Disuguaglianze, misure conciliative e tutele nello scenario europeo smart-epidemico
Modifica paginaLo scritto analizza il tema della cura e delle implicazioni che da essa derivano nel mercato del lavoro, con riferimento agli strumenti di conciliazione tra vita privata e vita professionale previsti dal diritto dell’Unione europea, con un breve cenno al diritto cinese. In tale direzione, si auspica il superamento del gender gap nella distribuzione del “tempo” tra il lavoro di cura e il lavoro retribuito, soprattutto con l’aumento dell'attività lavorativa in smart working e dello sviluppo del cd. diritto alla disconnessione .
Sommario: 1. L’etica dei diritti tra individualismo, giustizia e cura.– 2. L’esserci e la cura tra spazio pubblico e comunione di diversità.– 3. Le donne, il lavoro e la vita privata: una relazione da salvaguardare. – 4. La protezione dei diritti delle donne tra vulnerabilità e certezze giuridiche. – 5. Il principio della parità di trattamento nella normativa europea. – 6. Il principio di uguaglianza e i divieti discriminatori nel diritto degli Stati membri e nel diritto cinese. – 7. Gli strumenti di conciliazione tra vita professionale e vita privata. – 8. La conciliazione e i nuovi equilibri tra i generi: gender gap e prospettive di parità. – 9. La Direttiva dell’Unione europea tra partecipazione al mercato del lavoro ed equa ripartizione di responsabilità. – 10. I modelli di lavoro flessibile e gli effetti sulla corresponsabilizzazione familiare: un confronto tra le normative europee. – 11.L’equilibrio tra vita privata e vita professionale: incidenza delle misure conciliative sul sistema educativo dei figli. – 12. Considerazioni conclusive tra interferenze digitali e tutele disconnesse.
1. L’etica dei diritti tra individualismo, giustizia e cura
«Può il diritto, la regola giuridica, invadere i mondi vitali, impadronirsi della nuda vita, pretendere anzi che il mondo debba “evadere” dalla vita”?»[1]. Senza alcuna pretesa di proporre un argomento inesplorato, si tenta qui di ricomporre quella imperfezione congenita di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che “è”, nella consapevolezza che l’imperfezione intesa come mutamento, caducità, rinnovamento deve essere superata per realizzare «un mondo [che] include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno della vita»[2].
Nella costituzione dell’identità individuale e nel modo di vivere insieme lo spazio pubblico nasce una delle sfide più importanti che riguarda l’interpretazione di “cosa” sia l’individuo e la rilevanza delle relazioni intersoggettive e sociali.
Nel mondo non si radica soltanto la competizione; in esso spesso trova spazio anche la solidarietà. Infatti, tra gli estremi di collettivismo e dirigismo si collocano posizioni intermedie, tra le quali emerge quella della “giustizia sociale”[3].
Alla constatazione e alla presa di coscienza del processo di crisi in atto, si è affiancata una insistente domanda etica proveniente dalla società. È necessario, dunque, rintracciare linee di un’etica che sia orientata alla effettiva costruzione di una «società di giustizia»[4]. Qui si coglie un possibile intreccio tra individualismo, giustizia e morale[5], quest’ultima come guida nel comportamento dell’uomo[6]. «La scarnificazione e l’astrazione con cui gli esseri umani sono stati rappresentati in quanto agenti del contratto accomuna sia le moderne teorie sull’origine dell’obbligo politico, da Hobbes a Locke, sia le versioni più recenti del neocontrattualismo, in primo luogo quella formulata da John Rawls»[7]. Emerge l’esistenza dell’homo oeconomicus, egoista razionale, il quale effettuando delle scelte si serve della razionalità strumentale e al contempo è consapevole di individuare un “contatto” con i propri simili. Dunque, ricercando la realizzazione della giustizia sociale, si rende possibile una forma di convivenza con gli altri soggetti ed un riconoscimento di pari dignità, che segnala l’emergere di una ulteriore riflessione in merito alla dimensione inedita della libertà individuale la quale implica la necessità di correre dei rischi[8].
La gestione, talvolta coraggiosa, talaltra prudente del rischio all’interno di un patto sociale mira a traferire allo Stato il compito di produrre sicurezza mediante la «immunizzazione giuridica»[9], per tentare di arginare la vulnerabilità individuale, che all’interno del patto medesimo, assume i contorni di fragilità, debolezza, mancanza.
Sulla scorta di tali premesse viene in rilievo il passaggio da un’“etica della cura” che osanna l’abnegazione femminile, ad una riflessione sul “lavoro di cura” come fondamento del buon funzionamento sociale[10]. Le attività di care attengono alla sfera privata, alla sfera dell’amore, e rispondono ad una naturale vocazione femminile[11], che negli ultimi anni ha ceduto il passo ad una nuova geometria familiare e lavorativa.
2. L’esserci e la cura tra spazio pubblico e comunione di diversità
L’etica della cura «[...] è una moralità dell’agente, più che dell’azione, centrata sull’attenzione alle relazioni e ai diversi contesti in cui gli individui interagiscono, più che su procedure razionali che astraggono dal contesto e dalle particolarità di ciascuno proprie invece delle morali universaliste»[12]. La cura è una movenza di attenzione verso l’altro che va al di là dal paradigma alternativo dell’etica della giustizia e dei diritti[13]. L’etica della cura rappresenta «una svolta particolaristica della filosofia morale»; si verifica la sostituzione della «pulsione verso la generalità» con l’attenzione alla «vita umana ordinaria nei suoi dettagli, spesso tutt’altro che straordinari»[14].
Nell’esistenza umana intrisa di relazioni asimmetriche il lavoro di cura viene ad assumere uno statuto non soltanto etico ma anche politico. L’interesse per l’altro è la consapevolezza del comune interesse e della qualità relazionale della condizione umana. L’idea solipsistica della cura di sé deve essere ribaltata al fine di restituire alla cura (degli altri) un valore etico.
«Il concetto di cura può indicarci un fare comune, sottratto alla logica della sovranità incondizionata del capitale e rideclinato all’interno di un piano alternativo: la costruzione di un modo diverso di pensare e di vivere nel mondo, che parte dal bisogno insopprimibile dei legami sociali»[15]. È la dimensione affettiva ed emotiva veicolata da un sentimento di responsabilità di rispondere a bisogni umani.
È da questa prospettiva che si coglie l’esistenza del binomio libertà e politica, l’abitare un mondo comune nel quale gli individui appaiono e agiscono. La libertà necessita della relazione con gli altri, si accresce mediante il rapporto con gli altri che si costruisce nello spazio pubblico composto non da individui seriali ma da una comunione di diversità. Nella dimensione isolata della coscienza, la libertà non si può sperimentare nello spazio del dialogo solitario (tra me e me), in quanto non è lo spazio essenziale per la formazione della medesima, ma un percorso illusorio che sta “fuori” dal rapporto fra uomini e rappresenta l’arbitrio della “camera del cuore”[16] che non riguarda la libertà politica.
Da qui deriva il superamento dell’individualismo. L’interpretazione monistica e monologica della propria identità cede dinanzi alla concezione dell’autonomia, che non si definisce più in uno spazio disabitato, nell’isolamento dagli altri ma insieme a loro, in uno spazio pubblico di un liberalismo non più neutro ma ospitale[17].
3. Le donne, il lavoro e la vita privata: una relazione da salvaguardare
«Riconoscere il valore della cura [ri]chiama […] la struttura dei valori della nostra società. La cura è una preoccupazione centrale della vita umana»[18]. È «un’attività che include tutte le azioni che compiamo per mantenere, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo tale che si possa vivere nel miglior modo possibile»[19].
Un ‘mondo’ nel quale è importante Esserci per gli altri[20]. L’essere dell’esserci è la cura che comprende l’effettività, l’esistenza e la dedizione»[21].
Ecco che veleggia su di un orizzonte composito un modello di società democratica che ha come soggetto di riferimento un “sé relazionale”, e non individui aprioristicamente e implicitamente definiti come adulti, eguali e indipendenti[22].
Da ciò segue una cura degli interessi degli individui che, liberandosi dalle insidie del paternalismo, individua responsabilità sociali, nell’attuazione di quel senso di solidarietà che mira a realizzare l’uguaglianza sostanziale ma che a sua volta può rappresentare un banco di prova in termini di disuguaglianze in capo a chi pone in essere l’opera di cura.
Le considerazioni che qui meritano di essere richiamate sono quelle che riguardano la condizione della donna, sulla quale, al di là da ogni illusione trasformativa, incombe l’impegno di occuparsi della “cura” in misura maggiore rispetto agli uomini. L’ingresso nel mondo del lavoro comporta per le donne l’onere di reinventarsi il rapporto privato-familiare nel quale il loro ruolo risulta squilibrato rispetto a quello rivestito dalla figura maschile. Si tratta di un tema, quello del lavoro femminile, che da un punto di vista giuridico mira a porre attenzione sugli strumenti atti a garantire l’eguaglianza di trattamento per evitare discriminazioni, sulle modalità di disciplina del diritto al lavoro in un contesto di equità e sul riconoscimento dei diritti collegati alla maternità e agli obblighi familiari[23].
La diffusione della cultura della parità di trattamento rinvia all’analisi del ruolo della donna-lavoratrice che si inserisce nell’ambito di una azione politica e sociale che, in Europa, trova la sua attuazione nell’attività legislativa del Parlamento volta all’affermazione della “gender equality”, e in ambito internazionale, nella lotta alla discriminazione fondata sulla distinzione di sesso.
L’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali sancisce la parità tra uomini e donne che «deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione», giustificando l’esistenza di misure che prevedono «vantaggi specifici al sesso sottorappresentato». Si coglie qui un intreccio tra valori che riproducono contraddizioni e pregiudizi, di cui si dirà in seguito, i quali ancora allignano nelle società occidentali, sulla vita familiare e professionale delle donne[24].
Emerge con nettezza l’esigenza di predisporre un progetto giuridico di tutela che non ha come fine il rendere più vantaggiosa la posizione della donna ma di confinare la medesima in forme e aree dove la sua presenza, oscillando tra vita familiare e vita professionale, possa restare sempre in “equilibrio”.
In tale direzione, si richiama da ultimo la Risoluzione del Parlamento europeo sulle priorità dell’UE del 6 febbraio 2020, in vista della 64a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile che ha come obiettivo dichiarato l’intensificazione degli sforzi per colmare il divario di genere in termini di retribuzioni e pensioni, applicare il principio della parità retributiva, aumentare la trasparenza retributiva e contrastare la segregazione verticale e orizzontale sul lavoro. Per monitorare l’impatto della normazione sulla realtà è stato istituito il Gender Equality Index sviluppato dall’European Institute for Gender Equality (EIGE) che, oltre al dato tecnico, offre indicazioni in merito a come sviluppare e indirizzare le politiche delle Pari Opportunità europee.
4. La protezione dei diritti delle donne tra vulnerabilità e certezze giuridiche
Il giudizio sull’effettività di attuazione dei principi in merito alla tutela delle donne deve essere condotto, facendo riferimento all’ordinamento nazionale, mediante un’analisi storico-costituzionale che riesca a superare i pregiudizi circa la diversità della donna e sia in grado di approntare una tutela “riequilibratrice” della loro posizione contrattuale.
L’art. 37 Cost. sancisce che «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
Si auspicava da parte dei primi commentatori, nell’arretratezza del periodo storico, una esigenza di protezione speciale per le donne «dettata da motivazioni afferenti la persona umana ed interessi che travalicano il mero rapporto di scambio insito nel contratto, in quanto particolarmente rilevante è il fine di tutela della salute psico-fisica e dell’adempimento dell’essenziale funzione familiare»[25].
Quale principio risulta prevalente nel precetto costituzionale? Una corretta interpretazione del medesimo ci consente di affermare che chi individua prevalente, nel precetto citato, il principio della parità tra uomo e donna rischia di sottovalutare il limite costituito dai due incisi riferiti all’esigenza di tutela specifica per consentire l’adempimento della funzione familiare e di garantire protezione alla madre e al bambino[26].
Nell’analisi dell’evoluzione del sistema normativo in materia di tutela di parità di trattamento tra uomo e donna, consapevoli di non poter richiamare la pluralità di leggi approvate in settant’anni, si tenta, senza nessuna pretesa di esaustività, di tracciare lo sviluppo degli strumenti di tutela adottati.
Una prima fase può essere individuata con l’approvazione, fra gli anni ‘50 e ’70, di una serie di leggi (l. n. 860/1950; l. n. 7/1963: l. n. 1204/1971; l. n. 903/77) che hanno contribuito ad eliminare quello stato di sottosviluppo che fino agli anni ‘70 aveva caratterizzato lo status della donna lavoratrice, per approdare ad una teoria della vulnerabilità universale come base per una rivisitazione del principio di uguaglianza e dell’agire istituzionale, al fine di individuare la risposta che le istituzioni statali dovrebbero predisporre per prendere in carico la vulnerabilità dei cittadini, intesa sia come dato ontologico sia come dato socialmente costruito[27].
La seconda tappa dell’evoluzione normativa si verifica negli anni ‘90. La legge n. 125 del 1991 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro[28], così come ha affermato la Corte costituzionale[29], pone in essere «interventi di carattere positivo diretti a colmare o, comunque, ad attenuare un evidente squilibrio a sfavore delle donne, che a causa di discriminazioni accumulatesi nel corso della storia passata per il dominio di determinati comportamenti sociali e modelli culturali, ha portato a favorire le persone di sesso maschile nell’occupazione delle posizioni di imprenditore o di dirigente d’azienda». Tali interventi hanno consentito l’eliminazione delle disparità di fatto derivanti dalla formazione scolastica e professionale, la diversificazione delle scelte professionali con l’accesso al lavoro autonomo, e infine l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali.
La terza tappa, grazie anche all’impulso normativo e giurisprudenziale degli organi europei, è stata significativa. Non è possibile, alla luce di queste brevi considerazioni, che evocano scenari piú vasti, disgiungere nella materia oggetto di studio il diritto interno da quello europeo; risulta, infatti, difficile distinguere l’attività legislativa autonoma[30] degli organi nazionali da quella degli organi europei, di cui si dirà nel paragrafo successivo.
5. Il principio della parità di trattamento nella normativa europea
Il diritto primario europeo, a partire dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea, all’art. 119 sanciva il principio di parità di trattamento tra uomini e donne, seppur circoscritto all’aspetto retributivo, in rispondenza alla finalità funzionalista perseguita dalla Comunità medesima. Successivamente esso si è dedicato alla cura dei rapporti sociali e, più in generale, alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana[31], che ha condotto, nella materia che qui ci occupa, ad un approccio evolutivo di tutela. Il Trattato di Amsterdam ha introdotto il principio del c.d. gender mainstreaming[32], sostenendo che la parità tra i sessi è un obiettivo di natura trasversale, applicabile a tutte le politiche comunitarie (art. 3, par. 2 Trattato Comunità Europea - TCE) ed inserendolo tra le missioni della Comunità europea (art. 2 TCE). Inoltre, ha previsto la base giuridica per l’adozione, da parte delle istituzioni europee, di provvedimenti di tutela al fine di eliminare le discriminazioni fondate sul sesso, e di misure d’incentivazione destinate a sostenere le azioni degli Stati membri per la realizzazione degli obiettivi di lotta alla discriminazione (art. 19 TCE). La norma sulla parità di retribuzione è stata poi integrata con la previsione di azioni positive volte a garantire un’eguaglianza reale (art. 141 TCE).
Con l’affermazione del principio del gender mainstreaming, per la prima volta, è stata riconosciuta l’importanza di considerare anche le condizioni di vita degli uomini al fine di perseguire un’uguaglianza completa[33]. Se si aderisce a tale impostazione, si rileva che, da un lato, l’adozione del gender mainstreaming ha determinato una minore attenzione e legittimazione delle azioni positive a sostegno delle donne[34], dall’altro, ha consentito di volgere l’attenzione all’interconnessione tra le condizioni di vita di uomini e donne al fine di perseguire l’uguaglianza di genere. Il principio di parità, seguendo l’interpretazione della Corte di giustizia[35], presenta due componenti: una negativa che consiste nel divieto di qualsiasi discriminazione (diretta[36] e indiretta) basata sul sesso e l’altra positiva, riguardante le azioni concrete dirette a promuovere l’uguaglianza.
Ripercorrendo i passaggi evolutivi fondamentali si segnala la riforma contenuta nel Trattato di Lisbona, che oltre ad aver attribuito alla Carta dei diritti fondamentali valore giuridico vincolante (in materia si veda il già citato art. 23), ha qualificato la parità tra donne e uomini come uno dei cinque valori su cui si fonda l’Unione europea (art. 2 Trattato sull’Unione europea - TUE), e che la medesima promuove nelle sue azioni (art. 3 TUE e art. 8 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - TFUE). Nello specifico si fa riferimento all’art. 157 TFUE, il quale statuisce che «1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. […] 4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali».
Oltre alle disposizioni di diritto primario, si richiama anche una copiosa normativa di diritto derivato[37] contro la discriminazione sulla base del sesso, che promuove la parità tra donne e uomini e ha ad oggetto l’accesso al lavoro, la retribuzione, la protezione della maternità, la conciliazione tra vita professionale e vita privata, la sicurezza sociale e i regimi professionali di sicurezza sociale. In relazione a questo ultimo aspetto, si segnala la Direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento e del Consiglio[38], che si analizzerà in seguito, la quale adegua e amplia il quadro giuridico europeo in merito alla responsabilità dell’attività di care dei genitori offrendo nuovi strumenti che ben conciliano gli impegni di lavoro e quelli della vita privata.
6. Il principio di uguaglianza e i divieti discriminatori nel diritto degli Stati membri e nel diritto cinese
Appare qui interessante analizzare in chiave comparatistica il rapporto tra principio di uguaglianza e divieti di discriminazione, al fine di verificare il grado di tutela delle donne nel mondo del lavoro nello scenario giuridico europeo e internazionale.
L’ordinamento giuridico spagnolo in materia di parità di trattamento tra uomini e donne riflette il rapporto osmotico tra le spinte normative europee e le spinte sociali interne. Nello specifico, la legge n. 39 del 5 novembre 1999 promuove la conciliazione vita familiare e lavorativa. Le ipotesi di flessibilità e l’organizzazione dei tempi di lavoro nelle comunità autonome sono state introdotte mediante itinerari diversi. In alcuni casi la contrattazione collettiva prevede meccanismi equilibrati di riduzione dell’orario di lavoro e un aumento significativo della flessibilità. La legge per la parità effettiva tra donne e uomini, approvata il 22 marzo 2007[39], non solo traspone nell’ordinamento spagnolo il bagaglio normativo europeo, ma esprime, altresì, le rivendicazioni interne portate avanti da alcuni sindacati (UGT – Unión Generál de los Trabajadores e CC.OO – Comisiones Obreras). La legge, nell’elencare i meccanismi giuridici volti a limitare gli effetti perversi della discriminazione, ha introdotto garanzie di carattere procedurale volte a rafforzare la protezione giudiziale del diritto di parità. Tra gli strumenti approntati si menzionano le azioni positive, le quali comprendono: a) misure per migliorare la formazione e la qualificazione professionale delle donne; b) misure volte a consentire alle donne di conciliare la loro funzione professionale con quella materna; c) misure positive finalizzate a ridurre la sottorappresentazione della donna nella vita professionale e sociale.
In Francia, dopo la legge del 1950, è stata emanata la loi n. 72-1143 del 22 dicembre 1972, che ha inserito nel Codice del lavoro l’art. L 140-2, secondo il quale tutti i datori di lavoro devono assicurare l’eguaglianza di remunerazione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o un lavoro di valore uguale. Successivamente è stata emanata la loi n. 2006-340 del 23 marzo 2006 relative à l’égalité salariale entre les femmes et les hommes. Tra le forme di flessibilità lavorativa presente in Francia (e Regno Unito), si segnala il cd. job sharing, una modalità di lavoro a tempo parziale gestito autonomamente da una coppia di lavoratori che suddividono tra loro il monte orario complessivo, organizzando e ripartendo turni ordinari e straordinari. La prima legge che ha disciplinato i vincoli familiari dei lavoratori è stata la Loi Aubry II, Loi n. 2000-37 du 19 janvier 2000 relative à la réduction négociée du temps de travail. Nel 2013, è stato stipulato un accordo nazionale interprofessionale, ANI sur la qualité de vie au travail du 19 juin 2013, avente ad oggetto il tema della qualità della vita lavorativa. Esso disciplina la conciliazione tra via lavorativa e vita privata. Le parti sociali, per perseguire tale obiettivo, hanno individuato una serie di strumenti, così sintetizzabili: articolazione flessibile dei tempi di lavoro e riduzione degli svantaggi derivanti da un lavoro a tempo parziale. Anche il Codice del lavoro disciplina tali aspetti. L’art. L2141-5 è dedicato alla conciliazione tra vita lavorativa, personale e sindacale; gli artt. L2242-8 e L2242-18 stabiliscono che il tema della conciliazione possa essere oggetto di negoziazioni annuali obbligatorie. Gli artt. L3121-46, L3122-29-1 e L3132-25-3 disciplinano la durata del lavoro. L’art. L3121-46 statuisce che per i lavoratori interessati dal regime del cosiddetto forfait-jours la “conciliazione” può essere oggetto di colloqui professionali annuali. Ancora, gli artt. L3122-29-1 e L3132-25-3 riguardano il lavoro notturno e domenicale; essi stabiliscono che il datore di lavoro può proporre misure volte a facilitare la conciliazione. Infine, l’art. L4631-2 concerne tutti quei servizi di natura sociale che hanno come obiettivo quello di «facilitare per i lavoratori l’esercizio dei diritti a loro conferiti dalla legislazione sociale con riferimento alla loro sfera di vita personale». [40]
Nel volgere lo sguardo verso Oriente, si analizza la tutela delle donne lavoratrici in Cina. Con riferimento ad ogni comportamento datoriale posto in essere sul posto di lavoro, si richiama l’art. 48 Cost., laddove si afferma che le donne godono degli stessi diritti degli uomini sotto il profilo politico, economico, culturale e sociale, compresa la vita familiare, prevedendo altresì i compiti dello Stato di proteggere i diritti e gli interessi delle donne oltre che di rendere effettivo il principio di parità di retribuzione a parità di mansioni. Il principio costituzionale è stato recepito – oltre che nell’art. 13 della Labor Law, anche nella Law on the Protection of Women’s Rights and Interests, entrata in vigore il 3 aprile 1992 e da ultimo modificato nel 2005, espressamente finalizzato a «promote the equality between men and women and allow full play to women’s role in socialist modernization» (art. 1) e ad assicurare che la donna lavoratrice «shall enjoy[s] equal rights with men in all aspects of political, economic, cultural, social and family life» e, ancora a scongiurare «all discrimination against women» (art. 2). L’art. 23 della medesima legge statuisce il divieto di prevedere, nelle condizioni di assunzione, clausole recanti qualsiasi restrizione, in capo alla lavoratrice, di sposarsi o di fare figli, nonché il principio secondo il quale il genere del candidato alla posizione lavorativa non può costituire la base della decisione datoriale di non assumere una donna, con l’unica eccezione rappresentata dalle mansioni aventi ad oggetto attività pesanti non adatte ad essere svolte dalle donne.
Le norme richiamate nel loro diverso atteggiarsi tra garanzie costituzionali, italiane e cinesi, tutele approntate dal diritto europeo, azioni positive presenti nell’ordinamento spagnolo, strumenti di tutela eteronomi previsti nell’ordinamento francese, esprimono la comune volontà di tutelare la donna lavoratrice. Nel seguire l’indagine comparatistica, si prosegue nell’elencazione di differenze riscontrabili tra i vari ordinamenti giuridici studiati, che consentono al giurista di individuare l’ordinamento più attento al raggiungimento di un equilibrio stabile tra le “dual life”. Sembrerebbe che, al di là dei confini occidentali, la tutela che mantiene saldo il suddetto equilibrio sia ancorata a piloni costituzionali (art. 48 Costituzione cinese) che attribuiscono allo Stato il compito di scongiurare qualsiasi trattamento disuguale, non mancando forme di autonomia collettiva che tutelano l’armonia della vita personale e professionale.
7. Gli strumenti di conciliazione tra vita professionale e vita privata
La ridefinizione dei confini fra tempi di lavoro e vita privata è oggi uno degli obiettivi più importanti da realizzare nella società contemporanea in continuo mutamento. La naturale abnegazione della donna alla sua “essenziale funzione familiare”, la diminuzione del lavoro in termini occupazionali, l’aumento dei contratti part-time e della precarietà ha ridisegnato il rapporto tra vita professionale e vita privata, che va alla ricerca di un nuovo equilibrio.
La disciplina europea in materia di conciliazione tra vita privata e vita professionale segue un tracciato evolutivo abbastanza significativo[41]. L’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali statuisce che «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare» e in tale direzione «Al fine di poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni persona ha il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio» (art. 33 Carta dei diritti fondamentali). In un’ottica di interpretazione sistematica della normativa in questione, si segnala la Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale, nella quale il Parlamento europeo invita la Commissione e gli Stati membri ad attuare politiche “positive” per sostenere il rilancio demografico, preservare i sistemi di sicurezza sociale e promuovere il benessere e lo sviluppo delle persone e della società nel suo insieme. La conciliazione tra vita professionale, privata e familiare, seguendo lo spirito ispiratore della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere garantita quale “diritto fondamentale di tutti”, attuando misure disponibili a ogni individuo, non soltanto alle giovani madri, ai padri o a chi fornisce assistenza. È necessaria la definizione di un quadro giuridico volto ad assicurare che tale diritto sia considerato un obiettivo fondamentale dei sistemi sociali degli Stati membri; questi ultimi, insieme all’Unione, devono promuovere, sia nel settore pubblico sia in quello privato, modelli di welfare aziendale che rispettino il diritto all’equilibrio tra vita professionale e vita privata. Si tratta di un diritto che deve essere integrato in tutte le iniziative dell’Unione europea, affinchè si possa avere un impatto diretto o indiretto sul tema.
Il quadro normativo nazionale in materia di equilibrio vita professionale e vita familiare si rinviene nel d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, il quale ha riordinato la normativa previgente e al contempo ha eliminato le discrasie e le sovrapposizioni esistenti. La lavoratrice ha il diritto ad un congedo di maternità per due mesi antecedenti la data del presunto parto (congedo ante partum) e per tre mesi successivi alla data effettiva del parto (congedo post partum). Si parla in tal caso di congedo obbligatorio, in quanto irrinunciabile; la normativa prevede anche la fruizione di un trattamento economico durante il periodo di congedo[42].
Il legislatore, nella consapevolezza che le fattispecie concrete potrebbero richiedere meccanismi di tutela diversi da quelli disciplinati dall’art. 16 del d.lgs. n. 151/2001, modificato da ultimo dalla l. n. 145 del 30 dicembre 2018, ha previsto degli strumenti atti ad attenuare la rigidità del congedo di maternità e le diverse condizioni oggettive e soggettive proprie di ciascun caso. Nello specifico, la l. n. 145 del 30 dicembre 2018, (c.d. legge di bilancio) ha stabilito che le lavoratrici potranno lavorare fino al termine della gravidanza, rinviando la fruizione dell’intero periodo di congedo obbligatorio dopo il parto, prevedendo l’inserimento del comma 1.1 all’interno dell’art. 16 del d.lgs. n. 151/2001, il quale statuisce che «in alternativa a quanto disposto dal comma 1, è riconosciuta alle lavoratrici la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro». L’art. 20 del decreto in epigrafe disciplina come ulteriore strumento di tutela in termini di equilibrio tra vita professionale e vita privata il cd. il congedo di maternità flessibile in virtù del quale la lavoratrice, ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità, può chiedere di astenersi dal lavoro un mese prima della data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto.
L’art. 2, lett. b, d.lgs. n. 151/2001, riconosce anche al padre lavoratore il diritto di astensione dal lavoro, fruito in alternativa al congedo di maternità. Il padre ha diritto di astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre (art. 28, d.lgs. n. 151/2001). Da una interpretazione letterale dell’art. 28 pare si possa escludere il diritto del padre al congedo nel caso nel quale la madre non sia o non sia stata lavoratrice. Al riguardo, la Corte costituzionale[43] ha affermato che la ratio dell’astensione obbligatoria post partum, nei tre mesi successivi alla nascita, risponde all’esigenza di garantire l’assistenza affettiva e materiale al neonato, assistenza che sarebbe negata al bambino nel caso in cui il diritto di congedo paterno fosse subordinato allo status di lavoratore della madre.
Gli strumenti legislativi “equilibratori” si scontrano con una realtà che, sfacettandosi, ci offre l’immagine di una famiglia liquida[44]; dalla famiglia mono-genitoriale, alla famiglia di fatto, alle varie forme di famiglia che il legislatore nel corso del tempo riconoscerà. Tale trasformazione implica la necessità di offrire tutela alla donna lavoratrice nella molteplicità delle forme legate alla vita familiare. Il riconoscimento dei congedi parentali in un’ottica di parità della genitorialità, deve contribuire ad attenuare, se non a superare l’impasse rinvenibile nella difficoltà o, addirittura, nell’impedimento per la donna di poter scegliere “anche” una funzione sociale e pubblica del suo ruolo[45].
8. La conciliazione e i nuovi equilibri tra i generi: gender gap e prospettive di parità
La riflessione etico-antropologica sul binomio famiglia-lavoro richiama due sfere dell’iniziativa umana in cui la libertà, la libera iniziativa, la possibilità di scelta costituiscono una regola ineliminabile. Oggetto della riflessione è la conciliazione[46] tra vita lavorativa e vita privata, intesa come vita di relazioni familiari e di adempimento dei compiti di cura, che si inserisce nel concetto di pari dignità sociale di cui all’art. 3 Cost. e che denota la dinamica relazionale persona/famiglia. Il contemperamento delle esigenze del lavoro con quelle della vita personale si rivela essere un tema piuttosto vasto e articolato alla luce della sua interconnessione con i principi di eguaglianza, di pari opportunità e di non discriminazione, sia nel settore produttivo sia in quello familiare[47]. Si impone, così, una riflessione sulla tradizionale divisione dei compiti di family care fra donne ed uomini[48] atta a mettere in luce eventuali incoerenze e discontinuità al fine di smascherare l’ideologia che pervade il sistema e che spesso si cela dietro la costruzione di opposizioni fra concetti e categorie, privato/pubblico, famiglia/mercato, vita professionale/vita privata, le quali, nel rappresentare in forma dicotomica le relazioni fra diverse sfaccettature della realtà, potrebbero riflettere stereotipi culturali di genere[49].
Il tema in esame, sotto le forti spinte provenienti dal diritto dell’Unione europea, ha stimolato i Paesi membri ad adottare gli strumenti necessari per «irrobustire le […] politiche pubbliche di armonizzazione tra tempi di vita e tempi di lavoro»[50]. Nonostante nel diritto europeo il concetto di conciliazione assuma «contorni fluttuanti»[51], è evidente l’esigenza di coniugare obiettivi di natura economica con istanze di eguaglianza di genere nel mondo del lavoro. L’aumento della base occupazionale, partendo dalla componente femminile e la riduzione del divario occupazionale di genere, porta con sé la circostanza di rendere «compatibile la scelta della genitorialità, in particolare della maternità, con la possibilità di entrare e rimanere nel mercato del lavoro»[52]. L’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, riducendo in parte il gender gap, rappresenta il fattore di cambiamento del modello di famiglia, in quanto modificando gli equilibri al suo interno ha reso necessario un mutamento di prospettiva nell’impostazione delle politiche sociali e del lavoro.
Tralasciando l’evoluzione normativa che ha condotto ad una “conciliazione condivisa”, vale a dire ispirata a una più equa distribuzione degli impegni di cura tra i genitori all’interno della famiglia, si denota la condivisione della cura come «strumento di conciliazione»[53]. Questa ultima considerazione decostruisce i ruoli tradizionali di genere in nome di una nuova tipologia di «gender arrangement»[54] all’interno della coppia e che si materializza nel modello familiare del dual earner-dual carer (famiglia a doppio reddito e doppia cura). Esso sostituisce il modello tradizionale del male breadwinner (uomo come unico percettore di reddito che provvede al sostentamento della famiglia), in cui era la divisione sessuata tra lavoro di cura familiare e lavoro retribuito a rappresentare lo strumento di conciliazione più naturale, rappresentando l’evoluzione del modello meno tradizionale del dual earner family (coppia a doppio reddito)[55]. La risposta sociale ai cambiamenti in atto ha reso più atipico e differenziato il modello di lavoro, i suoi tempi e la sua organizzazione, in un’ottica di flessibilità, al fine di salvaguardare la relazione tra vita professionale e vita familiare. Il concetto stesso di flessibilità rischia di tradursi in precarietà, ovvero mancanza di garanzie, di tutela e di sicurezza. Tutto ciò richiede la messa a punto di strumenti e modelli, nazionali ed europei, atti a gestire l’eterogeneità e la destandardizzazione del mercato del lavoro, mediante la rimodulazione delle regole contrattuali ed organizzative[56].
9. La Direttiva dell’Unione europea tra partecipazione al mercato del lavoro ed equa ripartizione di responsabilità
Il tema della conciliazione tra vita professionale e vita familiare assume una importanza fondamentale nel dibattito non soltanto nazionale ma anche europeo. In tale direzione si richiama da ultimo la Direttiva n. 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza[57]. Tale obiettivo si persegue mediante la promozione delle donne al mercato del lavoro e l’equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne, colmando il divario di reddito e retributivo di genere (Considerando 6). L’equilibrio tra attività professionale e vita familiare resta una sfida importante per molti genitori e lavoratori con responsabilità di assistenza, vista la crescente prevalenza di orari di lavoro prolungati e di orari di lavoro che mutano, e che producono impatti negativi sull’occupazione femminile. Infatti, uno dei principali fattori che contribuiscono alla sottorappresentanza delle donne nel mercato del lavoro si rinviene nella difficoltà di riuscire a realizzare quel bilanciamento tra vita professione e vita familiare che richiede la ri-definizione dei ruoli e dei compiti genitoriali, e che potrebbe creare situazioni rischiose per le relazioni familiari. L’attuale quadro giuridico dell’Unione europea prevede incentivi limitati volti a far sì che gli uomini condividano equamente le responsabilità di assistenza. La mancanza di congedi di paternità e parentali retribuiti in molti Stati membri contribuisce al loro limitato utilizzo da parte dei padri. Lo squilibrio nella concezione delle politiche a favore dell’equilibrio tra attività professionale e vita familiare tra donne e uomini rafforza gli stereotipi e le differenze di genere nell’ambito del lavoro e dell’assistenza, ed è per tale ragione che le politiche in materia di parità di trattamento dovrebbero affrontare la questione degli stereotipi relativi alle professioni e ai ruoli svolti dagli uomini e dalle donne (Considerando 11). Le istituzioni europee, al fine di incoraggiare una più equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne, e per consentire un’instaurazione precoce del legame tra padre e figlio, riconoscono agli Stati la facoltà di introdurre un diritto al congedo di paternità per i padri o, laddove e nella misura in cui riconosciuto dal diritto nazionale, per un secondo genitore equivalente. La Direttiva, nella consapevolezza che la maggior parte dei padri non si avvale del diritto al congedo parentale o trasferisce una parte considerevole di tale diritto alle madri, estende da uno a due mesi il periodo minimo di congedo parentale non trasferibile da un genitore all’altro al fine di incoraggiare i padri a fruire del congedo medesimo, pur mantenendo il diritto di ciascun genitore ad almeno quattro mesi di congedo parentale. Incentiva l’adozione di modalità di lavoro flessibile formalizzando la necessità, per il datore di lavoro, di motivare l’eventuale rifiuto alla concessione; inoltre è concesso al lavoratore l’assenza dal lavoro «per cause di forza maggiore derivanti da ragioni familiari ingenti in caso di malattie o infortuni» (art. 7).
Seppur nelle diverse e ad oggi incerte (il recepimento deve avvenire entro il 2 agosto 2022) configurazioni che assumeranno le discipline dei vari Stati membri va detto che l’obiettivo fondamentale da perseguire è quello del contemperamento fra interessi contrapposti: da un lato quello del datore di lavoro, all’utilizzazione massima proficua del lavoro, e dall’altro quello del lavoratore alla realizzazione delle esigenze della sua vita professionale e familiare, imponendo un «sacrificio ragionevole» dell’interesse del datore di lavoro, e consentendo al lavoratore di «“liberare” dal lavoro tempo ed energie da dedicare alle cure familiari»[58].
La Direttiva in epigrafe, come accennato, dovrà essere recepita entro il 2 agosto 2022. Ad oggi nessuno Stato membro l’ha recepita. Si segnala, in tale direzione, che in Italia è stata presentata una Proposta di legge il 7 ottobre 2019[59], il cui l’art. 1 statuisce che, in ottemperanza alle disposizioni della Direttiva (UE) 2019/ 1158, si intende superare la fase di incertezza normativa dettata dal carattere sperimentale della normativa europea e rendere definitiva la fruibilità del congedo di paternità obbligatorio, portandone la durata al limite di dieci giorni previsto dalla normativa europea. Seppur i tempi non siano ancora così ristretti, ad oggi, il mancato recepimento della Direttiva, anche alla luce degli accadimenti legati all’emergenza Covi-19 e ai risvolti problematici che le “nuove” modalità di lavoro generano, potrebbe vanificare gli obiettivi individuati dalla normativa europea. Si tratta, infatti, di obiettivi che riguardano un settore, il mercato del lavoro, che sta cambiando; pertanto, si corre il rischio che i legislatori nazionali non riescano a seguire la linea evolutiva seguita dal legislatore europeo.
10. I modelli di lavoro flessibile e gli effetti sulla corresponsabilizzazione familiare: un confronto tra le normative europee
Tra le misure ispirate alla logica della conciliazione condivisa, rientra il congedo di paternità, che riporta all’attenzione il tema del rapporto tra paternità e lavoro e, dunque, del coinvolgimento paterno nella cura dei figli. Il ricorso ai congedi parentali da parte dei padri lavoratori è estremamente contenuto sia in Italia sia in Europa (circa il 10% dei padri)[60]. Tale limitata applicazione è legata al perdurare di ragioni culturali, all’esistenza di modelli familiari prevalenti, alla ridotta retribuzione a cui ha diritto il genitore durante il congedo. In quest’ultimo caso si ha una totale parificazione tra uomini e donne, soprattutto per quanto riguarda il lavoro subordinato, mentre per il lavoro autonomo sussistono ancora delle differenze, che comportano un’attenta analisi sotto il profilo della loro costituzionalità[61]. Il carattere sussidiario e non alternativo di questa forma di congedo rispetto a quello di maternità, poichè connesso all’impossibilità o alla scelta della madre di non avvalersene (morte o grave infermità della madre, abbandono ovvero affidamento esclusivo del bambino al padre), pare rifletta la sussidiarietà del ruolo genitoriale del padre rispetto alla madre[62].
La giurisprudenza di merito[63] ha tentato, timidamente, di rendere tale congedo «indipendente dalla posizione giuridica della madre», rafforzando «il parametro dell’autonomia nella scelta dei genitori».
Sotto il profilo della flessibilità temporale, il legislatore con il d.lgs. n. 81/2015[64], inserisce una disposizione che riconosce alla mamma e al papà il diritto di richiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale (o entro i limiti del congedo ancora spettante), la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione di orario non superiore al 50%. Oltre alle ipotesi di flessibilità temporale esistono ipotesi di flessibilità spaziale quali il telelavoro disciplinato dall’art. 23 d.lgs. n. 80/2015, che va al di là dalle esigenze connesse alla cura dei figli. Combina, invece, esigenze di flessibilità spaziale e temporale il cd. smart working o lavoro agile, che il legislatore intende promuovere «quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato» funzionale ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, oltre che a incrementare la produttività del lavoro stesso[65].
La situazione europea in materia presenta uno scenario variegato, soprattutto in riferimento allo stato di emergenza legato all’epidemia. Per quanto riguarda la Svezia si segnala che i periodi di congedo parentale sono stati raddoppiati: un lavoratore dipendente ha diritto ad un congedo di venti giorni all’anno, elevato a trenta in caso di quattro o più figli. I genitori single hanno diritto a quaranta giorni di congedo, elevati a sessanta in caso di quattro o più figli. I liberi professionisti hanno diritto allo stesso congedo, con l’unico aggravio di tre giorni di attesa dalla richiesta. Il telelavoro è incoraggiato come opzione prioritaria rispetto ai congedi e al lavoro in presenza. La situazione nei vari Paesi membri, come accennato, presenta delle differenze.
Per quanto riguarda la Francia, l’art. 16 della Costituzione prevede la possibilità di attribuire poteri speciali al governo al verificarsi di alcune circostanze, tra le quali non rientra l’emergenza sanitaria da Covid- 19. Tuttavia, in data 23 marzo 2020 è stato dichiarato lo stato di emergenza (état d’urgence), a norma della Loi n. 55-385 del 3 aprile 1955, ricorrendo una circostanza che, per la sua natura e gravità, presenta «il carattere di calamità pubblica». Per tale motivo sono state previste, per i lavoratori genitori, misure di sostegno al reddito familiare, che saranno maggiorate in presenza di bambini nel nucleo familiare. Inoltre, i lavoratori-genitori con figli fino a sedici anni possono sospendere il rapporto di lavoro per la cura dei figli, accedendo a misure di sostegno al reddito.
La medesima via è stata seguita dalla Spagna. Infatti, con il RD n. 463/2020, il Governo ha fatto ricorso all’istituto emergenziale dello “estado de alarma” previsto dall’art. 116 della Costituzione e disciplinato dalla Ley Organica n. 4/1981, che attribuisce poteri speciali al Governo nei casi di emergenza. La legge prevede espressamente l’ipotesi di «crisi sanitarie, come le epidemie e gravi situazioni di contaminazione». Dunque, le misure adottate dal Governo nazionale seguono un iter lineare e di indubbia legittimità costituzionale. Per quanto concerne le misure organizzative del lavoro si segnala che in Spagna i lavoratori-genitori hanno diritto alla rimodulazione del proprio orario di lavoro, al fine di prendersi cura dei propri figli e dei familiari non autosufficienti. Secondo il RDL n. 8/2020, la riduzione potrà riguardare fino al 100% dell’orario di lavoro, in presenza di figli fino a undici anni e familiari non autosufficienti che non svolgono un’attività retribuita. La Resoluciones n. 10 del 12 marzo 2020, stabilisce che per i dipendenti pubblici che restano a casa per prendersi cura di familiari non autosufficienti, è garantito il 100% della retribuzione.
Nel Regno Unito le linee guida governative del 7 aprile 2020 prevedono il diritto di assentarsi dal lavoro per una situazione imprevista o per una emergenza, nell’ambito della quale la pandemia pare sia inclusa. Tale diritto potrebbe essere esercitato per prendersi cura dei figli.
Alla luce di tali considerazioni sembra poter affermare che i modelli di lavoro presenti in Europa rappresentano uno strumento incoraggiante e idoneo a generare effetti positivi nel rapporto di relazione madre e padre, a contribuire a rafforzare il rapporto del padre con i figli (congedo di paternità), e a produrre effetti positivi sulla corresponsabilizzazione familiare[66], seppur nelle differenze che si evidenziano e che ci conducono ad affermare che alcuni di essi risultano più “virtuosi” di altri.
11.L’equilibrio tra vita privata e vita professionale: incidenza delle misure conciliative sul sistema educativo dei figli
L’attuale contesto sociale, contrassegnato da rapidi mutamenti, pare metta in discussione la struttura, le funzioni, il significato stesso della vita di coppia e il relativo rapporto genitoriale. L’approccio evolutivo allo studio delle relazioni familiari descrive il ciclo di vita familiare (Family life cycle)[67] come contraddistinto da compiti di sviluppo che consistono in «asperità da appianare, questioni da dirimere, situazioni da cui uscire, in un momento particolare del processo evolutivo, rivolto al sollecito raggiungimento di ulteriori traguardi»[68]. In tale contesto sia la maternità, sia la paternità hanno subito una forte trasformazione, con tutte le implicazioni che ne sono derivate. In particolare, riguardo alla vita familiare l’appartenenza di genere e i cambiamenti dei ruoli genitoriali rappresentano la cifra dei mutamenti in atto nei rapporti di coppia. Tali cambiamenti producono, da un lato una maggiore condivisione delle attività, delle decisioni, delle scelte di coppia, delle responsabilità educative e dei compiti di cura e, dall’altro nuove forme di reciprocità, ma anche un aumento della conflittualità nella definizione dei ruoli, delle aspettative di ciascuno, e nella definizione della funzione affettiva delle due figure genitoriali nell’educazione dei figli. Nella dualità vita professionale vita familiare, la madre svolge funzioni di accoglienza e protezione, si preoccupa di custodire i figli dentro la dimora domestica; questo vale, o dovrebbe valere anche per le madri che lavorano e, addirittura per quelle che svolgono il proprio lavoro lontano dalla dimora familiare. In tale situazione di accoglimento e distacco, il padre è colui che spinge i figli a sperimentare momenti di vita fuori dalla dimora familiare, li incoraggia ad affrontare le sfide della vita sociale[69]. È noto che, soprattutto durante l’adolescenza, il figlio nella progressiva maturazione di tutte le funzionalità psichiche – cognitive, emotive, relazionali e comportamentali – «ha bisogno della presenza del genitore, come di una guida che orienti ad affrontare e per quanto sia possibile risolvere problemi personali, di natura morale o affettiva o insorgenti a scuola; e ad apprendere a situarsi, a iniziarsi nella comprensione e nella frequentazione di una società sempre più complessa»[70].
Cosa succede se, nella consapevolezza delle diversità e della complementarità della donna e dell’uomo, ognuno con le proprie specificità e in una prospettiva di collaborazione paritaria in tutti i campi della vita familiare, la madre svolge il proprio lavoro in una città, o in uno Stato diverso da quello nel quale è ubicata la dimora familiare? Qui non si può tacere che l’attuale momento storico è caratterizzato dal complessificarsi delle costellazioni familiari e dall’aumento esponenziale della vulnerabilità dei rapporti e dei legami matrimoniali e di fatto, dalla frammentarietà, incertezza e instabilità dei sistemi parentali e dalla conseguente fragilità genitoriale nello svolgimento del ruolo educativo dei figli[71].
Seguita in questi itinerari la vita di coppia e genitoriale si scontra con un contesto socio-economico che presuppone da un lato la necessità di un doppio reddito per far fronte alle spese familiari, dall’altro la quasi impossibilità per le donne di conciliare lavoro e vita domestica.
Secondo i dati Eurostat, le donne lavoratrici che svolgono anche il lavoro di cura, in media superiore a quello degli uomini, riscontrano nella realtà delle difficoltà nel mondo del lavoro, soprattutto nella fascia d’età compresa tra i venticinque e i quarantanove anni; difficoltà che aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli, al quale corrisponde una diminuzione del tasso di occupazione[72]. La donna-madre lavoratrice che non riesce a gestire, in un “gioco di destrezza”, l’equilibrio tra vita professionale e vita familiare, molto spesso è costretta a presentare dimissioni volontarie, con conseguenze negative non soltanto per gli aspetti economici della vita familiare ma anche nel rapporto fra coniugi e per il suo ruolo di donna all’interno della società. Tutto questo, non soltanto influenza le rappresentazioni che la madre ha di sé stessa e della relazione con il coniuge, ma attraverso un processo di mutualità psichica, ovvero un gioco di proiezioni, introiezioni ed identificazioni, influenza le condotte della medesima nei confronti dei figli.
Se tutto ciò è vero, ed è vero, quali sono le motivazioni che giustificano i sacrifici delle donne lavoratrici? Il contesto sistematico nel quale si conduce l’indagine denota una circostanza peculiare: è possibile separarsi fisicamente e legalmente dal coniuge ma non dai figli. La separazione per motivi di lavoro potrebbe condurre il nucleo familiare in uno stato di crisi che porta con sé aspetti e dinamiche impreviste o imprevedibili di tutti i suoi componenti. Relazioni quotidiane interrotte, sospese, potrebbero far sorgere situazioni di alta conflittualità familiare, che oltre a creare disagi tra i coniugi, minerebbero lo sviluppo, nella sua interezza, dei figli. Come noto, la madre rappresenta, in particolare per la “figlia” un modello di femminilità, l’esempio di saper coniugare le responsabilità familiari con quelle sociali e lavorative, l’esempio della relazione con il futuro coniuge. Ciò non esclude che nella costruzione dell’identità femminile, anche il padre ha un’importanza fondamentale in quanto è il primo modello maschile con il quale le bambine si confrontano[73]. Ma la figlia che cresce senza la presenza costante della madre, la quale svolge la sua attività lavorativa in un altro luogo, potrebbe vivere l’assenza come mancanza, percepire la relazione genitori-figli come una frontiera impervia che travalica l’orizzonte di cura; di una cura che si presta con il dialogo, con l’ascolto, con l’empatia e che non riesce a superare il limite della distanza, in quanto la competenza ad aver cura si costruisce nel far sì della relazione di essere vicini. Vi è di più! Azzardando una riflessione che tesse le maglie di una società che tende all’equilibrio, si potrebbe affermare che la figlia, o i figli che crescono senza la presenza della madre lavoratrice vivendo, come già detto, una situazione di mancanza, a volte drammatica talaltra estrema, spesso si trovano ad affrontare rapporti conflittuali, di rivendicazione che, anzichè trovare il proprio baricentro nei rapporti familiari, fatti di comprensione, di dialogo, di conversazione, di vicinanza, si inseriscono in un circuito di rivolta che indebolisce le relazioni e sfocia in episodi di disagio.
12. Considerazioni conclusive tra interferenze digitali e tutele disconnesse
Nel gioco del necessario ed inevitabile bilanciamento degli interessi che caratterizza l’attività giuridica di garanzia dei diritti e di tutela di situazioni a volte contrapposte, va fatta una riflessione in merito all’esigenza di sollecitare il superamento delle discriminazioni di genere e verificare l’effettività della tutela dei diritti genitoriali.
Dalle considerazioni sin qui svolte emerge che, nonostante il legislatore, sia nazionale sia europeo, abbia introdotto degli strumenti funzionali all’implementazione del modello di conciliazione condivisa, la strada della «piena valorizzazione della dimensione bilaterale della genitorialità»[74] è ancora lunga, e a tratti tortuosa, viste le disomogeneità di tutela e di promozione giustificate o no, tra le varie diversità[75].
La promozione della parità dei sessi e della piena partecipazione delle donne al mercato del lavoro mira a garantire non soltanto i principi fondamentali e i diritti di tutti i lavoratori ma anche un equilibrio in termini sociali ed economici. Ancora, per attenuare l’asimmetria di genere nell’assolvimento dei compiti genitoriali, dovuta ad una «visione della presenza paterna quasi di secondo grado, integrativa rispetto a quella materna»[76], occorre abbandonare la concezione tradizionalista della conciliazione e accogliere una visione più moderna, basata su un effettivo coinvolgimento, anche emotivo, dei padri[77].
Emerge un monito. Si auspica che avvenga il superamento del gender gap nella distribuzione del “tempo” tra il lavoro di cura e il lavoro retribuito, mediante la messa a punto di politiche contrattuali a sostegno della conciliazione per implementare soluzioni innovative, sia di tipo normativo sia di tipo organizzativo, in un’ottica di perseguimento di quel baratto tra vantaggio economico e diritto soggettivo[78].
Tale auspicio è velleitario in un momento storico, come quello attuale, nel quale l’obiettivo del perseguimento di un equilibrio tra vita privata e vita personale diventa ancora più evidente nel caso dello smart working. Si segnala in tale direzione, a livello europeo lo studio, in discussione in Parlamento, del cd. “diritto alla disconnessione”[79], da applicarsi sia al settore pubblico, sia al settore privato.
L’analisi svolta dall’Eurofound, dal titolo Working anytime, anywhere: the effects on the world of work, mette in rilievo che tra le criticità più rilevanti del lavoro svolto con i device elettronici, vi è il rischio di “interferenza casa-lavoro”, dovuto ad una ineluttabile sovrapposizione tra lavoro retribuito e vita personale. Da qui emerge la necessità di poter “staccare” dallo smart working, al fine di evitare che i confini tra lavoro e vita privata possano diventare sempre più labili. Tutto ciò impone delle riflessioni su questioni riguardanti la definizione di precisi standards europei al fine di evitare di vanificare gli sforzi finora realizzati.
[1] S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2018, p. 9.
[2] J.C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della Cura, Reggio Emilia, 2006, p. 118.
[3] Nel discorrere della teoria della giustizia Rawls avvicina il tema dell’autonomia della giustizia ai temi dell’oggettività e della soggettività del diritto, ai temi delle questioni mentali, e dunque di come le persone si pongono nei confronti delle cose. Con la “teoria della giustizia” tenta di superare la dottrina filosofica dell’utilitarismo, vale a dire l’idea secondo la quale una società giusta debba perseguire il massimo benessere possibile per il massimo numero di persone. V. J. Rawls, A Theory of justice, Oxford, 1971, trad. it. di S. Maffettone, Una teoria della giustizia, Milano, 1999. Cfr., sul punto, v. J. Bentham, An introduction to the Principles of Morals and Legislation, trad. it. di E. Lecaldano Introduzione ai Principi della Morale e della Legislazione, Torino, 1998. La base della morale e del diritto, e di conseguenza della legislazione, guidata unicamente dall’intento di realizzare “la maggior felicità possibile per il più gran numero possibile di individui”, è il principio utilitaristico, della norma etico-giuridica, enunciata già da Beccaria. L’interesse dei singoli si accorda con l’interesse generale: e i limiti che questo impone all’egoismo sono compensati dal risultato finale che è una somma maggiore di felicità. Il neocontrattualismo di Rawls insiste sul concetto di eguaglianza delle opportunità e sulla necessità che l’apparato statale intervenga attivamente per riequilibrare le disparità economiche. In particolare, egli ritiene che il neocontrattualismo può essere una risposta eteronoma alle questioni della debolezza strutturale dei soggetti, in una logica di maggiore giustizia distributiva. Cfr. R. Nozick, Anarchy, State and Utopia, New York, 1974, il quale ha espresso un punto di vista opposto a quello di Rawls, rigettando sia l’anarchismo sia lo statalismo e sostenendo la tesi utopica di una libertà quasi illimitata dell’individuo. Pur partendo, come Rawls, da premesse ispirate al liberalismo classico e da un’analoga posizione critica nei confronti dell’utilitarismo, Nozick sostiene una visione individualista della vita, che comporta la drastica riduzione della sfera di intervento dello Stato negli affari dei cittadini (ciò evoca l’idea di una struttura della società dove vi è un’assenza di statualità, da qui “Stato minimo, meno Stato, niente Stato”).
[4] A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Bari, 1997.
[5] V., sull’argomento, V. Pedroni, Ragione comunicazione. Pensiero e linguaggio nella filosofia di Karl-Otto Apel e di Jürgen Habermas, Milano, 1999, p. 153. «La moralità ha un carattere eminentemente giuridico ed è associata alla questione della legittimazione democratica. La formazione di norme sociali giuste, meritevoli di consenso universale in una società pluralista e democratica, passa attraverso l’identificazione di un principio (morale) che deve di per sé sostenere la discussione pubblica delle regole stesse». Nel linguaggio corrente si usano spesso i termini etica e morale come sinonimi. Etica è la parola greca che deriva da ethos, costumi, e che il latino traduce in moralis, derivata da mos, che ugualmente indica il costume. Nell’etimologia etica e morale hanno il medesimo significato. Tuttavia nella discussione non raramente si trovano impiegate le parole in maniera diversa, senza che ne sia chiaro il senso. V., sul punto, G. Visentini, Etica e affari. Una prospettiva giuridica, Roma, 2005. La moralità riguarda le norme giuste, quelle che la società è chiamata a rispettare se vuole regolare con giustizia i rapporti fra i cittadini. Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, trad. it. di E.V. Tota, Roma-Bari, 1993, p. 139, dove si legge: «Ogni norma valida deve ottemperare che le conseguenze e gli effetti collaterali, che derivano dalla sua osservanza universale per la soddisfazione degli interessi di ciascuno, potrebbero essere accettati da tutti gli interessati».
[6] B. Croce, Filosofia della pratica, Bari, 1963, p. 229: «Se il principio della moralità fosse materiale, questa sarebbe definita da una determinata azione o da un determinato gruppo di singole azioni. Ma l’atto morale supera il singolo o i gruppi singoli che in quanto tali appartengono alla forma meramente economica. Chi ama le cose per le cose, non ama ancora l’universale, che è dappertutto e non si esaurisce in una cosa in particolare».
[7] Così, testualmente, A. Lorentoni, Individualismo, autonomia e conformismo nello spazio pubblico. Teoria politica e studi di genere, in Lessico di etica pubblica, 2014, 2, p. 19.
[8] Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, 1999.
[9] R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, 2002.
[10] E.F. Kittay, Love’s Labor. Essays on Women, Equality and Dependency, New York, 1999.
[11] A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Milano, 2013, p. 179.
[12] C. Botti, Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita quotidiana, Torino, 2012, p. 47.
[13] C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it. di A. Bottini, Milano, 1987.
[14] P. Paperman e S. Laugier, “Présentation”, in Aa. Vv., Le souci des autres. Éthique et politique du care, Paris, 2005, p. 10.
[15] J. Revel, «Prefazione» Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Verona, 2010, p. 21.
[16] H. Arendt, Che cos’è la politica?, (a cura di) U. Ludz, Torino, 2006.
[17] A. Lorentoni, Individualismo, autonomia e conformismo nello spazio pubblico. Teoria politica e studi di genere, cit. p. 22.
[18] J. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, tr. it. di N. Riva, (a cura di) A. Facchi, Reggio Emilia, 2006, p. 197.
[19] J. Tronto, o.u.c., p. 102.
[20] M. Heidegger, Essere e tempo (1927), (a cura di) F. Volpi e trad. it. P. Chiodi, Milano, 2009, p. 339. In tale opera, l’a. affronta il problema delle dinamiche relazionali, quando tratta il tema della struttura ontologico-esistenziale dell’essere-con. Egli afferma che «In quanto è, l’Esserci è stato-gettato, cioè non si è portato nel suo Ci da se stesso. Essendo, l’Esserci è determinato come un poter essere che appartiene a se stesso, ma tuttavia non in quanto esso stesso si sia conferito il possesso di sé. Esistendo, l’Esserci è determinato come un poter essere che appartiene a se stesso, ma tuttavia non in quanto esso stesso si sia conferito il possesso di sé. […] Solo essendo quell’ente che esso può essere esclusivamente in quanto consegnato a esserlo, è possibile che, esistendo, esso sia il fondamento del proprio poter essere».
[21] M. Heidegger, o.u.c.
[22] Vedi A. Sciurba, La Cura tra giustizia e diritti, in Diritto e questioni pubbliche, 2016, p. 399.
[23] M.V. Ballestrero, La Costituzione e il lavoro delle donne: eguaglianza, parità di trattamento, pari opportunità, in I diritti delle donne nella Costituzione, (a cura di) M. Gigante, Napoli, 2007, p. 75 ss.
[24] G. Alpa, Women in law, Relazione presentata alla Giornata europea delle Donne Avvocato, organizzata dal Consiglio nazionale forense – Roma, 16-17 giugno 2006.
[25] P. Perlingieri e S. Balletti, Art. 37, in P. Perlingieri, Commento alla Costituzione italiana, Napoli, 2001, p. 258.
[26] P. Perlingieri e S. Balletti, o.u.c.
[27] Così testualmente M.A. Fineman, Il soggetto vulnerabile e lo Stato responsabile, in Vulnerabilità: etica, politica, diritto, Roma, 2018, p. 141 ss.
[28] Modificata con il d.lgs. n. 196/2000 e poi con il d.lgs. n. 145/2005. Infine, in attuazione della delega conferita dall’art. 6 l. n. 246/2005, è giunto il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, ovvero il d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198.
[29] Corte cost., n. 109 del 1993, in consultaonline.it.
[30] A titolo esemplificativo si veda la legge Golfo-Mosca n. 120 del 12 luglio 2011, Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati, in G.U. n. 174 del 28 luglio 2011. DPR n. 251 del 30 novembre 2012, Regolamento concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati, in attuazione dell’articolo 3, comma 2, della legge 12 luglio 2011, n. 120, in G.U. n. 23 del 28 gennaio 2013.
[31] La protezione dei diritti fondamentali ad opera dell’ordinamento giuridico comunitario è stata assicurata sulla base di una giurisprudenza progressiva della Corte di giustizia delle Comunità europee, introdotta a partire dal 1969. Infatti, superando un proprio precedente atteggiamento negativo contenuto nelle sentenze Stork, 4 febbraio 1959, Causa C-1/58, in Raccolta, 1959, p. 43; Nold, 15 luglio 1960, Cause riunite C-36-38/59, in Raccolta, 1960, pp. 857-890; Sgarlata, 1° aprile 1965, Causa C-40/64, in Raccolta, 1964, p. 279. La lacuna iniziale è stata parzialmente colmata quando, con la sentenza Stauder, 12 novembre 1969, Causa C-29/69, in Raccolta, 1969, p. 419 ss. è affermata l’esigenza che «la tutela dei diritti fondamentali» costituisce parte integrante dei princípi generali di cui la Corte garantisce l’osservanza. Successivamente la Corte di giustizia nella sentenza Handelsgesellschaft, 17 dicembre 1970, Causa C-11/70, in Raccolta, 1970, p. 1125 ss., approfondendo il proprio orientamento, ha assunto la salvaguardia dei diritti fondamentali ai princípi generali del diritto comunitario, per conformazione alle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri, da realizzare «entro l’àmbito della struttura e delle finalità della Comunità». V., anche, con un diverso e piú ampio riferimento alla fattispecie, G. Tesauro, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in Riv. int. dir. uomo, 1992, p. 426 ss.
[32]B. Beccalli, Donne in quota. La politica delle quote nel lavoro e nella rappresentanza politica, in Donne in quota. È giusto riservare posti alle donne nel lavoro e nella politica?, (a cura di) B. Beccalli, Milano, 1999, p. 9 ss.
[33] C. Booth e C. Bennett, Gender Mainstreaming in the European Union Towards a New Conception and Practice of Equal Opportunities?, in European Journal of Women’s Studies, 2002, 9.
[34] M. Stratigaki, Gender Mainstreaming vs Positive Action. An Ongoing Conflict in EU Gender Equality Policy, in European Journal of Women’s Studies, 2005, 12.
[35] Corte giust. 14 febbraio 1995, Causa C-279/93, Schumacher, in Raccolta, 1995, p. 225; Corte giust., 2 ottobre 1997, Causa C-100/95, Kording, in Raccolta, 1997, p. 453.
[36] La discriminazione è diretta quando una persona, a causa del suo sesso, riceve un trattamento meno favorevole di quello che ha ricevuto, riceve o potrebbe ricevere una persona di sesso opposto in una situazione analoga. Sull’argomento, per la giurisprudenza si veda Corte giust. 26 febbraio 2008, Causa C- 506/2006, Mayr, relativa al caso di una lavoratrice austriaca, la sig.ra Mayr, licenziata durante un congedo di malattia ottenuto per sottoporsi ad un intervento di fecondazione in vitro. Il provvedimento di licenziamento, motivato dalle troppe assenze, era stato comunicato all’interessata dopo l’avvenuta fecondazione, ma prima dell’impianto dell’embrione, ovvero in un momento in cui, secondo la signora, già sussisteva il divieto di licenziamento previsto per le donne in gravidanza. La Corte di giustizia, investita della questione, ha affermato che la ratio dela disposizione che prevede il divieto di licenziamento è quella di evitare che un simile evento, d’indubbia natura traumatica, possa gravare sullo stato psico-fisico della lavoratrice gestante, spingendola, ad esempio, ad interrompere la gravidanza per non perdere il posto di lavoro. La Corte, sulla base del suo ragionamento interpretativo, conclude affermando che la normativa in questione (gli artt. 2, n. 1, e 5, n. 1, della direttiva 76/207) «osta[…] al licenziamento di una lavoratrice che, in circostanze quali quelle di cui alla causa principale, si trovi in una fase avanzata di un trattamento di fecondazione in vitro, vale a dire tra il prelievo follicolare e il trasferimento immediato degli ovuli fecondati in vitro nel suo utero, purché sia dimostrato che il licenziamento si fondi essenzialmente sul fatto che l’interessata si sia sottoposta a tale trattamento».
[37] Direttiva 79/7/CEE del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale; Direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento; Direttiva 96/97/CE del 20 dicembre 1996 che modifica la direttiva 86/378/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nei regimi professionali di sicurezza sociale; Direttiva 97/80/CE del 17 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso; Direttiva 2002/73/CE del 23 settembre 2002 che modifica la Direttiva 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro; Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006 riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione); Direttiva 2010/41/UE del 7 luglio 2010 sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma e che abroga la Direttiva 86/613/CEE. Regolamento n. 1922/2006 del 20 dicembre 2006 l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere con l’obiettivo di supportare le istituzioni dell’UE e gli Stati membri nei loro rispettivi impegni per la promozione dell’eguaglianza di genere.
[38] Direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio.
[39] Boletín Oficial del Estrado n. 71, 23 marzo 2007.
[40] Così, L. Fauvarque-Gobin, La conciliazione vita-lavoro nella Loi travail, in Loi travail: prima analisi e lettura, oi travail: prima analisi e lettura. Una prima tappa verso lo “Statuto dei lavoratori” di Marco Biagi?, (a cura di), L. Casano, G. Imperatori, C. Tourres, in ADAPT, 2016, p. 76.
[41] Si riportano qui gli atti normativi europei che costituiscono le norme propedeutiche per la futura normazione europea in materia. Il primo documento è la Raccomandazione 92/241/CEE del Consiglio del 31 marzo 1992, sulla custodia dei bambini. In essa viene disciplinata l’organizzazione e il funzionamento dei servizi per la prima infanzia. Si incoraggiano gli Stati membri a rendere accessibili tali servizi ai genitori che lavorano, seguono un corso di formazione o sono in cerca di occupazione. Si fa riferimento, per la prima volta, all’opportunità di promuovere una distribuzione delle responsabilità lavorative, familiari e di cura tra uomini e donne. In ordine cronologico, si segnala la Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. È il primo provvedimento che afferma il principio secondo il quale le donne potevano essere trattate diversamente, come gruppo, al fine di ottenere una maggiore uguaglianza di opportunità. Ancora, la Direttiva 96/34/CE, abrogata e sostituita dalla direttiva 2010/18/UE dell’8 marzo 2010 del Consiglio che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES. Essa attribuisce ai lavoratori di entrambi i sessi il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un figlio per un periodo minimo di quattro mesi. Per promuovere la parità di opportunità e di trattamento tra gli uomini e le donne, si prevede che il congedo venga accordato, in linea di principio, in forma non trasferibile.
[42] A norma dell’art. 22, d.lgs. n. 151/2001 le lavoratrici hanno, infatti, diritto ad una indennità di maternità, sostitutiva della retribuzione, per il periodo di interdizione obbligatoria e comprensiva di ogni altra indennità eventualmente spettante per malattia. L’indennità giornaliera è pari all’80% della retribuzione per tutto il periodo di congedo di maternità. La retribuzione è quella media globale giornaliera e va calcolata dividendo per trenta l’importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo (art. 23, d.lgs. n. 151/2001). A tale importo va addizionato il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice. Sul punto, v. G. Fappiano, Il riconoscimento di indennità di maternità al padre genitore unico di minore, in Resp. civ. prev., 2018, 6, p. 1970.
[43] Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 1, in consulta online.it
[44] Così definita da G. L. Conti, La struttura naturalmente liquida della famiglia, in La “società naturale” e i suoi “nemici”, (a cura di) R. Bin, G. Brunelli, A. Guazzarotti, A. Pugiotto, P. Veronesi, Torino, 2010, p. 65 ss.
[45] Sul punto v. E. Catalani, La donna lavoratrice nella “sua essenziale funzione familiare” a settant’anni dall’approvazione dell’art. 37 Cost., in www.federalismi.it, p. 82.
[46] Il termine conciliare si rifà a una visione di sostanziale conflitto e separazione tra i differenti ambiti di vita che devono essere mediati attraverso una sorta di transazione. Il termine armonizzare richiama a una visione di integrazione profonda tra ambito lavorativo e ambito familiare Così, L. Borzì e L. Rebuzzini La conciliazione vita/lavoro tra diritto esigibile e strumento strategico per nuove politiche di sviluppo, in Conciliare vita e lavoro: verso un welfare plurale, (a cura di) M. Faioli e L. Rebuzzini, Roma, 2010, p. 11.
[47] R. Santucci, Flexicurity e conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, in Dir. lav. merc., 2007, p. 581 ss. L’a. propone la conciliazione come elemento di raccordo tra mercato del lavoro e sistema di protezione sociale. La conciliazione è contenuta nella definizione di flexicurity, come flessibilità dell’organizzazione di lavoro che agevola l’incontro tra responsabilità professionali e responsabilità private. Nello specifico la “flessicurezza” dovrebbe supportare la parità di genere promuovendo un accesso equo a un’occupazione di qualità per le donne e gli uomini e offrendo misure per conciliare il lavoro, la famiglia e la vita privata.
[48] Sul punto, V. Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato. Critica sulla de- oggettivazione del tempo- lavoro, Bari, 2008, p. 277.
[49] M.N. Marella e S. Catanossi, Il contratto e il mercato sono maschili?, in Oltre il soggetto razionale, (a cura di) G.R. Elgueta e N. Vardi, Roma, 2014, p. 171.
[50] R. Voza, Le misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act, in Lavoro nella Giurisprudenza, 2015, 1, p. 13.
[51] A.R. Tinti, Conciliazione e misure di sostegno. Sulle azioni positive di cui all’art. 9 della legge n. 53/2000, in Lavoro nella Giurisprudenza, 2009, 2, p. 180.
[52] I. Fanlo Cortés, Congedi genitoriali, politiche del diritto e diseguaglianze di genere. Riflessioni sul caso italiano nel quadro europeo, in www.dirittoequestionipubbliche.org.
[53] C. Gaiaschi, Oltre il modello dual earner-dual carer: dalla conciliazione condivisa per tutti alla conciliazione condivisa fra tutti, in www.aboutgender.unige.it/ojs
[54] Sul punto v. R. Crompton, Restructuring Gender Relations and Employment. The Decline of the Male Breadwinner, Oxford, 1999, il quale ha quattro modelli familiari che corrispondono a quattro forme diverse di gender arrangement: il modello del male breadwinner-female caregiver (uomo lavoratore a tempo pieno e donna responsabile delle attività domestiche e di cura); il modello del male breadwinner-female part-time earner (uomo impiegato a tempo pieno e donna part-time); il modello dual earner (entrambi i componenti della coppia impiegati full-time) e il già citato modello del dual earner-dual carer.
[55] Sull’argomento, vedi ampiamente, V. Pasquarellla, Work-life balance: esiste un modello italiano di «conciliazione condivisa» dopo il Jobs-act?, in Riv. it. dir. lav., 2017, 1, p. 45.
[56][56] Per un’analisi dettagliata sull’argomento, v. C. Saraceno e M. Naldini, Conciliare famiglia e lavoro, Bologna, 2011, p. 21 ss.
[57] Direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, cit.
[58] In tale direzione si leggano le riflessioni di M.V. Ballestrero, La conciliazione tra lavoro e famiglia. Brevi considerazioni introduttive, in Lav. dir., 2009, 2, p. 163.
[59] Modifiche al testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, in materia di congedo obbligatorio di paternità e di flessibilità della prestazione lavorativa, per l’attuazione della Direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza.
[60] I dati sono riportati in V. Viale, R. Zucaro, I congedi a tutela della genitorialità nell'Unione europea. Un quadro comparato per rileggere il Jobs Act, Working Paper ADAPT, 2015, 175, p. 9 ss.
[61] L. Calafà, Il congedo di paternità, in La conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Il rinnovato T.U. n. 151/2001 ai sensi del d.lgs.n. 80/2015, (a cura di) D. Gottardi, Torino, 2016, p. 53.
[62] V. Pasquarellla, Work-life balance: esiste un modello italiano di «conciliazione condivisa» dopo il Jobs-act?, cit., p. 47.
[63] Trib. Firenze, 16 novembre 2009, n. 1169.
[64] Decreto legislativo 15 luglio 2015, n. 81, Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183, in G.U. del 24 giugno 2015, n. 144.
[65] Vedi per la normativa d.d.l. n. 2223 recante misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato, del 22 gennaio 2016.
[66] Di questa visione, F. Savino, La conciliazione condivisa tra diritto comunitario e diritto interno, in Persone, lavori, famiglie. Identità e ruoli di fronte alla crisi economica, (a cura di), M.V. Ballestrero e G. De Simone, Torino, 2009, p. 88.
[67] Sull’argomento, D. Simeone, Educazione familiare e vita di coppia, in Rivista italiana di educazione familiare, 2009, 1, p. 59.
[68] N. Galli, Educazione dei coniugi alla famiglia, Milano, 1988, p. 55.
[69] Così, G. Zanniello, L’integrazione dei compiti della madre e del padre nell’educazione dei figli e delle figlie, in Rivista Italiana di educazione familiare, 2016, 1, p. 150.
[70] A. Bellingreri, La famiglia come esistenziale, Brescia, 2014, p. 267.
[71] A. Muschitiello, Lo spazio neutro per so-stare nel conflitto genitori-figli e tras-formarlo in conflitto formativo. Riflessioni pedagogiche in prospettiva fenomenologica, in Mondi educativi. Temi indagini e suggestioni, 2019, 9, p. 363.
[72] I dati sono riportati da R. Baptista, Donne, lavoro e maternità: alla ricerca di un equilibrio tra famiglia e carriera, in www.insidemarkentig.it, 5 febbraio 2020.
[73] Tale impostazione spesso si è scontrata con la convinzione che l’educazione delle figlie spettasse più alle mamme e quella dei figli ai padri; ma in realtà l’educazione familiare richiede l’integrazione degli interventi di entrambi i genitori, sia per i figli maschi sia per le figlie femmine, ognuno con le proprie specificità. Sul punto, v. Zanniello, L’integrazione dei compiti della madre e del padre nell’educazione dei figli e delle figlie, cit., p. 154.
[74] S. Borelli, Il padre lavoratore nella giurisprudenza costituzionale, in Paternità e lavoro, (a cura di), L. Calafà Bologna, 2007, p. 246.
[75] R. Santucci, G. Natullo, V. Esposito, P. Saracini (a cura di), “Diversità” culturali e di genere nel lavoro tra tutele e valorizzazioni, Milano, 2009, p. 9.
[76] M.G. Landuzzi, Lavoro e cura tra conciliazione e condivisione, in Paternità e lavoro, cit., p. 267.
[77] V. Pasquarellla, Work-life balance: esiste un modello italiano di «conciliazione condivisa» dopo il Jobs-act?, cit., p. 58.
[78] A. Fenoglio, Nuove modalità di fruizione del congedo parentale: un modello di “flessibilità buona”, in La conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro. Il rinnovato T.U. n. 151/2001 ai sensi del d.lgs.n. 80/2015, (a cura di) D. Gottardi, cit., p. 73.
[79] Si segnala qui che alcuni Stati membri già sono dotati di una normativa in materia. È il caso di Francia, Spagna e Italia. La Francia è stato il primo paese ad inserire nel proprio ordinamento giuridico il diritto alla disconnessione nella Riforma contenuta nella Loi Travail n. 1088 del 2016, la quale ha modificato L. 2242-8 del Code du Travail, che a seguito delle ordinanze 2017-1385 del 22 settembre 2017, è divenuto L. 2242-17. Esso non fornisce una definizione di disconnessione ma semplicemente una «qualifica expressis verbis quale diritto». Così, A. Fenoglio, Il diritto alla disconnessione del lavoratore agile, in Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, (a cura di), G. Zilio Grandi, M. Biasi, Milano, 2018, p. 548. Per quanto riguarda l’ordinamento spagnolo, il diritto alla disconnessione è stato introdotto con la legge n. 3 del 2018 sulla Protección de Datos Personales y Garantía de Derechos Digitales (LOPDP). L’art. 88, rubricato Derecho a la desconexión digital en el ámbito laboral, riconosce in capo a tutti cittadini tale diritto, al fine di garantire loro, al di fuori dall’orario di lavoro legale e contrattuale, il rispetto del tempo di riposo, dei permessi e delle ferie, per rafforzare il diritto alla conciliazione tra attività lavorativa e vita personale e familiare. Sull’argomento, R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili profili di tutela, in Labour Law Issues, 2019, 5, p. 229.