, i sensi dell’art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, l’intervento parzialmente demolitorio a tutti i reati compresi nell’elenco contenuto nel primo comma dell’art. 4- bis Ord. Pen., ossia a tutti i cosiddetti reati ostativi, affermando che : «non estendere l’intervento compiuto con la presente sentenza a tutti i reati previsti dal primo comma dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (al di là, quindi, di quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”) finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta», poiché qualora la dichiarazione di incostituzionalità non venisse estesa a tutti gli altri reati ostativi «ne deriverebbe una paradossale disparità di trattamento in danno dei detenuti per i quali possono essere del tutto privi di giustificazione sia il requisito della collaborazione con la giustizia sia la dimostrazione dell’assenza di legami con un inesistente sodalizio criminale di originaria appartenenza» (considerando n. 10).

6. Conclusioni: conseguenze e prospettive derivanti dalla pronuncia

La pronuncia in esame, per le ragioni sopra analizzate, ha scardinato il sistema del “doppio binario penitenziario” di cui all’art. 4- bis, comma 1, o. p., facendo sì che, almeno per quanto riguarda la possibile concessione dei permessi premio, il percorso carcerario di nessun detenuto possa essere ritenuto del tutto irrilevante.[76]

In ogni caso, come rilevato nel paragrafo che precede, non è sufficiente una valutazione positiva del percorso carcerario per la concessione automatica del permesso, giacché in merito alla verifica sull’attualità di collegamenti con l’organizzazione criminale scatta un meccanismo di «probatio quasi diabolica»[77] gravante interamente sul detenuto, il quale è tenuto fornire «elementi fattuali specifici, concreti ed attuali»[78], a sostegno della sua richiesta.

Occorre sottolineare che, secondo il dettame della Consulta, il magistrato di sorveglianza dovrà acquisire tali elementi allegati dal detenuto di concerto ad ulteriori informazioni dalle altre autorità competenti, ossia la direzione della struttura carceraria e la Procura nazionale antimafia; inoltre «il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali» (considerando n. 9).

In altre parole, secondo quanto affermato dal giudice delle leggi grava sul condannato che richieda il beneficio l’onere di fare specifica allegazione degli elementi che possano dimostrare sia la non attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di un loro ripristino.

Come già anticipato, il suddetto onere della prova a carico del detenuto può, in taluni casi, risultare di difficile, se non impossibile, assolvimento; infatti, nel caso in cui, anche per qualche motivo ambientale e indipendente dalla volontà del condannato, la Procura antimafia segnala la possibilità di un ripristino del collegamento, la prova grava interamente sul detenuto, il quale avrebbe l’onere di allegare elementi che smentiscano l’attualità o il pericolo di ripristino dei collegamenti segnalati dall’Autorità.[79]

In ogni caso, è evidente che l’eco di tale pronuncia, che si va ad aggiungere al grande risalto mediatico avuto dalla già citata sentenza della Corte EDU Viola c Italia, ha imposto al legislatore l’onere di vagliare nuove prospettive per quanto riguarda la disciplina del trattamento penitenziario.

In particolare, con una relazione approvata il 20 maggio 2020 e comunicata alle camere il 1 giugno 2020, la Commissione  parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali ha richiesto al legislatore una importante riforma del regime dei delitti ostativi disciplinati dall’art.4-bis Ord. Pen., tale che, alla luce dei principi esegetici dedotti dalla predetta pronuncia Viola c Italia e dalla sentenza in commento, possa resistere a futuri sindacati di costituzionalità[80].

L’auspicio della Commissione, così come di un’ampia parte della dottrina, soprattutto penalistica, è che la sollecitata riforma possa coinvolgere tutte le misure premiali previste dall’art 4-bis, ossia l’assegnazione al lavoro all’esterno e le misure alternative alla detenzione, inclusa la liberazione condizionale, poiché la preclusione assoluta di cui alla predetta norma, alla luce della sentenza in commento e della recente direzione giurisprudenziale del giudice delle leggi, risulta evidentemente incostituzionale anche in relazione alle altre misure previste nell’art. 4- bis.

Infatti, benché il giudizio della Corte non abbia potuto estendersi anche alle altre misure, essendo state le questioni sollevate solo in relazione al peculiare ambito dei permessi premio, non v’è dubbio che, qualora il legislatore non intervenga con una modifica, l’art. 4- bis non possa resistere ad eventuali censure di legittimità costituzionale anche sotto il profilo del lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione.

Infine, meritano di essere menzionate le due più concrete proposte  di riforma, che, frutto intensi dibattiti dottrinali, sono state riportate nella relazione della  Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, ossia quella di accentrare la competenza per le richieste dei permessi premio dei detenuti ostativi dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma, in modo da favorire l’uniformità giurisprudenziale in materia, e quella di creare di un nuovo “doppio binario penitenziario” [81] .

La  prima proposta è stata, però, subito stroncata con argomenti difficilmente superabili[82], dal momento che sottoporre i giudizi in questione ad un unico Tribunale di sorveglianza, presumibilmente non a conoscenza delle dinamiche ambientali del contesto di provenienza del detenuto e del percorso carcerario di quest’ultimo, rischierebbe di frustrare in nuce  il principio della necessità di una valutazione peculiare e caso per caso del detenuto, affermato dalla sentenza in analisi.

Quanto alla seconda proposta, secondo la quale le richieste provenienti dai detenuti ostativi per delitti di mafia o connessi a tale fenomeno, criminalità organizzata eversiva o terroristica e traffico di stupefacenti dovrebbero essere sottoposte al giudizio del Tribunale di sorveglianza territoriale, mentre le richieste dei detenuti in regime ostativo per delitti monosoggettivi, dal magistrato di sorveglianza monocratico[83].

Da quanto si legge nella relazione in cui è contenuta, i pareri dottrinali sono stati perlopiù favorevoli, sebbene non vi sia ancora unanimità di vedute su quale sarà il giudice competente a giudicare su  un eventuale reclamo del provvedimento del Tribunale di sorveglianza, essendo state sollevate, sin qui, solo le ipotesi, non particolarmente acclamate, di investire di tale funzione un’apposita sezione della Corte d’appello territoriale o di un ricorso per saltum in Cassazione.

In conclusione, sebbene gli orizzonti aperti dalla sentenza in commento non siano del tutto delineati e prevedibili, è plausibile aspettarsi una  importante rivoluzione legislativa legata alla materia dei benefici penitenziari e ai delitti ostativi di cui all’art. 4- bis, così come una fervente attività giurisprudenziale protesa a rimuovere ogni illegittima compressione ai principi di individualizzazione, proporzionalità  rieducazione della pena[84]


Note e riferimenti bibliografici

[1] L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

[2] Si intendono i delitti indicati nel testo dell’ art 4- bis dichiarato incostituzionale.

[3] Corte Costituzionale, 23 Ottobre 2019, n. 25 (pubblicata in www.giurcost.org, così come tutte le sentenze di seguito citate).

[4] Sul punto, senza pretesa di completezza, si vedano: CAPITTA, Permessi premio ai condannati per reati ostativi:la Consulta abbatte la presunzione perché assoluta, 2019; MENEGHINI, La Consulta apre una breccia nell’art. 4 bis o.p.; nota a Corte cost. n. 253/2019, 2020, ; RUOTOLO, testo predisposto in occasione dell'audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (Roma, Senato della Repubblica, 10 dicembre 2019)- Reati ostativi e permessi premio. Le conseguenze della sent. n. 253 del 2019 della Corte costituzionale,2019; DELLA BELLA, La Cassazione dopo la sentenza 253 della Corte costituzionale: il destino della collaborazione impossibile e lo standard probatorio richiesto per il superamento della presunzione assoluta di pericolosità,  2020; BERNARDI, Sull’incompatibilità con la Costituzione della presunzione assoluta di pericolosità dei condannati per reati ostativi che non collaborano con la giustizia, 2020. 

[5] RUOTOLO, op. cit.

[6] RUOTOLO, op. cit.

[7] Corte Costituzionale, 23 Ottobre 2019, n. 253.

[8] BERNARDI, op. cit. e CAPITTA, op. cit.

[9] Sul punto si vedano in particolare DOLCINI, La “questione penitenziaria” nella prospettiva del penalista: un provvisorio bilancio, 2015 e Viganò, La neutralizzazione del delinquente pericoloso nell’ordinamento italiano,  2012;  per ulteriori  commenti all’art. 4- bis ord. pen., cfr.:  CARACENI e CESARI, art. 4- bis o.p., in (a cura di)  DELLA CASA e  GIOSTRA, Ordinamento penitenziario commentato, Vicenza, 2015, 44 ss.;  MARANDOLA, art. 4- bis o.p., in (a cura di)  FIORENTIN,  SIRACUSANO , L’esecuzione penale. Ordinamento penitenziario e leggi complementari, Milano, 2019, 45 ss. 

[10] BERNARDI, op. cit., 326.

[11] Così GREVI, L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, 3-4.

[12] Si veda il testo dell’art. 4- bis della L. 26 luglio 1975, n. 354, così come originariamente introdotto dal D.l. 13 maggio 1991, n. 152.

[13] Sul punto DELLA  CASA, op. cit.

[14] In particolare BERNARDI op. cit., 327 e DELLA  BELLA, Il “carcere duro” tra esigenze  di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2016, 81 (in particolare quest’ultima autrice sul collegamento fra l’art 4-bis e l’art. 41-bis. Ord. Pen.).

[15] Si veda il testo dell’art. 4- bis della L. 26 luglio 1975, n. 354 così come modificato dal D.l. 8 giugno 1992, n. 306.

[16] BERNARDI, op. cit., 329.

[17] Il predetto istituto, infatti, è stato espressamente escluso dal perimetro dell’art. 4-bis comma 1 da Corte Costituzionale, 11 giungo 1993, n. 306.

[18] Così BERNARDI op. cit., 330.

[19] GREVI, op. cit., 14.

[20] MENEGHINI, op. cit., 309.

[21] Ci si riferisce alle sentenze: Corte Costituzionale, 11 Giugno 1993, n. 306 ( già citata); Corte Costituzionale, 11 Luglio 2001,  n. 273; Corte Costituzionale, 26 Ottobre 1995, n. 504; Corte Costituzionale, 24 Aprile 2003, n. 135; Corte Costituzionale, 4 Luglio 2018, n. 174.

[22] Cfr. Corte cost. n. 306/1993, in Giurisprudenza costituzionale con note di  Fiorio, 1993, 2466 ss.

[23] Comunicato Stampa della Corte Costituzionale del 4 dicembre 2019.

[24] Si veda BERNARDI, op. cit., 332.

[25] Corte Costituzionale, 21 Giugno 2018, n. 149.

[26] Si veda Cass. Pen., Sez. I, ordinanza del 20 novembre 2018 ( dep. 20 dicembre 2018), n. 57913.

[27]  Si veda Trib. di Sorveglianza di Perugia, ordinanza del 28 maggio 2019, pubblicata in G.U. rep. Ita, I serie speciale, n. 34, 21 agosto 2019, 44.

[28] A norma dell’art. 23, secondo comma, della L. n. 87 del 1953, il giudice a quo deve accertare che il giudizio  non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione; a ciò si aggiunga che a norma dell’art. 1 della L. Cost. 1 del 1948 il giudice deve, altresì, accertare che la questione non sia manifestamente infondata. Di tali requisiti deve essere rilevata ed argomentata la sussistenza nell’ordinanza di rimessine, costituendo un preciso onere per il giudice rimettente, inoltre, argomentare circa l’impossibilità di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione, che possa permettere, in qualche misura, di “salvare” la norma censurata adeguandone la portata. Sul punto, per una lettura di sintesi MARTINES, Diritto Costituzionale, Dodicesima edizione interamente riveduta da SILVESTRI, Milano, 2020, 478-505.  

[29] MENEGHINI, op. cit., 311 e ss.; RUOTOLO, op. cit.

[30] BERNARDI, op. cit., 336.

[31] Cass. Pen., Sez. I, ordinanza del 20 novembre 2018 ( dep. 20 dicembre 2018), n. 57913.

[32] MENEGHINI, op. cit., 314.

[33] Tra le pronunce della Consulta citate dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia meritano di essere segnalate le sentenze n. 450 del 1998 e 149 del 2018; nella prima si afferma la primazia della funzione rieducativa della pena, sulla scorta dell’assunto che né la particolare gravità del fatto, né esigenze general-preventive negative possono operare in chiave distonica rispetto alla predetta funzione; con la seconda sentenza la Corte afferma che «La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva del possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società».

[34] Trib. di Sorveglianza di Perugia, ordinanza del 28 maggio 2019, pubblicata in G.U. rep. Ita, I serie speciale, n. 34, 21 agosto 2019, 44.

[35] MENEGHINI, op. cit.,  312.

[36] Cass. Pen., Sez. I, ordinanza del 20 novembre 2018 ( dep. 20 dicembre 2018), n. 57913.

[37] Così recita testualmente la disposizione: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

[38] Tale pronuncia ha condannato l’Italia, poiché ha riconosciuto che l’ergastolo ostativo è incompatibile con il principio di umanità della pena di cui all’art. 3 CEDU

[39] MENEGHINI, op. cit., 116-117.

[40] Tale divieto è previsto espressamente, mediante la tecnica del rinvio, dall’ art. 2 comma 2 del d.l. n. 152/1991, conv. in L. n. 203/1991.

[41] BERNARDI, op. cit.,337-338.

[42] Sul punto si vedano, in particolare, D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano, 2005; CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013 in occasione della Conferenza trilaterale della Corte costituzionale italiana, portoghese e spagnola; PALADIN, Ragionevolezza (principio di), in Enc. Dir. Aggiornamenti, I, Milano, 1997; CERRI, Ragionevolezza delle leggi, in Enc. Giur., XXV, Roma, 1994; FIERRO, I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle corti europee. Servizio studi Corte costituzionale, Roma, 2013.

[43] Si veda, fra le altre, Corte Costituzionale, 14 Dicembre 1972 , n. 200, secondo la quale la discrezionalità legislativa trova sempre un limite nella ragionevolezza delle statuizioni volte a giustificare la disparità di trattamento fra cittadini.

[44] CERRI, op. cit.

[45] Si veda La giustizia costituzionale nel 1994, conferenza stampa del presidente CASAVOLA, Roma, Palazzo della Consulta, 6 febbraio 1995

[46] CERRI, op. cit.

[47] In questo senso CARTABIA, op. cit.; D’ANDREA, op. cit.; PALADIN, op. cit.

[48] D’ANDREA, op. cit., 42.

[49] FIERRO, op. cit., 13.

[50] Ibidem; sia consentito citare anche CARRA’, La crisi della certezza del diritto: cause che l’hanno determinata e cenni sulle recenti prospettive di risoluzione, in Cammino Diritto, 2020 .

[51] CARRA’, op. cit.

[52] In questo senso si veda RUGGERI e SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino, 2011, 116.

[53] CARTABIA, op. cit., 8.

[54] «Sempre più frequentemente la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che contengono tali “automatismi”, in particolare quando esse sono formulate in modo tale da non permettere al giudice (o eventualmente alla pubblica amministrazione) di tenere conto delle peculiarità del caso concreto e di modulare gli effetti della regola in relazione alle peculiarità della specifica situazione». ( CARTABIA, op. cit., 12).

[55] SBRICCOLI, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano, 2009.

[56] Si veda DE VERO, Corso di Diritto Penale, Torino, 2012, 12-34.

[57] DE VERO, op. cit., 11.

[58] Per un approfondimento sul tema si veda DE VERO, op. cit.; MANGANESI e RISPOLI (a cura di), La finalità rieducativa della pena e l’esecuzione penale,  2005.

[59] DE VERO, op. cit., 194.

[60] Corte Costituzionale, 12 Febbraio 1966, n. 12; del medesimo tenore anche le sentenze n. 22 del 1971, n. 167 del 1973 e n. 264 del 1974.

[61] MANGANESI e RISPOLI, op. cit.

[62] Corte Costituzionale, 4 Luglio 1974, n. 204.

[63] Ibidem, «… il diritto per il condannato a che il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo».

[64] MANGANESI e RISPOLI, Op . Cit.

[65] Corte Costituzionale, 11 Luglio 2007, n. 322.

[66] Per approfondimenti sul tema si veda RUOTOLO, op. cit.

[67] MENEGHINI, op. cit.,319.

[68] BERNARDI, op. cit

[69] RUOTOLO, op. cit.

[70] CAPITTA, op. cit.

[71] D’ANDREA, op. cit.

[72] CARTABIA, op. cit., 8.

[73] Così CAPITTA, op. cit.: «Il magistrato di sorveglianza non potrà compiere queste valutazioni da solo, ma sulla base delle relazioni dell’Autorità penitenziaria, delle informazioni acquisite dal Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, nonché delle comunicazioni eventualmente acquisite, ai sensi dell’art. 4-bis, co. 3-bis, ord. penit., dal Procuratore nazionale antimafia e dal Procuratore distrettuale»

[74] Si veda DELLA BELLA, op. cit. e BERNARDI, op. cit.

[75] Cass. Pen. n. 29869 del 2019 e n. 47044 del 2017; da queste pronunce si desume che in caso di collaborazione, inesigibile, impossibile o irrilevante, la presunzione relativa si sostanzia nell’onere della prova a carico del detenuto, che è tenuto ad allegare gli elementi a sostegno della propria istanza.

[76] Così RUOTOLO, op. cit.

[77] RUOTOLO, op. cit.

[78] Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere,  Relazione alle Camere sull’istituto di cui all’articolo 4-bis ord. pen. e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, Roma 1 giugno 2020.

[79] RUOTOLO, op. cit.

[80] Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, op. cit.

[81] Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, op. cit.

[82] Si veda, in particolare, RUOTOLO, op. cit.

[83] Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, op. cit.

[84] In questo senso DELLA BELLA, Op. Cit.